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Re-inventare la famiglia (Laura Formenti), Sintesi del corso di Pedagogia

Quali sguardi, quali azioni sono oggi utilizzate dai professionisti che entrano in contatto con le famiglie nei servizi educativi? Come possono interagire attivamente con la famiglia in modo tale che "tutti stiano un po' meglio", realizzando apprendimenti felici?

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 24/07/2019

Spider.Man
Spider.Man 🇮🇹

4.4

(439)

355 documenti

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Scarica Re-inventare la famiglia (Laura Formenti) e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! 1 Sapete qual è la rogna nel fatto di comprare un libro universitario? Si compra l’edizione originale ad un costo esagerato o lo si compra fotocopiato, in maniera del tutto illegale. Non c’è niente di divertente nello spendere così tanti soldi, in aggiunta all’affitto della casa, alle bollette, agli spostamenti con i mezzi urbani, alla spesa, alle tasse da pagare… NON È NÉ ACCATTIVANTE NÉ ECONOMICO. Pensate non ci sia nessun’altra soluzione? La soluzione c’è. E non sono nemmeno questi riassunti che ci accingiamo a presentarvi. E non sono nemmeno dei libri originali scontati al 50% rispetto a quelli in vetrina. A volte, noi giovani universitari, ciò di cui abbiamo bisogno è solamente un po’ di libertà in più, libertà economica e libertà di andare contro corrente rispetto agli standard istituzionali. S & S Easy Life non siamo sono noi, siete tutti voi. Basta volerlo. Economia condivisa, etica, risparmio, vision, community, ecc. Perché tu meriti la tua libertà personale economica. Tu meriti di essere parte della nostra community. Per un nuovo ideale. Verso nuove prospettive di vita all’insegna della easy life. Il seguente documento NON intende sostituire il libro di studio 2 REINVENTARE LA FAMIGLIA. GUIDA TEORICO-PRATICA PER I PROFESSIONISTI DELL’EDUCAZIONE L. Formenti 5 • L’esperienza autentica • La rappresentazione estetica • La comprensione intelligente • L’azione deliberata Mosse cognitivamente interconnesse circolarmente che dovrebbero portare nel tempo gli operatori a rinforzare: o Il contatto con il presente, con il corpo e i suoi segnali, con le proprie emozioni, vissuti, sentimenti e con l’altro come presenza irriducibile nel nostro campo d’azione; questo contatto autentico sviluppa un’attenzione che risulta indispensabile per la relazione umana e per il lavoro di cura; o La capacità di mettersi in gioco e tradurre in simboli e messaggi sensibili i propri pensieri, l’immaginazione, il sogno, il “pensare per storie” anche per riuscire a riconoscerli nell’altro, imparando a celebrarli, trasformarli e comunicarli in modo significativo; o La capacità di formulare ipotesi complesse sulle situazioni sperimentate, moltiplicando gli sguardi e le voci, riconoscendo le differenze di contenuto e di cornice che portano alla costruzione di senso, partecipando a conversazioni che cercano una composizione intelligente; l’attività di costruzione del senso è sempre sociale, avviene all’ombra di tradizioni di pensiero, dentro mondi culturali e vocabolari, compone i saperi personali e locali con i saperi accreditati e riconosciuti dall’istituzione; o L’attitudine a scegliere, cioè ad assumere corsi d’azione deliberata, responsabile, aperta alle conseguenze e disposta a misurarsi con un nuovo ciclo di esperienza; va da sé che questo passaggio implica un’etica della ricerca e del lavoro educativo, non disconnessa dal sapere e dalle pratiche. 6 PARTE PRIMA. LO SGUARDO DIPENDE DALL’AZIONE La percezione non avviene se non c'è movimento. Conoscere attraverso una definizione e attraverso la percezione. I processi di percezione dipendono da quello che noi facciamo nel mondo, ogni definizione che arrivo a dare sarà legata a delle azioni. Bisogna tener ben presente che i contesti sono usati dalle persone per dar senso ai messaggi e che il senso del tuo messaggio lo decide l'altro, o meglio il contesto. L'idea che ci facciamo degli altri è strettamente legata alle azioni comunicative nei contesti. Tutti contribuiscono a definire il senso di dell'azione, alla percezione di quell'azione, che cambia a ogni passaggio. Lavorare con la famiglia richiede una consapevolezza epistemologica, cioè un atteggiamento interrogante nei confronti dei nostri presupposti. Il modello a cui ci si ispira nel testo è quello sistemico, che mette l'idea si comunicare al centro di tutti i processi umani e non: tutto è messaggio. Scegliere un modello è rischioso, potrebbe voler dire escludere altre prospettive. 7 CAPITOLO 1. Farsi l’orecchio: le invisibili partiture della famiglia Il gioco del "se fosse" è una via, tra le tante, per aiutare una famiglia a raccontarsi. I teorici dei sistemi hanno concepito la comunicazione umana come un insieme organico di livelli complessi, contesti multipli e circuiti riflessivi. A. Scheflen fu uno dei primi ricercatori a paragonare la comunicazione a una composizione musicale: entrambe realizzano delle strutture, con uno stile e delle specificità proprie, ma anche una configurazione complessiva precisa. Pochi considerano il sistema: la società moderna punta tutta l'attenzione sul singolo. L'approccio sistemico si fonda su una ecologia delle idee e sulla curiosità per tutto quello che non appare immediatamente valido o scontato, adotta una postura di curiosità aprendo lo sguardo sulla famiglia per cercare di afferrare le verità che si nascondono dentro le storie. Un racconto è espressione di un sistema complesso di idee e immagini, che trascende l'individuo. La visione di sé che ciascuno sviluppa non nasce nel nulla: ogni storia è una composizione a più mani. La mia famiglia è una rock band "Farsi l'orecchio" per un educatore significa imparare tecniche di osservazione e di conversazione, concetti e teorie, modalità progettuali e di valutazione, assumere una postura, cioè apprendere a interfacciarsi con le situazioni nelle quali si trova immerso come se fosse lui stesso uno strumento. Gli approcci più tradizionali e lineari prediligono la metafora del tool kit: una cassetta degli attrezza che pre- struttura il sapere tecnico in funzione dei guasti ai quali dovrà rispondere. Per un educatore sistemico è più interessante la metafora della band: ogni band può strutturarsi come vuole e crear la musica che preferisce. Per conoscere una famiglia, l’educatore, deve entrare nella “viva voce del corpo familiare”, per farsi l’orecchio entra in una rete di relazioni e interdipendenze consolidate nel tempo. Una caratteristica delle famiglie è la consuetudine, la ripetitività e la ridondanza di comunicazione. Provare e riprovare, sbagliare, trovare insieme le soluzioni che convincono tutti: così si arriva a suonare tutti insieme. Le voci e gli strumenti hanno ciascuno un loro sound diverso ma è la loro somma che dà il tutto, il modo peculiare in cui si amalgamano e armonizzano. Un educatore quando entra in contatto con una famiglia-rock band deve capire il sound, il genere di musica, il ruolo di ogni solista e cercare di adeguarsi a loro. La cacofonia familiare, cioè il proliferare di azioni scomposte e scoordinate tra i membri del sistema e tra gli operatori, il più 10 CAPITOLO 2. Formare lo sguardo attraverso le pratiche Di quale famiglia parliamo? Oggi il termine famiglia si presta a essere declinato in molte sfumature. La visione della famiglia come qualcosa di monolitico e rigido è ormai entrata in crisi: negli ultimi 35 anni i matrimoni si sono dimezzati, le separazioni sono aumentate, esistono single, coppie omosessuali, coppie senza figli, coppie di fatto ecc.. Il problema è che queste diverse forme familiari non sono riconosciute davanti alla legge e quindi non sono tutelate dallo Stato, che è ancora fermo alla concezione di “famiglia naturale” come unione uomo-donna fondata sul matrimonio. Come fa allora un educatore a prepararsi ad affrontare uno scenario così complesso? Imparando a raccogliere le storie di relazioni familiari, che poi una volta narrate aiuteranno a capire meglio la famiglia. Una storia però non vale l’altra: il modo in cui viene raccontata provoca conseguenze concrete in chi parla e in chi ascolta e conta molto il narratore che ha una sua particolare cultura e delle sue particolari abitudini. E’ necessario per l’operatore educarsi a uno sguardo sulla famiglia, cioè connettere il suo sguardo di narratore con quello che vede. Moltiplicare e comporre gli sguardi Ciò che chiamiamo famiglia non è cosa data, certa, statica: ci sono moltissimi modi per pensarla e osservarla, molti sguardi diversi, ognuno legato a una prospettiva, a una certa cultura. L’educatore deve imparare a mantenere mobile il proprio sguardo, perché poi si troverà a dover comunicare con più soggetti diversi, a dover negoziare, inventare soluzioni impreviste. Deve imparare a dialogare con se stesso e con le sue pratiche, a educare uno sguardo composizionale che componga per es. la riflessione con l’azione, l’esperienza con l’apprendimento. Ognuno di noi si porta dietro pregiudizi, e non è sbagliato averli, anzi è inevitabile, perché essi sono tutte le idee, nozioni, teorie che costruiscono il nostro punto di vista. Ciò che è sbagliato è pretendere di non averne, cercare di reprimerli, perché essi comunque influiscono su come ci rapportiamo agli altri, e quindi vanno riconosciuti e discussi apertamente anche con gli utenti. Discuterne aiuta a capire in che modo le azioni dell’educatore sono frutto dei suoi pregiudizi (approccio auto-consapevole). 11 Partire dalle pratiche Bisogna partire dalle pratiche per interrogarle e significarle, i passaggi cruciali per questo metodo sono: • domandare per accogliere e ricercare • sperimentare concetti • pensare ad alta voce • trasformare l’esperienza in sapere. A. Domandare per accogliere e ricercare L’educatore deve imparare però a fare buone domande, cioè domande che rompano i copioni, che introducano elementi di novità in rapporti che rischiano di essere scontati e prevedibili, che esaltino la complessità delle relazioni familiari. Imparare a fare buone domande vuol dire imparare l’arte della ristrutturazione e della connotazione positiva, due interventi tipici della sistemica. La ristrutturazione consiste nel cambiare punto di vista nei confronti di una situazione\comportamento a cui erano stati attribuiti determinati significati. E’ un cambiamento di cornice: l’oggetto è sempre lo stesso, ma gli si attribuisce un significato nuovo. Un modo per farlo è per es. utilizzare l’umorismo per far diventare leggera una situazione pesante e faticosa. La ristrutturazione è un’arte non facile e molto sottile, che richiede anche molta creatività. Invece la connotazione positiva è una strategia metacomunicativa che conferma e giustifica tutti i comportamenti dei membri della famiglia rispetto al problema di cui si tratta. Questo evita per es. che un familiare si senta giudicato o “sbagliato” per aver tentato di combattere il problema dell’altro familiare. Sono molto importanti anche il modo in cui porgiamo la domanda, gli aspetti prossemici, verbali e paraverbali. E’ sbagliato domandare a una famiglia “qual è il problema”. B. Sperimentare concetti: “le teorie vanno rispettate, non riverite” L’esperienza va connessa, le informazioni che acquisiamo vanno collegate. Questo ci permette di formulare una definizione di famiglia, anche se solo provvisoria (perché la famiglia cambia in continuazione). C. Pensare ad alta voce Un educatore deve abituarsi a pensare ad alta voce, cioè riflettere e interrogarsi lavorando con gli altri, in gruppo. Il lavoro educativo non si effettua in solitudine, ma in gruppi di lavoro costruiti attorno a un progetto. L’educatore in quanto intellettuale pratico opera abitualmente in 12 contesti di gruppo. Tra le pratiche per pensare ad alta voce ritroviamo: ideare metafore sulla famiglia, realizzare mappe tematiche per formalizzare un’esperienza, raccogliere e trascrivere interviste narrative, esplorare la memoria familiare chiedendo ai parenti di fare un ritratto (a parole) di noi da piccoli. È importante condividere in gruppo quanto prodotto individualmente partendo dalla propria esperienza, per aprirsi allo stupore dell’alterità collettiva come patrimonio cui attingere. D. Trasformare l’esperienza in sapere Mezirow afferma che “la riflessione è il processo in cui si valutano criticamente il contenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a interpretare un’esperienza e a darle significato”. L’educatore deve apprendere criticamente dall’esperienza, deve attribuirle significato. Per fare questo può essere utile tenere un diario degli apprendimenti, per poter riorganizzare e strutturare in modo personale e organico gli esiti di un’esercitazione o di una conversazione. In questo modo l’esperienza biografica dovrebbe potersi trasformare in sapere comunicabile. Una pratica molto utile per conoscere meglio l’influenza educativa che un nostro familiare ha avuto su di noi è la eterografia, cioè una scrittura dove ci immedesimiamo in un nostro familiare e ci descriviamo come se fosse lui a parlare. Questo esercizio può anche aiutare a capire perché noi abbiamo deciso di fare gli educatori e che tipo di educatori siamo\saremo (il nostro stile educativo). Pietre parole: una pratica per rinnovare lo sguardo Educatori si diviene anche grazie alle importanti e indelebili eredità familiari che hanno segnato la vita: ripercorrerle e interrogarle ci consente di capire che educatori siamo e cosa abbiamo ereditato e quale ricaduta ha sul nostro modo attuale di prenderci cura degli altri. 15 • La seconda prospettiva è quella costruttivista e simbolica, ed è il contesto così come la famiglia se lo rappresenta. • La terza prospettiva, riflessiva e ricorsiva, sono le aspettative della famiglia e degli operatori educativi connesse fra loro. Parlare di genitorialità come arte o come mestiere comporta impliciti riferimenti a due prospettive: modello istintivo e modello istruttivo. Arte o mestiere: quanto la prima richiama la creatività, il secondo ci porta alla razionalità. L’adesione a uno dei due modelli (istruttivo o istintivo) pone dei problemi: il primo premia l’asimmetria relazione e la dipendenza; nel secondo è la responsabilità personale che viene meno. Ma entrambi i modelli pongono la genitorialità al di fuori della relazione, del contesto e della storia. Nel nostro ricercare tracce di famiglia, si individua un terzo modello, modello evolutivo-ecologico, che può rendere conto di un processo relazionale e in continuo divenire, come è quello genitoriale. Con questo modello ci si muove verso una descrizione doppia, verso la co-costruzione di mondi possibili. Descrizione doppia: è uno strumento epistemologico che dà la capacità di originare e discernere modelli di ordine diverso. Es. consideriamo l’interazione tra una coppia. Lei dice “lui brontola, quindi io mi chiudo in me stessa”; lui sostiene “lei si chiude in se stessa, dunque io brontolo”. Sono due punteggiature diverse dello stesso flusso di interazione. Ciò che bisogna fare è cercare di vederle insieme, per cogliere a un livello più elevato la struttura che connette. 16 CAPITOLO 4. Interazioni: osservare la famiglia in azione L’osservazione è un procedimento selettivo che si differenzia dal semplice guardare, per il fatto che lo sguardo dell’osservatore è intenzionalmente guidato da premesse, pregiudizi e ipotesi che sono una guida nell’ottenere le informazioni desiderate. Non si può osservare tutto: l’osservazione è sempre un processo di selezione e di scelta metodologica intenzionale; non è possibile quindi osservare in modo totale né oggettivo poiché l’osservatore è sempre inserito nel processo di osservazione, lo caratterizza e ne è a sua volta influenzato. Quando l’oggetto di osservazione è la famiglia, la pratica osservativa sembra assumere una complessità ancora maggiore. L’esperienza di chi osserva, i suoi pregiudizi e preconcetti inevitabilmente vengono messi in scena, con il rischio di filtrare talmente tanto i dati da non riuscire a cogliere aspetti che potrebbero modificare le sue ipotesi di partenza. L’osservazione è una vera e propria pratica che richiede cura, attenzione e responsabilità: se guardo in un certo modo, so che riuscirò a vedere delle cose e non altre. Un esercizio di posizionamento Ognuno di noi ha una propria e personale esperienza di famiglia; questa esperienza viene inevitabilmente evocata quando nel lavoro educativo o di consulenza si è chiamati a interagire con un genitore che chiede aiuto a vari livelli. Come mi vedi? “Come mi vedi?”: questo è l’interrogativo con cui molti genitori si rivolgono a un professionista della relazione pedagogica poiché vogliono essere valutati come genitori. Quello che sembra essere un bisogno di valutazione è in primo luogo un bisogno di riconoscimento: il desiderio di essere visti e riconosciuti nel ruolo di genitore. Di fronte al bisogno di essere visti e riconosciuti si può proporre un uso trasformativo e riflessivo della videocamera come strumento che crea uno sguardo possibile. Che cosa vuoi mostrarmi? La richiesta avanzata dai genitori è di tipo valutativo (“ditemi che sono un bravo genitore”) ma la risposta, o meglio il percorso che viene proposto, è osservativo- riflessivo. Se esiste un dubbio o un giudizio negativo su di sé, è meglio partire da quello perché è proprio dal dubbio che nasce la domanda di consulenza. Questo 17 primo passo porta il genitore in un circuito riflessivo armonico: da un lato lo sostiene nell’idea che qualcosa non funziona; dall’altro dà il messaggio che il genitore è competente nell’esprimere quell’idea. La metodologia proposta prevede l’osservazione delle interazioni tra i componenti della famiglia; il setting scelto è la casa, quindi un ambiente naturale dove è possibile osservare quelle attività di routine che appaiono, nei racconti dei genitori, le più cariche di ansia e timori. Come ti vedi, osservandoti? Il passaggio successivo alla ripresa delle immagini è quello di ritrovarsi insieme a osservarle. In questa fase il compito dell’educatore è affiancare i genitori aiutandoli soprattutto da un punto di vista tecnico; e da lì partono le domande (“quali sono stati i momenti in cui ti sei sentita non competente?”…). Punteggiatura: Watzlawick definisce la punteggiatura come l’azione di un soggetto che impone un ordine in un mondo altrimenti casuale, imprevedibile e caotico. La punteggiatura organizza la sequenza e stabilisce un ordine. Dall’auto-osservazione alla costruzione di altre-storie La post produzione video permette di montare le immagini andando oltre la successione temporale degli eventi e una concezione lineare di sequenzialità. Si attua così una sorta di visione dall’alto di se stessi in interazione: è in questo processo di distanziamento e riavvicinamento a sé che man mano costruita una nuova microteoria di sé e della propria famiglia, un’idea non più latente e vissuta come faticosa, ma consapevole e condivisa. Attraverso il processo di visione, selezione, taglio e montaggio delle scene i genitori hanno la possibilità di soffermarsi e prendersi cura di sé e della propria storia: ciò permette di attribuire nuove punteggiature possibili alla stessa scena, ri-significarla e riconnotarla. 20 CAPITOLO 6. Posizionamenti estetici e ricerca della bellezza C’era una volta una famiglia… Il riconoscimento reciproco, la possibilità di essere visti e ben raccontati dai propri familiari è un bisogno che in qualche modo e con le regole semantiche specifiche di ogni micro-cultura familiare accompagna la vita di ciascuno. Lavorare con le famiglie significa portare l’attenzione sugli aspetti di narrazione e sul tipo di storie che i vari membri raccontano per definire se stessi. Nel lavoro con le famiglie bisogna partire dalle storie che si raccontano in modo da avviare un percorso aperto di ricerca volto a rintracciare le linee, le immagini, il linguaggio, i significati di ogni storia raccontata. La narrazione e le storie sono uno strumento fondamentale di autoformazione e autoconoscenza, in cui si prende atto che ciò che ci fa soffrire e gioire non sono le cose in sé (azioni, fatti, eventi) ma come questi vengono percepiti e raccontati da noi o dagli altri. Sono i racconti e le storie generati nelle e dalle pratiche comunicative che definiscono le appartenenze, i significati, l’identità di ciascuno, l’identità di famiglia. Storie saturate da una prospettiva unica Una delle più importanti funzioni della memoria familiare è la riflessione formativa: la riflessività diventa autoformazione quando interrompe la riproduzione automatica del passato, genera distanza dalle storie tramandate, innesca cambiamenti. Cosa e come racconta l’educatore? Cosa e come guida? Pensare e ripensare alla propria storia, narrarla riflessivamente e creativamente è una pratica utile per mantenere vivo il senso di ciò che avviene. Un rischio educativo però è che la famiglia sia narrata e si narri in modo fisso e uguale rischiando di non dare la giusta attenzione. E’ importante la riflessività, riflettere su ciò che accade nella quotidianità, in quanto il processo di autoformazione prende avvio proprio quando ci si distacca dalla solita riproduzione automatica della famiglia fissa. 21 Dalla patologia alla speranza Nel lavoro di cura, si possono individuare 2 teorie o posizionamenti: • patogenico: attenzione sulla malattia e ciò che l’ha scatenata ( causa-effetto); • salutogenico: attenzione su ciò che c’è, sulla salute. L’orientamento preferibile è quello della salutogenesi in cui l’educatore, senza negare i problemi, si concentra sui punti di forza, sulle risorse della famiglia e sulle persone che la compongono per raggiungere la normalità. La cura educativa orientata alla ricerca della bellezza Lavorare professionalmente con storie familiari che generano sofferenza e fatica significa allora e innanzitutto non inseguire il cambiamento o il raggiungimento di un’evoluzione pre-stabilita, ma perseguire l’apertura a nuove visioni del mondo, a narrative più articolate e pensose. Sarà questa apertura visionaria che darà origine a cambiamenti e trasformazioni. Il lavoro di cura educativa è quella di proporre sguardi differenti. L’idea di cura educativa orientata alla ricerca della bellezza presente nella famiglia, è proprio nata grazie al lavoro con delle famiglie “multiproblematiche” all’interno di contesti di cura come i servizi sociali e i servizi per il diritto di visita che davanti a numerosi problemi, si è posta l’attenzione a valorizzare ciò che c’era piuttosto che le problematiche esistenti. E’ importante quindi iniziare l’intervento educativo dalla ricerca di momenti positivi, dalle emozioni e dagli elementi di funzionamento e di salute, in quanto ciò aumenta in una prospettiva dinamica la possibilità di cambiamento, facendo sempre attenzione però a non ricadere in un atteggiamento positivistico. 22 CAPITOLO 7. Tra micro e macrostoria: lo sguardo biografico per comprendere la vita familiare L’approccio biografico e autobiografico, è una via per comprendere l’unicità della cultura di ogni famiglia, e allo stesso tempo, ci permette di vedere le connessioni tra il singolo sistema familiare e il contesto più ampio. Le narrazioni familiari ci aiutano a comprendere come cambia la vita quotidiana e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni a quelli della famiglia, ma per l’influenza delle determinanti sociali, delle appartenenze di classe, territoriali, dei ruoli di genere. Costruzioni biografiche Le pratiche biografiche e auto/biografiche possono illuminare il nostro sguardo sulle famiglie e sviluppare una cornice pedagogica come possibile alternativa alla contrapposizione di due sguardi che oggi sembra dominare il lavoro nei servizi e nelle professioni di aiuto. Concetto di costruzione biografica: la vita è vissuta in presa diretta, per poterle dare senso dobbiamo guardarla retrospettivamente, solo le storie che raccontiamo ci aiutano a costruire tale senso. Per comprendere l’impatto della dimensione biografica sulla vita familiare ci è necessaria la immaginazione auto/biografica, cioè la capacità di comporre sguardi multipli, andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. • Memorie familiari intergenerazionali A ogni nuovo ciclo generazionale, relazionarsi con la scuola è uno dei modi, per la famiglia, di aprire i propri confini, di rimettere in discussione i paradigmi consolidati. Funzioni della memoria familiare: la continuità delle storie tramandate, che consente di conoscere le proprie radici; il racconto della nascita, che appartiene alla categoria del mito e della leggenda e marca la nostra identità; il ricordo personale, iscritto nel corpo, vissuto e riattivato dal narrare; la riflessività che nasce dal prendere le distanze e fare connessioni. Un tipo di lavoro educativo è appunto quello della narrazione familiare in cui ogni componente narra e si narra; la narrazione ci aiuta a comprendere come cambia la vita quotidiana all’interno della famiglia stessa e come cambiano le relazioni, non solo per fattori interni ma anche per influenza di determinanti sociali, (appartenenze di classe/territoriali e di genere). Per comprendere appieno la complessità, è necessario però l’immaginazione autobiografica cioè la capacità di comporre sguardi multipli andando oltre le nostre cornici disciplinari e professionali. Il disordine e l’incertezza sono oggi sinonimo di famiglia poiché la regolarità e la sequenzialità, 25 circolarità delle comunicazioni, dei feedback, delle ridondanze, definisce il contesto come matrice di significati, ovvero dà senso a ciò che accade tra le persone. La rete delle relazioni è la risorsa più importante che ognuno di noi ha per crescere, per costruirsi un’idea di sé e del monto e per modificarla: l’educatore deve sapersi muovere tra queste relazioni. Per fare ciò deve fare un’analisi del contesto, ovvero rispondere alla domanda “dove siamo?”. Vi è anche il contesto istituzionale entro cui l’intervento educativo avviene: un’organizzazione di pratiche e di significati che propone cornici politiche e semantiche le quali definiscono cosa può e cosa non può accadere in determinate circostanze. Ogni educatore è inserito in un servizio, che ha le proprie cornici, i propri valori, la propria cultura e a questi deve adeguarsi e attenersi. La tendenza umana a fondare contesti nasce dal bisogno di prevedere cosa farà l’altro. L’analisi del contesto serve per realizzare una com-posizione delle cornici, per creare comunicazioni propizie alle trasformazioni. Il lavoro educativo si connota come la capacità di leggere e usare in modo creativo le risorse e i vincoli presenti, ridefinendo in tempo reale gli scenari, gli obiettivi e le azioni concrete. Gli ingredienti dell’intervento educativo Per leggere il lavoro educativo in chiave sistemica e positiva possiamo farci guidare da alcuni classici concetti che definiscono gli ingredienti base di ogni intervento: • La domanda Di chi è questo intervento? A quale bisogno risponde? Il bisogno e la domanda sono da costruire, da interpretare. Più che un punto di partenza la domanda è un esito. Esiste un modo per aiutare senza far sentire l’altro incompetente: sostituire al bisogno il desiderio. La domanda è una co-costruzione, in continua ridefinizione. Non si tratta di analizzare la domanda come se fosse un dato pre-esistente alla relazione. • L’invio L’inviante è colui che ritiene che in una determinata famiglia c’è bisogno di un intervento educativo, ma uno dei problemi più frequenti riguarda lo scontro di premesse tra chi pensa l’intervento soprattutto in termini di controllo sociale e chi ha in mente scopi educativi. • Il mandato Interrogarsi sul mandato e disporsi a interpretarlo e ridefinirlo rende l’operatore protagonista del proprio lavoro. Non è necessario subire passivamente un mandato. 26 • La convocazione di tutto il sistema Nell’approccio sistemico la convocazione è l’invito a tutta la famiglia a presentarsi al servizio. La convocazione contiene in sé i presupposti dello stigma. Un’altra questione è quella dei confini, convocare significa definire chi fa parte di quella famiglia; in un’ottica sistemica, è “famiglia” l’insieme delle persone coinvolte nella cura, “nel problema”, quelle che vedono questo bambino, quelle che chiedono aiuto, quelle che danno un contribuito nel cercare soluzioni (quindi anche insegnanti, vicini di casa ecc). • La costruzione del setting E’ necessario istituire un setting policentrico e flessibile Definire un setting come educativo, far capire che “qui ci si prende cura dei legami”, far sentire alle persone che ci si può fidare, sono messaggi difficili da costruire. Non è importante cosa ma come sui cui puntare l’attenzione. E’ molto potente la ritualizzazione, che connota il tempo dell’intervento come uno spazio “speciale”, dedicato alla cura di sé e degli altri. L’operatore, all’interno di questo spazio propone azioni specifiche, diverse dal solito e ciò non vuole finalizzare il cambiamento ma un’offerta di esperienze potenzialmente trasformative. • Il processo: contratto, intervento, valutazione, sistema Nel contratto educativo sono definiti gli obiettivi, ma l’intervento educativo non può solo avere esiti attesi ed è per questo che bisognerà scriverlo alla fine. L’intervento ha una durata: è bene definire in modo esplicito inizio e chiusura, anche per dare un chiaro segnale che la vita della famiglia va oltre il tempo dell’intervento. L’approccio sistemico è tendenzialmente breve, mira alla perturbazione, non alla presa in carico, attribuisce al sistema una capacità di autocura che va rivitalizzata. La circolarità tradotta in comunicazione L’operatore sistemico partecipa alla comunicazione in modo attivo, tiene conto del processo comunicativo in atto e prova a perturbarlo alla ricerca di nuove possibilità. Usa se stesso come messaggio, usa la proprio posizione nel sistema per introdurre differenze che diventino informazioni. E’ responsivo, cioè adotta una postura di grande attenzione per i feed-back, quelli da dare e quelli da ricevere. Il suo modo di comunicare non è centrato sull’intenzionalità del messaggio ma sugli effetti pragmatici. Queste posture epistemologica, molto lontana dal pensiero comune, è evidente nelle procedure inventate dai terapeuti della famiglia per condurre colloqui familiari congiunti. Domande che mettono in luce le relazioni, rendendole visibili e dunque trasformabili: 27 • L’ipotizzazione consisteva nella capacità dell’équipe di formulare un’ipotesi sistemica fondata sulle informazioni in suo possesso, e funzionale a garantire l’attività dei conduttori nel ricostruire i giochi relazioni della famiglia. Fin dalla prima seduta, serve a iniziare e organizzare il processo di indagine, come una struttura che connette tutti i comportamenti dei diversi componenti del sistema dato che l’ipotesi non è vera né falsa ma solo più o meno utile. • La circolarità, era una conduzione basata sulle retroazioni della famiglia, sollecitate da domande che venivano poste in termine di rapporti, cioè di differenze e mutamenti. Le domande circolari vengono poste a tutti i membri della famiglia, perché quello che interessa sono le differenze. • La neutralità si concentrava sulle differenze e sui giochi, l’équipe neutralizzava ogni tentativo di coalizione, seduzione o relazione privilegiata, poiché era interessata a provocare retroazioni o ad accogliere informazioni e non a pronunciare giudizi moralisti di qualsiasi tipo. La linea guida della neutralità costituiva un doppio vincolo terapeutico: i terapeuti riconoscevano le soluzioni adottate dalla famiglia come sensate e allo stesso tempo creavamo un contesto che offriva alternative possibili, ma senza imporle. L’équipe sistemica, adottando la postura dell’ipotizzazione, riconosce il valore parziale e temporaneo delle proprie idee sulla famiglia, che saranno coltivate e arricchite continuamente, per garantire una visione circolare e utile al cambiamento. L’ipotesi sistemica è il prodotto di una conversazione generativa nella quale gli operatori appaiono inizialmente lineari e ingenui, e solo discutendo riescono a prendere le distanze dai propri pregiudizi, grazie all’ascolto reciproco. Quando un’équipe diventa una “mente sistemica” riesce a sintonizzarsi sulla complessità della famiglia, a rispecchiarne la circolarità. Il lavoro d’équipe è dunque una condizione per poter lavorare in modo sistemico, per cogliere e onorare la complessa circolarità delle relazioni familiare e immaginare quello che potrebbero diventare. La famiglia non va mai a dormire Ogni azione educativa con le famiglie è comprensibile se vediamo i singoli, le famiglie e i servizi come sistemi dinamici interconnessi e in continua trasformazione. C’è un movimento di base che può essere perturbato ma non determinato 30 Il paradosso dell’istituzionalizzazione nei servizi de-istituzionalizzati La legge n. 149 del 2001 sancì il diritto del minore ad una famiglia, disponendo la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre 2006. Così nacquero le comunità per minori, che mantennero alcuni elementi tipici delle istituzioni precedenti: gestire il potere; regolare la vita dei singoli e dei gruppi; assicurare equità di trattamento; mantenere distacco tra le vite dei professionisti e quelle degli ospiti; segnare la differenza tra il dentro e il fuori, tra il prima e il dopo del servizio; richiamare all’autorità giudiziaria come riferimento imprescindibile che fissa le premesse e le conseguenze di quella permanenza. La vita in comunità ha elementi molto istituzionalizzati e quindi c’è il rischio di proporsi con un’ottica istituzionalizzante. Ottica che può presentarsi sulla scena in ogni momento, e non solo da parte degli operatori, ma che gli operatori devono essere in grado di riconoscere. Gli interventi per ogni famiglia devono riconoscere la fase che quella famiglia sta attraversando in quel momento, sapendo che sempre possono esserci evoluzioni. • Genitori liberi o coatti? I servizi di tutela sono solitamente caratterizzati da un significato coattivo: la presenza del tribunale che obbliga non può essere considerata secondaria. La forzatura sulla dimensione coattiva non la famiglia a fare un salto evolutivo, nelle situazioni obbligate si possono comunque individuare e promuovere spazi di libertà. • Intervenire subito o dare tempo? L’istituzionalizzazione e la cronicizzazione sono fenomeni da sempre correlati, scambiandosi il ruolo di causa ed effetto anche a seconda dell’osservatore. Intervenire subito o dare tempo sono due azioni contrapposte: intervenire subito non significa sottrarre tempo e porsi in attesa non significa sospendere l’intervento. • Categorie di utenza o storie singole da ascoltare La conoscenza umana non può fare a meno della categorizzazione, eppure la consuetudine di predisporre modalità di comprensione o d’azione a partire da categorie di utenza non è stata una strada utile. 31 CAPITOLO 3. Tracciare le connessioni: l’ADM come questione di famiglia La possibilità per un educatore di entrare in contatto con la famiglia proprio nel suo ambiente di vita costituisce una risorsa speciale a livello educativo. Poter interagire con la famiglia all’interno dei propri ambienti permette di costruire nella quotidianità delle strategie e modalità interattive resistenti nel tempo, in grado di continuare anche dopo l’uscita di casa dell’educatore. La curiosità è però una condizione necessaria affinchè questa trasformazione avvenga. L’educatore nell’ADM si mette in gioco a livello professionale e personale e agisce partendo dalla relazione e dall’alleanza con la famiglia. La casa: punto di partenza, di transito, di arrivo? Questo intervento avviene in casa: nella maggior parte dei casi l’intervento dell’educatore è stato imposto dal giudice, per questa ragione l’operatore non può essere percepito da subito come una potenziale risorsa, anzi a volte potrebbe essere visto come un nemico. Il compito dell’educatore è quello, quindi, di guadagnarsi quella fiducia che permetta alla famiglia di aprirsi e raccontare la propria storia, così da poter iniziare un percorso di co-costruzione di possibilità nuove. E’ necessario che l’educatore entri in punta di piedi, con delicatezza ed è necessario che sappia leggere ciò che la casa esprime: abitudini, vissuti, relazioni, così da farla diventare il setting educativo per eccellenza. L’epistemologia sistemica invita a concentrarsi non solo sul bambino, come elemento disparato da tutto il resto, ma sull’intero sistema di cure e di interazioni in cui è inserito quotidianamente. La famiglia e l’educatore: dal sostituire al valorizzare le relazioni Per la famiglia l’educatore è un estraneo che è stato assegnato per mostrare loro dove sbagliano. Con la sua presenza l’educatore modifica gli equilibri che la famiglia si è creata. Non stupisce, quindi, che la famiglia opponga resistenze all’ingresso dell’operatore. Molti interventi domiciliari si trasformano in una sorta di sostituzione del genitore da parte dell’educatore nella funzione di sostegno e supporto ai figli. Questo genera una conseguenza: porta sullo sfondo le figure genitoriali: svalorizzandole ulteriormente. Il rischio del sostituirsi ai genitori può portare a una sorta di deresponsabilizzazione progressiva degli stessi rispetto al loro ruolo educativo. E’ utile lavorare non tanto sulle mancanze, quanto sulle risorse; bisogna trovare le strategie per potenziare queste risorse e co-costruire insieme alla 32 famiglia delle risorse nuove, dei percorsi percorribili che la famiglia possa sentire come propri e portare avanti anche quando l’intervento educativo terminerà. Il rischio del sostituirsi può portare a una sorta di deresponsabilizzazione progressiva degli stessi rispetto al loro ruolo educativo, e ad alimentare la convinzione da un lato che i genitori siano incapaci di badare al figlio e dall’altro che proprio il bambino sia il problema, confermandone la posizione di capro espiatorio all’interno del sistema familiare. Tendiamo a definire educativi tutti i contesti in cui la famiglia entra in contatto con servizi e operatori le cui professionalità hanno come obiettivo il cambiamento. Tuttavia, il contatto tra le famiglie e i servizi non si dimostra educativo, ma anti-ecologico e dis-educativo, quando la famiglia viene svalutata, inascoltata, etichettata. Il compito dell’educatore è quello di sostenere l’autonomia nel trovare di volta in volta, nei momenti di crisi, le strategie più funzionali al superamento della crisi stessa e alla ricerca di un nuovo equilibrio che permetta a tutti di stare bene. Ma questo non è possibile senza il contributo e la partecipazione attiva della famiglia con cui ci si relaziona. Quello che l’educatrice auspica, nel lavoro educativo, è una pedagogia della famiglia capace di tenere sempre presenti e valorizzare le risorse dei membri di quella famiglia, la loro storia e le loro evoluzioni. 35 6. Attivazione della rete interna all’istituzione: al centro, l’interesse del bambino come soggetto che l’istituzione carceraria deve essere in grado di accogliere adeguatamente, nel rispetto dei suoi diritti/bisogni; 7. Interventi di scambio informativo tra gli operatori e di sensibilizzazione degli agenti di polizia penitenziaria; 8. Attivazione dei rapporti con la rete esterna al carcere: il collegamento con i servizi psico- socio-educativi del territorio avviene attraverso un’attività costante di scambio e partecipando alle équipe inter-istituzionali secondo le necessità di ogni singolo caso; 9. Azioni di sensibilizzazione e informazione rivolte alla società civile, con l’intento di modificare lo sguardo sul genitore detenuto, perché possa essere considerato cittadino a pieno titolo e destinatario dei servizi alla persona previsti dal territorio; 10. Attività di ricerca a livello nazionale ed europeo in collaborazione con la rete eurochips. Spazio Giallo: l’accoglienza del bambino e della famiglia in carcere Lo Spazio Giallo, è un luogo, uno spazio fisico creato appositamente per l’accoglienza dei bambini e delle famiglie che si preparano al colloquio. E’ uno spazio integrato socioeducativo pensato per le esigenze dei bambini. I bambini vivono questo spazio come un luogo in cui si sentono pensati e protetti, possono “dare voce”, parlare e dare forma alle loro emozioni, per le famiglie lo Spazio è una risorsa di conforto, scambio, consulenza e gli operatori vengono a conoscenza di come le famiglie affrontano l’esperienza detentiva. Regole di spazio giallo: ▲ Tutti i bambini possono giocare ▲ Evitare l’assistenzialismo ▲ Favorire il gioco di gruppo, giocare rispettando le regole ▲ Nessun dialogo imposto 36 ▲ Nessun tabù nei confronti del padre o parente detenuto ▲ Non assecondare bugie né grosse né piccole ▲ Attenzione al bambino ▲ Attenzione al genitore, ricerca di alleanza e offerta di modelli positivi ▲ Scambio e condivisione delle storie ▲ Ascolto e sostegno nei confronti delle madri. L’accompagnamento del genitore detenuto: gruppi di parola e punti d’ascolto I gruppi di parola e i punti d’ascolto sono incontri collettivi di discussione e confronto. I temi che occupano queste riunioni sono principalmente due: 1. l’esplorazione dei bisogni dei figli: come comprenderli, come leggere certi comportamenti, come comunicare con loro, come utilizzare il tempo del colloquio 2. il tema della sofferenza: dei figli e propria, in cui il gruppo aiuta a superare le paure. 37 CAPITOLO 5. Posizionarsi nel conflitto: l’educatore a Spazio Neutro La parola conflitto richiama l’idea di opposizione di due o più punti di vista che non riescono a trovare una forma di convivenza, di complementarietà. Dall’”urto”, dal conflitto, possono nascere conseguenze positive e conseguenze/effetti negativi per esempio sofferenze, violenze. Ogni famiglia ha un rapporto diverso con il conflitto, alcune lo vedono come un tabù da evitare, altre lo amano. Spazio Neutro Un modo utile per far dialogare il conflitto tra i membri della famiglia è lo Spazio Neutro che è nato per sostenere e favorire il mantenimento della relazione tra bambino e genitore adulto significativo. Nello spazio neutro è richiesto di costruire con la famiglia un progetto con l’obbiettivo di lavorare insieme affinché il figlio possa mantenere i contatti con entrambi i genitori. Tale progetto è svolto in stretta connessione con gli operatori del servizio “tutela minori” e con il tribunale. Il percorso Spazio Neutro prevede 3 tipi di intervento: ▲ Colloqui individuali con i genitori ▲ Colloqui con i minori ▲ Incontri “protetti” tra bimbo/ genitore con un operatore. La rappresentazione estetica: dare forma al conflitto Nelle situazioni complesse, o di stallo in cui gli operatori non si sentono tranquilli, possono richiedere l’aiuto dell’Altravisione/Supervisore. L’altra visione è una figura pedagogica che sta sullo stesso piano ma che, attraverso uno sguardo esterno, permette di introdurre differenti punti di vista, di offrire nuove storie, nuove punteggiature al fine di mettere in movimento quelle bloccate. L’operatore può utilizzare numerose metodologie e strumenti per fronteggiare tali situazioni: • Il primo è cambiare linguaggio: ovvero cambiare metodo per far spiegare alla famiglia il proprio problema come per esempio usando metafore o disegni; • Il secondo metodo utile per allargare il contesto d’ azione dell’intervento e comprendere maggiormente le problematiche, è ampliare lo sguardo: ampliare lo sguardo verso la famiglia di origine attraverso il “ Genogramma familiare”, in questo 40 L’educatore non deve rispondere in modo automatica allo stimolo ma deve ampliare le proprie possibilità di scelta e offrire una risposta di volta in volta specifica. Gli strumenti che ci permettono di fornire una posizione posizione nelle relazioni educative con sé stessi, con gli altri e con la vita sono: • L’osservazione di sè consiste nella ricerca continua di uno stato di attenzione verso sé. La caratteristica fondamentale dell'osservazione è la neutralità, ovvero la distinzione tra dati e informazioni. • La mediazione è l'azione che permette l'incontro dei saperi tra educatore e educando affinché si verifichi un effettivo apprendimento da parte di quest'ultimo. Il processo di mediazione implica una componente emotiva: l'educando è attratto dalla posizione proposta perché l'educatore è un modello con cui c'è un'intesa relazione affettiva. 41 CAPITOLO 7. Fare spazio e dare voce: l’incontro con i familiari in un Servizio Psichiatrico territoriale Il progetto Progetto famiglie: Spazio di ascolto in cui l’attenzione non è posta sulla diagnosi e sulla malattia ma sul vissuto che di essa hanno i familiari e sul significato che la famiglia gli attribuisce in modo da rendere l’esistenza della persona malata di nuovo sostenibile. L’intervento è pensato come uno spazio per cercare un nuovo punto di vista che apra orizzonti nuovi in maniera dignitosa, uno spazio dove raccontare la propria storia in un contesto dove è favorita la comunicazione e la sofferenza viene legittimata e riconosciuta. I famigliari delle persone con disagio psichico fanno fatica a staccarsi dal copione costruito negli anni per sopravvivere. Raccontare la propria storia ha permesso ad alcuni familiari di rivedere i propri modelli relazionali riuscendo ad adattarsi in maniera nuova non alla malattia ma alle storie individuali e familiari; alcuni familiari hanno usato lo spazio per essere ascoltati, altri per prendere le distanze dal disagio mentale e dallo stigma che lo accompagna riuscendo a uscire da un isolamento sociale nel quale si erano confinati. 42 CAPITOLO 8. Apparecchiare contesti di apprendimento per promuovere competenze Degli educatori hanno organizzato dei laboratori, pensati per famiglie prese in carico dai servizi sociali, nei quali si sperimentava attraverso attività formative le relazioni educative e il rapporto genitori-figli. Questi incontri hanno favorito la conoscenza reciproca delle famiglie offrendo strumenti adeguati per far percepire con maggior consapevolezza le difficoltà ma anche la fiducia nelle proprie capacità portando i singoli soggetti a tendere lo sguardo oltre, a osservarsi più attentamente, a identificarsi e a cogliere la specificità di ognuno, riconoscendone il valore e la qualità. Gli operatori dei servizi hanno intravisto la possibilità di costruire contesti nei quali non si porge solo la funzione di aiuto e sostegno, spesso unita al controllo, ma dove le famiglie possono esprimere le loro competenze, guardare, vedere, nominare il proprio modo di fare famiglia senza che questo sia sottoposto a giudizio.
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