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Re-inventare la famiglia - Formenti, Sintesi del corso di Pedagogia

Sintesi completa del testo sulla tematica della famiglia

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 11/05/2020

faigor91
faigor91 🇮🇹

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Scarica Re-inventare la famiglia - Formenti e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! “RE-INVENTARE LA FAMIGLIA” di Laura Formenti Introduzione Ermeneutica pratica, ovvero pensiero operativo che nasce dall’azione e ritorna all’azione, costruendo il senso - la teoria - a partire dal caos dell’esperienza. Il senso nasce da un percorso dialogico, composizionale, basato sulla riflessività: il senso è il “luogo comune” che diventa “luogo in comune”. Tra le condizioni dell’ermeneutica pratica ci sono la scrittura e la conversazione. Ogni educatore sa che è impossibile fare un buon lavoro educativo con chiunque, in particolare con bambini o adolescenti, senza tener conto delle relazioni intorno a loro - rete relazionale parte integrante dell’intervento. La rete primaria delle relazioni di cura è la famiglia. La pedagogia della famiglia è una disciplina caratterizzata da multidisciplinarietà intelligente (molteplicità). Ciò che preme è superare il familismo moralista che non riesce a percepire la pluralità e la specificità delle situazioni. Da questo l’idea di re-inventare la famiglia. La famiglia come soluzione specifica al bisogno umano di cura, protezione, educazione, ha preso forme diverse accomunate solo dalla loro organizzazione auto-mito-poietica. Re-inventare vuol dire re-inventarci come osservatori delle famiglie, rivedere le prospettive e le pratiche che mettiamo in campo. Bisogna spostare il focus dalla disciplina, dal sapere accademico, al sistema “per quello che è”. La prospettiva è sistemica, la quale non richiede una semplice adesione a dei concetti, ma obbliga a un altro modo di guardare, di sentire, di concepire le relazioni —> modo di com-porsi nella relazione con le famiglie. La famiglia è già stata inventata. Sono gli esseri umani che interagendo e adottando certi comportamenti nella relazione, costruiscono il mondo delle famiglie. Il problema è capire come la si sta inventando. Il compito dell’educatore è costruire riflessività e consapevolezza rispetto ai modi in cui una famiglia è stata ed è inventata e re-inventata continuamente. Il professionista dell’educazione è portatore di uno sguardo, ha un’idea di famiglia, ma non ne è consapevole fino a quando non si confronta con altri e con altre idee. Ogni famiglia tende a essere coerente con se stessa, diventando magari incoerente con le aspettative della società. L’obbiettivo nostro è quello di comprendere che cosa può “far stare tutti meglio” o “essere tutti un po più felici”. PARTE PRIMA Lo sguardo dipende dall’azione “Che cosa è un libro?” C’è un salto epistemologico tra conoscere un oggetto interagendo con esso e conoscerlo attraverso una definizione. La percezione di un oggetto non avviene se non c’è movimento - quindi il corpo che attiva i sensi. Quando si arresta il movimento, si smette di ricevere “notizie di differenza” e si interrompono i segnali da inviare al cervello. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile, ma in realtà non è così. La percezione è un esempio particolare di conoscenza, per dire che siamo noi a disegnare il mondo estraendo da esso le “distinzioni”. Lo stesso vale per i processi cognitivi superiori: andiamo incontro alle cose orientati da domande, aspettative, pregiudizi. Lo sguardo che applichiamo dipende dall’azione: se i processi di percezione di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Ogni definizione che diamo è legata a delle azioni, che noi stessi compiamo su di essi oppure ereditati. La definizione di famiglia che io possa dare dice molto di più di me che la descrivo che non della famiglia in sé. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello sistemico mette l’idea di “comunicazione” al centro di tutti i processi umani e non: TUTTO È MESSAGGIO. Nella conoscenza della famiglia sono coinvolti TUTTI I SENSI. CAPITOLO 1 - Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia “Se la mia famiglia fosse…”: il gioco del se fosse è una via per aiutare una famiglia a raccontarsi. La comunicazione umana è come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli, circuiti riflessivi. Albert Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale: la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta; la partitura comunicativa, invece, non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente. Comunicare è partecipare a un’interazione complessa (modello orchestrale). Per poter incontrare una famiglia nella sua totalità e complessità siamo costretti a compiere un certo sforzo. L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato. Se le idee si sviluppano in un certo modo è perché hanno un senso. Un racconto è espressione di un sistema complesso di idee e immagini. “Farsi l’orecchio” per un educatore significa imparare tecniche di osservazione e di conversazione, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarmi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento, uno STRUMENTO MUSICALE. Per un educatore sistemico è più interessante la metafora della band associata alla famiglia. La formazione di una band è coerente con il tipo di musica che vuole creare. C’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta e quello che crea. È necessario ascoltarla attentamente, farsi l’orecchio sul suo groove e provare a suonarci insieme. Non conoscerò mai una famiglia se non entrando nella viva voce del corpo familiare. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza dei modelli di comunicazione. Ognuno cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà un sound inconfondibile, “il senso del noi”. Imparare a lavorare in modo sistemico significa apprendere i contesti, cioè mettersi in relazione e in interazione con i sistemi comunicativi, usando la comunicazione stessa come veicolo. Dal punto di vista sistemico, l’educatore non è un direttore d’orchestra anche se occasionalmente si trova ad agire questi copioni. Può capitare che anche l‘educatore si trovi a “dare il la” o “tenere il ritmo”. Quando si suona insieme è necessario che si faccia un lavoro attivo per tenere il ritmo e l’accordo. La famiglia è un’opera collettiva, incompiuta, sempre in costruzione. 1 Per farci l’orecchio sul sistema familiare dobbiamo partire da ciò che lo qualifica, cioè la con-vivenza. Non è, quindi, il cosa che ci interessa ma il come: i processi relazionali. La casa è un simbolo molto forte del noi e contemporaneamente del sé: riconosciamo “casa” quel luogo in cui possiamo essere noi stessi, dove possiamo prenderci cura delle nostre passioni e ferite, delle persone che amiamo, il luogo dove sostare e riposare, incontrare gli amici. “Quando entro in una casa è come se quella famiglia mi parlasse. […] Ogni casa ha il suo odore, stile, colori e luci […]”. L’educatrice non pretende di nascondere o cancellare i propri pregiudizi ("che brutte tende”), ma li riconosce per differenza. L’errore sarebbe quello di descrivere la casa. Il tempo familiare si impone sui ritmi personali. Spazi e tempi si modificano continuamente. Quando un membro della famiglia cambia la sua posizione rispetto agli altri, fisicamente o psicologicamente, o quando cambia il proprio ritmo di vita, questo incide in maniera significativa sulla vita di tutti. La nostra esperienza di vita è sempre troppo piccola per dare conto delle complessità delle vite altrui. Ogni famiglia si presenta come una cultura essa stessa, con il suo linguaggio, le sue storie, miti fondativi. Quello che ci interessa è l’insieme di relazioni che sono prodotte. Il lavoro educativo con la famiglia consiste nell’aprire possibilità perché tutti stiano un po meglio. Farsi l’orecchio sulla famiglia per inserirsi con la propria musica e trovare nuovi modi di suonare. La linea politica di una famiglia è sancita dai genitori. Oggi si parla tanto di genitorialità, perdendo di vista la prerogativa dell’essere genitore. Nessuno è il prototipo del genitore, perché è nell’unicità e nella specificità di “quella relazione lì”, con quei figli, in quel contesto, che la genitorialità prende forma. Le scelte che facciamo per gli altri sono sempre arbitrarie, e quindi un genitore può sottrarsi a questa arbitrarietà? Ogni esito educativo è il prodotto complesso di una serie di azioni e retroazioni concatenate. Quindi “dare il la” e “tenere il ritmo” sono prerogative dell’essere genitore. L’educatore può accompagnarlo a vedere questa possibilità. Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrice di un’identità, una cultura, una sua logica. Chi decide che una determinata famiglia è un sistema, è un noi? La famiglia sfugge all’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare, in gran parte è percepita come qualcosa di ovvio. “NOI SIAMO UNA FAMIGLIA”: a quali condizioni? Il senso della famiglia è fortemente intrecciato con il mondo, la cultura, il territorio. Per comprendere il senso del noi bisogna tornare a osservare con occhi curiosi che cosa accade “in questa famiglia”, e in particolare quale rapporto sussista tra la famiglia praticata e la famiglia rappresentata. Osservare una famiglia nel suo habitat naturale (casa)—> luogo elettivo del noi. Racconto della famiglia (Susanna). Un osservatore poco avvertito non si accorge subito della complessità relazionale della situazione proprio perché ogni osservatore tende a dare le sue punteggiature. Nelle narrazioni dominanti della nostra cultura capita frequentemente che le mamme siano considerate come registi delle relazioni familiari —> questo ci allontana dal senso del noi. Bisogna portare l’attenzione sulla struttura che connette tutti gli attori nel gioco. Il senso del noi si nutre di momenti dove tutti stanno bene, e cioè partecipano al gioco, rispettano i turni, sono emotivamente sintonizzati, ma anche quando le danze non sono così felici, un senso del noi appare. Inoltre dipende dalla nostra posizione nel sistema. Per cogliere il “noi”: a. Non esprimere giudizi b. Descrivere azioni concrete c. Mettere a fuoco tutti i soggetti coinvolti L’obbiettivo non è l’oggettività, ma quando osserviamo, è la rappresentazione estetica, cioè mettere in parole quello che si presenta ai sensi. Una buona descrizione delle relazioni familiari somiglia a un copione teatrale: se siamo in grado, partendo dal testo, di riprodurre la scena osservata vuol dire che è stato colto il senso di quella danza. Il noi ci appare come un dato percettivo. Si vede. Il senso del noi è riferibile a qualcosa che percepiamo con i sensi, con cui risuoniamo emotivamente. Il professionista tende a esprimere valutazioni più esplicite e articolate, giudizi derivanti dai sapere che possiede. Il professionista che osserva una famiglia in azione ha uno sguardo peggiorativo (vede solo i problemi). Sviluppare una molteplicità di sguardi e di strumenti per analizzare e categorizzare le diverse dimensioni della famiglia è importante, fa parte della formazione di un operatore. C’è una composizione da realizzare tra due sguardi: 1. Quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso, tecnico dell’esperto che esprime categorizzazioni 2. Quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura Il senso del noi nasce dalla con-posizione, dalla danza interattiva e non dai singoli comportamenti. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Se osserviamo con attenzione siamo in grado di rilevare ripetizioni e ridondanze, coerenze e interdipendenze. La metafora del “corpo familiare” esprime bene l’idea di sistema. È nella continua interazione che si sviluppa il senso. La famiglia è ridondanza, copioni, memoria incarnata —> perché il sistema contiene struttura, informazione codificata sulle relazioni tra le persone. La famiglia più di ogni altro sistema di con-vivenza, struttura l’esperienza e dunque dà corpo ai suoi membri. Il noi nasce dalla famiglia in azione: relazioni reali, regole interattive, abitudini e ripetizioni. Questa è la FAMIGLIA PRATICANTE, visibile, reale, sensibile. La natura relazionale della famiglia emerge nei coordinamenti reciproci delle azioni. La rappresentazione estetica del noi è un modo per celebrare le relazioni familiari nella loro complessità. Pensare in termini di “corpo familiare” significa vedere le interconnessioni. David Reiss ha distinto tra famiglia in azione e famiglia rappresentata. In molte situazioni c’è corrispondenza, se non sovrapposizione, tra la famiglia reale e la famiglia simbolica. Caillè e Rey definiscono queste rappresentazioni simboliche della famiglia “oggetti fluttuanti”. Questi oggetti fluttuanti rappresentano il noi, creando uno spazio intermedio nel quale si può essere creativi e vedere le 2 Il genitore è anche l’esito, provvisorio e in divenire, di un modo di intendere la genitorialità costruito in un processo storico e in uno specifico contesto di cui sono parte sia la famiglia sia l’educatore-cercatore di tracce. Sentirsi inadeguati, procedere per tentativi ed errori, abbandonare i sentieri delle certezze sono movimenti comuni al genere umano e appartengono al mondo del vivente. Nel processo del re-inventare la famiglia, storicizzare e contestualizzare diventano due operazioni cruciali quando permettono di moltiplicare di sguardi e creare le sfumature. Intendere la genitorialità come processo ontogenetico e filogenetico offre la possibilità di descrivere lo stesso evento con un’altra modalità, di creare storie possibili, costruire il senso, aprire ad esiti evolutivi e impensati: agire per aumentare la possibilità di inventarsi genitori. L’uso del verbo essere restituisce un solo fotogramma della famiglia, estraendolo dallo sfondo in cui è nato e si è sviluppato. Per riconoscere tracce di genitorialità non è sufficiente una macchina fotografica, gli strumenti osservativi ordinari si rivelano inadeguati, è necessario affinare tutti i nostri sensi, gusto compreso perché la genitorialità potrebbe essere anche un sapore. “[…] deve esserci un fondo, su cui poter cucine queste complesse relazioni, ma la trapunta a riquadri non è la storia dei vari pezzi di stoffa di cui è fatta. È la loro combinazione in un nuovo tessuto che da colore e calore.” Il sentire comune, così come il sapere della comunità scientifica, le informazioni degli esperti e i messaggi dei media, appaiono guidati da due immagini: l’esercizio del MESTIERE genitoriale o l’ARTE della libera interpretazione di un ruolo. Parlare di genitorialità come arte o mestiere comporta riferimenti a due prospettive sintetizzati in due modelli: modello istintivo (è la responsabilità personale che viene meno) e modello istruttivo (premia asimmetria relazione e la dipendenza). Entrambe convergono in un’idea di genitorialità come esito finale, raggiungimento di uno stato in cui il soggetto adulto può finalmente esercitare la propria funzione oppure interpretare il ruolo ⤳ il figlio sarà il “prodotto” o “l’opera”. “Tutti dicevano… io non sapevo cosa fare e mi sentivo tirata da tutte le parti. […] è stato allora che ho urlato: silenzio tutti! Non riesco a sentirmi.” ⤳ genitorialità è una capacità che ti viene da dentro, non è qualcosa di innato e universale. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie. Può esserci un terzo modello: EVOLUTIVO ECOLOGICO ⤳ si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, per simmetrie relazionali dentro asimmetrie, muovendosi verso una descrizione doppia, o verso la co-costruzione di mondi possibili. ⤳ “Il processo genitoriale è complesso, non segue un programma predeterminato basato su strumenti e materie prime o tecniche ingegneristiche; è un bricolage, una rapsodia fatta di ridondanza, flessibilità e creatività.” ⤳ Il bricolage diventa un’esperienza che mette in movimento e relazione il presente con la storia vissuta, segnando il passaggio dal separare al connettere ⤳ connettore intenso come essere-fare-divenire nella relazione che è la dimensione costitutiva della genitorialità. Sapersi muovere nella contingenza Accogliere l’imprevisto Usare la creatività e flessibilità Inventare nuova funzioni Riconoscere la ricchezza di materiali e tecniche (ridondanza) Ricombinare (opportunismo) Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino. È la capacità di misurarsi con l’imprevisto. Una sintesi del riconoscere tracce è un’azione-pensiero dialogica, narrativa, molteplice. CAPITOLO 4 - Interazioni: osservare la famiglia in azione Racconto: video senza e con l’audio (madre con un figlio e una figlia mentre è in cucina) L’interazione umana non si ferma al livello puramente verbale, anzi, grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture. L’osservazione è un procedimento selettivo per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi. Non si può osservate tutto: l’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. Non è possibile osservare in modo totale ne oggettivo: l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore ⤳ rischio di filtrare talmente tanto i “dati” da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Quando si osserva una famiglia in azione è più facile vedere le interdipendenze. L’osservazione è una vera e propria pratica che richiede e produce cura, attenzione e responsabilità. L’osservazione diventa in un certo senso la consulenza stessa e si trasforma in una sorta di auto-osservazione che a sua volta può portare ad altre-visioni e altre-narrazioni. Una pratica: esercizio di posizionamento Inizia a fare domande riguardo il video. Conclude dicendo che il processo di decontrazione e ricostruzione l’ha portata a sentirsi maggiormente consapevole di che cosa per lei significa essere madre, dall’altra a comporre con il proprio parere un’immagine più chiara ed esplicita di che cosa significa famiglia e genitorialità per loro. Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Questa esperienza viene evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. ARTE MESTIERE Creatività Razionalità Dono di natura Si pratica con sudore Sregolatezza Osservanza di regole È creazione, inventiva, espressività Necessità di addestramento 5 COME MI VEDI? Spesso giunge la paura di non essere all’altezza di un compito tanto complesso come il crescere un individuo. In questa situazione di sbandamento il confronto con altri, invece di portare aiuto e sostegno, può far perdere di vista quelle che sono le proprie strategie e il proprio personale stile educativo. C’è bisogno anche di RICONOSCIMENTO: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore, calato però nella concretezza dell’agire quotidiano, delle interazioni. L’utilizzo di una videocamera è in grado di mettere a fuoco le pratiche di cura quotidiana, di avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui fanno le cose, non limitarsi ad agire la cura, ma anche a vederla e pensarla. ⤳ primo passo per consolidare la propria idea di genitorialità. ⤳ Dopo i primi minuti in cui l’adulto sembra inibito dalla presenza dell’educatore e della videocamera, sono i bisogni e le richieste del figlio ad avere il sopravvento e riportare il genitore sul compito di cura. Con il passare del tempo la presenza dell’operatore è diventata parte integrante del Setting relazionale e allo sesso tempo della danza del sistema famiglia osservato. In fin dei conti non si può dimenticare che l’inclusione dell’osservatore nel sistema osservato è inevitabile⤳Ciò comporta una impossibilità di assumere una posizione neutra: a. La presenza influenza ciò che accade nel sistema b. I pregiudizi dell’educazione e le sue esperienza precedenti provocano in lui risonanze e atteggiamenti che arrivano poi a interagire con quelli degli altri componenti. CHE COSA VUOI MOSTRARMI? L’obbietto della consulenza è “dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo ella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura”. La richiesta è di tipo valutativo “ditemi che sono un bravo genitore, ma la risposta e il percorso è osservativo-riflessivo. La metodologia utilizzata è il LAUSANNE TRIADIC PLAY (LTP, ibidem) che, partendo dall’osservazione del triangolo primario in azione permette di operare un’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia. Si sceglie come Setting la casa, ambiente naturale dove è possibile osservare le attività di routine. Si lascia alla famiglia una libertà d’azione che faccia emergere in modo più visibile l’unicità di ogni famiglia e le sue competenze. COME TI VEDI, OSSERVANDOTI? Il passaggio successivo è quello di ritrovarsi insieme a osservare la ripresa delle immagini. Si chiede ai genitori di scegliere, selezionando e spiegando, gli scambi interattivi che sentono di aver vissuto con maggiore difficoltà e fatica. Il compito dell’educatore in questa fase è quella di affiancare i genitori aiutandoli da un punto di vista tecnico: taglia le scena e le compone, introducendo domande aperte, circolari e riflessive. Si invitano ad allargare lo sguardo: non solo “lì mi sono sentita così” ma “che cosa mi stava dicendo in quel momento il mio bambino?”. È un processo che stimola i genitori a creare connessioni, è un processo di co-costruzione che genera nuove possibilità di vedere e strategie percorribili ⤳ PUNTEGGIATURE DIFFERENTI (ri-significare e ri-connotare le scene osservate). Successivamente, si attua una “ARMONIZZAZIONE”: una sorta di composizione creativa che attraverso un collegamento estetico (immagini video) crea prima uno spiazzamento poi una (ri)connessione a un livello più alto. Inoltre, la post-produzione e la possibilità di confrontarsi sulle stesse immagini genera uno spazio di condivisione tra il genitore che si sente in difficoltà e quello che vive con più distacco la situazione e il legame con il figlio. Gli aspetti psicologici delle difficoltà l’uno e della distanza dell’altro passando sullo sfondo. “Come ti vedi, osservandoti ora?”: dare una risposta vedendosi da fuori, crea delle differenze e degli spiazzamenti. L’effetto composizionale offre la possibilità di nominare le emozioni e di creare uno spazio di contaminazione, di riflessione e confronto tra il proprio vissuto (RIFLESSIONE IN AZIONE) e ciò che si può osservare da fuori (RIFLESSIONE SULL’AZIONE). ⤳ La possibilità di vedersi concretamente pone il genitore n e l l a condizione di riuscire a riconoscere e comprendere il proprio stile interattivo e relazionale, rapportandolo con quello degli altri e con i pattern in cui si inserisce. Il confronto di coppia che avviene sulla base di immagini reali permette una riflessione sull’idea di famiglia che ognuno ha ⤳ si attiva cosi “il senso del noi”: la costruzione di un’idea comune di cosa sia essere e fare i genitori, partendo dagli aspetti più pratici e gestionali. La tappa successiva consiste nell’utilizzare le immagini scelte e com-porle allo scopo di creare punteggiature differenti, altre storie, basate sulle risorse e sulla strategie messe in campo. ⤳ Si cerca di cambiare in qualche modo le lenti attraverso cui si osserva, come attraverso un caleidoscopio, per passare d a l b l o c c o (non sono capace di fare quello che dovrei fare) alla riflessività creativa (cosa faccio e cosa posso fare di diverso?). —> “ero talmente concentrata sull’idea di non essere capace che ho smesso di accorgermi d e l l e c o s e c h e i n v e c e funzionavano, delle mie capacità” CAPITOLO 5 - L’ABC dell’osservare Le storie raccontate attraverso le immagini permettono di soffermarci su alcune sequenze, rivederle e studiarle. L’obbiettivo è imparare a osservare, fermandosi su quelle interazioni che risultano difficili da leggere. La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili, nelle svariate modalità. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA (PNL), un approccio che “nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica per la descrizione dell’interazione”. Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come “gruppo di individui con storia”. È un gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e quindi realizzare la propria vita. L’obbiettivo è anche quello di far emergere i pregiudizi personali di ciascuno riguardo al sistema familiare che andranno a incontrare, in modo tale da cominciare a prenderne atto per trasformarli. Osservando un video senza audio, si costringono gli spettatori a completare i dati visivi facendo riferimento alla propria esperienza: dare un senso è necessario “chiudere i vuoti” della storia che esista formando, aggiungendo informazioni che in realtà non ci sono. Ognuno “pesca” nella sua storia passata e svela i propri pregiudizi. La scelta dei film o sequenze da proiettare dipende dall’obbiettivo. Ci sono due criteri: 1. Basato sul contenuto 2. Legato a situazioni comunicative specifiche 6 Se a casa nostra si fa in quel modo perché dovremmo pensare che altri facciano diversamente? Le nostre non sono forse abitudini universali? Nella realtà della vita di coppia si scopre che le “certezze del vivere” vanno condivise e “lavorate” —> per costruire una nuova storia (la nostra) devo pormi in una postura creatività rispetto alla mia storia. Questo è il processo del con-vivere, ovvero il vivere insieme a, che significa portare una visione del mondo, della mia famiglia, e cercare di costruirne una nuova. Le relazioni intergenerazionali possono, su tempi lunghi, costruire, confermare e modificare i miti e i copioni familiari. I film sono storie, proprio come quelle che le persone portano nei contesti educativi e di cura. L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve ad addestrarsi all’osservare. Le sequenze si possono far rivedere perché ciascuno possa attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi. Il film è usato come strumento di formazione, come occasione di apprendimento e dunque riflessività. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi: 1. PRIMO LIVELLO: far emergere i pregiudizi. Il confronto tra le diverse versioni e punteggiature rende palesi i pregiudizi. Il pregiudizio è una lente colorata che impedisce la visione della realtà “al naturale”, non permette di vederla nella sua policromia. Far emergere i pregiudizi è importante: se so come funziono, se sono consapevole di come penso, posso più facilmente riconoscere quando attribuisco all’altro qualcosa che invece viene da me. Il processo di conoscenza dei propri pregiudizi è una postura e una pratica di grande utilità nel lavoro educativo e di cura. 2. SECONDO LIVELLO: ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi. Chi fa-che cosa- a chi - come. Il film si può interrompere: questo affina l’occhio sui processi relazionali: ogni azione comunicativa è preceduta e seguita da un’altra azione. L’80% delle comunicazione è non verbale. Tolto l’audio, si può approfondire lo studio della postura, dei gesti, dei modi di porsi… 3. TERZO LIVELLO: affinare tecniche di comunicazione. L’osservazione può offrire strumenti all’operatore per entrare in relazione con le persone e le famiglie. L’intervento di cura, qualunque esso sia, “dipende essenzialmente dall’arte di creare un rapporto […] più che dallo specifico approccio utilizzato”. […] la PNL possa aiutare un operatore a entrare più facilmente in rapporto, vale a dire costruire quel processo “attraverso il quale si stabilisce e si mantiene un buon rapporto interpersonale di reciproca fiducia e di accordo” La capacità di auto-osservazione apre possibilità diverse nel mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare anche l’altro a farlo. Per usare una metafora, la teoria è come la stella polare: orienta la navigazione, ma verso quella nessun navigante fa rotta, se non per andare all’isola che non c’è. La teoria costituisce un punto di riferimento per la costruzione di una seria professionalità, ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro-sperimentazioni. Il film diventa uno strumento di “addestramento dello sguardo”: lo posso interrompere e riprendere —> si può usare come ABC per la costruzione del processo osservativo. Si apprende partendo dalle “condizioni interne", vale a dire dal modo in cui le nozioni si organizzano, e dalle “variabili esterne” che influenzano l’apprendimento. Devo essere in grado di utilizzare il canale percettivo primario dell’altro, se voglio riuscire a costruire la relazione e lo devo fare non solo attraverso il riconoscimento, ma adeguando il mio linguaggio, le metafore che posso costruire. “Le persone non sono libere, ma hanno la libertà di scegliere in quale prigione stare”. CAPITOLO 6 - Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza C’era una volta una famiglia… (2 figli maschi, 1 madre —> domande di bellezza —> cotolette, baci, fidanzate) “Signora, qual è la cosa più bella, la cosa che a lei piace di più di suo figlio?” “Qual è l’abbraccio che preferisce?” “Parlando di bellezza, ma soprattutto cercando la bellezza, era spuntata la possibilità (che è una forma di bellezza) di un volto che ti guarda, due volti che ti guardano, anzi tre volti che ti guardano e soprattutto si guardano" Il riconoscimento reciproca, la possibilità di essere visti e “ben raccontati” dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni micro-cultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri della famiglia si raccontano. L’attenzione dell’operatore non è volta tanto alla comprensione dei giochi relazioni o dell’organizzazione familiare, quanto a rintracciare le idee, le immagini e l’organizzazione del linguaggio e dei significati di ogni storia raccontata. Le storie e le narrazioni rappresentano uno strumento di (auto)formazione e (auto)conoscenza molto potente —> riconoscere loro il potere di creare connessioni, riconoscere che non sono le cose in sé a farci soffrire o gioire, ma il nostro modo di raccontarle. Le narrazioni si costituiscono come una forma particolare di conoscenza che agisce sulla formazione dell’identità personale e che usiamo per dar forma e significato vincoli e possibilità, alla nostra magmatica e fluida esistenza. Sono i racconti generati nelle e dalle pratiche comunicative a definire le apparenze, i significati, i confini del sistema familiare, l’identità di ciascuno, l’identità della famiglia. Un rischio educativo è che la famiglia venga rappresentata attraverso narrazioni fisse, dove ogni apprendimento sembra da escludersi. “Avere accesso alla propria storia familiare significa disporre di una temporalità ricca e flessibile: una vera risorsa per la capacità di auto-guarigione e di cambiamento della famiglia”. Le storie narrate, irrigate e “automatiche” rischiano di non onorare più la complessità delle relazione e dei soggetti che vi partecipato, rischiano di diventare storie a cui non si pensa più. Raccontare è rammemorare ma non per fissa una volta per tutte il ricordo: per far rinascere a vita nuovo ciò che si è vissuto. C’è un nesso profondo tra pensiero riflessivo e narrazione, cura delle relazioni e cura di sé. Una delle più importanti funzioni della memoria familiare è la riflessione formativa. Le storie dominanti della vita familiare vengono “saturate dal problema”, cioè il “problema” diventa la lente attraverso cui interpretare e leggere ogni esperienza. L’esperienza è processo continuo, interminabile, di significazione e ri-significazione del nostro vivere. Quando un bambino impara a raccontare una storia coerente di qualche cosa che ha fatto, impara a pensarsi. Contemporaneamente alla storia costruire degli schemi nei quali la inserisce; ne elabora una comprensione che gli permette sviluppare una competenze più generale, uno stile auto-narrativo e una pre-comprensione di sé. 7 avere un reale potere d’azione. Le aspettative chiudono la famiglia dentro un mondo idealizzato, privato, protettivo, autosufficiente e disconnesso dalla realtà sociale circostante. Le relazioni oggi sono (soprav)valutate, ma paradossalmente ciò accade in uno scenario che ha per regola l’individualismo. Le storie ci dicono quanta energia e quante aspettative siano investite. Ci dicono quali apprendimenti vengono realizzati, a vari livelli: non solo azioni e conoscenza nuove, ma la capacità di scegliere in un ventaglio più ampio di possibilità. COME SI IMPARA OGGI LA FAMIGLIA? Essere immersi tutti nello stesso discorso significa assorbire dei presupposti senza avere la possibilità di interrogarsi. Queste tecnologie influenzano le relazioni familiari in modi prima impensabili: oggi è possibile comunicare in vivo a distanza. Vivere insieme, sotto lo stesso tetto, appare meno scontato, forse meno necessario per garantire un senso di unità e di appartenenza. Tutta questa massa di informazioni e di possibilità non sembra rendere le famiglie di oggi più funzionali o più felici di quelle dei nostri nonni. In una società incerta, che cos’è, dove sta, la solidità per una famiglia che sappiamo essere in costante trasformazione? Oggi non basta imparare l’inglese: è necessario prendersi cura del proprio apprendere ad apprendere. Apprendere non ad “essere” ma a “divenire” umani. L’educazione non può permettersi oggi di ridurre la complessità delle storie a uno o pochi fattori presi separatamente né di connotare il disordine e l’incertezza come solamente negativi: la complessità è una caratteristica costitutiva del vivere che può essere riconosciuta e conosciuta. La caratteristica più evidente della cultura familiare contemporanea è la vita privata fatta di rituali domestici, compiti ripetuti, spazi connotati. La privatezza della casa richiede nuovi spazi: cambiamento dei reciproci ruoli dei membri della famiglia. Lo spazio domestico evolve con la definizione dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. Genera simbolicamente il senso del privato. La televisione diventa rituale, simbolo dei legami familiari: possibilità di condividere l'esperienza e sintonizzarsi emotivamente. L’oggetto della condivisione è un prodotto culturale che a sua volta educa ai nuovi valori sociali. Allo stesso tempo estrania, cioè a poco o nulla che fare con la realtà dei sentimenti e delle relazioni di quel nucleo familiare. Le relazioni private sono così da un lato celebrate dall'altro negate. Un doppio legame generalizzato. Le contraddizioni appaiono particolarmente interessanti: mettono in evidenza il potenziale trasformativo della cultura familiare. Se da un lato siamo testimoni della crescente privatizzazione della vita familiare e valorizzazione delle relazioni interne, dall'altro lato la famiglia non appare libera di definire il proprio spazio di azione e di vita. Una costante azione di controllo è esercitata da ogni tipo di agenzia: è una prerogativa generalizzata degli Stati democratici esercitare un controllo è un'influenza sulla famiglia. Il concetto di famiglia sana e ben funzionante era impensabile anche solo cent'anni fa. Il processo è stato graduale: prima la destituzione di autorità del padre, poi l'invenzione della parola genitorialità, poi la diade mamma-bambino (*) venne messa sotto osservazione. Le aspettative cambiano ogni nuova cappa e velocemente bisogna imparare che cosa le istituzioni si aspettano dalla “buona genitrice”. Queste prescrizioni in molti casi finiscono con il sovrapporsi all'offerta commerciale. Che tipo di creatura progettiamo, con i nostri stili di vita, con le nostre tecniche di allevamento? Solo la conoscenza e dunque una teoria soddisfacente, porterà a un'azione deliberata. (*) DIADE MAMMA-BAMBINO È supposto è che la madre abbia un enorme potere nel determinare il destino del suo bambino. Le neo-mamme sono bombardate di informazioni contraddittorie e fuorvianti, i neo-papà sono lasciati nell'oscuro di tutto. Come è possibile per una donna sentirsi competente sicura, per un uomo affrontare la nuova esperienza del divenire padre con gioia e fiducia? In molti casi intorno all'esperienza del divenire madre o padre si presentano come soggetti attivi altri come il medico il pediatra o lo psicologo. La possibilità che un adulto perda I propri diritti di genitore, a fronte di una valutazione negativa dei suoi comportamenti, è molto alta alle nostre latitudini. Il controllo sociale sulla famiglia è sempre un rischio, se ostacola la possibilità di apprendere, di evolvere, quando la famiglia viene connotata come fuori norma. Lo stigma sociale insito in uno sguardo valutante connotante è un problema per te nel lavoro con le famiglie c'è modo di distinguere se la disubbidienza di una famiglia e segno di contro-cultura o di disattenzione e maltrattamento. E lavorando nella cultura dei servizi, sulla cura dei legami dei contesti, che si può sperare di risolvere questo doppio legame istituzionale: “sii adulto, autonomo, responsabile, ma come io te lo prescrivo”, a cui il genitore risponde specularmente “aiutami, ma lasciami stare”. In quanto educatori, dovremmo insistere di più sull'apprendimento sull'evoluzione come chiave per comprendere le famiglie, il loro funzionamento e le possibilità di intervento. La cultura del controllo è profondamente penetrate nel lavoro se c'è educativo, quasi una deformazione dello sguardo. Il problema nasce quando il supporto non ha senso di aiutare a superare la temporanea difficoltà ma stabilisce un obiettivo di cambiamento. Così, il sostegno diventa un'occasione per esercitare pressioni alla famiglia. Quando gli operatori sono impreparata a gestire i propri pregiudizi, finiscono per imporre un modello di vita che a loro appare più sano migliore. Voglio operatori sono in consapevole di questi pregiudizi, per poterli riconoscere e affrontare dovrebbero attraversare processi di consapevolezza sia delle proprie mozioni che delle proprie premesse culturali biografiche. Le famiglie non sono passive, si organizzano danno senso e significato alle situazioni, costruiscono strategie. COME SI IMPARA IN FAMIGLIA? Chiedi “Racconta che cosa hai imparato dalla tua famiglia che non avresti potuto imparare altrove”. —> due apprendimenti: concreti (andare in bici, nuotare…), morali (fiducia, onestà, rispetto, coraggio). “come è accaduto?” Risposta “facendo insieme”. In famiglia si impara vivendo. La prendere è al centro della vita familiare. Tutti imparano costantemente e reciprocamente abbiamo bisogno quasi quotidianamente di verificare che cosa significhi essere parte di quella famiglia e per farlo è necessario mettere in atto il nostro campione il quale non è fisso ma cambia continuamente. La famiglia educa per definizione, proprio perché è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti, che danno vita ai processi omeostatici e morfogenetici: è caratterizzata sia dalla permanenza che dal cambiamento. Solo il pensare per storie riesce restituire questa dinamicità e fluidità. Questi processi narrativi sono educativi ma non intenzionali: il modo di apprendere è quello dell'educazione informale, in diretta, implicita. È probabilmente il carattere inconscio e simbolico delle relazioni a consentire che l'educazione familiare sia ecologica, cioè rispettosa della complessità del divenire umano. La metafora della famiglia come cultura ci invita a capire che per comprendere quella 10 particolare famiglia bisogna incrociare tre tipi di dati: l'osservazione per scoprire le ridondanze nel tessuto delle interazioni, la raccolta di storie, la raccolta di artefatti. Far parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della stessa epistemologia, dello stesso paradigma. La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente: dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Quando i contesti e le relazioni si presentano di vincolanti per i soggetti, le storie si inseriscono. Come educatori abbiamo la responsabilità di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche. Lo stesso soggetto può raccontare storie o sviluppare teorie diverse in momenti diversi. Le famiglie sono uniche se noi agiamo come se lo fossero. Quando si sono sperimentate Setting multipli nel lavoro autobiografico, non è più possibile pensare la narrazione come qualcosa di statico, di oggettivo e neutrale. L'approccio sistemico cerca di generare versioni diverse della stessa storia, differenze che fanno una differenza. Ad esempio, il parto è uno di quegli eventi che vengono raccontati dei genitori come esperienze di empowerment o al contrario di incompetenza, da cui si può uscire rafforzati o indeboliti, a seconda delle relazioni che si creano intorno. Quindi nell'approccio sistemico, la biograficità non è solo una manifestazione della soggettività, ma è sempre inter-soggettiva. Il saldo, l'apprendimento di secondo livello, avviene quando si modificano le relazioni, cioè quando la storia raccontata da un potere d'azione sul contesto di vita. Una storia raccontata è una meta comunicazione sulla relazione in corso. Attraverso il racconto giochiamo un ruolo più attivo, diventiamo autori e attori. Sul piano sociale le storie illuminano le trasformazioni dei sistemi organizzativi, istituzionali, in continuo movimento sia livello formale, sia a livello informale. A livello micro, le storie raccontano le trasformazioni che avvengono nello sviluppo di un sapere biografico significativo. Le interazioni che accompagnano ogni apprendimento individuale avvengono a livello meso: né micro né macro. Nella famiglia i contesti non sono semplicemente ambienti per l'apprendimento ma sono essi stessi sistemi evolutivi, co-evolvono con noi. La vita familiare ha luogo a questo livello, che è connesso sia al macro che definisce vincoli e possibilità, che al micro ovvero ogni competente nella sua unicità porta un’informazione. L'apprendimento è familiare è un deutero-apprendimento, cioè va oltre l'acquisizione di nuovi comportamenti o l'elaborazione di nuovi significati. La vita familiare chiede molto spesso di cambiare cornice. Questo è possibile perché viene offerto in cambio una cornice simbolica anche se temporanea alla quale aggrapparci. È il senso del noi o assoluto familiare. PARTE SECONDA: Azioni cruciali nei servizi: verso un sapere incarnato, dinamico, riflessivo. Ciò che fa un servizio non è nel suo nome, nelle pratiche, nelle azioni e interazioni che vi si svolgono, nei processi che realizza se si tratta di un servizio educativo, stiamo parlando di processi trasformative, apprendimento e cambiamento e scelta. Non è il nome che fa la cosa: sappiamo che ci sono tutte le che non tutelano, assistenti che invece di assistere sostituiscono. Ogni tipo di intervento presenta vincoli: strutture fisiche e gerarchiche, mansionari enorme, indicazioni operative della consuetudini e regole. Queste specificità rendono possibili alcune azioni difficili o impossibili altre. Ogni luogo di lavoro, come ogni famiglia, incarna un'epistemologia un paradigma un modo di definire la realtà, i problemi familiari, il lavoro educativo. Gli operatori, lavorando insieme, sviluppare uno stile di lavoro condiviso, anche se poi ognuno ci mette del suo. Gli abitanti lo connotano a modo loro. Ogni soggetto cerca e metti in atto le possibilità d'azione che gli permettono di sopravvivere in quel contesto e nei suoi. Sono queste azioni intrecciate a fare il servizio, attraverso la forma visibile delle loro interazioni. Il racconto di esperienza è più centrato sull'autore, come persona che ha vissuto quella determinata situazione. Il racconto della pratica invece, mette al centro l'azione a gita: che cosa fa o crede di fare l'operatore, come e quali risposte riceve. Entrambi racconti confluiscono in una riflessività che permettono una scelta di punteggiatura. TESI: 1. Il sapere educativo è sempre incarnato e relazionale, fatto di corpi, sensi, interazioni concrete, scambi comunicativi. Il racconto è la vita più immediata e coerente per accedere ai saperi dell’educatore. L’esempio riduce la complessità, illumina a posteriori la teoria. Visto che la teoria è incarnata nelle relazioni concrete che fanno l'azione educativa, il racconto diventa l'unico modo sensato per comprendere e ricostruire a posteriori tale teoria. Se c'è qualcosa che caratterizza lo sguardo sistemico è la dinamicità, la metafora del flusso, che nessuna fotografia o racconto potrà mai fissare. 2. Nelle storie c'è un prologo, uno svolgimento, un epilogo. Il lavoro educativo è muoversi per mettere in movimento. Anche raccontare è un movimento, che genera certe condizioni un pensiero che muove l'azione. L'agire educativo è come una presenza attiva nell'operatore nei sistemi familiari e istituzionali. L'agire sistemico non è mai passivo: non dipingiamo l'ascolto come uno stare di fronte, non sposiamo la tesi del “tanto nulla cambia” E nemmeno della responsabilizzazione totale dell’altro. —> l'agire sistemico è policentrico: i Target cambiano continuamente, dall’individui, alle famiglie, alle reti allargate. 3. La riflessività è una postura abituale del professionista. Ma come sappiamo già che è utile, quando la famiglia non è mai uguale a se stessa e ti apre nella migliore delle ipotesi nient'altro che frammenti di sé: la risposta è la riflessione come pratica di cura di sé e dell'altro. E circolare e relazionale. Quando l'azione si blocca o la creatività viene meno, quando le relazioni professionali incontrano momenti critici, avere una buona teoria serve, offre mappe, suggerisce nuove piste di lavoro. La teoria si rende attivi. CAPITOLO 1 - Movimenti: il lavoro educativo con la famiglia. Racconto: informazioni per la scuola di danza. Questa apertura, Chiara, innegabile, nasconde però un'insidia: la richiesta della mamma ovvero potresti chiamare tu, genera un circuito riflessivo: a livello di contenuto Jackie (LIVELLO 1) sta chiedendo un favore, mentre a livello di messaggio (LIVELLO 2) dice Silvia tu sei più capace di me. Se Silvia accetta di fare quella telefonata rischia di convalidare una cornice nella quale questa mamma è incompetente (LIVELLO 3). Sì Silvia dice se si potrebbe essere ubicato nel genere l'educatrice sostituisce la mamma (LIVELLO 4). In questo modo non più come educazione ma come assistenza. (LIVELLO 5/6). Di fronte ai dilemmi bisogna cercare sempre la soluzione creativa. Ogni azione è un fatto mentale: complica forme di pensiero sia verbale razionale che pre-verbale, intuitivo, immaginativo. Di fronte ai dilemmi bisogna trovare sempre una soluzione creativa. Ogni azione è un fatto mentale: convocare forma di pensiero, sia verbale razionale sia pre verbale, intuitiva immaginativo. Ogni educatore lavora in situazioni che sono naturali fino a quando non interviene un ostacolo: è il momento del Breakdown, della crisi, dell'errore che si rende necessario l'apprendimento, il cambiamento e alcune volte l'intervento esterno. Molti educatori che lavorano a stretto contatto 11 con la famiglia sono catturati dal linguaggio delle emozioni e sottovalutano gli aspetti cognitivi, i vari livelli di apprendimento coinvolti nel processo. Lo scaffolding È un processo relazionale reciproco: non si tratta solo di offrire sostegno, cioè un processo comunicativo fatto di azioni e reazioni circolari, continuamente adattato alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. L'educatrice offre una struttura che però non sorregge le persone ma le azioni. IL CONTESTO C'è una rete di relazioni significative intorno a ogni famiglia. Avere in mente una chiara mappa di queste relazioni è il primo passo dell'analisi del contesto. C'è un contesto sociale, o meglio una rete di relazioni significative, fluida e continuamente ridefinita. Ci sono relazioni prossimali, relazioni istituzionali, relazioni distali, relazioni occasionali, e relazioni del passato. I soggetti sono parti attive di tutte queste relazioni, offrono e dicevano sguardi che costruiscono la loro identità, loro benessere e malessere. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noia per crescere per costruire una propria idea di sé e del mondo e per modificarla. Un educatore è qualcuno che sa come muoversi tra queste relazioni, come valorizzare per scrutarne le potenzialità. Per riuscirci devi fare quella che sistemi si chiamano analisi del contesto, cioè una riflessione che risponde alla domanda dove siamo? Un aspetto più specifico del contesto sociale è il contesto istituzionale, il luogo concreto dove dentro il quale avviene l'intervento educativo. Il contesto istituzionale non è definito da mandati, compiti o progetti ma ciò che si fa in quel contesto ha senso in riferimento alle sue cornici. Non si può lavorare fuori dal contesto, la caratteristica di base della comunicazione umana è la ripetitività. La tendenza umana fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l'altro. Se questi sistemi di attese sono da orti, scoordinati ci sarà troppo imbarazzo disordine per poter accompagnare una trasformazione. L'analisi del contesto ha lo scopo di realizzare una composizione delle cornici, per creare comunicazioni utili alla trasformazione. L'obiettivo che tutti stiano un po' meglio si traduce in un lavoro creativo tra operatori diversi. Le equipe possono divenire luogo di costruzione di un pensiero complesso sulla famiglia e sulle possibilità di accompagnare le trasformazioni. Che cosa fare in un contesto che non sostiene che non aiuta la trasformazione? L'operatore che contrasta la cornice istituzionale il più delle volte viene fatto fuori. Scegliere una posizione deviante dentro un servizio progetto è rischioso. Ogni centro alla sua anima organizzativa. L'analisi del contesto va oltre un prendere atto dell'organigramma. Bisogna comprendere come il servizio evolve e si trasforma. Un cambiamento a livello istituzionale porta a ridefinire tutti gli interventi in corso. Con l'introduzione delle politiche sociali e della crisi del Well far, tutti gli operatori sono chiamati ad avere maggiore consapevolezza di ciò che accade intorno. Il lavoro educativo si connota sempre più come la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti e definendo in tempo reale gli scenari obiettivi e azioni. L'educatore a contatto con la famiglia deve essere in grado di interrogarsi. Colui che non si interroga rischia di essere sbalzato via o di essere fagocitato. Come nasce la relazione tra educatore sistema familiare? Inizio della relazione presenta molte insidie: pregiudizi non verificati, mancanza di comunicazione tra operatori che incontra la famiglia nuovi diversi, scarsa propensione a costruzione condivisa di un progetto portano a cattive pratiche. GLI INGREDIENTI DELL’INTERVENTO EDUCATIVO LA DOMANDA Il bisogno e la domanda sono da costruire, da interpretare. La domanda è un esito, oltretutto da differenziare, chi chiede cosa. Esiste un modo per aiutare, che non si basi sul negativo, sul far sentire l'altro incompetente? Una possibilità consiste nel sostituire al bisogno il desiderio all'aiuto la cura. La domanda sarà così una co costruzione, in continua definizione. Non bisogna analizzare la domanda come se fosse un dato preesistente alla relazione, ma si tratta di generare domande multiple capace di dare senso alla relazione. L’INVIO Chi è l'inviante della famiglia? Solitamente l'inviante è un membro del sistema di comunicazioni attorno al problema. Uno dei problemi più frequenti riguarda lo scontro di premesse tra chi pensa all'intervento soprattutto in termini di controllo sociale e che hai mente scopi educativi. A volte l'educatore si trova strattonato tra un inviante che li chiedo di controllare l'operato e un altro che gli chiedo di prendersi cura dell'evoluzione del figlio. Sono due obiettivi contrastanti. IL MANDATO Che cosa si chiede all'educatore che lavora con la famiglia? L'altro devo lezza con cui giocheremo il mandato deriva la professionalità che si andata costruendo nel tempo che va ricostruita ogni singola volta e Ri contattata con gli altri operatori. Non è necessario subire passivamente un mandato. Porre domande sul proprio mandato è un dono che educatore fa il servizio perché li aiuta a definire meglio finalità e obiettivi. Il mandato istituzionale in genere, il funzionamento organizzativo così com'è, ma se interpretiamo il ruolo dell'operatore come soggetto dell'istituzione, è solo la sua capacità di trasformare il mandato che garantisce l'efficacia dell'azione organizzativa. Solo l'educatore che personalizza il proprio intervento che si mette in gioco come persona, risulterei credibile nel momento in cui si prova a ridefinire il proprio mandato. LA CONVOCAZIONE DI TUTTO IL SISTEMA Nell'approccio sistemico la convocazione è l'invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. Non si tratta di risolvere il problema di uno, ma di mettersi in gioco insieme. I significati della convocazione familiare sono aperti: ognuno porta il suo e nell'interazione si prova a costruire una storia condivisa. La convocazione è una questione delicata. Significa che c'è qualcosa che non va. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigmate. Convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia: chi coinvolgiamo dell'intervento? Il mandato educativo si limita spesso al nucleo familiare composta da genitori e figli. In ottica sistemica, è famiglia l'insieme delle persone coinvolte nella cura del problema. Il pensiero dell'operatore sistemico e sempre volto all'insieme delle relazioni e al desiderio di allargare il contesto, perché sappiamo che sistemi viventi trovano più facilmente e più rapidamente in modo naturale i loro equilibri, se hanno disposizione tante risorse dell'ambiente. LA COSTRUZIONE DEL SETTING Quali condizioni concrete rendono possibile l'azione educativa? È utile istituire un sette in policentrico e flessibile. Flessibilità non significa confusione, caos. I contesti per diventare matrice di significati, hanno bisogno di marchi ben definite: messaggi verbali e non verbali che dicono cosa stiamo facendo qui e accompagnano le definizioni. Molti operatori usano le marche di contesto in modo confuso e ingenuo. Altri scambiano un setting per la sua dimensione pratica: procedure spazi e tempi dell'intervento, compiti, rituali, linguaggi e strumenti operativi. Le pratiche sono ciò che si vede: definiscono le regole del gioco ma è la loro dimensione simbolica, il senso che assumono, a definire il setting. L'operatore propone azioni specifiche, che non sono quotidiane per la famiglia. Pensare il setting, organizzarlo, prendersene cura significa chiedersi continuamente quali messaggi ti voglio dare e ricevere. IL PROCESSO: CONTRATTO, INTERVENTO, VALUTAZIONE, CHIUSURA 12 BISOGNA FARE PRESTO vs DIAMO TEMPO È utile porre in relazione la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. La cronicizzazione non è data solo dal tempo, ma anche dal fatto che in quel tempo non si è riusciti a trasformare le relazioni. Dimentichiamo che è intervenire subito non significa necessariamente sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l'intervento. La cronicizzazione potrebbe essere provocata proprio da questo modo di vedere le cose. PREVEDERE L’IMPREVISTO NEGLI INSTABILI EQUILIBRI Essere in bilico è una condizione che può dirci molto su lo stato precario delle famiglie ma anche su noi che lavoriamo con le famiglie. È la condizione umana che ci pone in bilico. Stando in bilico si rischia di cadere quindi, se noi lavoriamo con l'obiettivo di non cadere mai, saremo certamente in capaci di ogni successo. Sotto valutare gli effetti della caduta potrebbe diventare immortale, nella tutela dei minori e delle loro famiglie. E non sappiamo a priori quale sarà l'equilibrio migliore, dovremmo farci carico di attenuare gli effetti del passaggio tra un equilibrio e l'altro. La tentazione è quella di banalizzare e semplificare pensando che la cosa possa essere tenuta sotto controllo. Da operatori possiamo prevedere che l'imprevisto potrà far luce sul legami presenti e possibile, sarà probabilmente il vero spazio educativo della storia. CAPITOLO 3 - Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia La famiglia è considerata come il luogo privilegiato per il benessere dei bambini; essa rappresenta materialmente e simbolicamente l’appartenenza e la storia di un essere umano in crescita. La possibilità per un educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio nel suo ambiente (casa) costituisce una risorsa speciale a livello educativo, permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. Perché ciò avvenga è necessaria la curiosità, un posizionamento che consente di prendere avvio dalle caratteristiche di quella famiglia e dalla sua storia. L’ADM è una questione di famiglia, in cui tutti sono chiamati a mettersi in gioco. Anche l’educatore si mette in gioco a livello professionale e personale. Il termine ADM viene usato per indicare in maniera approssimativa e generica interventi molto diversi, che hanno come oggetto evidente “il minore”. ADM = assistenza domiciliare minori. - ASSISTENZA: attività di sostegno e di aiuto offerto o ricevuto da privati o da enti. - DOMICILIARE: luogo dove avviene l’intervento - MINORI: destinatario dell’intervento LA CASA: PUNTO DI PARTENZA, DI TRANSITO, DI ARRIVO? L’entrare nella casa di una famiglia è un’azione delicata e importante. L’educativa domiciliare è un intervento coatto, quindi l’operatore non può essere percepito da subito come una potenziale risorsa dai membri della famiglia. Compito dell’educatore è quello di guadagnarsi quella fiducia che permette alla famiglia di aprire non solo la porta della propria abitazione, ma anche della storia. Quando si apre la porta di casa e si entra chiedendo “permesso?” Si apre il contatto con un mondo. La casa parla, per questo diventa il Setting educativo per eccellenza. La casa, però, può essere anche un punto di transito. Un luogo dal quale partire per andare verso altri luoghi, attraversali, prendere quello che ci serve prima di ritornare a casa, forse arricchiti e diversi. L’intervento educativo non può essere unicamente con il minore, perché in casa ci sono altri attori. La sistemica invita a concentrarsi non solo sul bambino, ma sull’intero sistema di cure e di interazioni in cui è inserito quotidianamente. Per la famiglia l’educatore è un estraneo che arriva pensando di dire ai genitori che cosa dovrebbero fare di diverso con i loro figli. Con la sua presenza, educatore modifica gli equilibri che la famiglia si è creata ⤳ e una certa dose di omeostasi è necessaria e funzionale in ogni famiglia. Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore ⤳ COLONIZZAZIONE EDUCATIVA. Concentrandosi solo sul bambino porta sullo sfondo le figure genitoriali, svalorizzandole ⤳ de-responsabilizzazione progressiva degli stessi. Sistematicamente, si cerca di alleggerire il peso dell’attenzione sui più piccoli. L’intervento educativo può proporsi come maggiormente “ecologico” e caratterizzarsi come lavoro con (e non su) la famiglia. La proposta sistemica è quella di valorizzare ed espandere le connessioni tra tutti questi attori. “Chiamare in causa tutti i componenti della famiglia in questo lavoro significa dare voce a tutti, riconoscere la parte attiva in ciascuno nel gioco in atto” Ogni individuo è in sé un sistema complesso di parti interagenti e interconnesse, da riconoscere e celebrare nella sua integrità. Ma allo stesso tempo nessun individuo può intendersi come isolato, perché dalla nascita alla morte gli esseri umani sono costantemente inseriti in una rete di connessioni con altri individui e sistemi di vario tipo. ⤳ DOPPIO LEGAME. Compito dell’operatore è da un lato trovare le strategie per potenziare queste risorse e dall’altro co-costruire insieme alla famiglia delle risorse nuove. Diventare consapevoli dei pregiudizi e delle proprie premesse, accettare e diventare consapevole del proprio stato emotivo e dei propri valori sono azioni auto-riflessive necessarie che dovrebbero costituire il punto di partenza e di arrivo di ogni sua azione. VERSO LA TRASFORMAZIONE Tendiamo a definire “educativi” tutti quei contesti in cui la famiglia entra in contatto con servizi e operatori. Il contatto tra le famiglie e i servizi non si dimostra educativo, ma anti-ecologico e dis-educativo, quando la famiglia viene svalutata, inascoltata, etichettata. Nella logica per cui l’educatore “non è per sempre” ⤳ Il compito è sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta le strategie più funzionali al superamento della crisi e alla ricerca di un nuovo equilibrio. Una famiglia che si sente conosciuta e riconosciuta nelle sue peculiarità e capacità diventa un insieme di persone che si sentono legittimate a chiedere aiuto nel momento del bisogno, senza sentirsi giudicate negativamente. Nell’ecologia dei sistemi, lavorare con la famiglia vuol dire sperimentare percorsi, strategie, posizionamenti che permettono a tutti gli attori coinvolti di stare bene e di concorrere alla co-costruzione di storie nuove. CAPITOLO 4 - Comporre i legami messi alla prova dal carcere L’arresto del genitore è un momento che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. I primi a esserne vittima sono i figli e il nucleo familiare. La carcerazione determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive in solitudine. Lavorare in un’istituzione totale 15 come il carcere è un buon esercizio per l’ascolto e la cura, dell’altro e di sé. Il mantenimento dei legami con i genitori è primario, un diritto sancito dalla carta internazionale dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza art. 9, ma non sempre rispettato. Il colloquio è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame ⤳ le istituzioni devono fare in modo che avvenga nelle condizioni migliori ⤳ LA FAMIGLIA RAPPRESENTA NON SOLO UN SOSTEGNO AFFETTIVO IMPORTANTE DURANTE LA DETENZIONE, MA L’AMBITO IN CUI LA PERSONA DETENUTA PUÒ TRASCORRERE PARTE DELLA PENA, QUANDO VENGONO ADOTTATE MISURE ALTERNATIVE AL CARCERE. SERIE DI NORME A SOSTEGNO DELLA GENITORIALITÀ NELLE CARCERI 1975 - Legge n. 354: passaggio da un sistema repressivo al riconoscimento della finalità ri-educativa e ri-socializzante della pena. 1986 - Legge n- 663 (Legge Gozzini): misure alternative alla detenzione 1998 - Legge n. 165 (Legge Saraceni): misure alternative alla detenzione 2000 - Legge n. 230 (Regolamento sull’ordinamento penitenziario): misure alternative alla detenzione 2001 - Legge n. 40 (Legge Finocchiaro): detenzione domiciliare speciale per le madri 03/2011 - modifica Legge n. 40: esigenza di far uscire i bambini dal carcere senza separarli dalle madri (abitazione o case di accoglienza) 12/2009 - Circolare dell’Amministrazione penitenziaria (Circolare del sorriso): invito a sorridere, nell’intendo di sollecitare un ambiente più adatto alla presenza di bambini La mediazione è lo strumento chiave da mettere in campo nello scambio relazionale, che consente di affrontare le specificità della comunicazione che si attiva in questo contesto. L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione. La nostra attenzione va innanzitutto al bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. Nel prenderci cura delle relazioni familiari mettiamo al centro il benessere del figlio. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcerazione è riconosciuto come diritto del bambino al legame fondamentale per crescere e come diritto-dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo. Quindi: - nei confronti del figlio: privilegiare il suo diritto al mantenimento della relazione e di favorire l’inserimento nel sociale - Nei confronti del genitore: si realizza un lavoro di mediazione che gli consente di riconnettersi con la rete di relazioni da cui è separato a causa della detenzione e con una rete di rapporto istituzionali Prendersi cura di queste di relazioni complesse, a volte sconosciute, significa costruire di fatto una rete nelle reti, dedicata al mantenimento del legame tra genitore e figlio. Storia di Berta: figlia di 6 anni, madre drogata, bimba affidata alla nonna la quale non la porta ai colloqui con la madre, così viene tolta dalla sua tutela e affidata ad un istituto. LA CURA DEI LEGAMI IN CARCERE: TEMI EMERGENTI L’arresto della madre determina la rottura della relazione primaria e il collocamento in comunità del bambino. Questione femminile: alla fine degli anni Novanta le donne detenute iniziano un lavoro di sensibilizzazione istituzionale —> per merito di queste lotte sono state approvate leggi penitenziarie in tema di figli. Colpevoli e innocenti: “SCOPRI CHE PUOI DAVVERO INCONTRARE IL COLPEVOLE SE NON TI SENTI INNOCENTE” —> la persona non è il reato. Il carcere è un’istituzione totale connotata da regole e vincoli forti, che devono essere superati per poter intraprendere un processo di consapevolezza. La resistenza più evidente è lo squilibrio relazionale che divide colpevoli e innocenti —> “chi sta dentro è colpevole, chi sta fuori è innocente”: questo automatismo investe in modo paradossale gli operatori La verità raccontabile: la persona che incontriamo in carcere ha un figlio, soggetto assente, che il nostro intervento cerca di presentificare, definendolo come destinatario. Il nostro compito è sostenere il processo di consapevolezza della verità raccontabile, da parte del genitore in carcere e della famiglia fuori. Quando non si dice al bambino dov’è il genitore si lascia il bambino in un universo immaginario che è molto più terrorizzante della realtà. Effetti della separazione: si ha una libertà nei figli quando avviene il processo di separazione psicologica, che consente l’individuazione e la capacità di intraprendere nuovi legami affettivi, pur mantenendo quelli originari. Il genitore smette di essere un riferimento nel figlio, e così lo incatena in un legame di lealtà che può far diventare tradimenti le sue scelte libere. La separazione psicologica è possibile quando il bambino ha imparato a simbolizzare la relazione con il genitore, cioè ha sperimentato qualche distacco. Se il bambino percepisce la separazione come abbandono e non è messo in condizione di costruirsi una teoria di ciò che sta accadendo, può essere sopraffatto dalla paura, dal risentimento e dalla rabbia. Emozioni contrastanti: il bambino fatica a esprimere il sentimento di rabbia. Spesso si dice “è piccolo, non capisce”. Aiutare a comprendere il comportamento apparentemente incoerente dei figli rappresenta spesso l’intervento primario per salvaguardare la relazione. Separarsi dai figli significa sparire non solo dal rapporto quotidiano, ma dalla rete sociale di riferimento: scuola, servizi sociali. Perde le prerogative di genitore. Il processo di intervento è un Percorso strategico di INFORMAZIONE, FORMAZIONE Come intervento di PREVENZIONE SOCIALE Che coinvolge la rete interna ed esterna al carcere Per una PRESA IN CARICO In un’ottica DI CURA DEI LEGAMI IL PROCESSO DI INTERVENTO: AZIONI DI CURA DEI LEGAMI 1. Accoglienza dei bambini nello spazio giallo (prima e dopo il colloquio con il genitore detenuto) 2. Intercettazione delle situazioni sommerse e presa in carico della famiglia 3. Accompagnamento figli al colloquio 4. Gruppi di parola nel carcere 5. Punti di ascolto 16 6. Attivazione della rete interna all’istituzione (interesse al centro del bambino) 7. Interventi di scambio informativo tra gli operatori 8. Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere 9. Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile per modificare lo sguardo sul genitore detenuto 10. Attività di ricerca a livello nazionale SPAZIO GIALLO: luogo per l’accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio con il genitore. La cura dello spazio è uno stimolo a prendersi cura a loro volta di un luogo che è pensato per loro. Le relazioni vengono incentivate favorendo l’interazione tra età e cultura diverse. Gli educatori prestano attenzione al processo più che al prodotto, per far vivere ai bambini momenti leggeri. L’attività è documentata attraverso un diario che riporta osservazione sui bambini e sugli adulti. È quindi uno spazio intermedio che connette l’interno e l’esterno. Dall’osservazione sistematica ⤳ a. I bambini vivono questo spazio come un luogo dove sono pensati e protetti b. I bambini possono parlare, dando voce e forma alle loro emozioni (disegni) c. Per le famiglie lo spazio è una risorsa, la consuetudine e la fiducia negli operatori permette di rivolgere domande e dubbi d. Diverse modalità attraverso cui le famiglie affrontare l’esperienza detentiva. I gruppi di parola e i punti d’ascolto rappresentano il lavoro storico dell’associazione. Nasce il lavoro di sostegno, mediazione e presa in carico. I gruppi di parola sono incontri collettivi di discussione e confronto. È un’esperienza di momentanea rimozione. In questo contesto permette lo scambio di informazioni e il confronto. È la possibilità di mettere in discussione. Un tema centrale è lo svelamento della condizione detentiva, ovvero un processo che comporta un lavoro di auto svelamento, dove il primo a doversi misurare con l'accettazione della detenzione è il genitore: richiede da parte degli operatori uno accompagnamento attento che mette in campo l'ascolto attivo. Importanti sono i punti di ascolto, ovvero punti che individuano un tempo e uno spazio per il colloquio individuale con il genitore e che avvengono in modalità di ascolto. Quindi tempo, spazio e modalità sono determinanti. Prendersi cura dei legami significa realizzare una sorta di mediazione integrale da parte degli operatori. CAPITOLO 5 - Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro La parola conflitto richiama l’idea di opposizione di due (o più) punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico (*relazioni simmetriche e asimmetriche in Bateson). Dal conflitto possono nascere conseguenze positive ed effetti negative (sofferenze, violenze). Lo stesso avviene in famiglia. SPAZIO NEUTRO “È nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto […] in quelle vicende famigliari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intra-familiari o situazioni di malattia e disagio.” Le famiglie che giungono al servizio sono inviate dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario in modo coatto attraverso decreti nei quali l’autorità vuole controllare la relazione adulto/bambino in un luogo protetto. —> perché si valuta dannoso il conflitto familiare. Il bambino è il punto di partenza per gli operatori. “Principi teorici su cui si fonda Spazio Neutro si riferiscono al valore del legame parentale, al significato delle origini personali, al diritto dell’individuo a tenere vive le proprie radici biologico-storiche” In situazione non favorevoli alla crescita del bambino, si pensa che “un luogo neutro, cioè un luogo terzo non appartenente a nessuno dei due contendenti, può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno/diritto del bambino a veder rispettati i suoi affetti” È richiesto di costruire un progetto familiare che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino ⤳ lavorare per mantenere i contatti tra genitori e minori L’equipe del servizio: costituita da professionisti di stessa formazione (educatori) o provenienti da aree diverse (psicologi, assistenti sociali, educatori). “I fruitori, adulti e bambini, […] possono incontrare difficoltà nell’accettare l’imposizione e possono […] rifiutarsi di vivere la relazione in uno spazio semi-pubblico, sottoposto a osservazione e valutazione” Il cambiamento avviene non quando ci si relaziona al sistema con istruzioni, ma quando si contribuisce ad aumentare le possibilità tra le quali scegliere. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di interventi: a. Colloqui individuali con i genitori b. Colloqui con i minori c. Incontri protetti tra bambino-genitori Ricercare una rappresentazione estetica del conflitto ⤳ proporre alle persone la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema (disegno, metafore, racconti) ⤳ si mette l’altro nella condizione di diventare osservatore della propria storia assumendo una posizione differente. a ciascun membro della famiglia si chiede di disegnare il problema attuale (in bianco e nero) e la soluzione (a colori) e poi descriverli (Massimo che disegna il fiume inquinato e il fiume con i cassonetti a fianco). Le punteggiature delle narrazioni, le rappresentazioni estetiche sono elementi che si aprono nel corso delle conversazioni, dai quali costruiamo una TEORIA LOCALE DELLA SITUAZIONE. Per favorire il cambiamento dobbiamo creare un contesto e mettere in campo azioni che producono nuove possibilità. Antonio Caruso propone la pratica dell’altra-visione come possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia, emozioni, relazioni. 17 Prendersi cura dei legami L’apertura alla famiglia è il pre-testo per osservare e (farsi) raccontare le risonanze, percezioni, immagini, costruire una relazione a partire dall’accoglienza come gesto di cura capace di trasformare l’estraneità in familiarità. L’accoglienza è costruzione di un luogo ospitale, uso di parole non neutre ne formali. Bisogna riconoscere che ogni famiglia è diversa, ha qualcosa di unico, e quindi bisogna chiedersi chi è l’altro, esserne incuriositi, farsi stupire. L’importanza del contratto Il contratto permette di co-creare un significato condiviso su ciò che si fa insieme. Un messaggio che appare dirompente per quei familiari che si rivolgono al servizio psichiatrico pubblico con una richiesta di guarigione e la speranza che tutto torni come prima. L’intervento parte da aspettative e richieste ogni volta differenti e allo stesso modo può evolvere in direzioni impensate. Non abbiamo fissato dei precisi criteri di inclusione o esclusione delle famiglie nel nostro progetto, poiché stiamo ancora vivendo la fase in cui ci sembra importante offrire accoglienza a tutti coloro che esprimono un bisogno. Nel primo colloquio di conoscenza reciproca si valutano insieme i tempi e i contenuti degli incontri. Durante il percorso valutiamo insieme ai familiari l’opportunità di allargare l’invito anche al figlio. Le storie I familiari si presentavano nella maggior parte dei casi attraverso una ripetizione lamentosa, sempre uguale, sempre la stessa, di un copione. Non è indagando le criticità di una convivenza, ma proponendo un nuovo modo di parlare e id pensare alla situazione che si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. La narrazione biografica può diventare una via per rimettere in moto queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi. Diventa una pratica di pensabilità, confronto e riflessione. Nella narrazione, i soggetti compiono un atto di visibilità rispetto a sé stessi, di riconoscimento, di identificazione della propria posizione rispetto agli altri membri della famiglia. Non è quindi solo una descrizione, è una rivisitazione della propria storia, che apre la possibilità di apprendimento. Un accompagnamento irriverente Chi narra ci diventa meno estraneo perché ci ha trasmesso una parte di sé. Questa familiarità ci permette di adottare come stile cognitivo una curiosità “irriverente” che ci consente di rendere elastico e flessibile il nostro modo di comunicare. Questo atteggiamento esplorativo ci ha spinto a caratterizzare l’intervento come intervento educativo, proponendo una pratica riflessiva, di auto-formazione, di apprendimento. In questo processo unico, in evoluzione, caratterizzato dalla materialità dell’essere in relazione con il fine di mobilitare delle risorse per dare forma a mondi possibili. Un bilancio provvisorio Il lavoro con le famiglie si è rivelato un’impresa ad alto rischio, complessa e delicata. In queste famiglia, l’aspetto fondamentale è la perdita del controllo sulla propria storia. Con la diagnosi la storia viene vincolata alla malattia. La dimensione narrativa ha permesso ad alcuni familiari di rivedere i propri modelli relazionali e trovare un proprio senso. Una condizione inevitabile è la realtà istituzionale con la sua organizzazione, il mandato, la declinazione pedagogica. Si è costruito un luogo fatto di procedure, pratiche, emozioni, accoglienza; manca uno spazio fisico ben definito e riconoscibile da tutti come il luogo dedicato all’incontro con le famiglie. CAPITOLO 8 - apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze Durante il primo incontro avvengono le presentazioni e vengono esplicitati e condivisi gli obbiettivi e le ragioni del laboratorio, chiedendo loro il motivo per cui abbiano scelto a partecipare. Educare è difficile e più complicato rispetto al passato ⤳ è normale trovarsi in difficoltà Gruppo di aiuto reciproco, incontro, confronto, riflessioni Attività da fare tutti insieme Tre operatrici per tre gruppi (genitori, adolescenti, bambini) ⤳ per permettere di mostrare le differenze tra i gruppi PERCHÈ UN LABORATORIO? Luogo dove sperimentare, provare ad agire in diretta, attraverso attività formative, le relazioni educative e il confronto tra genitori e figli Posto vivo e vivace dove adulti e bambini provano a osservarsi e parlarsi dei modi di stare insieme Deve produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti, competenti. È il tribunale e i servizi sociali a individuare quali famiglie mandare al laboratorio ⤳ permette di confrontarsi con altri operatori Si parte dall’intuizione che alle famiglie in difficoltà servano luoghi di incontro per contrastare ISOLAMENTO, PRIVATIZZAZIONE, SOLITUDINE Si propone come spazio pubblico dove poter esibire gli stili educativi e sperimentare nuovi copioni ⤳ permette di “vedersi” grazie alle opinioni degli altri Non si hanno obbiettivi di cambiamento, ma dare la possibilità di sperimentare nuove forme di comunicazione L’idea di famiglia a cui sono rivolti i laboratori è quella di una famiglia malata, disfunzionale, in grave affaticamento con inadeguatezze rispetto cura ed educazione ⤳ STIGMA (marchio sociale) ⤳ ma c’è un altro modo di guardare che presuppone processi di inclusione del disagio nella normalità. Il bisogno di conferire ritualità e familiarità agli incontri (come in una vera famiglia) porta alla strutturazione precisa: 1. APERTURA DELAL SERATA (registro firme) 2. MEMORIA DEGLI INCONTRI (permette di condividere l’incontro precedente, crea appartenenza e continuità) 3. PRESENTAZIONE DELL’ATTIVITÀ (modo di esplicitare le connessioni con quanto si sta facendo insieme) 4. SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITÀ FORMATIVA 5. LA CENA (momento conviviale rilevante del fare e sentirsi gruppo) 6. LA CONCLUSIONE DELL’ATTIVITÀ E I SALUTI (biglietto con prossimo incontro e citazione importante) IL DIVENIRE DEL GRUPPO 20 Prima fase: la nascita del gruppo ⤳ il gruppo all’inizio non esiste, solo i ruoli di conduttori e utenti erano definiti. Si è consegnata una domanda per ogni nucleo famigliare “si può arrivare in ritardo? Si possono usare i cellulari? I bambini possono alzarsi durante l’incontro?” ⤳ SEMAFORO DELLE REGOLE DEL GRUPPO rappresenta il primo oggetto comune che istituisce appartenenza. Poi si passa alla conoscenza reciproca con l’inizio delle attività. Inizia a crearsi un senso di appartenenza (molti reclami per le assenze) Seconda fase: ampliare lo sguardo ⤳ si cerca di portare lo sguardo fuori dal gruppo, confrontandosi con la storia di ciascuno: i genitori invitati a interrogarsi sull’ordine di atteggiamenti e abitudini, mentre i figli a ragionare sui limiti dei genitori in relazione all’assenza della figura. I singoli iniziano a tendere lo sguardo oltre, a osservarsi più attentamente, a identificarsi e a cogliere le specificità di ognuno. ⤳ si osservano momenti di riflessione autonomi (alcuni portano a casa ciò che accade all’incontro). Terza fase: verso la conclusione ⤳ negli ultimi incontri si indirizza lo sguardo un po più all’esterno (come all’ambiente di origine, o a ciascun nucleo familiare) VALUTAZIONE ⤳ indicatori utili Presenze e assenze Livello di partecipazione, di scambio, il clima emotivo e la capacità di elaborazione Affinché il gruppo diventi luogo di apprendimento, deve essere chiaro da subito che si istituisce come gruppo di lavoro. La composizione eterogenea dei gruppi aiuta: rispetto alle capacità cognitive e di elaborazione simbolica, chi è più attrezzato può sostenere chi ha meno strumenti. LE TRACCE Negli Operatori rispetto al modo di lavorare con le famiglie ⤳ possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto ma dove le famiglie esprimono le loro competenze senza giudizio. Nelle famiglie, il laboratorio non è luogo terapeutico, ma si avvicina alla normalità, sollecita capacità dei singoli di stare in un contesto sociale. Quando ci avviciniamo, prima di avere obbiettivi dovremmo avere in mente RICONOSCIMENTO, RISPETTO E DIGNITÀ come presupposti della relazione con l’altro. ⤳ Non è la tipologia della famiglia che caratterizza l’azione di aiuto: è la prefigurazione della relazione. Il lavoro con le famiglie presenta un ostacolo: l’idea di buona famiglia che alberga nella mente di tutti ⤳ stigma Lavorare con le famiglie significa ⤳ sfatare queste rappresentazioni ⤳ significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola. CAPITOLO 9 - Interrogare le rappresentazioni reciproche, tra ricerca e formazione È il viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto ⤳ la ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda Questo viaggio è innescato dalle domande: quale contributo può dare la ricerca nella formazione degli educatori? Per fare ricerca il primo passo è capire CON QUALE RES STAI ENTRANDO IN RICERCA? CHE COSA TI MUOVE? CHE COSA CERCHI? La res è “la storia condivisa e provvisoria del ‘perché siamo qui’ o ‘che cosa stiamo facendo insieme?’. È una narrazione, una direzione di senso, più che un obbiettivo” L’intento della ricerca non è quello di realizzare una fotografia della realtà, ma di osservare una relazione in corso, pensandola come una danza dinamica tra educatori e famiglie. ⤳ significa pensare a ciò che si osserva come una relazione in continua trasformazione (ad esempio: “questa famiglia non è collaborativa” non è utile; ma osservando il mondo relazione e in movimento potremmo scoprire che ha partecipato ad altri progetti e contesti dove appare attiva e collaborativa) In ricerca è chi si abbandona alla scoperta ⤳ si è in ricerca di fronte al nuovo ma anche tutte le volte che ci interroga sul quotidiano ⤳ quindi, LA DOMANDA È UNA CONDIZIONE NECESSARIA DELL’ESSERE IN RICERCA, ma non basta, è importante come la si pone e a chi Distinzione di Sguardo ingenuo ⤳ centrato e carico di pregiudizi Sguardo scientifico ⤳ disposto a interrogarsi sui propri pregiudizi Quindi il ricercatore è qualcuno che si prende cura del proprio punto di vista, non lo trascura, se ne interroga. Un buon educatore è anche un ricercatore (si mette in ricerca nell’interrogarsi e mantiene attiva la sua curiosità) ⤳ CURIOSITÀ: apre le porte alla bellezza, permette al ricercatore/educatore di guardare a quello che c’è e non a quello che manca ⤳ implica una RESPONSABILITÀ perché ognuno di noi incide sui contesti nei quali agiamo Essere un ricercatore che si occupa di famiglie, vuol dire essere consapevoli che le narrazioni familiari producono effetti. Il ricercatore si trova ad affrontare diverse responsabilità. 1) Prendersi cura delle storie che gli sono affidate, leggerle con neutralità ⤳ particolare attenzioni ai contesti istituzionali in cui avviene la ricerca 2) Trasparenza è un corpo dotato di minimo spessore che può essere attraversato dalla luce, lasciare vedere le forme e i contorni degli oggetti dentro di esso. ⤳ è un’azione che stimola riflessività, uno spazio prossimale di apertura alla comprensione dei fenomeni 3) La trasparenza chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatore e soggetti, per evitare di generare vuoti di senso e cornici ambigue. MAPPE E TEORIE Gli esploratori usano mappe. Per un educatore/ricercatore la mappa è la TEORIA da cui muove per guardare il mondo (sia dei manuali sia quella che deriva dall’esperienza). Ogni essere umano cresce all’interno di reti primarie di cura ⤳ da qui si sviluppa una teoria della famiglia. Nessuno è privo di bussola all’inizio del viaggio ⤳ la difficoltà sta nell’essere consapevoli di quale sia la bussola perché la mappa cambia e si trasforma in base alle esperienze e ai saperi 21 “DOVREI METTERE DA PARTE I MIEI PREGIUDIZI SULLE FAMIGLIE, PER RIUSCIRE AD ASCOLTARE CHI HO DAVANTI?” ⤳ Se cerchiamo di ignorare informazioni e teorie c’è il rischio di perdere una grande ricchezza ⤳ si tratta di mettere in discussione il nostro punto di vista esplicitandolo nel contesto in cui stiamo lavorando ⤳ cercare di ignorarle le fa scivolare verso zone d’ombra I viaggi non sono unidirezionali. Il ricercatore è un soggetto che apprende e un attore nel contesto, sia dal punto di vista professionale che esistenziale. È un esploratore implicato nella ricerca. Ma non è l’unico ad assumere un duplice ruolo implicativo: anche i partecipanti alla ricerca fanno altrettanto (producono idee, immagini, modelli, pensieri, storie). ⤳ ricercatori e partecipanti sono entrambi soggetti in ricerca mossi da domande: è questo il pattern che li connette, come direbbe Bateson (1972). Le domande che si pongono tra ricercatori e partecipanti sono differenti come lo è il loro posizionamento nel processo di ricerca. Allestire il contesto è determinante nella costruzione della ricerca che può prendere la forma di una ricerca sulle famiglie (indagine nella quale le famiglie divengono oggetto di studio) oppure con le famiglie (le famiglie come parte attiva nella costruzione del processo). COME COSTRUIRE UN PERCORSO DI SENSO CONDIVISO TRA GLI ATTORI E I RICERCATORI? ⤳ Metodologia di un codice etico sottoscritto a tutti i partecipanti. Partecipazione volontaria Diritto di rifiutare di rispondere Obbiettivo è il comprendere il punto di vista delle famiglie La conduttrice ha la responsabilità di controllare il materiale prodotto Le storie sono a uso di ricerca Negli incontri con le famiglie, c’è un dono di reciprocità tra tutti i membri del gruppo. Si sono donati parole e immagini reciprocamente: ogni idea si arricchiva, si moltiplicava, si trasformava. Se ricerca e formazione sono interconnesse, il loro nesso è individuabile nella trasformazione. Un processo che ha preso forma nella relazione tra pari, persone che stanno compiendo un analogo viaggio. 22
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