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RE-INVENTARE LA FAMIGLIA. Guida teorico-pratica per i professionisti dell'educazione, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto completo di 69 pagine del testo per esame di consulenza nel disagio educativo università Bicocca.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 28/01/2022

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erika_candida 🇮🇹

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Scarica RE-INVENTARE LA FAMIGLIA. Guida teorico-pratica per i professionisti dell'educazione e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RE-INVENTARE LA FAMIGLIA. Guida teorico-pratica per i professionisti dell'educazione – Laura Formenti PRIMA PARTE: LO SGUARDO DIPENDE DALL'AZIONE C'è un salto logico, anzi epistemologico, tra conoscere un oggetto interagendo con esso e conoscerlo attraverso una definizione. La percezione non avviene se non c’è movimento: perfino il semplice guardare è fatto di tantissimi movimenti di cui non ci rendiamo conto. Nella visione siamo convinti di guardare, da fermi, un mondo stabile ma non è così perché la vista non ha nulla di fisso: il mondo che guardiamo è in movimento e noi stessi ci muoviamo, continuamente. Lo sguardo dipende dall’azione: se i processi di percezione e di conoscenza dipendono da quello che noi facciamo nel mondo cioè dalle azioni specifiche che esercitiamo sugli “oggetti” che incontriamo, non sarà la definizione di questi oggetti a farceli conoscere. Ogni definizione che arriveremo a dare sarà legata a delle azioni, che noi stessi avremo compiuto su di essi oppure “ereditate” da altre. L’idea che ci facciamo degli altri e di noi stessi è strettamente legata alle azioni comunicative nei contesti: le nostre, le loro, quelle di tutti i soggetti coinvolti. Tutti contribuiscono a definire il senso di quell’azione, alla percezione di quell’azione, che cambia a ogni passaggio. Ci accorgiamo che è molto difficile, per noi, separare percezione, categorizzazione e giudizio: sono processi che avvengono insieme in automatico e per tenerli separati ci vuole un certo sforzo e la pratica dello sguardo diventa una disciplina da esercitare quotidianamente, consapevolmente e riflessivamente. Tesi: LAVORARE CON LA FAMIGLIA RICHIEDE UNA CONSAPEVOLEZZA EPISTEMOLOGICA, CIOE’ UN ATTEGGIAMENTO INTERROGANTE NEI CONFRONTI DEI NOSTRI PRESUPPOSTI. UNA CONOSCENZA DEL MODO DI FUNZIONARE DELLA MENTE UMANA. Come si è formata in me l'idea di famiglia? Come ho imparato la famiglia? E quindi quali sono i processi formativi più utili per un educatore o un qualsiasi professionista che lavora con la famiglia? Il Modello a cui ci si sono ispirati coloro che hanno scritto il libro è quello sistemico, in dialogo con altri di pari importanza. E’ un modello che mette al centro di tutti i processi umani e non: l’idea di “comunicare” (tutto è messaggio). Ma scegliere un modello è rischioso: potrebbe voler dire escludere altre prospettive altrettanto interessanti. Infine, la metafora dello “sguardo” nella famiglia è parziale: nella conoscenza della famiglia tutti i sensi sono coinvolti. CAPITOLO 1: FARSI L’ORECCHIO: le invisibili partiture della famiglia (Laura Formenti) I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. Albert Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale, in quanto entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva ben precisa. La differenza è che la composizione musicale possiede una partitura esplicita, scritta, appresa e ripetuta consapevolmente. La partitura di una comunicazione non è formulata per iscritto ed è appresa inconsapevolmente, almeno in parte. “L’immagine della partitura invisibile ricorda l’importanza del comportamento che ciascuno utilizza nei suoi scambi diversi con l’altro. Comunicare non è affatto trasmettere informazione da A a B, attraverso qualche canale comunicativo ma comunicare è partecipare a un’interazione complessa. Il modello orchestrale della comunicazione umana ritorna a vedere nella comunicazione la messa in comune, la partecipazione, la comunione (Winkin). Concetto di sistema: siamo abituati a considerare gli individui sempre e solo come solisti, a prestare attenzione alla singola persona e non al contesto (lettura soggettivistica degli eventi umani è coerente all’epoca in cui viviamo centrata sul “mito dell’individuo”= una rappresentazione sociale per cui il senso della vita umana sarebbe tutto legato alle capacità del soggetto di esistere, realizzarsi, avere successo..). Ma per imparare a incontrare la famiglia nella sua totalità, nella sua logica e complessità siamo costretti ad allenare i nostri sensi alla ricerca dell’ecologia, delle connessioni e delle armonie che caratterizzano ogni sistema familiare. Il pregiudizio più radicato nei giovani educatori è l’idea che tutti i comportamenti ed eventi si possano e si debbano spiegare ricercandone le cause o le motivazioni a partire dalle intenzioni, dai valori e dalle azioni dei singoli soggetti. Come abbiamo visto c’è un disinteressamento a quello che accade tra le persone eppure si tratta sempre di processi di influenzamento reciproco. L’approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e quindi sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido e scontato. La famiglia è un sistema. Ma che cos’è tecnicamente un sistema? E’ un aggregato di parti interagenti, ciascuna delle quali può esistere in sé ma è interdipendente dalle altre e dal tutto secondo determinate leggi e regole. Un sistema è caratterizzato da totalità (il tutto è diverso dalla somma delle parti): è un tutto inscindibile, e questo vuol dire che se una parte cambia o viene danneggiata, tutte le parti sono coinvolte. Ogni sistema è omeostotatico: ha un equilibrio che non è fisso, ma è metastabile (si mantiene attraverso un continuo processo di retroazione negativa). Ogni sistema è caratterizzato poi da retroazione e circolarità e da equifinalità (se nei sistemi chiusi le condizioni iniziali determinano l'equilibrio, nei sistemi aperti l'equilibrio è dato dal principio di equifinalità e cioè dal fatto che il loro funzionamento è legato al processo. Questp significa che due sistemi partiti da condizioni iniziali diverse possono raggiungere lo stesso risultato finale e similmente condizioni iniziali uguali possono produrre risultati diversi. Il risultato dipenderà dalla natura del processo organizzativo e dalle variazioni strutturali che in quel sistema si produrranno, anche in relazione alle perturbazioni ambientali). Queste sono tutte caratteristiche che ritroviamo nel sistema-famiglia. La famiglia è una rock band “Farsi l'orecchio” per un educatore significa certo imparare tecniche di osservazione e di conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, ma soprattutto significa assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. La famiglia, per un educatore sistemico, è come una rock band. Questa metafora è molto interessante perché ci permette di capire che all’interno di ogni sistema familiare ogni membro cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà comunque un sound inconfondibile, che noi abbiamo chiamato “senso del Noi”. Ogni familiare ha un timbro unico, personale, e il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano i vari timbri ci dà il Noi. La formazione di una band è coerente con il tipo di musica che vuole creare e analogamente c’è una connessione tra il modo in cui una famiglia è composta, le sue strutture e relazioni, e quello che crea: paradigmi, miti, modelli educativi, storie, benessere o malessere. PER COMPRENDERE UNA SPECIFICA FAMIGLIA SARA’ NECESSARIO ASCOLTARLA ATTENTAMENTE, FARSI L’ORECCHIO SUL RITMO, PROVARE A SUONARCI INSIEME. Entrare nella sonorità della famiglia è necessario per l’educatore, così come per capire la musica bisogna ascoltare un gruppo e non limitarsi a leggere la sua biografia o i testi delle canzoni (entrare nella viva voce del corpo familiare). Una caratteristica della famiglia è la consuetudine, la ripetitività, la ridondanza dei modelli di comunicazione. Provare e riprovare, sbagliare, trovare insieme le soluzioni che convincono tutti: è così che si arriva a suonare insieme. Ognuno cerca di trovare la sua voce, ma l’insieme avrà un sound inconfondibile: IL SENSO DEL NOI (gli strumenti hanno timbri e partiture diverse ma non è la loro somma che dà il tutto ma è il modo in cui si amalgamano e armonizzano). Il senso del noi Come si impara il senso del “noi”? Ogni famiglia si presenta come unità, come una totalità di relazioni portatrici di un’identità, una cultura, una sua logica. La famiglia sfugge dall’attenzione perché come tutto ciò che ci è familiare, in gran parte è percepita come qualcosa di ovvio. Il senso della famiglia è fortemente intrecciato, nel suo divenire, al mondo, alla cultura, al territorio nel quale vive. Il senso del noi appare più complesso della somma di tante prese di posizione individuali, non è solo vissuto. Quindi: per comprendere il senso del noi bisogna osservare con occhi curiosi che cosa accade “in quella famiglia” e in particolare quale rapporto sussiste tra la famiglia “praticata” e la famiglia “rappresentata”: le interazioni reali nella famiglia danno corpo al senso del noi, al di là delle intenzioni dei singoli. Tuttavia gli aspetti simbolici e la costruzione dei significati vanno oltre il dato di realtà, e questo risulta molto utile per il lavoro educativo e trasformativo, che deve superare le visioni egemoniche, di tipo strumentale e individualistico, per recuperare il senso del tutto. La casa, dal punto di vista simbolico è il luogo elettivo del noi. Tesi: il senso del noi si nutre di momenti come nell’esempio in cui tutti stanno bene e cioè partecipano al gioco, rispettano i turni, sono emotivamente sintonizzati. Ma anche quando le danze non sono così felici, un senso del noi appare. E’ determinante il ruolo del linguaggio e la punteggiatura che noi daremo nel comunicare e meta-comunicare sulla famiglia, nel dare senso al nostro stare insieme, ogni volta che rispondiamo letteralmente o simbolicamente alla domanda: “Chi siamo noi?” Bisogna portare l'attenzione sulla struttura che connette tutti gli attori nel gioco. Come osserviamo la famiglia? Se vogliamo comprendere il senso del noi, il primo quesito da sciogliere è “chi è l’osservatore di questa famiglia e quale idea di famiglia sostiene il suo sguardo?” Parlare di famiglia implica presupposti, valori e ideologie. IL SENSO DEL NOI DIPENDE DALLA NOSTRA POSIZIONE NEL SISTEMA: posizione non solo metaforica ma fisica (il punto di visuale rende più visibili alcuni aspetti di altri). Secondo Bateson quando osserviamo un sistema siamo inevitabilmente condizionati a percepire solo un piccolo arco della sua complessità interconnessa. Il racconto non esprime giudizi, descrive azioni concrete (verbali e non), mette a fuoco tutte le persone coinvolte nell’interazione per cogliere il “noi” questi tre aspetti sono essenziali. L’obiettivo non è l’oggettività perché nessuna osservazione potrà essere priva di soggettività di chi osserva. L’obiettivo primario, quando osserviamo, è la rappresentazione estetica: cioè mettere in parole o altri linguaggi quello che si presenta ai sensi. Distinguere la percezione di ciò che c'è, dal ragionamento e dalle interpretazioni. Quando l’osservatore di una famiglia è ingenuo cioè sprovvisto di concetti e metodi osservativi, raramente il suo racconto di ciò che ha osservato ha queste qualità. E’ più probabile esprima giudizi e categorizzazioni. Lo sguardo ingenuo si basa sulla compassione, sull’empatia e sul buon senso. Ma su cosa ci basiamo? Il noi ci appare come un dato percettivo, si vede. Il senso del noi è riferibile a qualcosa che percepiamo con i sensi, con cui risuoniamo emotivamente, cogliendolo in modo sincretico, come una gestalt, un tutto. Per molti operatori, il senso del noi, è poco interessante poiché preferiscono mettere a fuoco oggetti più specifici e chiaramente individuabili: la qualità dell’attaccamento, la capacità di mentalizzare, il tipo di alleanze sono tra gli oggetti più in voga nell’attuale momento storico. Sviluppare una molteplicità di sguardi e di strumenti per analizzare e categorizzare le diverse dimensioni della famiglia è importante, fa parte della formazione di un operatore. DUE SGUARDI: - quello che distingue, analitico, finalizzato, razionale e rigoroso: sguardo tecnico dell’esperto che osserva ed esprime categorizzazioni; - quello che abbraccia e celebra, che riconosce la ricerca di equilibrio e di struttura, sguardo che con- partecipa, risuona, onora la bellezza. Il senso del noi, dell’essere una famiglia, si appoggia su entrambi ma soprattutto nasce dalla con-posizione, dalla danza interattiva e non dai singoli comportamenti. Il corpo familiare Ognuno dei comportamenti della famiglia si muove e si trasforma in relazione agli altri. Non c’è apprendimento che non coinvolga tutto il sistema. Se osserviamo con attenzione e abbastanza a lungo, siamo in grado di rilevare ripetizioni e ridondanze (cioè ripetizioni di mosse, schemi e modelli), coerenze e interdipendenze: sono queste che suscitano la sensazione di essere in presenza di un tutto, di un organismo sovra individuale. La metafora del CORPO FAMILIARE esprime bene l’idea del sistema: il con-porsi degli individui nella danza interattiva non è un accostamento casuale, né la sommatoria di azioni separate. E nemmeno sono le intenzioni dei singoli individui a dare senso alla danza. E’ nella continua interazione che si sviluppa il senso, la famiglia non va mai a dormire. La con-posizione, l’interdipendenza creano vincoli: se uno dei danzatori si sposta o cambia il suo ritmo, anche gli altri dovranno farlo, per mantenere l’equilibrio o ritrovarlo. Anche stare fermi, stare in silenzio, uscire dal campo, sono modi per influenzare il sistema. Non è possibile sottrarsi, una volta che si è nel “noi”; questa lettura sposta l’attenzione dal livello dell’individuo, che pure è importante, alle relazioni. La famiglia più di ogni altro sistema di con-vivenza, struttura l’esperienza e dunque dà corpo ai suoi membri. Più di ogni altro perché i processi familiari avvengono nella quotidianità e riguardano proprio le sfere più immediate del vivere: il cibo, il riposo, il piacere, il sesso, il movimento. La famiglia educa al di là di qualsiasi finalità cosciente o intento educativo finalizzato. La famiglia reale: una coreografia complessa Il noi, nasce dalla famiglia in azione: relazioni reali, regole interattive, abitudini e ripetizioni che la vita familiare impone ai corpi, educando a una certa postura, a un modo di respirare, di camminare, di svegliarsi, di mangiare, non solo i piccoli, ma tutti i membri della famiglia. Questa è la famiglia praticante, visibile, reale e sensibile. Per comprendere la coreografia di una famiglia è importante distinguere tra due livelli: - la descrizione della nostra esperienza sensoriale; - la categorizzazione dell’esperienza sensoriale; La rappresentazione estetica del noi, cioè qualsiasi strumento che possa far vedere l’insieme, è un modo per celebrare le relazioni familiari nella loro complessità. Molti osservatori faticano a distinguere tra l’esperienza sensoriale e le categorizzazioni o astrazioni che loro stessi creano a partire da essa. Possono escludere o ignorare “una quantità enorme di informazioni basate sul sensoriale” e così “perdere il contatto con gli eventi in atto nel campo dell’interazione”. Per questo è importante che l’esperienza di auto-osservazione sia accompagnata. PENSARE LA FAMIGLIA IN TERMINI DI “CORPO FAMILIARE” SIGNIFICA VEDERE LE INTERCONNESSIONI. La famiglia reale si mostra, come se fosse su un palcoscenico, ogni volta che agisce concretamente (ad esempio al momento del pranzo: come le persone sono distribuite a tavola, a quale distanza, chi può avere un contatto visivo e quindi chi può parlare). La famiglia simbolica: il potere dell'oggetto evocativo Altrettanto importante è la famiglia simbolica: le immagini, le storie, i simboli che usiamo per rappresentare la famiglia non sono estranei alla famiglia reale. In molte situazioni c’è corrispondenza, se non sovrapposizione, tra la famiglia reale e la famiglia simbolica. Le rappresentazioni simboliche sono definite da Caillè e Rey “oggetti fluttuanti”: danno forma a qualcosa che trascende il singolo, cioè il sapere familiare, che è mobile, intuitivo e poco formalizzato. Gli oggetti fluttuanti rappresentano il Noi, creando uno spazio intermedio nel quale si può essere creativi e vedere le relazioni in una luce nuova. Non hanno un significato univoco ma propongono un senso del Noi che è dinamico, sempre in movimento. La rappresentazione simbolica materializza le relazioni e convoca la capacità ricettiva dei soggetti, dunque si tratta di un processo che funziona in due direzioni: l’oggetto esterno evoca uno stato mentale e lo stato mentale “metaforizza” il mondo esterno. Si crea una connessione tra il mondo familiare e l’osservatore. Perché ci vuole orecchio Come si impara, dunque, il senso del noi? Abbiamo detto che questo apprendimento avviene per via informale, quotidiana, poco o per nulla riflessiva. Una lettura strumentale e individualistica dei nuovi bisogni educativi delle famiglie porta a interventi che non celebrano il senso del noi, interventi che puntano prevalentemente allo sviluppo di competenze individuali, intese come funzionali alla “soluzione dei problemi”. Obiettivi importanti nel lavoro educativo con le famiglia: coltivare la bellezza e la polifonia, riconoscere le competenze e prendersi cura delle connessioni sono obiettivi importanti nel lavoro educativo con le famiglie. Per celebrare la dimensione sistemica e relazionale della vita familiare dobbiamo sostenere tutti i membri nella loro capacità di suonare insieme per dare forma al noi, sul piano reale e simbolico. Ma per primi dobbiamo essere pronti a riconoscere noi stessi questo “noi”. Non bisogna pensare che il senso del Noi sia qualcosa di monolitico e compatto: è nella continua trasformazione, nella con-posizione dialogica e nel riconoscimento delle differenze (all’interno e all’esterno) che nasce davvero il senso della famiglia. La vita familiare comprende livelli molteplici, ognuno dei quali dovrebbe essere onorato e celebrato: - L’individuo come unità, come voce unica, - Le relazioni io-tu, come possibilità di armonizzare, - Il noi o Assoluto familiare, come totalità che trascende i singoli, - Il rapporto con il contesto sociale, naturale, storico, per evitare dolorose de-sincronizzazioni. Importanza dei linguaggi simbolici che portano a comporre due livelli: - metaforico/immaginativo, - quello della vita reale, della convivenza quotidiana, delle interazioni concrete. Il lavoro simbolico con la famiglia è prezioso, quasi sacro, un’arte da praticare con cura e attenzione, dandosi l’intenzione di ascoltare, di vedere e di comprendere quello che succede, ma accettando a un certo punto che le immagini prendano il sopravvento, perché richiamiamo una trascendenza, qualcosa che è destinato a sfuggirci comunque. CAPITOLO 2: FORMARE LO SGUARDO ATTRAVERSO LE PRATICHE (Beppe Pasini) Di quale famiglia parliamo? Negli ultimi 35 anni in Italia: - sono aumentate le separazioni - i matrimoni si sono dimezzati - le unioni regolari sono calate, aumento riti civili - forme familiari sempre più variegate: coppie mono-genitoriali, coppie omosessuali, coppie senza figli, coppie di fatto ecc - presente la questione della cosiddetta “naturalità” della famiglia centrata sull’unione tra uomo e donna. Oggi il termine famiglia si presta a essere declinato in molte sfumature. La visione della famiglia come qualcosa di monolitico e rigido è ormai entrata in crisi. Il problema è che queste diverse forme familiari non sono riconosciute davanti alla legge e quindi non sono tutelate dallo Stato, che è ancora fermo alla concezione di “famiglia naturale” come unione uomo-donna fondata sul matrimonio. Più che di famiglia tradizionale, converrebbe parlare di una molteplicità di tradizioni familiari. Dietro ogni atteggiamento, c’è sempre una storia che attende di essere raccontata. Come fa allora un educatore a prepararsi ad affrontare uno scenario così complesso? Imparando a problema” alle “storie molteplici, trasformative e generative”. 2) Sperimentare concetti: le teorie vanno rispettate, non riverite L’esperienza va connessa, le informazioni che acquisiamo vanno collegate. Questo ci permette di formulare una definizione di famiglia, anche se solo provvisoria (perché la famiglia cambia in continuazione). Dando nomi alle cose, sottraiamo al tempo, alla relazione, al movimento ciò che perennemente cambia. Quali parole useremmo per definire una famiglia? Siamo circondati da molte immagini retoriche che celebrano la famiglia come luogo felice, sicuro riparo, consolazione, perenne fonte di benessere. Ammettere che non è sempre così, che si tratta anche di un luogo in cui si soffre, si litiga, si viene maltrattati…porta ad assumere una posizione più critica e articolata. “Aprire” le parole per liberarle verso nuove sonorità e costellazioni di significati consente di formulare nuove storie, magari meno consolatorie ma più verosimili. Le teorie non sono lontane da noi, tutt’altro: ce le portiamo appresso. Costruire una definizione provvisoria compiendo un primo passo per connettere l’esperienza e trasformarla in sapere. 3) Pensare ad alta voce Uno sguardo è sempre posizionato e modifica ciò che osserva. Per comprendere il ruolo dei nostri sguardi nell’osservare una famiglia, è utile dissacrare rituali didattici consolidati, invitando gli studenti a pensare ad alta voce. Il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto o rodati da importanti storie professionali comuni. L’educatore in quanto ‘intellettuale pratico’ opera abitualmente in contesti di gruppo. Alla complessità del lavoro educativo con la famiglia in quanto sistema deve corrispondere una complessità di idee e progettualità. Nella formazione, un gruppo che funziona, inteso come mente collettiva, è un buon allenamento per sperimentare questa condizione del lavoro educativo. Se pensare insieme può essere faticoso, costituisce per i futuri educatori un'insostituibile opportunità di ambientamento alla complessità di cui si occuperanno. In gruppo ci si scontra e incontra alternativamente con passioni, indolenze, punti di vista, proprio come avviene in una famiglia o in un contesto di lavoro. L’attenzione e la cura che i membri di un’organizzazione investono nei propri rapporti interni corrisponde alla qualità dei servizi erogati. Lavorare bene in gruppo, interrogando, rielaborando, pensando ad alta voce è dunque conveniente. Conduce ad assumere posizioni di ricerca flessibili e problematizzanti, animate da curiosità e creatività piuttosto che dall’esecuzione di protocolli operativi. Allenarsi a pensare insieme significa incontrare oltre il proprio, il pensiero dell’altro (una transizione essenziale per la crescita intellettiva, sociale ed emotiva). Pensare a voce alta ci porta ad accorgerci del nostro pensiero, a vederlo. Partire da proposte concrete con stimoli che invitano a esplicitare i presupposti per imparare conversando, educa all’auto-riflessività, come prassi e come postura epistemica: una didattica che forma alla conoscenza e alla consapevolezza di sé, nella presa di coscienza del proprio modo di pensare e agire con la famiglia e in famiglia. Più precisamente mira alla conoscenza dei propri pregiudizi, sia nel prenderne coscienza sia nell’assumermene la responsabilità. LA PROPOSTA E’ SEMPRE QUELLA DI CONDIVIDERE IN GRUPPO QUANTO PRODOTTO INDIVIDUALMENTE PARTENDO DALLA PROPRIA ESPERIENZA, PER APRIRSI ALLO STUPORE DELL’ALTERITA’ COLLETTIVA COME PATRIMONIO CUI ATTINGERE. Tra le pratiche per pensare ad alta voce ritroviamo: ideare metafore sulla famiglia, realizzare mappe tematiche per formalizzare un’esperienza, raccogliere e trascrivere interviste narrative, esplorare la memoria familiare chiedendo ai parenti di fare un ritratto (a parole) di noi da piccoli. 4) Trasformare l’esperienza in sapere L’educatore deve apprendere criticamente dall’esperienza, deve attribuirle significato, ciò comporta un cambiamento di visione che rende impossibile pensare come prima e allo stesso tempo fornisce un modello operativo per imparare a pensare. L’attenzione sistemica è piuttosto orientata alle pratiche che l’osservatore o la comunità degli osservatori condividono per attribuire significato all’esperienza grazie al linguaggio, costruendo mappe composte da premesse, culture, valori (è grazie a questo che arriviamo a definire e classificare). Poiché non possiamo evitare di attribuire significati, è proprio questo che va valutato criticamente: il mondo della mente e il mondo delle cose si modellano a vicenda. Per fare questo può essere utile tenere un diario degli apprendimenti, per poter riorganizzare e strutturare in modo personale e organico gli esiti di un’esercitazione o di una conversazione. L’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile e riconoscibile. Riuscire a sperimentare questo passaggio su se stessi è un buon viatico per fare altrettanto con padri, madri, figli e famiglie con cui da educatori si troveranno a interagire, adottando “un approccio basato sulle risorse”. Vedere ogni famiglia come portatrice di risorse, significa adottare un pregiudizio di fiducia nelle possibilità generative, nell’alleanza tra operatore e famiglia, nei suoi sforzi di sopravvivere alle avversità, nella sua energia per reagire alle crisi e creatività per costruire forme inedite di autogoverno, perfino nell’essere esperta nello sviluppare malessere e patologia. Fare una riflessione sulla propria esperienza e su ciò che leggi nel libro permette di rivedere criticamente i propri assunti rendendoli più flessibili e adattabili. Un risvolto di questa pratica è la possibilità di guardare anche la propria famiglia con occhi nuovi. Famiglia diviene stimolante luogo di indagine. NB: fare ricerca sulla propria famiglia è una scelta che va ponderata: un conto è intervistare un padre per chiedergli cosa abbia significato divenire genitore e quali sono i suoi primi ricordi di questa esperienza; altro è se il padre in questione è quello dell’intervistatore. Comporta una doppia presa di distanza: da sé stessi e dall’oggetto di indagine, nel tentativo di mantenere una posizione di curiosità anche verso qualcosa che si presume di conoscere molto bene. Eppure situazioni di questo tipo rappresentano l’occasione per accedere a indizi illuminanti sulla storia della propria famiglia, conoscerne eventi in modo più dettagliato, scoprire nuovi nessi tra passato e presente, vivere situazioni di intimità emotiva con i propri cari, protetti da una cornice di ricerca. Tesi: non possiamo non fare i conti con la cultura familiare di cui siamo portatori e divenire consapevoli di come questa nel tempo ha modellato il nostro sguardo è molto produttivo. Pietre parole: una pratica per rinnovare lo sguardo Educatori si diviene anche grazie alle importanti e indelebili eredità familiari che hanno segnato la vita. Ripercorrerle e interrogarle ci consente di capire che educatori siamo e cosa abbiamo ereditato e quale ricaduta ha sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri. Una pratica molto utile per conoscere meglio l’influenza educativa che un nostro familiare ha avuto su di noi è la eterografia, cioè una scrittura dove ci immedesimiamo in un nostro familiare e ci descriviamo come se fosse lui a parlare. Questo esercizio può anche aiutare a capire perché noi abbiamo deciso di fare gli educatori e che tipo di educatori siamo\saremo (il nostro stile educativo). In un lavoro di gruppo si può poi raccontare le storie scritte o dividersi a coppie per ascoltarsi e chiedere di più della persona evocata: chi era? Quale eredità educative ha lasciato? Cosa rappresenta per te? CAPITOLO 3: ALLA RICERCA DELLE TRACCE. I sensi della genitorialità tra frammenti autobiografici e teorie evolutive (Maria Gaudio) Tracce: un impegno di ricerca La memoria autobiografica, il recupero di ricordi, il riemergere ad un livello consapevole di frammenti di storia vissuta contribuiscono a far comprendere e comprenderci, non necessariamente ed elusivamente nella dimensione cognitiva. Non ricordiamo solo con la mente. Nella memoria autobiografica, nelle storie dice Bruner, ci sono le testimonianze visibili e palpabili di ciò che abbiamo raccolto e conservato, segni iscritti nel corpo, nella pelle, nei sensi, che sembrano dirci che noi e le nostre idee non sgorghiamo mai dal nulla. Tesi: possiamo affermare che la spinta al cambiamento e alla ricerca avviene tutte le volte che non troviamo “una spiegazione soddisfacente dal punto di vista cognitivo, morale, estetico e pratico”. E’ li che costruiamo teorie (cioè le Grandi Teorie, accettate e condivise dalla comunità scientifica e accademica, quelle di cui si legge nei libri). Paul Valèry: ogni teoria è un frammento di qualche autobiografia. Ciascuna teoria è tale solo se ha senso per me, se ha una collocazione nella mia storia, un legame con le mie azioni, se la ritrovo nei miei gesti, la percepisco con i sensi. In questo senso, l’approccio autobiografico ci permette di capire il ruolo della storia di vita nella costruzione del sapere, nei processi di apprendimento, nelle posture che assumiamo, nelle relazioni che instauriamo e nelle motivazioni che ci portano alle scelte di vita e professionali. Ciascuno di noi cerca, riflette, connette, agisce per trovare una spiegazione soddisfacente del mondo, costruendosi la propria teoria locale, una personale visione connessa all’esperienza. Se vogliamo individuare tracce di famiglia, il primo movimento risiede nel volgere uno sguardo curioso e non interpretativo alle teorie così come i singoli le costruiscono, alle relazioni tra saperi familiari e saperi accreditati (la famiglia non costruisce teorie nel vuoto, ma sempre collegate al sistema dei saperi accreditati), ai nessi tra sistemi di concettualizzazioni e sistemi di valori. Obiettivo: imparare a riconoscere l’originalità e la complessità delle spiegazioni elaborate dalla famiglia e in famiglia. Spiegazioni non immutabili, né date una volta per tutte: il cambiamento appartiene al mondo del vivente. Le conoscenze e i saperi che ci caratterizzano sono costantemente sottoposti a verifica: siamo quotidianamente chiamati a rielaborare i nostri saperi, a connetterli e coordinarli, utilizzando strategie volte “alla ricerca di una presa di posizione che meglio permetta di controllare i mutamenti in atto che stanno coinvolgendo simultaneamente i sistemi di concettualizzazioni e i sistemi di valori elaborati in precedenza”. La famiglia, o meglio quasi ogni suo membro, costruisce teorie locali e dai frammenti autobiografici, appare quanto esse siano uniche, originali, complesse, interconnesse alle teorie generali, alla storia familiare, a una traiettoria esistenziale che si muove tra passato e futuro. Qui c’è odore di famiglia Le parole ci attraversano, suscitano i noi empatia o allontanamento, condivisione o spiazzamento ma possiamo andare oltre e scorgere altre tipologie di tracce che ci parlano di filtri creativi: nella rappresentazione estetica ci sono tracce di famiglia. In ogni parola pronunciata risuona, risalta, traspare la nostra soggettiva presenza nel mondo. Si è soliti considerare il linguaggio come denotativo, univoco ed inequivocabile. Foerster parla di linguaggio connotativo, un linguaggio che parla di noi più che del mondo; il linguaggio poetico parla anche di come noi intendiamo il mondo. Il racconto poetico per mette di dare luce alle storie. Che cosa serve per poter incontrare davvero una famiglia? Abbiamo bisogno di una buona teoria e di una buona pratica, interconnesse. TEORIA E PRATICA: se il primo passo del cercatore di tracce verso il riconoscimento della teoria, in quanto teoria locale, il movimento immediatamente successivo va verso l’esplorazione dei nessi che intercorrono tra sapere ed esperienza, tra il pensiero e l’azione, tra l’epistemologia e la metodologia nelle relazioni educative in famiglia e con la famiglia. Una visione radicata è quella che oppone la teoria alla pratica, il pensiero all’azione, la mente al corpo, la cognizione alla percezione ma nell’incontro con famiglia, un incontro non ingenuo, non stereotipato o omologante, un incontro autentico, che curi e diventi auto-cura, è necessario abbracciare una visione ecologica che si focalizzi sui nessi più che sulle separazioni, sulle sfumature più che sulle figure piene, sulla “struttura che connette”. L'approccio autobiografico può fornirci tracce quando restiamo nell'intrinseca complessità delle storie, quando interroghiamo la parola poetica e al tempo stesso connettiamo il frammento con una storia più ampia. I frammenti di autobiografia ci parlano di sensi, percezioni, emozioni e sensazioni, di corpo e di mente, di gesti e di pensieri. Di teorie e di pratiche interconnesse. Il mestiere prevede l’osservanza di regole e l’uso di tecniche Il mestiere necessita di addestramento e apprendistato L’adesione a uno dei due modelli (istruttivo o istintivo) pone dei problemi: il primo premia l’asimmetria relazione e la dipendenza; nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. La contrapposizione tra le due visioni costituisce un problema: entrambe convergono in un’idea di genitorialità come esito finale, raggiungimento di uno stato in cui il soggetto adulto può finalmente esercitare la propria funzione oppure interpretare il ruolo. Il figlio ne sarà il prodotto o l’opera. Entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto, della storia e delle storie (L’essere umano esiste solo in relazione a qualcuno). Nel nostro ricercare tracce di famiglie vi è una terza via: il modello evolutivo-ecologico che fa rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire come è quello genitoriale. In questo modello si opera per interdipendenza tra universale e locale, per cooperazione e conflittualità, per simmetrie relazionali dentro asimmetrie di piani e livelli, muovendosi verso una descrizione doppia, o verso la co-struzione di mondi possibili. Questo modello rende bene l’idea delle tante transizioni che genitori e figli attraversano: un processo evolutivo provvisorio o parziale, fatto di sovrapposizioni culturali,ecologiche e biologiche, punteggiato di adattamenti ed episodi di ex-apation, di continuità e brusche discontinuità = Bricolage educativo (per rendere contro della molteplicità/complessità nell’evoluzione). Descrizione doppia: è uno strumento epistemologico che dà la capacità di originare e discernere modelli di ordine diverso. Es. consideriamo l’interazione tra una coppia. Lei dice “lui brontola, quindi io mi chiudo in me stessa”; lui sostiene “lei si chiude in se stessa, dunque io brontolo”. Sono due punteggiature diverse dello stesso flusso di interazione. Ciò che bisogna fare è cercare di vederle insieme, per cogliere a un livello più elevato la struttura che connette. Il bricoleur: usa arte e mestiere, coordinando quotidianamente la dimensione dell’improvvisazione creativa con la progettazione del futuro, attingendo sia alla capacità riflessiva e teorizzante, sia alla necessità di fare e agire. Il processo genitoriale è complesso, non segue un programma predeterminato basato su strumenti e materie prime o tecniche ingegneristiche, è un bricolage, una rapsodia fatta di ridondanze, flessibilità e creatività. Le teorie evolutive pongono anche noi educatori che andiamo alla ricerca di tracce di famiglia di fronte a un salto che ci porta ad assumere una postura ben più complessa e incerta. La nostra storia bio-culturale ci mostra che l’immaginazione, il potersi pensare in divenire, gioca un ruolo generativo. Il bricolage diventa un’esperienza che mette in movimento, in relazione, collega l’oggi con una prospettiva futura, il presente con la storia vissuta, segnando il passaggio dal separare al connettere. Un connettere inteso come essere-fare-divenire nella relazione, che è la dimensione costitutiva della genitorialità. Tesi: stiamo parlando di genitori che sanno essere artisti e ingegneri insieme e rimodulano continuamente il progetto iniziale attraverso la capacità di: - Muoversi nell’eventualità, nel caso - Accogliere l’imprevisto scendendo nei vincoli - Usare con creatività e flessibilità ciò di cui dispone - Inventare nuove funzioni per vecchie strutture (ex-aptation) - Riconoscere la ricchezza di materiali e tecniche diverse (ridondanza) - Ricombinare in base a ciò che c’è a portata di mano (opportunismo) Il genitore sarà chiamato a risolvere questioni nuove ogni giorno, a misurarsi con la non linearità, il cambiamento repentino, le stasi. E’ la capacità di misurarsi con l’imprevisto. La dimensione della flessibilità diventa una grande risorsa. Riconoscere tracce diventa un atto creativo che interconnette elementi. Abbiamo bisogno di una nuova competenza per incontrare la famiglia, abbiamo bisogno di uscire dal modello che impartisce istruzioni, individua problemi e eroga soluzioni già note, sperimentate e misurate. Allo stesso tempo non possiamo neppure accontentarci di dipingerla, cantarla e danzarla, la famiglia. Abbiamo bisogno di farci l’orecchio, colorare le lenti, toccare con mano, annusare e gustare, ampliare il nostro orizzonte e immaginare mondi possibili e sostenibili, aumentare le possibilità di scelta della famiglia e nostre, alimentare la curiosità, imparare a cogliere le opportunità dell’imprevisto, apprendere lo stupore davanti alla precarietà, cercare la bellezza nell’imperfezione. CAPITOLO 4: INTERAZIONI: osservare la famiglia in azione (Mara Pirotta) L’interazione umana non si ferma al livello puramente verbale, anzi grandissima parte della comunicazione ha luogo attraverso segnali, mimiche, gesticolazioni, posture e altre più esclusive modalità di comportamento. L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare o vedere, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate, e da un metodo che consente di farlo nel modo più accurato ed efficace possibile. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre e comunque un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale, soggettiva e coordinata con una comunità di osservatori. In relazione a cosa si sceglie di osservare e come, la descrizione di quanto è stato osservato avrà un colore specifico e soggettivo. Non è quindi possibile osservare in modo totale né oggettivo; l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. L’oggetto dell’osservazione, non può essere considerato indipendente da chi lo osserva, perché l’atto di osservare modifica o altera in modo incontrollabile il comportamento dell’osservato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore. L’esperienza pregressa di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i “dati” da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. Nel lavoro pedagogico l’osservazione è una vera e propria pratica che richiede (e produce) cura, attenzione e responsabilità, se guardo in un certo modo, so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Auto-osservazione: una pratica nella quale l’osservazione diventa in un certo senso la consulenza stessa. Porta ad altre visioni e altre narrazioni nell’intento di far sì che ognuno, osservando se stesso e i suoi pattern relazionali, riesca a riconoscersi e a stare un po’ meglio. Un esercizio di posizionamento Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia, di genitorialità, di cura, dell’essere figli. Questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza siamo chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. E’ utile permette a queste idee di emergere, attraverso una posizione curiosa e interrogante. Nel lavoro di consulenza con i genitori cerco di offrire loro la possibilità di osservarsi, mettersi in gioco, cambiare posizione e punto di vista, per arrivare a riconoscersi nei pregi e nei difetti, nei vincoli e nelle possibilità, per poter diventare consapevoli di se stessi e della propria modalità di entrare in interazione con gli altri. E’ stato fatto vedere un video prima muto e poi con il suono: sono apparse prospettive e punteggiature diverse. Esempio di una mamma che ha chiesto aiuto per soffermarsi sul suo essere madre. Il sentirsi accompagnata, in questo processo di consulenza, nell’osservazione della propria routine familiare e quotidiana ha offerto a questa mamma la possibilità di riconoscersi e percepirsi in interazione con gli altri membri della sua famiglia al di là delle fatiche e delle paure. Un processo di decostruzione e ricostruzione questo, che l’ha portata da un lato a sentirsi maggiormente consapevole di che cosa per lei significa essere madre, dall’altra a comporre con il proprio partner un’immagine più chiara ed esplicita di che cosa per loro significa famiglia e genitorialità. Come mi vedi? Questo è l’interrogativo con cui molti genitori si rivolgono ad un educatore: vogliono sapere come sono, come quello che loro considerano un professionista della relazione pedagogica valuta il loro modo di essere genitore. Sembrano aver bisogno di calmare la propria paura di non essere all’altezza di un compito tanto complesso come il crescere un individuo che, seppur piccolo, ha bisogni, necessità, diritti e soprattutto una personalità unica. Non sempre capita di neogenitori ma anche genitori che non sono alla prima esperienza nel crescere un figlio ma sembra che qualcosa è cambiato e non è più sotto controllo e gestibile la situazione. ELISA: ha il timore di dedicarsi troppo al piccolo a discapito della figlia maggiore e quindi di non essere in grado di occuparsi al meglio dei due figli. Fase pre-osservativa: durante il colloquio di conoscenza a casa sua, Elisa parla di sé e dei suoi timori, delineando una sorta di scarto tra L’elisa mamma di chiara e l’Elisa di oggi, mamma di Chiara e Marco. In questa situazione di sbandamento il confronto con altri, invece di portare aiuto e sostegno, può far perdere di vista quelle che sono le proprie strategie e il proprio personale stile educativo, rendendo ancora più difficile l’ascoltarsi, il vedersi e il diventare consapevoli delle proprie esigenze, bisogni e desideri. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore, calato però nella concretezza dell’agire quotidiano, delle interazioni che ogni giorno hanno luogo con i figli, nello spazio e nel tempo del con-vivere. Di fronte al bisogno di essere visti e riconosciuti, non solo di questa mamma, ma di altri genitori incontrati, ho pensato che si poteva proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. Il video è in grado di mettere a fuoco le pratiche di cura quotidiana, generalmente svolte in totale autonomia e solitudine, non viste né riconosciute come tali e proprio per questo caricate molto spesso da un senso di forte emotività e fatica. Quindi avere la possibilità di fermarsi a riflettere sul modo in cui fanno le cose, non limitarsi quindi ad agire la cura, ma riuscire a vederla e pensarla, può essere considerato come un primo passo per consolidare, esplicitandola, la propria idea di genitorialità e di competenza. Riuscire, nei momenti di fatica, incertezza e malessere, a prendersi del tempo, legittimarsi a fermarsi e soffermarsi ad osservare e ascoltare, sono atti di cura di sé e dell’altro importanti e imprescindibili. Ma elisa cosa vuole? Un giudizio. Che cosa vuoi mostrarmi? Scopo: dare visibilità alle strategie e risorse che vengono messe in campo nella relazione con il figlio, per poi utilizzare le immagini come base per una riflessione in merito agli effetti delle azioni di cura e ai feedback in circolo tra i diversi partner relazionali. La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo “ditemi che sono un bravo genitore”, ma la risposta, o meglio il percorso che viene portato avanti, è osservativo-riflessivo. Se esiste, un dubbio o un giudizio negativo su di sé, è da quello che parto, perché è da quel dubbio che nasce la domanda di consulenza. E dunque vediamo che cosa c’è che non funziona = questo primo passo invita il genitore in un circuito riflessivo armonico: - da un lato lo sostiene nella sua idea che qualcosa non funziona come dovrebbe, - dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. La metodologia da cui parte la proposta di Mara è il LAUSANNE TRIADIC PLAY (LTP) che, partendo dall’osservazione del triangolo primario in azione, impegnato in un compito strutturato, permette di operare un’analisi delle interazioni tra i componenti della famiglia. Pur ispirandosi a tale metodologia, il setting che ha scelto per le sue osservazioni è la casa (un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansie e timori. La differenza ulteriore dal LTP è che non viene chiesto ai componenti della famiglia di portare avanti un compito strutturato ma vi è una libertà d’azione in modo che faccia emergere in modo più visibile l’unicità di ogni famiglia e le sue competenze. Osservare perché, cosa e come? La comunicazione è il fondamento delle relazioni umane: essa diventa l’oggetto osservativo nei suoi vari livelli, nei diversi stili, nelle svariate modalità. Il fine ultimo è affinare lo strumento, in modo che l'operatore possa migliorare il suo modo di comunicare ed entrare in interazione con le persone di cui si occupa. Cosa osservare: i processi interattivi nei quali la comunicazione si sviluppa, usando come lente il modello e i principi della Programmazione Neurolinguistica (PNL), un approccio che “nasce dall’esigenza di dare origine a una base teorica appropriata per la descrizione dell’interazione”. Comunicazione: è un sistema, qualcosa che è più e va oltre la somma o la sequenza dei singoli messaggi e va anche oltre il livello informativo. Comunicare è un’attività che produce effetti sulle persone che vi partecipano. Comunicare è dunque entrare in un processo nel quale interagiscono diversi fattori: l’identità dei comunicanti, il tipo di relazione che si va sviluppando tra di loro, il contenuto, i modi, il contesto… Programmazione Neurolinguistica (PNL): programmazione, in quanto è possibile scoprire i programmi comunicativi che usiamo per raggiungere obiettivi specifici; neuro, in quanto l’esperienza è filtrata ed elaborata dal sistema nervoso attraverso i sensi; linguistica, poiché le rappresentazioni sono codificate e fornite di significato attraverso il linguaggio. La PNL si fonda su feedback forniti dall’ascoltatore o osservatore, che possono essere intenzionali (coscienti, verbali) o spontanei (inconscio, non verbale come l'occhiata, il sobbalzo). La PNL attribuisce a ogni comportamento un valore comunicativo che, a sua volta, segue la regola dell'equilibrio tra le funzioni psichiche e organiche, perciò rappresenta la migliore risposta possibile per la persona in quel momento. Il film è uno strumento privilegiato per l’addestramento all’osservazione, in quanto: - racconta una storia o più storie, in maniera efficace e in un tempo definito - permette di esaminare uno “spaccato di vita”, dal punto di vista del regista, dei vari personaggi, in relazione alle tematiche trattate. Questa esperienza può essere paragonata alla lettura di un romanzo - consente, ogni volta che serve, di rivedere le sequenze dove le interazioni sono più complesse o più significative e ne permette lo studio Nella letteratura sistemica, la famiglia viene definita come “gruppo di individui con storia”; un gruppo di individui con storia che mentre si fa si disfa, per permettere a ciascuno di sviluppare la propria individualità e quindi realizzare la propria vita: Il film mette in scena proprio questi processi costruttivi e trasformativi. Un obiettivo che gli educatori devono raggiungere è quello di far emergere i pregiudizi personali di ciascuno riguardo al sistema familiare che andranno a incontrare, in modo tale da cominciare a prenderne atto per trasformarli, al fine di arrivare all’incontro il più possibile consapevoli di quanto appartiene all’operatore e quanto, invece, è specifico di quella famiglia. Attraverso il film, o sequenze di fil, c’è la possibilità di condividere un contesto e uno stesso oggetto, che può essere visto con e da vari punti di vista e a più livelli di analisi. Quali film? La scelta dei film o sequenze da proiettare dipende dall’obiettivo. Ci sono due criteri: - il primo basato sul contenuto (trama, temi trattati…); - il secondo legato a situazioni comunicative specifiche che mostrano come si costruiscono e si trasformano le relazioni umane. Per introdurre una riflessione sul tema della famiglia si può chiedere “a casa vostra le persiane, quando arriva sera, si chiudono o si lasciano aperte?” “quando apparecchiate la tavola le posate come vengono poste rispetto al piatto?”. La diversità delle risposte mostra come ciascuno porti dentro la relazione non solo se stesso, ma le proprie abitudini, lo stile della sua famiglia. Per costruire una nuova storia (la nostra) devo pormi in una postura creativa rispetto alla mia. questo è il processo del con-vivere, ovvero il vivere insieme a, che significa portare una visione del mondo, della famiglia, e cercare di costruirne al contempo una nuova. Il processo osservativo I film sono storie, proprio come quelle che le persone portano nei contesti educativi e di cura: narrazioni di situazioni vissute. Le sequenze si possono far rivedere più volte, tutte quelle necessarie perché ciascuno possa attrezzarsi e affinare i propri canali percettivi sulle interazioni comunicative. Per permettere ai futuri operatori di attivare i loro strumenti osservativi, si può chiedere di individuare delle sequenze, studiarne il processo, analizzare le azioni e retroazioni dei singoli personaggi oppure si può proporre una sequenza uguale per tutti: tutti vedono le stesse azioni, ma ognuno le racconterà e commenterà in modo diverso. La visione del film è un modo per chiedere agli studenti di mettersi in gioco. Il film diventa uno strumento di addestramento dello sguardo: si può interrompere e riprendere, tornare indietro, condividere e discuterne. Grazie alla visione di film posso ampliare la mia visuale di osservazione sul mondo e il mio repertorio di azioni, purchè questa visione sia attiva e riflessiva. L’uso del mezzo audiovisivo permette quell’utile distanza che serve per addestrarsi nell’osservare. Il film è usato come strumento di formazione, come occasione di apprendimento e dunque di riflessività, perciò è utile attrezzarsi a non rimanere legati solo alla storia che racconta il regista. Tutti vedono le stesse azioni, ma ognuno le racconterà in modo diverso. E’ particolarmente efficace togliere l’audio: l’immagine è evocative, provoca molte possibili lettura dal punto di vista personale. Il processo osservativo può essere mirato a livelli diversi: • Primo livello: far emergere i pregiudizi: l’immagine è uguale per tutti, l’audio è tolto per tutti, quindi ciascuno in qualche modo proietta un po’ di sé stesso in ciò che vede. Il confronto fra le diverse versioni e punteggiature rende palesi i pregiudizi. Il pregiudizio sostanzialmente è una lente colorata che impedisce la visione della realtà “al naturale”. Il processo di conoscenza dei propri pregiudizi è una postura e una pratica di grande utilità nel lavoro educativo e di cura, che non ci dà la possibilità di fare le “prove del nove”: se non sappiamo quanto ci mettiamo del nostro nell’osservare, rischiamo di attribuire alle persone e alle famiglie comportamenti e pensieri inesistenti. • Secondo livello: ricostruire i processi interattivi e comunicativi tra i personaggi Tolto l’audio si può approfondire lo studio della postura, dei gesti, dei modi di porsi, del modo di incontrare l’altro anche fisicamente, la danza delle interrelazioni… • Terzo livello: affinare le tecniche di comunicazione. L’osservazione può offrire strumenti all’operatore per entrare in relazione con le persone o con le famiglie. La PNL può aiutare un operatore a entrare più facilmente in rapporto, vale a dire costruire quel processo “attraverso il quale si stabilisce e si mantiene un buon rapporto interpersonale di reciproca fiducia e di accordo; è in oltre la capacità di generare risposte in un’altra persona”. Se sono in relazione, allora posso cogliere nell’altro i bisogni, le situazioni, i desideri… La PNL offre strumenti di lettura del non verbale, operazioni che ognuno di noi fa continuamente, ma inconsapevolmente e dunque senza poter scegliere. La capacità di auto-osservazione apre possibilità diverse nel mettersi in relazione: modificare la postura significa invitare anche l’altro a farlo. Una volta presa consapevolezza della mia persona, posso leggere allo stesso modo ciò che accade nell’altro, sempre in un’ottica circolare, di azione e retro-azione. Promuovere la messa in gioco di sé nella formazione La visione del film è un modo, tra i tanti, per chiedere agli studenti di mettersi in gioco. La teoria costituisce un punto di riferimento per la costruzione di una seria professionalità, ma sarebbe utile che fosse sempre accompagnata da micro-sperimentazioni, per permettere a ognuno di imparare e affinare abilità e competenze. Il film diventa uno strumento di “addestramento dello sguardo”: si può utilizzare il film come ABC per la costruzione del processo osservativo, soprattutto del non verbale, all’interno di un processo relazionale interattivo. Che cosa avete visto, come e dove lo avete visto? Sono i passaggi di un processo logico all’interno del quale ciascuno costruisce (e insieme de-costruisce e ricostruisce) il suo modo di osservare. Ma: ciascuno vede e impara in base a quello che già conosce. Gagnè sostiene che si apprende partendo dalle “condizioni interne” (dal modo in cui le nozioni si organizzano” e dalle “variabili esterne” che influenzano l’apprendimento). Facendo crescere la conoscenza, amplificandola e diversificandola è possibile aumentare le possibilità di entrare in rapporto e svolgere meglio il lavoro di cura. Il vantaggio del linguaggio narrativo è che ogni singola interazione può essere mostrata o narrata anche nel dettaglio. Grazie alla visione del film posso ampliare la mia visuale di osservazione sul mondo, il mio repertorio di azioni. Purchè questa visione sia attiva e riflessiva. Sentire e/è osservare Osservare è la stessa cosa del sentire. Posso sentire con le orecchie e con il corpo, anche in questo caso ci vuole un addestramento. Devo essere in grado di utilizzare il canale percettivo primario dell'altro, se voglio riuscire a costruire la relazione e lo devo fare non solo attraverso il riconoscimento, ma adeguando il mio linguaggio, le metafore che posso costruire. Osservare un film mi può rendere più competente nel riconoscere i canali percettivi primari sia dell'altro, sia miei. Grazie all'addestramento sull'osservazione è possibile riconoscere le modalità con cui entriamo in rapporto, mantenerlo per il periodo dell'incontro, adattandosi al canale percettivo dell'altro per poter accedere al suo mondo e sostenerne le trasformazioni. CAPITOLO 6: POSIZIONAMENTI ESTETICI E RICERCA DELLA BELLEZZA (Andrea Prandin) L’ipotesi di cura educativa nella conversazione narrata era che queste persone soffrissero nel non riuscire più a dirsi “Mi piaci, ti voglio bene, ti stimo, tu hai valore” e di riflesso, essendo la famiglia nella nostra cultura una matrice di rispecchiamento, riconoscimento e identità, “mi piaccio, mi voglio bene, mi stimo, io ho valore”. Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e ben raccontati dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con regole semantiche specifiche di ogni micro-cultura familiare accompagna la vita di ognuno. Quindi lavorare con le famiglie significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che reciprocamente i vari membri della famiglia si raccontano per definire se stessi e gli altri. Io come operatore, come mi racconto questa famiglia? E soprattutto mi chiedo: tutte queste storie generano bellezza? (Bellezza secondo Bateson deriva dall'incontro tra un organismo e il suo mondo). Che storie si raccontano? Partire da questa domanda con le famiglie significa avviare un percorso aperto di ricerca e di posizionamento mentale in cui l’attenzione dell’operatore non è volta tanto alla comprensione dei giochi relazionali dell’organizzazione familiare in termini strutturali, quanto a rintracciare le idee, le immagini e l’organizzazione del linguaggio e dei significati di ogni storia raccontata. Spostare l’attenzione dalle DINAMICHE INTERATTIVE a quelle NARRATIVE significa prima di tutto accettare l’idea che STORIE E NARRAZIONI rappresentano uno strumento potente di (auto)formazione e (auto)conoscenza. Significa: - riconoscere alle storie il potere di creare connessioni e strutture, organizzando l’esperienza umana secondo un inizio, un proseguimento e una fine. - riconoscere e accettare che non solo le cose in sé (i fatti, gli eventi, le situazioni) a farci soffrire o gioire ma il nostro modo di raccontarle. - riconoscere ogni storia svelando la dimensione poetica della nostra appartenenza al sistema familiare. Tesi: LE NARRAZIONI SI COSTITUISCONO COME UNA FORMA PARTICOLARE DI CONOSCENZA CHE AGISCE SULLA FORMAZIONE DELL’IDENTITA’ PERSONALE E CHE USIAMO PER DARE FORMA E SIGNIFICATO, VINCOLI E POSSIBILITA’, ALLA NOSTRA ESISTENZA. Ritornando all’episodio iniziale: un aspetto che ingaggia la famiglia nella relazione di cura è lo stupore dei due ragazzi nel ritrovarsi dentro una conversazione che non tratta primariamente dei problemi. Ma l’agire si basava sull’idea di affrontare sì le loro criticità, ma l’operatore si faceva guidare dalle possibilità, dalle loro tracce di riconoscimento, dal loro valore. Il lavoro di cura educativa, consiste nell’introdurre variazioni, proporre sguardi differenti, che i protagonisti posseggono già, seppur addormentati, nei confronti delle loro relazioni familiari, quindi di se stessi e della loro storia, andando a creare “piccole cose belle”, lavorando nella convinzione che esistono sempre tracce, anche minime di bellezza, e che queste possono essere rese visibili dagli stessi componenti della famiglia. SI TRATTA DI UN POSIZIONAMENTO DI CURA CHE PRIVILEGIA LA RICERCA DI BELLEZZA E RISIEDE NELL’UTILIZZO, DELLA COMUNICAZIONE MA ANCHE DI ALTRE FORME COMUNICATIVE ED ESPRESSIVE PER CO-COSTRUIRE SPAZI DI ESITAZIONE E CURIOSITA’ INTORNO ALLE TIMIDE TRACCE NARRATIVE, IN CUI TUTTI I PARTECIPANTI SONO COINVOLTI RIFLESSIVAMENTE ED ESTETICAMENTE. Bisognerebbe ascoltare il tipo di storia raccontata e poi di andare a cercare/attivare, escludendo interpretazioni e spiegazioni che chiudono ma elementi di narrazione ulteriori, molto concreti, che rimettano in connessione la storia raccontata con le dimensioni della possibilità e della bellezza. L’idea di cura educativa orientata alla ricerca della bellezza presente nella famiglia, è proprio nata grazie al lavoro con delle famiglie “multiproblematiche” all’interno di contesti di cura come i servizi sociali e i servizi per il diritto di visita che davanti a numerosi problemi, si è posta l’attenzione a valorizzare ciò che c’era piuttosto che le problematiche esistenti. Un posizionamento estetico nel lavoro di cura Trattare i problemi, partendo dalla ricerca di momenti, emozioni, elementi e aspetti di salute e funzionamento aumenta il numero delle possibilità, articolando la narrazione in una prospettiva più dinamica, salutare ed educante. La proposta specifica e attiva è: si tratta di andare insieme a cercare, con uno sguardo curioso ed esplorativo, tracce di competenza e abilità, ma soprattutto di poesia e di bellezza, di immaginazione e desiderio, per rintracciare e vivificare la narrazione familiare, trasformandola in romanzo. Una postura mentale estetica, ovvero sensibile alla bellezza delle relazioni tra le persone, ma anche tra persone e cose, e case con i loro cari e pure con il loro caos. ASSUMERE UN POSIZIONAMENTO ESTETICO SIGNIFICA GUARDARE E ASCOLTARE CON CURIOSITA’ L’ALTRO; E’ UNA SORTA DI RECIPROCO SPIAZZAMENTO AL SUO RACCONTARSI/RILEVARSI, PER APPREZZARE INSIEME LA SAPIENZA DELLE STORIE E TROVARE COSI’ NUOVE PROSPETTIVE CON CUI RIPERCORRERE L’ESPERIENZA E LE RELAZIONI. Questo modo di posizionarsi nella relazione educativa ricerca il sentire, il sensibile, il vivo e il ri-conoscibile. E’ l’azione di ricerca in sé, lo stato della mente e del corpo, ad essere “estetica” e non l’oggetto a cui si rivolge. Si tratta di pensare la bellezza come un accadimento auto-riflessivo, che è in relazione a noi e ci parla anche di noi. “Che cos’è il bello?” è un oggetto che prende forma, è una storia che si trasforma, perché prende luce, diventa visibile, le si dà voce, viene tracciata, disegnata, scritta o cantata e musicata, e comunque viene scelta dal suo autore” (Puviani). Coltivare la dimensione poetica nella quotidianità, nello sviluppo di uno sguardo che fa di tutti gli esseri umani degli artisti e di tutte le storie familiari dei romanzi. Le parole non bastano: alla ricerca di nuove grammatiche Nel lavoro educativo si scopre presto che la parola e il pensiero strutturato hanno dei limiti, in quanto presentano una forma fin troppo definita e convenzionata che non riesce a “intercettare” in modo esaustivo dimensioni come la bellezza, la complessità e l’autenticità che richiamano lo stato di grazia, l’armonia, l’integrazione, la corrispondenza tra mondo interno e mondo esterno. Insomma, le parole spesso non bastano. Servirebbe usare anche nel lavoro educativo, linguaggi e grammatiche capaci di dare voce ad aspetti della vita umana che non sono totalmente verbalizzanti: il racconto, la metafora, la poesia, e prima ancora i segni pre-verbali, il disegno, il suono della voce. L’idea è quella di ancorare i percorsi di cura al nesso tra immaginazione ed educazione. Fare ricorso all’immaginazione significa utilizzare i linguaggi simbolici, metaforici e narrativi per creare nessi impensati, per riuscire a far con-vivere e comporre elementi apparentemente estranei, per ri-unificare la mente con il corpo. L’IMMAGINAZIONE E IL RICORSO AL SIMBOLO E’ UNA FUNZIONE DELL’ESPERIENZA CHE “LANCIA DEI PONTI, RADUNA ELEMENTI SEPARATI, COLLEGA IL CIELO E LA TERRA, LA MATERIA E LO SPIRITO, LA NATURA E LA CULTURA, IL REALE E IL SOGNO, L’INCONSCIO E LA COSCIENZA” (Chevalier e Gheerbrant). Propendo azioni orientate dalla logica fantastica e creativa è possibile “trafficare” tra reale e immaginario, non per estraniarci dal reale o prenderne le distanze, al contrario, per contattarlo nuova-mente e rimodellarlo. (Un mondo di simboli vive in noi). Generare altre visioni e nuovi punti di vista, per dare maggiore libertà al pensiero. Ogni operatore, scelto il simbolo con cui immaginare, crea un disegno da guardare, con cui conversare, per meravigliarsi, ipotizzare, ma anche vedere e vedersi, fare nuove connessioni e creare aperture. Dentro a questa cornice di lavoro l’operatore assiste, aiuta, accompagna la nascita dei simboli e delle connessioni che essi suscitano, nella profonda convinzione che l’altro, la famiglia, né farà buon uso, il personale uso possibile. Tesi: usare l’immaginazione simbolica permette di accedere in modo leggero e veloce a una dimensione affettiva, emotiva e spirituale verso la quale l’operatore non può che adottare una postura rispettosa (chiedere di disegnare la propria famiglia attraverso simboli è solo uno degli infiniti modi e possibilità che possiamo scegliere per attivare nella famiglia quello che Umberto Eco ha definito un “andirivieni del significato”, per generare una nuova semantica, aprire possibilità. Immagini e immaginazione per suscitare la ricerca della bellezza, per avere cura dell’altro e per attivare cura tra le relazioni. E’ uno strumento estetico di dialogo che può gettare luce tra le persone, tra i familiari, con se stessi, ma anche tra l’operatore e l’idea/emozione di quella famiglia con cui lavora. USARE L’IMMAGINAZIONE E IL DISEGNO E’ UN MODO E UN PRE-TESTO PER ATTIVARE QUESTA DIMENSIONE DEL SOGNO, DELL’IMPENSATO E PIU’ IN GENERALE DELLA COMPLESSITA’ CHE TIENE INSIEME LE NOSTRE RELAZIONI E QUINDI LA NOSTRA VITA. MA: NON SONO NE' IL DISEGNO NE' L’IMMAGINAZIONE DI PER SE’ A GENERARE TRASFORMAZIONE, SE NON INSERITI DENTRO UN CONTESTO DI CURA RELAZIONALE ATTENTO E RIGOROSO. CAPITOLO 7: TRA MICRO E MACROSTORIA: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare (Laura Formenti) Questo capitolo esplora il rapporto tra microstoria e macrostoria, tra lo sguardo educativo e quelli di altre discipline, che mostrano l’influenza del discorso dominante sulle storie singole, sulle vite concrete delle persone). L’approccio biografico e autobiografico, soprattutto quando diventa plurigenerazionale, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia, allo stesso tempo ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quella famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali, dei ruoli di genere (Formenti, 2002). (Il racconto di giacomo a pag 169 mostra la connessione tra cultura familiare e il cambiamento sociale. Narrativa familiare, miti e leggende da 170 a 172. Costruzioni biografiche Le pratiche biografiche e auto/biografiche possono illuminare il nostro sguardo sulle famiglie (Formenti) e sviluppare una cornice pedagogica come possibile alternativa alla contrapposizione di due sguardi (quello psicologico e quello sociologico) che oggi sembra dominare il lavoro nei sevizi e nelle professioni di aiuto. Le storie nella pedagogia della famiglia, possono offrire sia un modo di leggere le trasformazioni della vita familiare sia un metodo di intervento educativo. “COSTRUZIONE BIOGRAFICA” (Alheit 1995): la vita è vissuta in presa diretta, per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente; solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare e viceversa, ci è necessaria “l’immaginazione auto/biografica”, cioè la possibilità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Sul piano della relazione educativa, si tratta invece di riconoscere che l’operatore è irrimediabilmente compromesso, poiché è impossibile essere neutrali e distaccati quando si lavora con le storie, anche per la difficoltà di definire chiaramente la relazione tra chi ascolta e chi racconta. Memorie familiari intergenerazionali L’introduzione degli elettrodomestici nella vita di tutti i giorni e di tutte le famiglie è solo un esempio di come il mondo esterno entra continuamente nel microcosmo familiare. L’impatto della scolarizzazione dei figli è un altro esempio. A ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi, per la famiglia, di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. Lo stesso discorso vale per la medicalizzazione e tecnicizzazione delle cure, a partire dal parto. La continuità delle storie tramandate, consente di conoscere le proprie radici, il racconto della nascita, che appartiene alla categoria del mito e della leggenda e bello o brutto che sia, marca la nostra identità, il ricordo personale, iscritto nel corpo, vissuto e riattivato dal narrare; la riflessività che nasce dal prendere le distanze e fare connessioni (Formenti, 2000). QUINDI: “SE LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA è UN METODO DI AUTOGUARIGIONE E DI AUTOFORMAZIONE CONTINUA, LA MEMORIA FAMILIARE è LA PRINCIPALE RISORSA TRASFORMATIVA R AUTOCURATIVA PER LA FAMIGLIA. DOVE NON ESISTONO PROCESSI NARRATIVI COLLETTIVI NE’ MEMORIA FAMILIARE CONDIVISA , SI SEGNALA UNA SOFFERENZA LEGATA ALLA PERCEZIONE DI UN VUOTO NELLE RELAZIONI, DI UN’ASSENZA DI LEGAMI E DI SIGNIFICATI CHIARI E ACCESSIBILI”. Per dare significato alla vita familiare, per dirci “Siamo noi”, abbiamo bisogno di costruire ricordi condivisi. Le storie che raccontiamo ci aiutano a ricordare che lo scenario cambia continuamente e le soluzioni creative che ogni famiglia mette in atto, a ogni nuova generazione, sono una combinazione di adattamenti e di exattamenti (Gaudio,2008a) che permette di stare al passo con i tempi pur mantenendo un’identità, una coerenza. Per le nuove generazioni, gli effetti della tecnologia sono da interpretare: condiziona enormemente le relazioni che crea ma allo stesso tempo, queste tecnologie, portano in sé la moltiplicazione degli sguardi insieme all’omologazione. Vi sono cambiamenti strutturali del “Fare famiglia”: famiglie monoparentali, delle coppie di fatto, delle separazioni, dei divorzi, famiglie omogenitoriali, che portano alla costruzione di nuovi legami familiari più complessi e creativi. Ma cambia non tanto il “Fare famiglia” ma la “cultura familiare” (cultura: sistema complesso di saperi, ideologie, valori, leggi e norme, rituali quotidiani) che struttura le relazioni in modi ridondanti, ripetitivi e normativi. Mettere l’accento sulla cultura significa affrontare il tema dell’educazione come processo che avviene continuamente nella famiglia, per lo più inconsapevolmente attraverso l’immersione quotidiana nei modelli comunicativi, negli stili di vita, nella materialità dei rituali, dei gesti e dei discorsi. E naturalmente nelle storie condivise. Disordine e incertezza: quale idea di apprendimento per la famiglia? La discontinuità è la cifra della cultura familiare dei nostri tempi. Il concetto di “ciclo di vita familiare” che solo qualche anno fa era molto in voga tra gli psicologi della famiglia, oggi diventa controverso perché è andata in frantumi la regolarità e sequenzialità delle tappe, la loro durata e soprattutto i significati che si attribuiscono ai vari movimenti. Si esce di casa, ma non per sempre. Si crea un legame, ma preservando una forte individualità. I cambiamenti non sono omogenei, dipendono da molti fattori: economici, sociali, geografici, educativi..l'educazione può fare la differenza, rispetto all'impatto automatico e omologante di certi fattori. problema nasce quando il supporto non ha il senso di aiutare a superare la (temporanea) difficoltà, ma stabilisce un obiettivo di cambiamento. Si tende a normalizzare la famiglia. In quanto educatori dovremmo insistere di più sull'apprendimento e sull'evoluzione come chiavi per comprendere le famiglie, il loro funzionamento e le possibilità di intervento. Come si impara in famiglia? In famiglia si impara vivendo. L’apprendere è al centro della vita familiare: riguarda l’intero, i componenti e le relazioni tra loro. Tutti imparano costantemente e reciprocamente. Gli adulti imparano moltissimo dai bambini, anche quando non glielo riconoscono. Una delle affermazioni più importanti di Bateson: è che si può apprendere da qualsiasi messaggio codificato, indipendentemente da chi è l’emittente. Quindi la famiglia educa per definizione, proprio perchè è un sistema di ridondanze, di relazioni circolari e di comportamenti interdipendenti, che danno vita a processi omeostatici e morfogenetici, è caratterizzata dunque sia dalla permanenza che dal cambiamento. Come possiamo rendere visibile, onorare e celebrare la fondamentale capacità della famiglia, cioè quella di trasformarsi continuamente? Solo il “pensare per storie” riesce a restituire questa dinamicità e fluidità. Sembra importante, infatti, che nel rapporto tra le generazioni ci sia un passaggio di conoscenze e di memorie, così come sembra indispensabile una qualche dose di libertà e di creatività rispetto a queste storie, perché le nuove relazioni possano essere generative. Questi processi narrativi sono educativi ma non intenzionali: il modo di apprendere proprio della famiglia è quello dell’educazione informale, indiretta, implicita. Secondo la tesi di Bateson è probabilmente il carattere inconscio e simbolico delle relazioni a consentire che l’educazione familiare sia “ecologica”, cioè rispettosa della complessità del divenire umano. Quelle occasioni in cui qualcuno intende educare qualcun altro in modo consapevole e finalizzato danno origine facilmente a doppi legami e paradossi. La metafora della famiglia come cultura ci invita a indossare i panni dell'etnografo, che per comprendere quella particolare famiglia deve incrociare tre tipi di dati: l'osservazione della famiglia in azione per scoprire le ridondanze nel tessuto delle interazioni, la raccolta delle storie per svelare il mondo dei significati e la raccolta di artefatti, oggetti, disegni e altre creazioni simboliche, per esplorare l'immaginario di quel sistema, la sua metafora generativa, il mondo delle possibilità ancora da sognare. Verso la biograficità: l’esempio della nascita Una famiglia è un insieme di individui, una comunità di osservatori (Maturana 1993) accoppiati strutturalmente grazie al linguaggio che condividono, che è una pratica di con-vivenza e uno strumento di costruzione della realtà. Far parte di una famiglia significa sviluppare un sistema coordinato di storie e dunque condividere una buona parte della “stessa” epistemologia, dello “stesso” paradigma (Reiss, 1981). La vita di una famiglia non si può capire dalla sommatoria delle storie dei suoi membri presi separatamente: dobbiamo capire come le storie si interconnettono e come sono collettivamente generate e trasformate. Quando i contesti e le relazioni si presentano rigidi, vincolanti per i soggetti, le storie si impoveriscono; come educatori abbiamo la responsabilità di creare contesti relazionali nei quali sia possibile narrare storie più ricche. Quando si sono sperimentati setting multipli nel lavoro auto/biografico, non è più possibile pensare alla narrazione come qualcosa di statico, di oggettivo e neutrale che basta ascoltare e registrare. L’APPROCCIO SISTEMICO CERCA DI GENERARE VERSIONI DIVERSE DELLA “STESSA STORIA”, DIFFERENZE CHE FANNO UNA DIFFERENZA, MOLTIPLICANDO SGUARDI E LINGUAGGI. LA PEDAGOGIA DELLA FAMIGLIA PUO’ COSI' CELEBRARE LA COMPLESSITA’ E LA DINAMICITA’ INVECE DI RIDURRE LA VITA FAMILIARE A UNA SOLA VERSIONE. Certo che si può lavorare preventivamente sui contesti in modo tale che producano di per sé storie più ricche e apprendimenti più funzionali. Tesi: si potrebbero prevenire molti disagi e storie difficili con un buon intervento educativo che si prenda cura non solo del singolo soggetto ma dei legami significativi che ha con la famiglia, con il sistema prossimale, con gli operatori. La proposta narrativa (Formenti 2009) può creare le premesse per una cura delle relazioni familiari, quando dà voce alle prospettive di tutti, piccoli e grandi, interni ed esterni al sistema. Il contesto auto/biografico costruisce uno spazio transazionale (Formenti e West, 2010) dove le relazioni sono sufficientemente sicure non solo per raccontarsi, ma per aprirsi a nuovi apprendimenti. Diversamente dai gruppi di auto-mutuo-aiuto, il focus è spostato sull’immaginazione auto/biografica, più poetica che prosaica, più centrata sul sogno del futuro che sulla soluzione dei problemi. QUINDI: NELL’APPROCCIO SISTEMICO LA BIOGRAFICITA’ NON è SOLO UNA MANIFESTAZIONE DELLA SOGGETTIVITA’, MA è SEMPRE INTER-SOGGETTIVA. L’apprendimento si secondo livello, avviene quando si modificano le relazioni cioè quando la storia raccontata dà un nuovo potere d’azione sul contesto di vita (familiare, istituzionale, sociale). UNA STORIA RACCONTATA, IN FONDO, E’ META-COMUNICAZIONE SULLE RELAZIONI IN CORSO (CON NOI STESSI, CON GLI ALTRI, CON GLI EVENTI, CON LE ISTITUZIONI E COSI’ VIA). Attraverso il racconto giochiamo già un ruolo (più attivo), diventiamo autori e attori; ma la conferma esistenziale, l’effetto di testimonianza, dipende dalle retroazioni al nostro narrare, dalle altre storie che suscita, dalla possibilità di combinare tanti punti di vista in modo creativo e giocoso. Tra il micro e il macro, la famiglia Livello intermendio: quello delle trasformazioni nelle relazioni concrete. Le interazioni che accompagnano ogni apprendimento individuale, avvengono a livello MESO: né micro né macro. Nella famiglia, come in tutte le altre relazioni significative, i contesti non sono semplicemente “ambienti per l’apprendimento”, come degli sfondi statici e permanenti entro i quali ci collochiamo e ci muoviamo come soggetto, ma sono essi stessi sistemi evolutivi, co-evolvono con noi. Quindi la vita familiare ha luogo a questo livello, che è connesso sia al macro (che definisce vincoli e possibilità) che al micro (ogni componente della famiglia nella sua unicità porta un’informazione con cui fare i conti). Costruiamo la nostra identità attraverso storie co-costruite e trasformate nelle relazioni con gli altri significativi, cioè nel meso-livello, sia che lo chiamiamo “famiglia”, sia che lo chiamiamo “sistema prossimale di cura”. Spesso la vita familiare chiede molto spesso di cambiare cornice. Questo è possibile perché viene offerta in cambio una cornice simbolica, anche se temporanea, alla quale aggrapparci: E’ il NOI/ASSOLUTO FAMILIARE. PARTE SECONDA AZIONI CRUCIALI NEI SERVIZI: VERSO UN SAPERE INCARNATO, DINAMICO E RIFLESSIVO Le tesi presentate nella prima parte: • il sapere educativo è sempre incarnato e relazionale: fatto di corpi, sensi, interazioni concrete, scambi comunicativi; trasformate di differenze che implicano almeno tre livelli: soggettivo, relazionale, istituzionale; • uso della narrazione: nelle storie c'è un prologo, uno svolgimento, un epilogo. Pensare per storie inserisce il tempo nelle nostre vite; il raccontare è un movimento che genera a certe condizioni un pensiero che muove l'azione. Le azioni cruciali proprie dell'epistemologia sistemica: prendersi cura dei legami e celebrarli, leggere i contesti e allestirne di nuovi, riconoscere le cornici, posizionarsi in modo consapevole, comunicare in modo responsivo, interagire nella reciprocità; • riflessività come postura abituale del professionista, come pratica di cura di sé e dell'altro, la riflessività sistemica è circolare e relazionale: non la singola mente che si auto-interroga privatamente, ma un andirivieni tra sé e l'altro, un dialogo tra fatti e significati, tra azioni e teorie, tra ciò che osserviamo e le conversazioni che possono nascere da queste osservazioni. CAPITOLO 1: MOVIMENTI: IL LAVORO EDUCATIVO CON LA FAMIGLIA (Laura Formenti) Cronen e Pearce con altri studiosi della comunicazione propongono una revisione del doppio legame alla luce del concetto di circuito riflessivo già studiato qualche decennio prima da Bateson. Secondo gli autori però, solo alcuni circuiti riflessivi, che chiamano bizzarri, possono essere identificati come doppi legami, responsabili di disagio fino a sfociare nella psicopatologia; quelli che non creano disagio vengono chiamati circuiti riflessivi armonici. Bateson distingueva in ogni messaggio due livelli di significato, organizzati gerarchicamente: - il livello di contenuto (esempio: parole) - il livello di di relazione (esempio: modo in cui viene pronunciata la parola), che serve a identificare il contesto nel quale il contenuto deve essere interpretato. Questi livelli vengono poi ampliati fino a sei (a partire dal basso): - contenuto - atti linguistici - episodio (una sequenza significativa di interazioni che forma un'unità) - la relazione tra i comunicanti (il noi che li definisce) - il sé o la biografia interna (repertorio di azioni che compongono l'immagine di sé) - modelli culturali. In ogni scambio comunicativo vengono definiti tutti questi livelli, che formano un sistema gerarchico di significati. Quando non si capisce quale dei due sia superiore in termine gerarchici si crea confusione tra i due livelli. Ogni livello può diventare contesto, cioè porsi a un livello gerarchico più altro. La forza implicativa, che agisce dal basso verso l’alto è più debole, la forza contestuale, che agisce dall’altro verso il basso, è più forte e frequente. Con la forza contestuale i livelli superiori constestualizzano il significato di quelli inferiori (se siamo in un episodio di brevi convenevoli, ciò che diremo e come comunicheremo saranno definiti da questa cornice), mentre con la forza implicativa il livello di contenuto può capovolgere la natura di un episodio o di una relazione, e una confusione nella relazione può arrivare a mettere in discussione il senso del sé. Per distinguere i circuiti armonici da quelli bizzarri vengono introdotti i concetti di transitività (ciascuno più diventare il contesto dell’altro senza che si modifichi il significato di nessuno dei due) e intransitività (non è possibile che ciascuno dei due diventi il contesto dell’altro senza che questo cambi il significato). Un circuito riflessivo che può risultare bizzarro per una persona/famiglia può essere armonico per un'altra e quindi è impossibile stabilire a priori se si è di fronte a un doppio legame. Bisogna tenere conto anche che la comunicazione dipende dalla storia degli attori coinvolti nella sequenza comunicativa e non solamente della situazione presente. La teoria che sostiene Formenti è: ogni azione è un fatto mentale = convoca forme di pensiero, sia verbale- relazionale che pre-verbale, intuitivo, immaginativo. Noi sappiamo comunicare, sappiamo rispondere ai messaggi a livelli diversi e uscire in modo creativo dai circuiti riflessivi bizzarri. Ogni educatore lavora su situazioni che sono “naturali” fino a quando non interviene un ostacolo: è nel momento del breakdown, della crisi, dell’errore che si rende possibile e necessario l’apprendimento, il cambiamento e un intervento esterno può essere utile. Molti educatori che lavorano a stretto contatto con la famiglia sono catturati dal linguaggio delle emozioni e sottovalutano gli aspetti cognitivi, i vari livelli di apprendimento coinvolti nel processo. C’è un processo comunicativo fatto di azioni e relazioni circolari, continuamente adattato alle successive prese di posizione e risposte dei singoli. Le famiglie che incontriamo sono divise in vittime e persecutori, persone da proteggere e far crescere, persone da controllare e sanzionare, soggetti di cui prendersi cura e soggetti da istruire perché cambino = la convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma. Un'altra questione è quella dei confini: convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia. Chi coinvolgiamo nell’intervento? In un’ottica sistemica, è “famiglia” l’insieme delle persone coinvolte nella cura, nel problema, quelle che vedono questo bambino, quelle che chiedono aiuto, quelle che danno un contributo nel cercare soluzioni. In molti casi si allarga il contesto dell’intervento coinvolgendo vicini di casa, insegnanti, vicini di casa, negozianti del quartiere e altre persone. Con-vocare: mettere insieme tutte le voci, per ricomporre le polarizzazioni e le fratture, prendendosi cura delle armonie del sistema, e generando nuove sonorità. A volte per poterci riuscire si comincia da un singolo, allargando pian piano il contesto. Si può lavorare tutti insieme o con una parte a fasi alterne. 5. La costruzione del setting: Quali condizioni concrete rendono possibile l’azione educativa? E’ utile istituire un setting policentrico e flessibile. I contesti, per diventare matrici di significati, hanno bisogno di marche ben definite: messaggi verbali e non verbali che dicono “cosa stiamo facendo qui” e accompagnano le eventuali ridefinizioni. Definire un setting come educativo, far capire che “qui ci si prende cura dei legami”, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficili da costruire. Altri scambiano il setting per la sua dimensione pratica: procedure, spazi e tempi dell’intervento, compiti, rituali di ingresso e di chiusura, linguaggi, strumenti operativi, metodologie di lavoro. Ancora una volta non è il cosa ma il come, ciò su cui puntare l’attenzione. Ad esempio: nell’educativa domiciliare si entra in una casa che è già un luogo connotato, dove quotidianamente avviene la vita della famiglia e si giocano le interazioni. Che cosa marca questo ingresso come “intervento professionale”? Alcuni indizi: orari definiti, azioni deliberate, finalizzate, delimitate da regole, meta-comunicazione. E’ molto potente la ritualizzazione, che connota il tempo dell’intervento come uno spazio “speciale”, dedicato alla cura di sé e degli altri. L’operatore all’interno di questo spazio, propone azioni specifiche, che non sono quotidiane per la famiglia: una conversazione, un gioco, un’uscita, un disegno, la scrittura del diario. Offre dunque esperienze potenzialmente trasformative. Pensare il setting, organizzarlo, prendersene cura nei minimi dettagli significa chiedersi continuamente, riflessivamente, quali messaggi si vogliono dare e ricevere, nell’intento di sostenere e accompagnare le trasformazioni delle relazioni familiari, di prendersi cura dei legami, di instillare il senso di competenza, speranza e bellezza nelle situazioni problematiche. Obiettivo: apparecchiare con grande rigore e competenza un setting ben organizzato nel quale i processi comunicativi, i giochi, gli errori, la curiosità reciproca, l’umanità varia delle famiglie e degli operatori possono avere luogo, in modo fluido e flessibile. 6. Il processo: contratto, intervento, valutazione chiusura: L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione, non alla presa in carico, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. L’idea che l’apprendimento familiare debba essere lungo e cumulativo non regge alla prova dei fatti: una famiglia può trasformarsi molto rapidamente. Una domanda da porre molto precocemente è: in base a quali criteri valuteremo gli esiti dell’intervento? Partire dalla fine, cioè da criteri di valutazione, è utile perché la valutazione ci dice a che cosa diamo valore. Che cosa si aspetta il genitore dall'inserimento del figlio nella comunità? Dall'accompagnare il figlio in carcere? Anche dal punto di vista dei ragazzi. I criteri di valutazione dovrebbero essere fissati insieme alle famiglie, tenendo conto dei bisogni, dei desideri e dei punti di vista di ciascuno dei membri; questo consente di avviare proficue conversazioni sul futuro, anche se comporta innegabilmente una fatica, nella revisione delle prassi attualmente dominanti. Il processo è costantemente monitorato attraverso strumenti di (auto)osservazione gestiti dalla famiglia insieme agli operatori. Ad esempio una tabella in cui segnare comportamenti specifici, positivi o negativi, rilevati nella quotidianità delle relazioni familiari, le interazioni intorno a questi comportamenti e i loro effetti. Il monitoraggio in itinere, effettuato ogni 2-3 settimane, mostra i progressi, riconosce le competenze, consente di operare adattamenti se emergono novità. Un contratto è formalmente un documento che sancisce un accordo tra liberi, dove vengono fissati obblighi e diritti reciproci. Per essere davvero onesto dovrebbe esplicitare tutti i vincoli non contrattabili e prevedere comunque un margine di negoziazione per i contraenti. Dal punto di vista relazionale, un contratto è un “sì” che viene chiesto alla famiglia e ai suoi membri. Viene chiesto di aderire a una proposta e di diventarne parte attiva, assumendo una responsabilità. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico -partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. -Usa se stesso come messaggio, usa la propria posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. Provoca apprendimenti e deuteroapprendimenti. -E’ responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feedback, quelli da dare e quelli da ricevere. - Il suo modo di comunicare non è centrato sull'intenzionalità del messaggio (“io so cosa voglio dire e lo dico chiaramente” ma sugli effetti pragmatici (“sarà la risposta che ricevo a dirmi che cosa ho detto, che significato ha la mia azione”). Questa postura epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti: ipotizzazione, circolarità e neutralità sono le linee guida che portano a una raccolta di informazioni sulla famiglia, all'idea molto più sistemica di una conversazione a più voci nella quale si generano informazioni attraverso il gioco delle differenze. Le domande non vengono più poste con l’idea di informare gli operatori sulla situazione familiare, ma sono formulate in modo tale da introdurre differenze che sono spiazzanti per la famiglia e ne ri-orientano il movimento in direzioni impreviste = Domande legittime che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e dunque trasformabili. • L’ipotizzazione consisteva nella capacità dell’équipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazioni della famiglia. Fin dalla prima seduta, serve a iniziare e organizzare il processo di indagine, come una struttura che connette tutti i comportamenti dei diversi componenti del sistema dato che l’ipotesi non è vera né falsa ma solo più o meno utile. • La circolarità, era una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termine di rapporti, cioè di differenze e mutamenti. Le domande circolari vengono poste a tutti i membri della famiglia, perché quello che interessa sono le differenze. • La neutralità si concentrava sulle differenze e sui giochi, l’équipe neutralizzava ogni tentativo di coalizione, seduzione o relazione privilegiata, poiché era interessata a provocare retroazioni o ad accogliere informazioni e non a pronunciare giudizi moralisti di qualsiasi tipo. La linea guida della neutralità costituiva un doppio vincolo terapeutico: i terapeuti riconoscevano le soluzioni adottate dalla famiglia come sensate e allo stesso tempo creavamo un contesto che offriva alternative possibili, ma senza imporle. L’equipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e ingenui, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. L’incontro con le altre prospettive, la loro legittimazione, la discussione aperta, disciplina lo sguardo: mettere insieme diverse letture lineari, superare il pregiudizio, formulare un’ipotesi più complessa che tiene insieme le diverse visioni. Quando una èquipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. La linea guida della neutralità è una qualità emergente dalle azioni dell’èquipe, che sorge come esito di un’alleanza con la famiglia nel suo insieme, una forma di rispetto per ciò che questa microcultura porta nella relazione. Il lavoro d'èquipe è dunque una condizione per poter lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni familiari e immaginare quello che potrebbero diventare. C’è una grande differenza tra: - lavoro terapeutico: i terapeutici incontrano la famiglia (raramente convocano altri soggetti esterni a essa), tra le mura di una stanza una volta al mese (i tempi possono variare), usano prevalentemente il linguaggio verbale per esprimere domande, riletture e prescrizioni, ma viene osservata in seduta anche la comunicazione non verbale. - lavoro educativo: l’educatore lavora a stretto contatto con la famiglia in situazioni di vita quotidiana, si coordina con altri professionisti. Coinvolge persone esterne alla famiglia e può avvalersi di modi non verbali per comunicare. I linguaggi animativi, propri della professione educativa, hanno il potere di convocare tutti, mente e corpo, e di far emergere le qualità sistemiche delle relazioni familiari senza necessariamente nominarle. Secondo Bateson la verbalizzazione e dunque il ricorso al pensiero secondario, nasconde molte insidie. Usare le parole per definire relazioni, emozioni, i problemi è delicato: si rischia di etichettare, si possono generare paradossi e doppi legami, mistificazione (quando la parola nega l’esperienza dell’altro) e fraintendimenti. Dunque recuperare la parola autentica, riappropriarsi di una possibilità di conversare in modi non distruttivi, oppure imparare a meta comunicare non sono punti di partenza nel lavoro educativo con la famiglia, ma obiettivi su cui lavorare. E spesso le azioni agite diventano la base per introdurre un nuovo modo anche di parlare. Per accompagnare le trasformazioni della e nella famiglia e quindi celebrare il movimento e la differenza l’educatore può utilizzare: - domande circolari o ipotetiche - il gioco o linguaggi estetici - limitarsi a creare spazi di attesa, di ascolto, di sospensione e riflessione - creatività, o meglio immaginazione: giocare ruoli diversi, copioni diversi, sognare la famiglia e il futuro..azioni cruciali per la trasformazione educativa. La famiglia non va mai a dormire Ogni azione educativa con le famiglia è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. L’azione educativa basata sull’idea di perturbazione ha qualche chance di essere ecologica se sviluppa una grande sensibilità verso il contesto e verso i processi comunicativi che lo costruiscono e commentano continuamente. La metafora del movimento permette di riconoscere delle forme e quindi non sposa l’idea del caos o del caso, ma di un tutto organizzato. E’ raro vedere operatori che dedicano tempo ed energia a comprendere come si sta muovendo la famiglia nel suo insieme, in relazione ai vari contesti e sui diversi piani della sua esistenza. Rarissimo incontrare entriamo in relazione e i racconti, le immagini, le metafore già presenti dentro di noi. Si tratta di filtri creativi costruiti socialmente, che si frappongono tra il mondo e l’osservatore e consentono di costruire una mappa del territorio circostante. Tale mappa è quella che ci guida nell’azione, inconsapevoli del fatto che la mappa non è il territorio. L’interrogativo sul lieto fine e sulla polarizzazione semantica tra felici e contenti e insieme, è stato d’aiuto lavorando nel servizi per la tutela dei bambini, per evitare di assumere orientamenti e decisioni guidati più dai presupposti dell’operatore che dalla situazione. Più precisamente: per fare in modo che le finalità di lavoro tengano presenti non solo i presupposti dell’operatore ma anche quelli di tutti i soggetti sulla scena e per essere in grado di mettere in crisi ogni possibile visione della situazione. Dal finale al percorrere Proprio come avviene nelle fiabe, dove siamo condotti al lieto fine attraverso diverse vicissitudini negative, grazie al venire in scena di un personaggio magico o alla straordinaria genialità di uno dei personaggi. Come se fosse una favola, ci proponiamo di essere noi quelli che potranno rivoluzionare la storia per arrivare al lieto fine. Il rischio è quello di operare come se ci trovassimo di fronte a una macchina (un orologio per esempio) dove tutto è progettato prima e le relazioni tra i vari componenti sono prevedibili, misurabili, sostituibili, riparabili. Dimenticando la profonda differenza tra: - Sistemi complicati: costruiti da esseri umani che possono essere ricostruiti in dettaglio nei loro componenti e nelle relazioni interne e possono essere determinati dall’esterno. - Sistemi complessi: si programmano da sé, hanno un loro autonomo punto di vista sul mondo e un loro modo specifico di accoppiamento con l’ambiente e che proprio per questo non sono mai conoscibili e controllabili dall’esterno. Mentre nel campo medico: l’anestesista ha la necessità di anestetizzare per creare rapporti in cui vigano le leggi dei rapporti causa/effetto, il lavoro educato che si compie nell’ambito della tutela dei minori non può rinunciare alla dimensione relazionale che è essenziale. Non vige la legge di causa/effetto propria del rapporto tra oggetti. La separazione tra esseri umani non ha mai un significato anestetico, al contrario apre nuove emozioni, nel bene come nel male. E di quel sistema complesso noi ne siamo parte e non ci è dato porci all’esterno. Tesi: nel racconto iniziale, gli operatori credevano ben poco che ci fossero speranze per un finale diverso, che vedesse insieme quella mamma con la sua bambina. Avevano pensato che nessuno ci credesse. Quella mamma invece, ci credeva. Aveva accettato di percorrere una strada difficile come quella comunitaria, eppure ha saputo credere anche a un finale diverso da quel lieto fine con il quale ci volevamo misurare per verificare il successo o il fallimento dell’intervento. Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati L’imprevisto investe anche il funzionamento dei servizi e lo stile dei nostri interventi. Legge n.149 del 28 marzo 2001, sancendo il diritto del minore ad una famiglia, ha disposto la chiusura degli istituti per i minori anche per le conseguenze nefaste all'ospedalizzazione dei bambini: processo di de- istituzionalizzazione e decentramento dei servizi. Già dagli anni 70 si avviò un processo per superare le istituzioni totali e vi erano critiche sugli effetti che esse producevo sulle persone. In Italia: tale processo che investì tutti i servizi sociali e sanitari ebbe avvio in campo psichiatrico sotto la guida di Franco Basaglia che fece abolire i manicomi. Il superamento di orfanotrofi e brefotrofi (anni 80) portò alla nascita delle comunità per bambini e di quelle per mamme e bambini: realtà più piccole, meno rigide, più aperte alle trasformazione, almeno nelle intenzioni del legislatore. Vivere in comunità non è come vivere in istituto ma nemmeno è privo del tutto di elementi istituzionali. Alcuni elementi tipici delle istituzioni totali si trovano anche nelle comunità: - Gestire il potere - Regolare la vita dei singoli e dei gruppi - Assicurare equità di trattamento - Mantenere distacco tra le vite dei professionisti e quelle degli ospiti - Segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo servizio - Presenza dell’autorità giudiziaria che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza. Il processo di de-istituzionalizzazione non si può considerare concluso con la chiusura dell’ultimo istituto, perché nell’intervento di tutela minori, è sempre presente il rischio di porsi in un’ottica istituzionalizzante. Gli operatori devono essere in grado di riconoscerla e fare in modo ad esempio di accogliere il limite non solo come negativo ma come occasione di apprendimento e vedere tutti gli strumenti con significati diversi da quelli istituzionali. Partiamo dal termine tutela: esso non aiuta, può indurre a interventi limitanti e preservativi, chiusi. Invece gli interventi per ogni famiglia possono essere pensati non sulla base della “riduzione del rischio”, ma sul riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono, in ogni direzione esserci evoluzioni (Fruggeri, 1997;Formenti,2000). Rimanere sempre in attesa di possibili sorprese: promuovendo contesti disponibili a fare posto a spiegazioni innovative dell’ordinario che capita. Esempio: mamma che entra in comunità con il suo bambino = da un lato mantiene le autonomie che già aveva raggiunto (lavoro, auto, impegni sociali) quindi vi è la necessità di riconoscere e promuovere le capacità di quella mamma, dall’altro entra in contesto di protezione = Protezione ed evoluzione. Tre interrogativi: Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solitamente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga non può essere considerata secondaria. Ma la dimensione coattiva non aiuta la famiglia a fare un salto evolutivo; si rischia al contrario di contrapporre due fronti immutabili. Dall’altra parte, sottovalutare che ci si trovi in contesti di obbligo sarebbe una mistificazione. Nelle situazioni obbligate si possono comunque individuare e promuovere spazi di libertà. Esempio: di solito il giudice prescrive il collocamento in comunità del figlio insieme alla madre e, qualora questa non aderisca, solo del figlio = questo significa che ogni donna in comunità, pur in una situazione apparentemente obbligata, ha scelto di starci. I genitori alla ricerca di spazi di libertà, pur tra gli obblighi, spesso lo fanno contrapponendosi ai servizi o nascondendosi. Obiettivo: riuscire ad individuare insieme ai genitori spazi leciti e condivisi di libertà. Si tratta quindi per molti genitori di autorizzarsi alla libertà, pur nei contesti limitati. Immaginare comunità dove le mamme possano pensarsi e vivere la loro genitorialità anche all’esterno, in un quotidiano più libero. La gestione delle regole, all’interno della comunità, pur dovendo essere rigorosa, acquisisce un senso molto diverso a seconda di come viene imposta. Intervenire subito o dare tempo? Posizioni contrapposte: “Bisogna fare presto” VS “Diamo tempo”. E’ utile porre in relazione: la quantità del tempo con la qualità di ciò che avviene in quel tempo, soprattutto nelle relazioni. La cronicizzazione non è data solo dal tempo, ma anche dal fatto che in quel tempo non si è riusciti a trasformare le relazioni. Ma: intervenire subito non significa necessariamente sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’intervento. La cronicizzazione può essere provocata proprio da questo modo di vedere le cose. Il contenimento della spesa nella pubblica amministrazione pervade i servizi: ci si trova esposti al rischio di limitare l’intervento, oltre che nella potenzialità creativa, anche nella sua quantità. Categorie di utenza o storie singole da ascoltare? La consuetudine di predisporre modalità di comprensione o d’azione a partire da categorie di utenza non è una strada utile. Liberarsi dall’idea di spiegare i problemi e pensare interventi sulla base di categorie di utenza, sebbene questa strada sia spesso suggerita da esigenze economiche e/o di rigore = una strada che considera già scritte le storie ancora da vivere. L’obiettivo non è arrivare alla giusta categorizzazione, per poter arrivare alla giusta spiegazione e il giusto percorso. Il cantastorie fuori campo Vivere insieme felici e contenti per tutta la vita è indiscutibile una gran bella storia MA è una storia che spesso contraddice la nostra percezione. Il cantastorie l’ha vista così e noi bambini ci siamo accontentati, ma tutti i personaggi potrebbero raccontarla così? Le sorellastre di Cenerentola condividono il finale? Vanessa, ai cui questa storia è stata raccontata mentre si trovava morente in un letto di ospedale, condivide lo stesso finale di Marco, che ha ascoltato il racconto la sera del suo compleanno? Non lo sappiamo e non è la loro condizione a dircelo: sono solo loro a potercelo dire e noi a scoprirlo. Anche nelle situazioni estreme, come nelle famiglie in cui i più grandi sono pericolosi per i più piccoli, la comprensione e la scelta di intervento non possono che venire attraverso un racconto da fare insieme, tra gli operatori e le famiglie (West e Formenti, 2010; Formenti, 2010b). Dei possibili finali anche lieti, occorrerà cominciare a costruire premesse e de-costruire illusioni. E magari saranno anche quelli che nella storia hanno il ruolo di cattivi (Cirillo, 2005) ad essere d’aiuto. Da operatore possiamo prevedere che l’imprevisto potrà far luce sui legami presenti e possibili, sarà probabilmente il vero spazio educativo di quella, di questa nostra storia. CAPITOLO 3: TRACCIARE LE CONNESSIONI: l’ADM come questione di famiglia (Mara Pirotta) La famiglia è considerata come il luogo privilegiato per il benessere dei bambini e delle bambine; essa rappresenta materialmente e simbolicamente l’appartenenza e la storia di un essere umano in crescita, la sua identità. La possibilità di un educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio nel suo ambiente di vita, nella sua casa, costituisce una risorsa speciale a livello educativo e pedagogico, per niente scontata, tutta da interpretare e valorizzare. Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di co-costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. Condizione perché questa trasformazione avvenga è, però, la curiorità: un posizionamento che consente ai percorsi educativi di prendere avvio dalle caratteristiche di quella famiglia, dalla conoscenza della sua storia, con i suoi vincoli e le sue possibilità. L'intervento quindi, pur nato a partire dai bisogni dei più piccoli, non può prescindere dal tenere in costante considerazione il sistema di relazioni complessive che dovrebbero offrire appartenenza e benessere a tutti quanti i membri della famiglia. In questo senso è possibile affermare che l'ADM è una questione di famiglia, in cui tutti sono chiamati a mettersi in gioco. Anche l’educatore, che solo apparentemente lavora in solitudine, si mette in gioco a livello professionale e personale, in quanto il punto di partenza del suo agire è proprio la relazione, l’alleanza possibile con la famiglia. ADM: una riflessione pedagogica tra premesse e definizioni Il termine ADM viene usato per indicare in maniera approssimativa e generica interventi molto diversi, che hanno come oggetto evidente “il minore”, ma poi assumono sfaccettature e connotazioni differenti, dall’assistenza all’animazione, dal sociale all’educativo, al ludico e ricreativo, in relazione al tipo di progetto, agli obiettivi fissati e alle pratiche concretamente messe in campo. La famiglia, secondo la lente che si sceglie, può apparire come figura principale, come sfondo o contesto da tenere più o meno in considerazione, a volte come risorsa, altre come vincolo o addirittura come motivo di sofferenza, difficoltà e disagio, per il minore e anche per l’operatore. ASSISTENZA DOMICILIARE MINORI: posizionamenti, sulle fatiche, i progetti, i desideri e sulle strategie avvertite come maggiormente funzionali per ottenerli = FARE IN MODO CHE TUTTI I MEMBRI DELLA FAMIGLIA SI SENTANO ATTORI COINVOLTI NEL PROCESSO DI DEFINIZIONE DELLE PROPRIE DIFFICOLTA’ E NELLA RICERCA DELLE STRATEGIE PIU’ IDONEE PER SUPERARLE. FORMENTI, 2000, p.1237: “Chiamare in causa tutti i componenti della famiglia in questo lavoro significa dare voce a tutti, riconoscere la parte attiva di ciascuno nel gioco in atto”. TESI: - Il sistema famiglia è quindi al centro dell’intervento domiciliare, come rete di relazioni essenziali nella vita di un bambino o adolescente, un nucleo affettivo da cui è impossibile prescindere se l’obiettivo principale dell’intervento vuole essere il benessere del minore e di tutti coloro con cui si relaziona e che si prendono cura di lui, cioè se l’obiettivo principale dell’intervento è che “tutti stiano un po’ meglio” (Formenti, 2008a, p.4). - Ciò significa anche: smettere di considerare il nucleo familiare unicamente come fruitore e destinatario del servizio; al contrario, la famiglia diventa protagonista attiva di un processo di evoluzione e cambiamento che l’intervento educativo cerca di facilitare e sostenere, ma non può in alcun modo determinare. - Ogni individuo è in sé un sistema complesso di parti interagenti e interconnesse, da riconoscere e celebrare nella sua integrità. Ma allo stesso tempo nessun individuo può intendersi come isolato perché inseriti in una rete di connessioni con altri individui e sistemi di vario tipo che determinano quel che è. - Ogni famiglia ha la sua storia caratterizzata da evoluzioni, crisi, riprese, crescite,apprendimenti = ogni famiglia vive di momenti di maggiore o minore equilibrio e può trovare risorse e strategie per far fronte alla crescita. OGNI FAMIGLIA HA LA SUA BELLEZZA. - E’ utile lavorare non tanto sulle mancanze, quanto sulle risorse; bisogna trovare le strategie per potenziare queste risorse e co-costruire insieme alla famiglia delle risorse nuove, dei percorsi percorribili che la famiglia possa sentire come propri e portare avanti anche quando l’intervento educativo terminerà. - Il processo di co-costruzione del senso dell’intervento necessita di chiarezza e trasparenza: in questo senso diventare consapevoli dei propri pregiudizi e delle proprie premesse, accettare e diventare consapevoli del proprio stato emotivo e dei propri valori sono azioni auto-riflessive necessarie, che per un educatore dovrebbero costituire il punto di partenza e di arrivo di ogni sua azione. LA RIFLESSIVITA’ PERMETTE DI GENERARE E RICONOSCERE LE PROPRIE CORNICI DI RIFERIMENTO, LA PROPRIA EPISTEMOLOGIA DELL’EDUCAZIONE, PER POI METTERLE IN CONNESSIONE CON LE CORNICI DELL’ALTRO, IN QUESTO CASO DELLA FAMIGLIA CON CUI SI E’ CHIAMATI AD INTERAGIRE. Verso la trasformazione Tendiamo a definire educativi tutti i contesti in cui la famiglia entra in contatto con servizi e operatori le cui professionalità hanno come obiettivo il cambiamento. Tuttavia, il contatto tra le famiglie e i servizi non si dimostra educativo, ma anti-ecologico e dis-educativo, quando la famiglia viene svalutata,inascoltata,etichettata. “Credo che il mio lavoro pedagogico sia stato e continui ad essere un lavoro “con” la famiglia, e non “su” o “per” la famiglia (Formenti,2000). E’ maggiormente funzionale allenarsi a diventare un buon osservatore e un facilitatore nel processo di scoperta e riconoscimento delle risorse. Il compito dell'educatore è sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa e alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene ma non credo che questo sia possibile senza il contributo e la partecipazione attiva della famiglia con cui ci si relaziona; è la via perché un intervento educativo domiciliare riesca e diventi uno strumento di facilitazione verso la trasformazione. Adottare una PEDAGOGIA DELLA FAMIGLIA capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. E’ proprio la storia di quella famiglia, le modalità con cui i membri del sistema la raccontano e si raccontano, la base da cui partire per co-costruire nuove storie e nuove narrazioni. Interagire con una famiglia partendo dalle sue risorse e capacità può apparire a un educatore più faticoso, perché implica che l’educatore e la famiglia siano in relazione e cerchino di generare un’alleanza, non facile da sostenere e portare avanti. In gioco non c’è solo l’aspetto professionale ma anche quello personale: anche l’educatore è chiamato a interrogare se stesso, a mettersi in discussione, a modificarsi e questo può generare fatica, sofferenza. Dall’impegno al reciproco riconoscimento e alla reciproca valorizzazione che dovrebbe prendere avvio un intervento educativo come quello domiciliare e non solo. “Nell’ecologia dei sistemi, lavorare con la famiglia vuol dire sperimentare percorsi, strategie, posizionamenti che permettano a tutti gli attori coinvolti di stare bene e di concorrere alla co-costruzione di storie nuove e condivise seguendo il principio “Agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità” (von Foerster, 1987,p.233). CAPITOLO 4: COMPORRE I LEGAMI MESSI ALLA PROVA DAL CARCERE (Lia Sacerdote) Mamma arrestata e Michele (il figlio)? Viene ospitato in una comunità e ci vorrà del tempo prima che riprenderà i contatti con la madre. L’arresto del genitore è un momento topico che spezza i rapporti e mette in pericolo i legami. I primi ad esserne vittima sono i figli e il nucleo familiare. Il carcere è il luogo dove i legami si interrompono per legge, ma è anche quel luogo in cui è fortemente necessario e vitale l’intervento di cura mirato al ricongiungimento con la famiglia: percorso di ricomposizione. È necessario per i figli, che devono poter mantenere i contatti con il genitore detenuto, comprendere ciò che è accaduto, ritrovare i punti cardinali per orientarsi e fare le proprie scelte quando sarà il momento. Il progetto di cura che appare più immediatamente possibile e forse necessario è il ricongiungimento: da quello più immediato, il colloquio in carcere, a quello più lontano nel tempo, un ritorno a casa dove sia possibile riprendersi la vita (in un secondo momento). La carcerazione, determina una catena di eventi che la famiglia subisce e vive per lo più in solitudine, essa sperimenta ostacoli e barriere di distanza con i propri cari, quasi come se questi modi siano gli unici per offrire sicurezza, ma non è così, in quanto questi, portano solo a rinforzare e amplificare le debolezze e gli squilibri. Lia Sacerdote sperimenta la pratica compositiva in carcere; Compositiva: - per i diversi piani psico-socio-educativi che integra. - nell’obiettivo concreto di ri-connettere i legami interrotti. Porta alla fondazione di “Bambinisenzasbarre” un’impresa sociale che oggi impegna vari specialisti (psicologi, analisti filosofi, pedagogisti, tirocinanti, volontari…) che ha attraversato da testimone attiva questo decennio di trasformazioni, nell’ambiente penitenziario e non solo. Una pratica sostenuta da una posizione etico-filosofica che guarda la comunità sociale in una prospettiva solidale e inclusiva, dove la composizione assume il valore di prevenzione sociale e protezione dei diritti dell’infanzia, che resta la parte più debole e più a rischio quando l’ambiente sociale non si fa carico dei suoi bisogni fondamentali: tra questi, il mantenimento dei legami con i genitori è primario (un diritto sancito dalla Carta internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza all’art.9). Non sempre rispettato, nei fatti, dal carcere, luogo di contrasti e di conflitti tra valori diversi. Il contesto istituzionale: il carcere e le sue leggi Il colloquio (tra bambini e genitori in carcere) è un momento prezioso e cruciale per la cura del legame, per questo deve avvenire nelle condizioni migliori. La detenzione ha una ricaduta sociale estesa, coinvolgendo direttamente o meno una parte consistente della società civile e le istituzioni locali per ciò riguarda la politica dei servizi e la tutela dei diritti alla persona. La famiglia rappresenta - non solo un sostegno affettivo importante durante la detenzione - ma l’ambito in cui la persona detenuta può trascorrere parte della pensa, quando vengono adottate misure alternative al carcere (detenzione domiciliare o affidamento in prova ai servizi sociali sul territorio). Quindi, maggiore attenzione deve destinarsi alla conoscenza, tutela e valorizzazione della rete primaria di relazioni, che per ogni persona detenuta è diversa e peculiare. L’Area Pedagogica degli istituti di pena ha tra i propri obiettivi: - la promozione della responsabilità genitoriale: patto tratta mentale = mirato alla riduzione della recidiva e a migliorare il clima e la sicurezza dentro il carcere. Si è osservato con numerose ricerche che il recupero della relazione con i figli, porta la persona detenuta a ritrovare una motivazione al cambiamento e a un recupero della responsabilità genitoriale. Misure alternative alla detenzione a sostegno della genitorialità: LEGGE FINOCCHIARO: - ha introdotto la detenzione domiciliare speciale per le madri (o per i padri in assenza della madre) con figli al di sotto dei 10 anni di età, anche per pene superiori ai 4 anni purchè non sussista la possibilità di commettere ulteriori reati e sia stato scontato un terzo della pena. -Inoltre questa legge ha previsto: l’estensione dell’art 21 dell’ordinamento penitenziario, che permette l’uscita diurna dal carcere con rientro la sera, per recarsi a lavorare, aggiungendo del tempo in più di permanenza all’esterno per accudire i figli minori e la possibilità di usare tale tempo di cura anche in assenza di un lavoro. Questa legge, seppur con difficoltà di attuazione per i particolari requisiti richiesti, rappresenta un evento importante nel quadro complessivo delle riforme dell’ordinamento penitenziario, proprio per l’attenzione specifica che attribuisce al rapporto genitori-figli. Vi è poi stata approvata una legge di modifica nel 2011, andata in vigore nel 2014: nata dall’esigenza di far uscire i bambini dal carcere senza separarli dalle madri: questa modifica consente alle madri con bambini fino a 6 anni di scontare la pena in un luogo diverso, sia esso l’abitazione o una casa di accoglienza. In mancanza di esse, oggi i bambini possono vivere in detenzione con la madre fino ai 3 anni di età; dopo tale data viene imposta la separazione forzata (evento traumatico). Infine, Dicembre 2009: circolare dell’Amministrazione penitenziaria rivolta a tutto il personale addetto ai colloqui (nominata “Circolare del sorriso”) perché tra le linee guida che contiene c’è anche l’invito a sorridere, nell’intento di sollecitare un ambiente più adatto alla presenza dei bambini e attento ai loro bisogni, quando si recano in carcere insieme ai familiari per incontrare il genitore. Non va dimenticato che nonostante i grandi sforzi di umanizzazione delle relazioni nel carcere e di adeguamento degli ambienti e dei comportamenti, la cultura carceraria, le strutture, le prassi abituali, incidono in modo determinante sulla possibilità di prendersi effettivamente cura dei legami e di rispondere appieno ai bisogni dei bambini e delle famiglie. Un intervento a più livelli La mediazione è lo strumento chiave da mettere in campo nello scambio relazionale con i genitori detenuti e i loro cari, con il personale penitenziario e con gli altri operatori. Una mediazione che permette a tutti di comunicare: una comunicazione dove ci si sente tutti più scoperti, più parlante. L’esperienza del carcere è l’esperienza della separazione, che tocca il corpo e la mente, e forse separa ulteriormente moltiplicando le separazioni possibili. Il carcere è il racconto della separazione: quella dai figli è forse la più dolorosa. L’attenzione mostrata nel capitolo va innanzitutto al bambino, seguendo l’ipotesi che la sanzione penale, interrompendo i rapporti affettivi, intervenga come un fatto traumatico nella sua vita. I figli, attori “invisibili” che subiscono scelte e regole dettate dagli adulti, diventano l’anello debole di una catena di eventi che li priva della risorsa più importante (sappiamo quanto sia cruciale e influente la relazione con i genitori in tutti i passaggi di sviluppo, sul piano affettivo, cognitivo e morale). Nel prendersi cura delle relazioni familiari si mette al centro il benessere del figlio, sapendo che questo non è raggiungibile indipendentemente dal benessere del genitore e di tutta la rete degli altri adulti. Bisogna agire a più livelli: - attività di carattere psico-pedagogico in carcere - le azioni di rete a livello locale, nazionale e internazionale. Il mantenimento della relazione durante il periodo di carcere razione è riconosciuto come: - diritto del bambino al legame fondamentale per crescere - diritto/dovere del genitore ad assumersi la responsabilità e continuità del suo ruolo = la tutela della riunioni sono principalmente due: l’esplorazione dei bisogni dei figli, come comprenderli, come leggere certi comportamenti, come comunicare con loro, come utilizzare il tempo del colloquio e il tema della sofferenza: dei figli e propria, in cui il gruppo aiuta a superare le paure (laboratori sulla maternità o paternità per la rielaborazione di temi e problemi comuni rispetto al proprio ruolo, in prospettiva di un progetto di re-inserimento). - punti di ascolto: colloqui individuali di sostegno al genitore, da cui parte il percorso di accompagnamento e presa in carico della singola storia genitoriale.  Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere, collegamento coni servizi psico-socio- educativi del territorio (ASL e enti locali).  Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile, con l'intento di modificare lo sguardo sul genitore detenuto, perchè possa essere considerato cittadino a pieno titolo e destinatario dei servizi alla persona previsti dal territorio. CAPITOLO 5: POSIZIONARSI NEL CONFLITTO: l’educatore a Spazio Neutro. (Andrea Galimberti) La parola conflitto richiama immediatamente l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà e si scontrano in modo simmetrico. Dal conflitto possono nascere conseguenze: positive o negative (sofferenza, violenza..) E in famiglia? Allo stesso modo, in alcune famiglie il conflitto assume termini e proporzioni da generare sofferenza in uno o più membri, in altre è visto come un tabù da evitare a tutti i costi e proprio questo evitamento può dare origine a problemi…ma nella maggior parte delle famiglie il conflitto è affrontato normalmente come un fatto della vita, anche con humor e creatività, e “usato” per fare passi avanti significativi nelle relazioni e nello sviluppo individuale. Come posizionarsi? Spazio neutro E’ nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra il bambino e il genitore o adulto di riferimento per lui significativo, in quelle vicende famigliari in cui questo bisogno non è rispettato, a causa di conflitti intrafamiliari o situazioni di malattia e disagio. I servizi “per il diritto di visita e di relazione” diffusi in molta parte del mondo occidentale, devono larga parte della loro diffusione a un mutamento di sensibilità che riguarda, da una ventina d’anni circa, le relazioni tra genitori e figli e l’idea stessa di infanzia; si tratta di un mutamento che ha permesso l’avvio di un graduale processo che pone al centro dell’intervento pubblico e privato il diritto, riconosciuto al minore, del mantenimento delle relazioni con i propri genitori e con altre persone affettivamente significative. Molti stati recepiscono nel proprio sistema giuridico la dichiarazione dei diritti dell’infanzia (ONU, 1989). Le famiglie che giungono al servizio sono invitate dal Tribunale per i Minorenni o dal Tribunale Ordinario in modo coatto attraverso provvedimenti (decreti) nei quali l’autorità giudiziaria intende sostenere e/o controllare la relazione tra adulto e bambino in un luogo protetto. Nella storia di queste famiglie, dunque, a un certo punto entrano in gioco i servizi: qualcuno valuta che l’equilibrio raggiunto dal sistema famigliare sia disfunzionale a uno sviluppo sano e sereno di uno più dei suoi membri (figlio). Molte famiglie sono invitate perché stanno vivendo una separazione altamente conflittuale. In questi casi, i figli vengono affidati al padre o alla madre e si trovano coinvolti nelle dinamiche tra i genitori, che chiedono loro di schierarsi. E’ quindi faticoso per loro trovare uno spazio proprio per mantenere un legame e un contatto sereno con entrambe le figure di riferimento. In queste situazioni si pensa che “un luogo neutro, cioè un luogo terzo non appartenente a nessuno dei due contendenti, può facilitare i genitori nel riconoscere il bisogno/diritto del bambino a veder rispettati i suoi affetti”. Al servizio spazio neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto che renda possibile il mantenimento del diritto di visita e di relazione del bambino. L’obiettivo di lungo termine è quello di lavorare affinchè questi possa mantenere i contatti con entrambi i genitori in un clima che non sia pregiudizievole per la sua crescita. L’équipe del servizio può essere costituita da professionisti di stessa formazione o provenienti da aree differenti della relazione d’aiuto. Il lavoro è svolto in stretta connessione con i colleghi della Tutela Minori che in genere riceve dal tribunale la titolarità della presa in carico della famiglia segnalata e con altri professionisti coinvolti dal decreto (es: terapeuti). Rispetto all’incarico ricevuto, Spazio Neutro deve rendere contro attraverso relazioni scritte al Tribunale che ha emesso il decreto. Alla famiglia dunque viene prescritto di collaborare con Spazio Neutro e con i vari professionisti della rete che si viene a costituire. Questo rappresenta una possibile difficoltà: coloro che sono stati invitati, possono incontrare difficoltà nell’accettare l’imposizione e possono, rifiutarsi di vivere la relazione in uno spazio semi pubblico, sottoposto a osservazione e valutazione. Seguendo l’epistemologia sistemica è più probabile che il cambiamento avvenga quando si contribuisce ad aumentare il numero delle possibilità tra le quali può scegliere il sistema. La sfida è quella di riuscire a innescare processi di apprendimento a partire dalla crisi che ha portato all’ingresso nel servizio. Il percorso a Spazio Neutro prevede diversi tipi di interventi: • Colloqui individuali con i genitori (nella maggior parte dei casi, visto il livello di conflittualità, risulta impossibile organizzare colloqui congiunti) • Colloqui con i minori • Incontri protetti (effettuati alla presenza di un operatore) tra il bambino e il genitore escluso per effetto del conflitto o ritenuto potenzialmente dannoso. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Ricercare una rappresentazione estetica, sensibile e immaginativa del conflitto significa sia proporre concretamente alle persone con cui lavoro la ricerca di una rappresentazione alternativa del problema (ad esempio attraverso il disegno), sia ascoltare le metafore, le immagini che emergono spontaneamente nei loro racconti, come parole chiave che rintraccio nel testo che l’altro mi porta = CAMBIARE IL LINGUAGGIO E’ UN’OPERAZIONE CHE IN SE’ MIRA A CAMBIARE LA RAPPRESENTAZIONE DEI FATTI. Spesso si assiste a racconti saturati di attribuzioni di colpe: idee perfette ridotte a una definizione minimale assoluta e senza tempo che perdono la qualità di storie cioè di trame che connettono aspetti diversi e complessi di una dimensione temporale. Spiazzare la conversazione attraverso l’utilizzo di linguaggi estetici e richieste “a tema” può mettere l’altro nella condizione di diventare osservatore della propria storia assumendo una posizione differente rispetto a quella strenuamente ripetuta. Ad esempio: ad un primo colloquio disegnare il problema e la sua soluzione può portare differenze nella storia confezionata. Disegnare il problema e la soluzione. La comprensione intelligente: verso una teoria del conflitto Le punteggiature delle narrazioni, i modi in cui i racconti sono riportati, le rappresentazioni estetiche sono elementi diversi ed eterogenei che si aprono nel corso delle conversazioni. Da tutti questi elementi costruiamo una teoria locale della situazione, ognuno dalla propria prospettiva. La disposizione alla pensosità è la condizione necessaria affinchè l'esperienza si trasformi in competenza. Il conflitto è uno di quei concetti astratti che si vivono e si strutturano attraverso metafore: Metafora del bambino: caos nella sua vita (fiume inquinato), dove riportare ordine attraverso la giusta ri- collocazione dei ruoli (pattumiere differenziate). Madre: porta il conflitto come un ostacolo enorme e apparentemente insuperabile, che però potrebbe essere ridimensionato a un puntino. E’ possibile farlo cambiando prospettiva? La signora risponde di sì ma non sa come. Il padre: descrive il conflitto marcando il passaggio da un prima in cui poteva stare col figlio all’oggi, dove invece non può più vederlo. Nel suo disegno la soluzione immaginata sembra un “ritorno a prima”, quando poteva essere padre: oggi infatti si disegna come figlio ritornato dalla propria madre. Quale idea del conflitto stanno costruendo gli operatori che seguono la famiglia? La mappa del conflitto offerta dalla Tutela Minori è una diagnosi di “Sindrome di alienazione genitoriale” (PAS), un modo di leggere le situazioni conflittuali tra ex coniugi che sembra accreditarsi sempre di più negli ultimi tempi. Per la PAS Gardner propone una serie di possibili soluzioni fino a spingersi a ipotizzare un allontanamento del bambino dal genitore alienante e un collocamento forzato presso il genitore alienato. Questa mappa presenta anche i suoi limiti in quanto categorizza la situazione famigliare offrendo una “codifica” secondo alcuni sintomi primari, che per gli operatori appare chiara, ma fa perdere di vista l’originalità e la peculiarità della situazione che sta vivendo questa famiglia. Porta a trascurare le attribuzioni di significato, le storie che i protagonisti delle vicende incarnano, porta a chiudere la curiosità, l’immaginazione, la fantasia dell’operatore. Questo è il problema di ogni diagnosi. Può essere interessante accostare l’uno all’altro, in termini di descrizione doppia i diversi modi di definire la situazione, nel linguaggio metaforico inventato dai protagonisti e nel linguaggio diagnostico che proviene dagli osservatori esterni. L’azione deliberata Per favorire il cambiamento bisogna creare un contesto e mettere in campo azioni che producono nuove possibilità di “vedere”. Caruso propone la pratica dell’ALTRAVISIONE come possibilità di mettere le persone in nuove posizioni rispetto a sé, alla propria storia ed emozioni, alle sue proprie relazioni. Caruso dice che il suo scopo non è cambiare la persona o il suo comportamento, ma costruire insieme possibilità concrete di assumere novità che affianchino al noto, assumere una nuova prospettiva. L’altravisione/supervisione è una figura pedagogica che sta sullo stesso piano ma che, attraverso uno sguardo esterno, permette di introdurre differenti punti di vista, di offrire nuove storie, nuove punteggiature al fine di mettere in movimento quelle bloccate. L’operatore può utilizzare numerose metodologie e strumenti per fronteggiare tali situazioni:  Il primo è cambiare linguaggio: ovvero cambiare metodo per far spiegare alla famiglia il proprio problema come per esempio usando metafore o disegni;  Il secondo metodo utile per allargare il contesto d’ azione dell’intervento e comprendere maggiormente le problematiche, è ampliare lo sguardo: ampliare lo sguardo verso la famiglia di origine attraverso il “ Genogramma familiare”, in questo caso, l’attenzione non è solo posta sugli utenti presi in carico ma anche sulla parentela. Generare differenze a partire da ciò che si vive, si prova e si pensa, e non fare proprie quelle proposte da un operatore o imposte dall’alto secondo un paradigma istruttivo, è un passo verso un autentico apprendimento. DUE COSE IMPORTANTI: 1. Moltiplicare le storie significa proporre e occasionare nuove punteggiature e versioni della realtà che vanno ad arricchire, integrare, re incorniciare le versioni iniziali, fonologiche, statiche, chiuse su sé stesse (Formenti). 2. La negoziazione sui contenuti e sulla relazione in corso è ciò per cui comunichiamo. Una negoziazione che, nelle relazioni di cura, non ha come fine la costruzione della Verità, il monologo, ma la cura della relazione: la sua definizione, la sua evoluzione, il suo scioglimento, in funzione dei desideri, bisogni, valori, obiettivi dei partecipanti (Formenti). Attraversare il conflitto in modo generativo L’operatore in questo caso affrontato, è coinvolto nel sistema strutturato sul conflitto. Non ha a disposizione la soluzione ma sempre e solo una teoria locale, contingente, in continuo divenire. Una teoria messa alla prova da eventi e situazioni sui quali non esercita alcun controllo. Agli occhi degli educatori, la famiglia può diventare il luogo dove si rovina il lavoro fatto al Centro: in questo passaggio è cruciale il lavoro di gruppo con i colleghi nella riunione d’équipe e nella supervisione. Senza lo sguardo dell’altro, il suo rispecchiamento, senza il confronto delle idee, è molto difficile riconoscere i propri pregiudizi e schematismi mentali. Alcuni raccontano che il pregiudizio si è sciolto naturalmente nel momento in cui il rapporto con la famiglia si è approfondito e hanno potuto scoprire il grande desiderio dei genitori di fare il meglio per i loro figli. La risposta alle delusioni è la speranza, la capacità di rinnovare la propria fiducia nelle possibilità di miglioramento delle persone. Questa però necessita di un passaggio nella maniera di rappresentarsi la famiglia. “All’inizio questa famiglia, veniva percepita come uno scoglio, c’era quasi il rifiuto a dover collaborare, mentre con il tempo c’è stato l’accettarla per quello che era e trarre ciò che poteva essere utile ad Alessandra”. “Ad un certo punto mi sono resa conto che vedere questa famiglia come qualcosa di cui volersi liberare, (….) , non era utile, perché questa famiglia c’era, e quindi andava accolta e gestita” (Anna). Un’altra educatrice scoprì di avere uno sguardo troppo ingenuo sulle dinamiche familiari: questo non le aveva permesso di rendersi conto della situazione di violenza che stava avvenendo in casa. Anche questo sguardo è frutto di un pregiudizio, forse derivante dall’idealizzare a priori la famiglia come “porto sicuro”. I confini della famiglia Il tema dei confini del sistema familiare ritorna diverse volte: la famiglia nel nostro modello culturale è uno spazio privato, chiuso anche fisicamente dalle mura di casa, dove avvengono i rapporti intimi, personali, connotati dalla dimensione affettiva e perciò forse meno manifestabili. Oltretutto le mura di casa sono quelle entro le quali gestire i problemi. Entrare nelle case, nei rapporti familiari per svolgere interventi di mediazione è vissuto spesso con timore: oltre all’idea di varcare uno spazio privato, gli educatori esprimono il timore di entrare in contatto con un mondo in cui i confini non sono chiari né delineati, perché molti aspetti del sistema familiare non sono visibili. Attraverso l’affermazione “ Ci siamo presi la responsabilità” Lucia testimonia un passaggio interessante: è come se questo tipo di intervento esuli dal mandato degli educatori, sia quello istituzionale sia quello che essi stessi si sono dati. Gli educatori riconoscono di essere parte di un sistema complesso di relazioni, che inevitabilmente influenzeranno. Quindi possono provare ad influenzarlo deliberatamente. “Fortunatamente lo spiraglio si è trasformato in un’apertura e abbiamo combinato un appuntamento. Ci siamo trovati quindi a mediare tra due posizioni che inizialmente si riaffermavano nel loro reciproco silenzio: gradualmente, con piccole mediazioni una parte e dall’altra, si è ricostruito un ponte che poi ha portato a uno scioglimento vero e proprio, ovvero a lacrime e un abbraccio profondo, forte, prolungato tra i due che da allora hanno ricominciato a parlarsi e a rifrequentarsi”. Le emozioni provate durante le varie fasi dell’intervento: all’inizio: timore/paura = utilizzato per l’obiettivo educativo: quindi non è qualche cosa che blocca o fa scappare ma qualcosa che rende prudenti e delicati. La comprensione interviene nell’automatismo dell’emozione e genera una risposta nuova. L’emozione è per prima cosa riconosciuta (consapevolezza di sé), poi utilizzata, cioè messa a disposizione della propria intenzionalità educativa che fornisce la direzione dell’intervento. Le proprie relazioni familiari Il contatto con le famiglie sollecita il ricordo o la riflessione sulle proprie esperienze familiari. Questo contatto immaginario tra mondi familiari può dare origine a percorsi (auto)educativi in due direzioni: - l’esperienza positiva di comunicazione con le famiglie del Centro porta nuovo valore e spessore alle proprie relazioni familiari - Il contatto con situazioni di conflitto riporta alla memoria i conflitti della propria storia familiare. La sua esperienza personale le permette innanzitutto di connettersi empaticamente con le dinamiche che osserva nelle famiglie del Centro. L’atto educativo consiste nell’offrire ai ragazzi e alle famiglie un punto di vista diverso, che colloca i confini in un orizzonte di senso più ampio, all’interno di una vicenda personale e relazionale di crescita. Quest’atto, è anche profondamente auto-educativo per l’educatore. In entrambi i casi vediamo realizzarsi l’idea di “educarsi per educare” o “educare per educarsi”. Differenze d'età Nel nostro usale percorso formativo viene rinforzata l’idea che l’educatore sia più “grande” dell’educando. Dal genitore che rilascia la paghetta settimanale, al datore di lavoro che assicura lo stipendio mensile, il controllo della risorsa denaro è una forma di potere attorno alla quale ruotano relazioni educative e non. In questo caso il consueto rapporto tra generazioni è completamente invertito: il “giovane” controlla i soldi del “vecchio” = “Noi non ci fidiamo di te”. All’inizio: imbarazzo Poi: è stato superato pensando l’intervento in una prospettiva più ampia L’educatore vede il punto di partenza (in questo caso l’utilizzo non funzionale alla crescita dei soldi assegnati dai servizi) e un possibile punto di arrivo (una capacità più autonoma ed equilibrata di gestione delle risorse finanziarie) = E’ SOLO LA COMPLETEZZA DI QUESTA VISIONE CHE DEFINISCE EDUCATIVO L’INTERVENTO = una visione che determina un passaggio mentale nell’educatore : è costretto a spostarsi dall’imbarazzo iniziale a una posizione nuova, che mette a fuoco meglio il suo ruolo e le sue possibilità d’azione. L’altro aspetto di assimetria è dato dalla capacità dell’educatore (saper gestire le risorse finanziarie), che la famiglia non ha e che viene condivisa nel processo di mediazione. Questo secondo passaggio (condividere una capacità, un sapere) da solo non avrebbe un potere educativo, se non accompagnato dal primo (acquisire una visione più ampia). Nella mente dell’educatore Il percorso di consapevolezza che abbiamo descritto si avvale degli strumenti della PTM. Vengono definite alcune pratiche di cura della relazione e quindi di sé, che possono essere riassunte nello slogan “Educarsi per educare”. Risposte automatiche Se l’educatore reagisce in maniera automatica a una serie di stimoli, come può l’interazione educativa avere un carattere intenzionale (Tramma, 2003)? L’automatismo della risposta pone grosse domande di senso all’agire dell’educatore, in particolare rende necessario un costante lavoro di auto-addestramento che sveli queste risposte automatiche e introduca una pausa (UNA COMPRENSIONE) tra lo stimolo e la risposta, creando uno spazio nel quale sia possibile ampliare le proprie possibilità di scelta, e offrire dunque una risposta diversa. Comprendere lo stimolo (ovvero “prenderlo con sè”) fa riferimento in parte alla capacitò di riflettere sull’intervento educativo, trovando cornici più ampie che permettano un’interazione più orientata; in parte indica uno stato psico-fisico-emotivo che l’educatore può ricercare nel vivo dell’interazione educative, una condizione di attenzione all’altro e a sé che permetta di riconoscere l’insorgenza di una risposta automatica e scegliere se utilizzarla o meno. E’ uno stato da allenare e ricercare. Tra l’attivazione dell’area celebrale che produce la risposta e la risposta stessa, esiste un intervallo di tempo, che altri neuro scienziati individuano proprio come lo spazio del libero arbitrio: la capacità di scelta degli uomini risiederebbe dunque proprio nella capacità di riconoscere e sospendere le risposte automatiche. L’idea di comprensione è strettamente legata alla capacità di allargare la cornice interpretativa nel “qui e ora “ della relazione educativa, nella dimensione emotiva e corporea dell’incontro con l’altro. Linterprete Studiando i casi di pazienti epilettici, Gazzaniga scoprì che la parte sinistra del cervello fornisce costantemente spiegazioni plausibili, ma spesso inventate, a quanto viene elaborato e agito nell’emisfero destro, che non ha la capacità di pensare o comunicare. Gazzaniga ha dato il nome di “interprete” a questo meccanismo, che è in grado di influenzare anche la memoria. L’interprete: - costruisce spiegazioni anche sulle interazioni educative, sulle motivazioni degli eventi e dei processi comunicativi, sulle cause dei comportamenti ecc.. La consapevolezza di ciò può aiutare a porsi in una maniera critica verso le proprie “facili interpretazioni” e ad allargare la soggettiva rappresentazione della realtà. Morin (2001) elenca gli errori della conoscenza umana: di percezione, intellettuali. Nella pratica educativa tutto ciò comporta la necessità di sviluppare e allenare un’attenzione vigile per il modo in cui ci raccontiamo gli eventi (comunicazione interna), per i presupposti delle inferenze logiche nostre e altrui, promuovendo un’attitudine di sospensione del giudizio e di esplorazione dei significati che ognuno di noi dà alle situazioni. UN ATTEGGIAMENTO EPISTEMOLOGICO CHE SI FONDA SULLA RICERCA ATTIVA DI QUELLE NARRAZIONI CHE APRONO SPAZI DI COMPRENSIONE E DI AZIONI NELLE RELAZIONI. ANCHE L’INTERPRETE PUO’ ESSERE EDUCATO. Una pratica di consapevolezza nella relazione Proviamo a sviluppare una pratica attraverso due idee-strumenti utilizzati dalla PTM: - OSSERVAZIONE DI SE’: possono essere visti come sestanti, il cui utilizzo è in grado di fornire - LA MEDIAZIONE: una posizione, nel grande mare delle relazioni educative con sé stessi, con gli altri e con la vita. L’osservazione di sé L’esercizio dell’auto-osservazione consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso sé. L’attenzione è in realtà divisa, perché nella relazione educativa, mentre osservo me stesso, osservo e porto attenzione anche all’altro. L’auto-osservazione “suscita una nuova coscienza di sé che ci permette di decentrarci nei confronti di noi stessi, quindi di riconoscere il nostro egocentrismo e di prendere la misura delle nostre carenze, delle nostre lacune, delle nostre debolezze”(Morin, 2005, p.84), ma anche delle nostre strategie, capacità e punti di forza. L’esercizio prevede: - Registrazione neutra di quanti più dati possibili su noi stessi (Cosa) - Tentativi di interpretazione dei dati ( Interrogarsi sul Come) per arrivare a una ipotesi verosimile sul Perché. - Incominciare a modificare la risposta psico-emotiva automatica. Caratteristica fondamentale dell’osservare è la NEUTRALITA’ ovvero la distinzione tra: - Dati: elementi di realtà pura che l’educatore seleziona e mette a disposizione dell’educando come elementi neutri, cioè privi di segno e pregiudizio, affinchè egli li interpreti con assoluta libertà associativa e possa, riutilizzarli per infinite interazioni - Informazioni: dati cui l’educatore ha già imposto, in maniera indiretta, una determinata forma in base all’esperienza pregressa avuta realmente o percepita tale. Sono dunque dati caricati di un segno ben preciso, di una connotazione di valore derivata da un pre-giudizio. Il processo di consapevolezza nella direzione del dato, si configura come uno strumento utile per cercare di svelare i filtri che applichiamo per interpretare la realtà. Riuscire ad evidenziare il dato ha un valore generativo di grande forza: permette di utilizzarlo in una infinità di modi diversi. Un corretto processo educativo prevede che l’insegnate mostri all’allievo come utilizzarli in piena libertà. La mediazione La mediazione è “l’azione che permette l’incontro dei saperi tra educatore e educando affinchè si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest’ultimo” (Paoletti, 2008, p.97). Il processo di mediazione nella PTM viene riassunto nella cosiddetta “legge dei 100 passi”: detta 100 la distanza iniziale tra educatore ed educando: il primo compie anche 99 dei passi, pur di riuscire a trovare il luogo della comunicazione (l’azione-comune). Da quel luogo è in grado di stimolare l’altro a fare dei passi nella sua direzione: anche un solo passo manifesta la sua crescita. La singola famiglia viene accolta da un’educatrice e un’infermiera. Nel primo colloquio di conoscenza reciproca si valutano insieme i tempi e i contenuti degli incontri, che si svolgeranno all’interno del Centro Psico Sociale. Durante il percorso vengono valutati insieme ai familiari le opportunità di allargare l’invito anche al figlio. L’intero gruppo di lavoro periodicamente si ritrova per condividere le tematiche, le emozioni, le riflessioni che di volta in volta gli incontri con le famiglie fanno emergere e per decidere e valutare come e in quale direzione proseguire. Le storie I familiari che hanno incontrato in questi anni si presentavano nella maggior parte dei casi attraverso una ripetizione lamentosa, sempre uguale, sempre la stessa, di un copione che, per quanto doloroso potesse essere, offriva il vantaggio di ricondurre la loro tragica esperienza entro una dimensione di “canonico e ordinario” (Bruner, 2003, p.57), di comprensibile e accettabile. E’ faticoso allontanarsi dal copione, è doloroso dare un nome alle cose, alle emozioni. Non è indagando le criticità di una convivenza, ma proponendo un nuovo modo di parlare e di pensare alla situazione che si può aprire una possibilità diversa di stare con il proprio familiare. Facilitare l’espressione libera e autentica delle risonanze di tutti (Rezzara e Cerioli, 2004) permette di condividere, pensare e dare un nome alla propria esperienza, o semplicemente di raccontare i desideri inconfessabili perché poco adeguati al ruolo di genitore. La narrazione biografica (Bruner, 2003) può diventare una via per rimettere in modo queste storie, ricominciare a condividere con gli altri i propri significati emotivi e cognitivi, oltre che conoscere altri significati e altri punti di vista. Diventa una pratica di pensabilità, confronto e riflessione in cui si può cominciare a interrogarsi sulle scelte e sulle posizioni prese. I genitori sono portatori di un punto di vista parziale. Nella narrazione i soggetti compiono un atto di visibilità (Formenti, 2000) rispetto a sé stessi, di riconoscimento, di identificazione della propria posizione rispetto agli altri membri della famiglia. Ognuno sceglie quale storia raccontare non solo per spiegare, ma per comprendere (e far comprendere) il proprio modo di vedere le cose = non è quindi solo una descrizione, è una rivisitazione della propria storia (Formenti, 2000), una versione che esprime un punto di vista legato a un contesto. Proprio per questo può avere infinite interpretazioni e quindi offrire infinite prospettive. La rifocalizzazione, mirata a un’autocomprensione delle proprie scelte, di come è stato gestito il dolore e l’inevitabile cambiamento, apre possibilità di apprendimento, tanto più interessante in quanto effettuato a partire da ciò che meglio si conosce. Un accompagnamento irriverente Chi narra ci diventa meno estraneo perché ci ha trasmesso una parte di sé = questa familiarità permette di adottare come stile cognitivo una curiosità “irriverente” che permette agli operatori di rendere elastico e flessibile il loro modo di comunicare. “LA CURIOSITA’ ci aiuta a continuare a cercare descrizioni e spiegazioni diverse anche quando non siamo in grado di immaginarne altre” (Cecchim in Formenti, Caruso e Gini, 2008, p.138) = un intervento educativo che esce dalla logica bisogno-risposta proponendo una pratica riflessiva, di auto-formazione, di apprendimento, che diventa un atteggiamento cognitivo verso il proprio human becoming. “E’ possibile intendere la genitorialità come processo improntato a un poter-divenire, plurale, creativo, unico, contingente, (…) caratterizzato da processi evolutivi di co-costruzione” (Gaudio). Il fine non è l’adattamento ma la mobilitazione delle risorse per dare forma a mondi possibili. Gli interventi con le famiglie sono stati e continuano a essere diversi, costruiti negli obiettivi e nella modalità con chi ci sta accanto. Chi ha saputo mettersi in gioco ha colto anche il vantaggio di una prospettiva che aiuta a percepire, capire e agire sugli eventi, rinforzando la capacità di lettura di sé e della situazione. Un bilancio provvisorio Molti sono i familiari che hanno lasciato questo progetto/intervento, perché interessati a soluzioni immediate o dopo aver dimostrato, come loro avevano predetto, che non sarebbe cambiato niente. Alcuni abbandoni sono stati determinati dl fatto che questo progetto non ha ancora trovato un suo riconoscimento istituzionale e culturale: nel Servizio Sanitario, l’oggetto da gestire è la malattia e gli interventi considerati necessari sono prevalentemente quelli che potenziano la famiglia come luogo di assistenza, non quelli che coinvolgono le famiglie, rompono il loro isolamento, cambiano la natura del rapporto tra utenti e servizi. In un contesto fortemente dominato dal modello medico è difficile distogliere lo sguardo dal paziente designato. Il lavoro con le famiglie si è rilevato “un’impresa ad alto rischio, complessa e delicata” (Formenti,,2000, p. 144). Le storie che i familiari ci raccontano parlano di relazioni, di identità, di ricordi che ci dicono chi sono stati, chi sono e chi potrebbero essere. In queste famiglie “l’aspetto fondamentale è la perdita del controllo sulla propria storia”. L’effetto della diagnosi è di “creare, congelare, stabilizzare un sistema in una determinata organizzazione, senza tenere conto che essa è solo una delle tante possibili” (Boscolo e Cecchim, 1988, p. 21). La dimensione narrativa ha permesso ad alcuni familiari (quelli con cui siamo riuscite a “co-costruire una direzione di senso” (Formenti, 2000, p. 22) di rivedere i propri modelli relazionali e trovare nuovi adattamenti funzionali non alla malattia, ma a piccole o grandi trasformazioni delle storie individuali e familiari. Il senso che ogni famiglia trova è diverso: c’è chi ha usato questo luogo come possibilità per essere ascoltato e ascoltare, che per prendere le distanze dallo stigma del disagio mentale, consentendosi in questo modo di pensare a nuove possibilità relazionali per uscire da un isolamento sociale nel quale si erano confinati oppure creano gruppi di auto-mutuo aiuto, associazioni di familiari, invii in terapia familiare). L’obiettivo è quello di predisporre un luogo per prendersi cura delle relazioni ma manca uno spazio fisico ben definito e riconoscibile da tutti come il luogo dedicato all’incontro con le famiglie. Dover ogni volta negoziare uno spazio e contrattare con altri i tempi e i modi di utilizzo non aiuta un lavoro come questo, che già deve confrontarsi con i limiti di ogni intervento pedagogico. Capitolo 8: APPARECCHIARE CONTESTI DI APPRENDIMENTO PER PROMUOVERE COMPETENZE (Cinzia Bettinaglio, Simona Lo Verso, Laura Rosti) Degli educatori hanno organizzato dei laboratori, pensati per famiglie prese in carico dai servizi sociali, nei quali si sperimentava attraverso attività formative le relazioni educative e il rapporto genitori-figli. Questi incontri hanno favorito la conoscenza reciproca delle famiglie offrendo strumenti adeguati per far percepire con maggior consapevolezza le difficoltà ma anche la fiducia nelle proprie capacità portando i singoli soggetti a tendere lo sguardo oltre, a osservarsi più attentamente, a identificarsi e a cogliere la specificità di ognuno, riconoscendone il valore e la qualità. Durante il primo incontro avvengono le presentazioni: presentarsi come educatrici può essere un punto di forza (altri operatori sono già conosciuti, per queste famiglie, tutte in carico ai Servizi sociali). Durante il primo incontro gli obiettivi e le ragioni del laboratorio vengono esplicitati e condivisi: • educare è difficile, essere genitori e figli oggi è più complesso che in passato, è normale essere in difficoltà • il gruppo di famiglie, genitori e figli insieme, è pensato come aiuto reciproco, incontro e confronto di idee, riflessioni, modi di stare insieme • proporremo attività da fare insieme, mirate a ragionare sui temi educativi, sulle richieste reciproche tra genitori e figli • siamo tre operatrici perchè qualche volta faremo tre gruppi, composti separatamente da adulti, bambini e adolescenti. Viene chiesto anche alle famiglie di presentarsi e dire che cosa li ha convinti a partecipare. Perché un laboratorio - Un luogo dove sperimentare, provare ad agire in diretta, attraverso delle attività formative, le relazioni educative e il confronto tra genitori e figli : quindi non solo riunioni o discussioni tra adulti MA UN POSTO VIVO E VIVACE DOVE ADULTI, BAMBINI O RAGAZZI, OGNUNO NEL PROPRIO RUOLO, PROVINO AD OSSERVERSI E PARLARSI DEI LORO MODI DI STARE INSIEME. - Un laboratorio rivolto a famiglie già in carico ai servizi sociali del territorio, con genitori già dichiarati in gravi difficoltà rispetto ai compiti educativi e di cura, seguiti dal servizio Tutela Minori. Obiettivo: favorire processi di inclusione del disagio nella normalità, chiamando le famiglie a un lavoro insieme, non a partire dalle loro difficoltà, ma dalle loro risorse, se pur a volte atrofizzate, povere e residuali. Il lavoro di riparazione parte dal rilevare le mancanze, cerca di supplire ai deficit, introduce correttivi, inserisce sostituzioni. Ma i “cattivi genitori” (Cirillo, 2005) non sono tali 24 ore al giorno e quindi si tratta di trovare le parti buone e funzionanti, farle uscire allo scoperto, incoraggiarle, sostenerle e se possibile arricchirle = Un laboratorio dove produrre esperienze in cui i partecipanti si sentano attivi, coinvolti e competenti Il progetto stato condiviso con la Società dei servizi che gestisce la Tutela minori e in collaborazione con gli assistenti sociali e gli psicologi dei tre punti erogativi disseminati sul territorio. Sono loro infatti a individuare tra le famiglie in carico quelle a cui proporre il laboratorio, sono loro a informare le famiglie e inviarle al primo incontro. Lavorare in tandem con gli operatori della Tutela è necessario, oltre che per costituire i gruppi, anche per monitorare in itinere la risposta delle famiglie. Sembra indispensabile parlare e interrogarsi, tra operatori diversi, sulle famiglie definite a disagio, in difficoltà o multiproblematiche, sul loro modo di “fare famiglia”. - Luoghi di incontro dove il fare e l’essere famiglia sia sperimentato direttamente e condiviso con altri (una delle fatiche che tutti i genitori attraversano è l’isolamento, la privatizzazione del compito educativo e la solitudine che questo comporta. - IL LABORATORIO SI PROPONE COME UNO SPAZIO PUBBLICO DOVE POTER ESIBIRE GLI STILI EDUCATIVI E SPERIMENTARE I SUOLI FAMILIARI SENZA RIPETERE NECESSARIAMENTE GLI STESSI COPIONI CHE CARATTERIZZANO IL PRIVATO DI OGNI FAMIGLIA E CHE CAUSANO CORTOCIRCUITI RELAZIONALI; CIO’ RICHIEDE LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DI GENITORI E FIGLI INSIEME E, ATTRAVERSO UNA CONDUZIONE RISPETTOSA, AVVIA IL CONFRONTO PER GLI UNI E PER GLI ALTRI, ALL’INTERNO DELLA SINGOLA FAMIGLIA E TRA LE FAMIGLIE. L’esperienza offre, in questo modo, la possibilità a ogni nucleo familiare di “vedersi”; non, però, nello sguardo dell’esperto di turno: è il gruppo che da dignità, dentro le dissimmetrie, alle opinioni dei piccoli come a quelle dei grandi. LA FINALITA’: è quella di rendere un po’ più dinamica e gradevole un’immagine di famiglia che si ipotizza statica e probabilmente, dato il lungo permanere di questi nuclei dentro il circuito dei servizi sociali, anche esteticamente disarmonica. Non si hanno obiettivi di cambiamento e ne ci si aspetta la risoluzione dei problemi. MA: si vuole offrire a ogni famiglia, attraverso il gruppo, la possibilità di sperimentare forme di comunicazione inedite tra adulti e con i figli e un’esperienza di condivisione (Winnicott, 2005). favorire sentimenti di piacere e benessere: chiave per far percepire con maggiore consapevolezza le difficoltà, ma anche la fiducia nella capacità di attivare risorse, di affrontare cose difficili, in qualche modo di potercela fare = condizioni per permettere di aprire domande e interrogativi sui ruoli dentro la famiglia e sulla quotidianità e perché dal gruppo ognuno potesse portarsi a casa anche indicazioni, suggerimenti e consigli. (Coinvolgimento attivo dei partecipanti) Sono stati curati tutti i materiali in modo che fossero esteticamente piacevoli, perché si percepisse la cura, il pensiero, il valore del progetto. Sono state curate le asimmetrie e dissimmetrie agendole: dividendo talvolta i genitori dai figli, assegnando compiti diversi secondo l’età, curando la comunicazione perché fosse comprensibile a tutti e concordando i tempi di lavoro perché fossero sostenibili da tutti. La possibilità di lavorare in tre ha permesso di suddividere le attività: conduzione condivisa e anche la progettazione = Famiglia professionale. Secondo gruppo: dove si sono avuti meno incontri e tre famiglie nuove sono state inserite dopo la pausa estiva, lo sguardo non poteva essere ancor esterno al gruppo, ma poteva essere esterno rispetto a ogni nucleo familiare. Sono stati invitati a restituire gli uni agli altri, come uno specchio, l’immagine che ognuno si era costruito. La chiusura risulta faticosa per entrambi i gruppi, che manifestano il desiderio di continuare, di “non finire mai”. E’ necessario esplicitare che alcuni percorsi finiscono, e va bene così, significa che si è arrivati fino in fondo e se dispiace vuol dire che sono stati importanti e piacevoli. Valutazione delle esperienze Quali indicatori per fare un bilancio di queste esperienza? Le presenze e le assenze: in entrambi i gruppi una metà è stata assidua, mentre l’altra metà altalenante. 4 famiglie hanno abbandonato il percorso che è risultato anche per qualche adolescente faticoso (l’opposizione caratterizza questa età). Il livello di partecipazione, di scambio, il clima emotivo e la capacità di elaborazione sono stati diversi: nel primo gruppo sono andanti gradualmente migliorando; nel secondo sono stati disomogenei, in relazione ai contenuti emersi e agli stimoli proposti. Le esperienze emotive degli operatori sono state di volta in volta elaborate grazie ad un attendo lavoro di comprensione dei significati, realizzato all’intero dell’equipe e grazie alla consapevolezza che dietro ogni azione, anche di attacco, vi fosse una comunicazione da interpretare. E’ apparso necessario: PERCHE’ IL GRUPPO DIVENTI LUOGO DI APPRENDIMENTO, CHE SIA CHIARO DA SUBITO ISTITUIRLO COME GRUPPO DI LAVORO. LA STRATEGIA PER AFFRONTARE ANCHE I MOMENTI PIU’ FATICOSI E’ COMUNQUE QUELLA DI MANTENERE “LA MENTE CAPACE DI COMMUOVERSI E FARSI SORPRENDERE” (NERI, 1995). Le tracce sedimentate Negli operatori dei servizi e nel territorio Gli operatori dei servizi hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove la famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio. = un modo di avvicinare la genitorialità non a partire da ciò che la caratterizza in senso deficitario, ma per come si esprime. La tracce rimane per il momento ancora esterna al lavoro diretto degli operatori, però è entrata nelle loro rappresentazioni la possibilità di offrire l’esperienza del laboratorio. Se il territorio non ha assunto l’onere economico di dare continuità a queste modalità di lavoro accanto a quelle tradizionali, ha però chiesto al privato sociale di reperire le risorse per poter replicare l’esperienza offrendola a nuovi nuclei familiari. Nelle famiglie Il laboratorio non è un luogo terapeutico, ma si avvicina molto alla normalità, sollecita la capacità dei singoli di stare in un contesto sociale con piacere, permette di fare un’esperienza in larga parte positiva, accanto ai propri familiari, mette in luce le competenze e i ruoli di ciascuno. Per il futuro Lavorare CON le famiglie, e in alcuni tratti dei percorsi PER loro, ha significato per gli educatori innanzitutto avere due attenzioni: - quando ci si avvicina, prima di avere degli obiettivi dovremmo avere in mente riconoscimento, rispetto e dignità come presupposti della relazione con l’altro, sui quali si può cominciare a prefigurare il lavoro. - il lavoro con le famiglie presenta un grosso ostacolo: l’idea di buona famiglia o di buon genitore e il mito del cattivo genitore sembra creare sempre più genitori disorientati che si chiedono incessantemente se stiano sbagliando o cosa devono fare = lavorare con le famiglie significa sfatare queste monumentali rappresentazioni, nell’uno e nell’altro senso : la capacità di essere un adulto di riferimento per i piccoli non sta nel fare o dire “la cosa giusta” ma nella capacità di sbagliare e poi provare a raddrizzare il tiro. Aprire domande. Sarà necessario pensare dei pensieri che non siano solo la conferma delle nostre aspettative e riposizionare i sentimenti di delusione, rabbia, impotenza, stanchezza dentro una ricerca di significati possibili. Questo è un movimento bilaterale, da fare insieme operatori e famiglie, quando si troveranno sul terreno scivoloso e scomodo della relazione d’aiuto. Non si ritiene importante che i significati che si attribuiscono alle cose siano particolarmente elaborati, colti, complessi e simbolici. Potranno essere anche pratici, immediati, semplici e perfino poveri. L’importante è che esistano, che siano nominati o rappresentati per diventare quel senso comune che si va costruendo insieme, attorno all’oggetto che ci sta a cuore, cioè la crescita e l’educazione dei bambini. Lavorare con le famiglie significa trovare modalità e strumenti innovativi perché possano trovare luoghi pubblici di parola, cioè luoghi condivisi, attraversati da legami vitali, e così uscire dal problema citato all’inizio, cioè la privatizzazione del compito educativo, la solitudine e le distorsioni relazionali amplificate dall’eco delle mura domestiche. CAPITOLO 9: INTERROGARE LE RAPPRESENTAZIONI RECIPROCHE, TRA RICERCA E FORMAZIONE (Alessia Vitale) Esistono molti mondi possibili, ognuno legato a un viaggio. E’ il viaggio che compie il ricercatore a fare la differenza sul racconto del luogo ignoto, ricco di meraviglia e spiazzamenti, che ha incontrato. La ricerca si presenta differente in base a chi e come la guarda. Come la città di Zemrude narrata da Calvino: “E’ l’umore di chi guarda che dà alla città la sua forma” (1993 pag. 66). Una cornice per la ricerca La domanda da porci ogni volta che ci incamminiamo verso il viaggio della ricerca è: con quale RES stai entrando in ricerca? O meglio: qual è la tua domanda? Che cosa ti muove? Che cosa cerchi da questo viaggio? E se la tua ricerca implica partecipanti come stai costruendo con loro il senso dell’indagine stessa? La RES è la storia condivisa e provvisoria del perché siamo qui o che cosa stiamo facendo insieme? E’ una narrazione, una direzione di senso, più che un obiettivo. La res fa la differenza: potrà mostrare una città in tumulto, una strada calma e solitaria nella quale potersi abbandonare e trovare confronto, o chissà cos’altro. Se la relazione operatori-famiglie è un costrutto sul quale interrogarsi, lo è anche il dispositivo educativo inteso come struttura dentro cui si giocano tutte le relazioni. Pensare a ciò che si osserva (che siano servizi, relazioni o individui) come una relazione in continua trasformazione. In un’ottica processuale e dinamica nessuno “è” in un dato modo in termini assoluti di tempo e di contesto. Ogni persona vive dentro un tempo e un luogo, cioè inserita in una storia individuale, familiare, sociale, socio-assistenziale, e ogni storia si sviluppa in un contesto costantemente in trasformazione, come il ciclo della natura o le stagioni. Potremmo fotografare una pianta in inverno e sostenere di averne una percezione completa? Potremmo. Ci perderemmo però la fioritura di quella pianta in primavera. Allo stesso modo, tornando alla nostra “famiglia non collaborativa”, osservando il suo mondo relazionale e storico in movimento, potremmo scoprire che ha partecipato ad altri progetti con passione, o che in altri tipi di contesti appare attiva e collaborativa. Le Zemrude di Calvino, vista in tal ottica, non è una città fatta di numeri, ma di storie. Di relazioni tra individui dentro tempi e contesti. Relazioni che vengono osservate nel cambiamento. La forma della città è viva, dinamica e costituita da molteplici punti di vista in dialogo. E’ una città che muta nel tempo e si lascia mutare dall’incontro con l’altro; ha il potere di trasformare il ricercatore stesso che si è avventurato sulle nostre terre. Ma per prima cosa bisogna partire da quali sono gli occhi che la vedono: quale ricercatore incontra la Zemrude fatta di storie e non di numeri? Attraverso quali strade ci arriva? Che ricercatore/educatore sei? In ricerca è chi si abbandona alla scoperta. Come un viaggiatore. Come mi hanno insegnato gli studenti dice Alessia, si è in ricerca di fronte al nuovo (il pensiero di un autore, la necessità di orientarsi) ma anche tutte le volte che ci interroga sul quotidiano (cosa faccio nella mia vita?). La domanda è una condizione necessaria dell’essere in ricerca, ma non basta a fare di noi dei ricercatori. Formenti distingue tra “sguardo ingenuo” e “sguardo scientifico” dell’educatore: il primo ideologicamente centrato, carico di pregiudizi vissuti come verità. E’ attento ai contenuti e non alla relazione che il ricercatore instaura con le persone. Il ricercatore/educatore ingenuo si dimentica di avere a che fare con relazioni e tratta le persone come fornitori di dati. Il secondo attento a sé e agli altri, continuamente disposto ad interrogarsi sui propri pregiudizi. Per avere questo sguardo bisogna essere consapevoli della co-implicazione di tutti i soggetti (ricercatori e partecipanti) e del viaggio che stanno compiendo. E’ la RES, la direzione di senso condivisa a fare la differenza. Se si costruisce con cura il senso, la ricerca potrà essere valore di esperienza formativa, di spazio di pensabilità. Cercare di “allestire contesti educativi nella forma di laboratori del pensare”. NON E’ SOLO LA DOMANDA A FARE LA DIFFERENZA MA COME LA SI PONE E A CHI. POTREMMO DIRE CHE IL RICERCATORE E’ - QUALCUNO CHE SI PRENDE CURA DEL PROPRIO PUNTO DI VISTA, NON LO TRASCURA, SE NE INTERROGA. STESSA COSA FA CON IL PUNTO DI VISTA ALTRUI. - UN BUON EDUCATORE E’ DUNQUE ANCHE UN BUON RICERCATORE: si mette in ricerca nell’interrogarsi, non ingenuamente ma con consapevolezza e riflessività. - UN EDUCATORE è RICERCATORE QUANDO SI RENDE CONTO DI ESSERE IMPLICATO IN PRIMA PERSONA NELLA RELAZIONE EDUCATIVA IN CORSO E, PER TALE RAGIONE, è ATTENTO A MANTENERE VIVA NELLA QUOTIDIANITA’ LA CURIOSITA’ DELL’ESPLORATORE: essere curiosi vuol dire mettersi in viaggio non dando nulla per scontato, ponendosi domande sugli usi e i costumi delle popolazioni che si incontrano lungo il cammino. Curiosi del quotidiano e non solo dell’insolito. La curiosità apre le porte a nuove visioni di ciò che ci sembrava ovvio; a volte apre la bellezza, quando permette al ricercatore/educatore di guardare a quello che c’è e non a quello che manca; quando fa trovare nuove connessioni di senso e ri-anima situazioni relazionali stagnanti. Ciò implica una responsabilità: ognuno di noi, con la sua presenza curiosa, incide notevolmente sui contesti nei quali agisce. Se un buon educatore è un ricercatore, vale anche l’opposto: chi ricerca è sempre in qualche modo un educatore. Tesi: essere un ricercatore che si occupa di storie, in particolare narrazioni di famiglia, vuol dire essere consapevoli che le storie producono effetti. Quando l’altro (adulto o bambino) ci racconta la sua storia, il racconto stesso ha una fortissima contingenza narrativa. Narrare si sé apre possibilità di ripensare alla propria storia e riguardarla attraverso nuovi punti di vista. Il solo chiedere all’altro di sostare nel narrare esperienze vissute, il porre domande generative di pensiero, l’essere un ascoltatore attento e curioso, vuol dire costruire un dispositivo di ricerca che ha potenzialità formative. Responsabilità etiche Il ricercatore si trova ad affrontare diverse responsabilità etiche: • Di prendersi cura delle storie che gli sono affidate, leggerle da una postura di neutralità e attenta ai posizionamenti. Prendersi cura delle storie implica una particolare attenzione anche ai contesti istituzionali in cui avviene la ricerca, al ruolo e alla posizione del ricercatore, alle ricadute della ricerca in termini concreti. • La seconda riguarda la trasparenza. Il principio etico della trasparenza chiama in causa la visibilità del patto tra ricercatori e soggetti. Processi educativi e di ricerca sono similmente forgiati sulla negoziazione di diritti e doveri. Incamminarsi in un viaggio senza conoscere i propri diritti/doveri e quelli degli altri rischia di generare vuoti di senso e cornici di riferimento ambigue. Negoziare il senso ed essere espliciti e chiari su diritti e doveri ovviamente non esaurisce l’interrogarsi lungo il cammino. La complessità dei contesti non è riducibile alla sola contrattazione iniziale tra ricercatori e partecipanti.La trasparenza non è un dato di fatto, ma un’azione che stimola la riflessività, uno spazio prossimale di apertura alla comprensione di fenomeni. E’ ciò che permette, per ogni viaggio, di vedere una Zemrude diversa, costruita con un senso ad hoc insieme ai partecipanti della ricerca.
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