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Recensione critica del libro "Gioco e realtà"., Tesi di laurea di Psicologia Dinamica

La tesi verte sulla recensione critica del libro di Donald Winnicott, andando a toccare tutti i più importanti argomenti trattati nella sua carriera.

Tipologia: Tesi di laurea

2020/2021

In vendita dal 07/09/2023

FedericaLuz
FedericaLuz 🇮🇹

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Recensione critica del libro "Gioco e realtà". e più Tesi di laurea in PDF di Psicologia Dinamica solo su Docsity! UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “TOR VERGATA” MACROAREA DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE TESI DI LAUREA IN PSICOLOGIA DINAMICA E DELLO SVILUPPO RECENSIONE CRITICA DEL LIBRO “GIOCO E REALTÀ”: Quando una madre sufficientemente buona permette la scoperta del vero Sé Relatore Laureanda: Chiar.mo Prof. Federica Luzi Marco Innamorati Matricola: 0284812 Anno Accademico 2021/2022 “La salita è dura ma quando arrivi in cima il panorama è fantastico.” 2 aderendo agli Indipendenti, gruppo londinese di autori che non sentivano di appartenere né alla fazione kleiniana né a quella annefreudiana. Partendo dal rapporto del bambino con la figura materna, passando per le tematiche del fenomeno e oggetto transizionali, il gioco, la scoperta del vero Sé, la creatività, l’onnipotenza e l’indipendenza, questa tesi si propone di analizzare la teoria di uno dei più influenti e rivoluzionari pediatri e psicoanalisti del XX secolo, che, nell’ottica di unire le sue due grandi aree di professione, nei suoi anni di attività si occupò soprattutto di psicologia dello sviluppo. 3 CAPITOLO I: IL RAPPORTO MADRE/FIGLIO 1.1 La madre sufficientemente buona “Ciò che chiamiamo bambino in realtà non esiste” Winnicott pronunciò questa frase durante un suo discorso del 1942. La sua originale teoria si concentra sullo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino, ed in questo, per Winnicott, a giocare un ruolo primario è la relazione tra lui e la madre. Egli afferma che, nella fase iniziale di vita, la madre non viene percepita da suo figlio come entità separata ma in completa fusione con lui. È colei che, per Winnicott, viene definita “madre sufficientemente buona”: innanzitutto, egli afferma che non si tratta per forza della reale madre del bambino. È, però, sicuramente più facile che lo sia perché nel suo adattamento attivo deve donare attenzione spontanea, incondizionata e senza alcun tipo di risentimento. Inizialmente, deve talmente far credere al figlio che siano un tutt’uno a tal punto da fargli pensare che il seno sia parte di lui, sotto il suo controllo. «In altri termini, il seno viene creato dal bambino più e più volte a partire dalla sua capacità di amare o (si potrebbe dire) dal suo bisogno» (Winnicott, 2019 p. 29). È proprio questo il punto nodale dell’inedito concetto sviluppato da Winnicott: quando è sufficientemente buono, l’adattamento di una madre alle necessità del proprio figlio fornisce lui l’illusione che esista una realtà esterna perfettamente corrispondente alla sua capacità di creare. «L’adattamento deve essere quasi perfetto dal momento che, se non è così, non è possibile che il bambino cominci a sviluppare la capacità di sperimentare il rapporto con la realtà esterna, o anche di formarsi un’idea della realtà esterna» (ibidem, p.28). La madre non deve rasentare la perfezione ma deve essere una madre sufficientemente in grado di adempiere quelli che sono i suoi doveri nei confronti 4 del bambino, ovvero fornirgli strumenti che lo possano aiutare col tempo a rendersi autonomo ed indipendente. Una madre sufficientemente buona è, dunque, quella in grado di distaccarsi gradualmente, col passare del tempo, da suo figlio. È il processo che Winnicott chiama “disillusione”. Il bambino deve iniziare a percepire la realtà esterna a lui, facendo venir meno, a mano a mano, quel senso di onnipotenza venuto a crearsi in un primo periodo di vita. I mezzi con cui riesce a farlo comprendono: l’esperienza di frustrazione in un breve tempo (non troppo reiterato), l’utilizzo dell’autoerotismo, l’inizio di un’attività mentale. Se il processo di disillusione avviene nel giusto modo, al bambino inizierà a risultare sgradevole il precedente adattamento perfetto, in quanto dall’ esperienza della frustrazione può ottenere il vantaggio di iniziare a percepire gli oggetti come reali, dunque odiati ma anche amati. Dal punto di vista materno, è da sottolineare il concetto di “preoccupazione materna primaria”, spiegata da Winnicott come una «fase di transitoria follia» nella quale il proprio figlio costituiva il quasi esclusivo oggetto dei propri interessi (Winnicott, 1956). In altre parole, la preoccupazione materna primaria emerge durante gli ultimi mesi di gravidanza per poi arrivare a un’elevata sensibilità, e si conclude dopo poche settimane dalla nascita del bambino. In questa seconda fase, la madre tenderà a rimuovere il ricordo del vissuto. Questo fenomeno non è riscontrabile in ogni donna. Ci sono certamente molte donne che sono buone madri in tanti altri modi e che sono capaci di una vita ricca e piena ma che non sono capaci di questa “malattia normale” che permetterebbe loro di adattarsi con delicatezza e sensibilità ai primi bisogni del bambino. […] Ne consegue, in pratica, che queste donne che hanno messo al mondo un bambino ma hanno fallito nella primissima fase, devono compensare la loro carenza. Attraversano allora un lungo periodo in cui si devono adattare il più possibile ai bisogni del loro bambino che sta crescendo, e non è sicuro che riescano a riparare il danno provocato nei primi tempi. (Winnicott, 2017, p. 403) 7 Ciò, secondo Winnicott, non è scontato. Non tutte le madri sanno guardare e “contenere” i propri figli; è in questi casi che, ad esempio, l’esperienza dell’allattamento può risultare meccanica, asettica, un momento in cui la madre è presente con il corpo ma assente a livello emozionale. Il bambino, nel corso della sua crescita all’interno del nucleo familiare, sarà certamente sempre meno dipendente dal volto materno in ottica di sviluppare maggiormente il proprio Sé; ciononostante, «quando la famiglia è intatta, e continua ad esserlo nel tempo, ogni bambino trae beneficio dall’essere in grado di vedere se stesso nell’atteggiamento dei singoli membri o… della famiglia nel suo insieme». (Winnicott, 2004, p.237) 8 CAPITOLO II: TRA ONNIPOTENZA E REALTA’ OGGETTIVA 2.1 Oggetto e fenomeno transizionale Appurato che la crescita di un individuo si sviluppa fondamentalmente in tre macro aree (dipendenza totale, semi-dipendenza e indipendenza), ed avendo ampiamento trattato la prima, si affronterà in questo capitolo la seconda, quella in cui il bambino comincia, appunto, a comprendere che esiste una realtà al di fuori di lui. Nel mezzo tra onnipotenza (iniziale) e realtà oggettiva (che comprenderà a pieno più avanti), Winnicott descrive l’esperienza transizionale che si trova a metà strada attraverso l’utilizzo dell’oggetto transizionale e, più ampiamente, descrivendo il fenomeno transizionale. Ho introdotto i termini “oggetto transizionale” e “fenomeno transizionale” per designare l’area intermedia di esperienza tra il pollice e l’orsacchiotto, l’erotismo orale e la vera relazione di oggetto, l’attività primaria creativa e la proiezione di ciò che è già stato introiettato, l’inconsapevolezza primaria e il riconoscimento dell’”essere debitore”. (Winnicott, 2017, p.308) Nello specifico, si riconoscono i seguenti come fenomeni transizionali: Il pezzo di tessuto viene preso e succhiato, o non realmente succhiato. Tra gli oggetti usati a questo scopo ci sono, naturalmente, pannolini e (più tardi) fazzoletti, secondo ciò che il bambino trova più facilmente a sua disposizione”, “il bambino incomincia fin dai primi mesi a strappare fili di lana, a riunirli e usarli per accarezzarsi” e ancora, “il bambino produce con la bocca mugolii, balbettii, rumori di tipo anale, le prime note musicali e così via. (ibidem, 2017, p.310) Da uno dei fenomeni transizionali più utilizzati dal bambino, emerge la scelta di un solo oggetto transizionale. Esso ha una funzione estremamente importante: può essere un peluche, una copertina, un bambolotto, e media a livello simbolico il rapporto tra la madre e l'ambiente, dunque placa, in qualche modo, quelle che possono essere le angosce, le ansie di separazione o di mancanza della mamma. 9 Riesce a fare questo poiché manifesta una sorta di continuità simbolica di presenza rassicurante, pur non essendo la figura materna. L'oggetto transizionale è un qualcosa che né viene creato onnipotentemente dal bambino, né è separato da lui. Esso favorisce l’illusione che sia lui stesso a crearlo, conquistando per sé lo spazio vitale di transizione tra il dentro e il fuori. Concepisce l’oggetto come possesso di ciò che non è, non-me, ovvero che sta internamente ma anche esternamente a lui. Compare nel momento esatto in cui il bambino comincia ad avvertire l’angoscia di sentirsi “unito” ed inizia a riconoscere tale unità. Questo oggetto diventa sempre più importante. I genitori ne avvertono il valore e lo portano con sé in viaggio. La madre lascia che si sporchi e diventi puzzolente; sa che, lavandolo, provocherebbe un’interruzione nella continuità dell’esperienza del bambino, interruzione che rischia di distruggere il significato e il valore che l’oggetto possiede per il bambino. (ibidem, 2017, p.311) È importante, infatti, che i genitori non mettano mai in discussione l’oggetto transizionale scelto dal proprio figlio. Winnicott afferma, però, che non tutti i bambini ne fanno ricorso; infatti qualche volta non esiste oggetto transizionale al di fuori della madre stessa. Oppure può verificarsi che lo sviluppo emotivo sia così turbato che il bambino non riesce a godere di questo stato di transizione, o che la successione degli oggetti usati viene interrotta”. (ibidem, 2017, p.312) Altresì, si noti che «non c’è differenza apprezzabile tra maschio e femmina nell’uso del possessivo originario “non-me”» (ibidem, 2017, p.311). In conclusione, l’oggetto transizionale viene, abitualmente, disinvestito di cotanta importanza relegata in principio ma «non è dimenticato né pianto come morto» (ibidem, 2017, p.312). Semplicemente, perde il suo significato iniziale. 12 2.2.2 La relazione con la psicoterapia «È bene ricordare che il gioco è esso stesso una terapia» (Winnicott, 2019, p. 89). Winnicott rileva nel gioco, per sua natura, una svolta all’interno di un percorso terapeutico. «Quando non è possibile giocare, il lavoro svolto dal terapeuta ha lo scopo di portare il paziente da una condizione in cui non è capace di giocare a una condizione in cui diventa capace di farlo» (ibidem, p. 70). Per l’autore, il gioco di un bambino ha già in sé la totalità della sua espressione, nonostante il compito dello specialista sia poi quello di lavorare sul contenuto. Egli pone, altresì, il gioco in relazione al riconoscimento della paura, poiché esso può sempre diventare pauroso; un tentativo di tenerla a bada è quello di servirsi di regole ed organizzazioni precise. Questa tesi è corroborata anche da Huizinga, che afferma che «non appena si trasgrediscono le regole, il mondo del gioco crolla. Non esiste più gioco» (Huizinga, 2002, p. 15). Il gioco, per Winnicott, cessa di esistere anche quando l’adulto ne entra a far parte: egli deve essere disponibile ma l’attività deve rimanere un’esclusiva del bambino, pena la perdita della creatività e quindi della sua essenza. Secondo un altro importante autore in materia, Roger Caillois (1913 - 1978) «il gioco è essenzialmente un’occupazione separata, scrupolosamente isolata dal resto dell’esistenza, e svolta in generale entro precisi limiti di tempo e di luogo» (Caillois, 2017, p. 22). Nel 1947 arriva un’importante conferma della teoria winnicottiana concernente il gioco da una psicologa statunitense, Virginia M. Axline (1911 – 1988), che nel 1947 pubblica il libro Play Therapy, particolarmente apprezzato da Winnicott riguardo alla sua tesi sulle consultazioni terapeutiche, «vale a dire che il momento significativo è quello nel quale il bambino sorprende se stesso» (ibidem, p. 90). La play therapy non direttiva, come è già stato affermato in precedenza, può essere descritta come un’opportunità che viene offerta ai bambini per fare un’esperienza di crescita nelle condizioni più favorevoli possibili. Dal momento che essi utilizzano il gioco come strumento naturale di autoespressione, gli viene data la possibilità di 13 esprimere, attraverso l’attività ludica, i sentimenti di tensione, frustrazione, insicurezza, aggressività, paura, smarrimento e confusione che si sono accumulati dentro di loro. I bambini portano in superficie questi sentimenti, li mettono allo scoperto, li guardano in faccia, imparano a controllarli o ad abbandonarli. Una volta raggiunto uno stato di rilassamento emozionale, incominciano a rendersi conto della forza che hanno dentro di loro in quanto individui che hanno valore come persone, che pensano e prendono decisioni in modo autonomo, per diventare psicologicamente più maturi e così facendo autorealizzarsi. (Axline, 1947, p. 34) Winnicott analizza l’importanza del gioco non solo nei bambini ma anche negli adulti, premettendo che sia più difficile poiché questi ultimi si servono della comunicazione verbale (es: umorismo, inflessione della voce, scelta delle parole) e non della sola spontaneità del linguaggio non verbale. Peraltro, per quanto concerne il gioco nella tenera età, «molti giochi si giocano senza alcuno strumento o accessorio, e uno stesso accessorio può assolvere funzioni diverse a seconda del gioco preso in considerazione» (Caillois, 2017, p. 27). La conclusione per l’autore è che «l’interpretazione data quando il paziente non ha alcuna capacità di giocare è semplicemente inutile, o è causa di confusione», e ancora, «se si deve fare psicoterapia, questo gioco deve essere spontaneo, non compiacente o acquiescente». (Winnicott, 2019, p. 90) 2.3 La creatività Il concetto di gioco introduce, per ovvie ragioni, quello di creatività. «È giocando, e solo giocando, che il bambino o l’adulto è in grado di essere creativo e di usare per intero la sua personalità, ed è solo quando è creativa che una persona può scoprire il proprio sé» (Winnicott, 2019, p. 95). Secondo Winnicott giochiamo tutta la vita, e proprio per questo motivo, ogni essere umano ha ampiamente modo di esprimere la propria creatività nel corso della sua esistenza. L’atto creativo è, dunque, una caratteristica universale a lui appartenente; la creatività non si limita ad essere presente in quei professionisti che necessitano sia sviluppata per compiere il proprio mestiere (ad esempio, gli artisti) ma appartiene a tutti senza limiti. 14 «La creatività di cui mi occupo qui è universale. Appartiene al fatto di essere vivi» (ibidem, p. 115). Essa non può, allo stesso modo, venir annullata neanche nei casi di false personalità; per Winnicott, «è sbagliato pensare alla creatività come qualcosa che può essere distrutta completamente» (ibidem, p. 116). Semmai, può rimanere latente, nascosta e limitare in qualche modo coloro che la costringono. In maniera angosciante, molte persone hanno sperimentato il vivere in misura appena sufficiente per accorgersi che, per la maggior parte del tempo, vivono in maniera non creativa, come catturate nella creatività di qualcun altro oppure di una macchina. (ibidem, p. 111) E ancora, afferma che «vivere creativamente sia una situazione sana e che, viceversa, la compiacenza sia una base patologica della vita» (ibidem, p. 112). O gli individui vivono creativamente e trovano che la vita valga la pena di essere vissuta, oppure non utilizzano la propria creatività e mettono in dubbio l’importanza del vivere; questa fondamentale differenziazione ha origine nell’inizio e nelle prime fasi dell’esperienza di vita di ciascun bambino e dipende dalla qualità e della quantità dell’apporto ambientale. Nel secondo caso, non è sempre l’individuo a scegliere di non vivere in maniera creativa: malattie e/o fattori ambientali contingenti (ad esempio, chi vive sotto un crudele regime politica, chi viene sottomesso, chi ha esperienze di guerra, campi di concentramento, forti traumi personali, etc.) possono bloccare i processi creativi. A tal proposito, Winnicott dichiara: Sembra, a tutto prima, che tutti gli altri che esistono (non che vivono) in comunità così patologiche abbiano così tanto rinunciato a sperare da non soffrire più e abbiano perso, in tal modo, la caratteristica che li rende umani così da non guardare più il mondo in maniera creativa. (ibidem, p. 116) 17 «In ogni caso, il cambiamento sessuale non è l’unico. C’è un cambiamento nella crescita fisica e l’acquisizione di forza. Arriva un pericolo reale che dà nuovo significato alla violenza. Insieme alla forza arriva la capacità e la competenza» (ibidem, p. 242). In relazione a quello sessuale, non esiste un momento specifico di cambiamento valido per tutti: in alcuni adolescenti sarà precoce, in altri tardivo. Questi ultimi tenderanno ad imitare i primi e, seppur in forma lieve rispetto a quanto descritto sopra, anche in questo caso si svilupperà una falsa maturità, basata sull’identificazione piuttosto che sulla naturale crescita individuale. Winnicott non tratta l’immaturità adolescenziale con fare critico; per l’autore, è un concetto prezioso che dovrebbe essere maggiormente accolto dalla nostra società, e col quale gli adulti dovrebbero cercare un confronto costruttivo, anche nell’ottica di tener conto che ciò che appare loro come “stato agitativo” nell’adolescenza, può essere in parte il frutto dell’atteggiamento che sono stati fieri di aver raggiunto nell’allevare il proprio figlio nella prima e seconda fase di vita. «Lasciate che i giovani cambino la società e insegnino agli adulti come guardare il mondo in modo nuovo». (ibidem, p.246) 3.2 Un caso trattato: la descrizione di una seduta Nel libro Gioco e realtà Winnicott descrive la messa in pratica delle sue teorie, condividendo alcuni momenti delle sue sedute psicoanalitiche. Di seguito, si affronteranno i punti più salienti di una seduta con una sua paziente sedicenne, Sarah, affetta da intrusioni paranoiche; si scoprirà come, a conferma di quanto ampiamento espresso da Winnicott, i suoi problemi di adolescente affondassero le radici in un forte disagio vissuto in tenerissima età quando, all’età di 21 mesi, avvertì un distacco da parte di sua madre che, incinta di 3 mesi, non era più in grado di fornirle cure materne sufficientemente buone. 18 Per entrare in comunicazione con Sarah, Winnicott utilizza una tecnica della quale tratta anche nel suo libro Colloqui terapeutici con i bambini (Armando Editore, Roma, 2005). Il gioco degli scarabocchi è semplicemente un mezzo per entrare in contatto con il bambino. Ciò che succede nel gioco e nell’intero colloquio dipende dall’uso che si fa dell’esperienza del bambino, incluso il materiale che ne viene fuori. […] In questi casi si crea un legame artificiale tra il gioco degli scarabocchi e il consulto psicoterapeutico, e questo legame nasce dal fatto che dai disegni del bambino e da quelli fatti insieme si può rendere il caso più vivo. (Winnicott, 2005, p. 12) In effetti, riguardo alla seduta in questione, Winnicott descrive di aver adoperato il metodo dello scarabocchio (in inglese, squiggles) in forma condivisa, ovvero alternando un disegno della paziente ad uno proprio, permettendo anche a lei di dare una sua opinione e di aprirsi, giocando. Da Sarah emerge, dopo un primo scambio, la sua voglia di impressionare gli altri ed una notevole insicurezza, corroborata da un’insufficiente autostima. Winnicott la invita a parlare dei suoi sogni: in uno in particolare, fatto intorno ai 6 anni, l’autore coglie una personificazione della madre nella protagonista del sogno, ovvero una strega. Allo stesso modo, ne viene colta un’altra quando Sarah racconta di aver lanciato dei coltelli contro la stanza di una governante della sua scuola che le provocava rabbia in quanto, secondo lei, non svolgeva il suo lavoro ma si pavoneggiava e intratteneva soltanto i ragazzi; anche in questo caso, secondo Winnicott, la donna rappresenta la madre. La paziente fa fatica a condividere questa tesi, ma notiamo come la bravura del terapeuta si mostri nella sua assenza di giudizio e comprensione del disagio arrecato. Questo fa sì che si instauri un rapporto di totale apertura e fiducia e che Winnicott confessi alla ragazza, che aveva già incontrato nel suo studio quando aveva appena 2 anni e iniziava a manifestare i primi problemi, che il suo primo cambiamento era avvenuto non appena la madre era rimasta incinta ed era divenuta incapace di prenderla in braccio. La tesi del terapeuta è che Sarah, inconsciamente, si aspettasse di essere delusa ed abbandonata da figure che inizialmente reputava buone ed affidabili. 19 La ragazza racconta infatti di un fidanzato che, esausto delle accuse da lei rivolte in merito alla convinzione di un abbandono, l’aveva effettivamente allontanata. In conclusione, Winnicott afferma che la paziente, presa coscienza del suo problema che non era dunque di depressione, contrariamente a quanto lei stessa immaginava, ma di odio scatenato da intrusioni paranoiche, abbia voluto iniziare un percorso di trattamento psicoanalitico al quale collaborò totalmente; grazie a questo, terminato in maniera naturale dopo 4 anni, Sarah è diventata una giovane donna libera da quelle paranoie che l’avevano spinta a rovinare i suoi buoni rapporti. 22 sufficientemente buona, sufficientemente in grado di prendersi cura di lui è la tematica più cara all’autore. La madre di cui parla Winnicott non è necessariamente istruita né particolarmente intelligente: è una madre normalmente devota, in grado di fondersi con il suo bambino per un determinato tempo di vita e di lasciarlo poi spiccare il volo, scoprire il suo vero Sé. Questo avverrà solo se il suo è stato un lavoro svolto a dovere. La sua è un’enorme responsabilità. “Non esiste un bambino senza la madre”. Donald Woods Winnicott 23 BIBLIOGRAFIA Axline V., 2009, Play Therapy, La Meridiana, Bari. Caillois R., 2017, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti Editore S. p. A. /Bompiani, Milano. Foschi R., Innamorati M., 2020, Storia critica della psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano. Huizinga J., 2002, Homo Ludens, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino. Winnicott D.W., 2019, Gioco e realtà, trad. it. Livia Tabanelli, Armando Editore, Roma. Winnicott D.W., 1968, La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, trad.it. Carlo Mazzantini, Armando Editore, Roma. Winnicott D.W., 2004, Psicoanalisi dello sviluppo, Armando Editore, Roma. Winnicott D.W., 2017, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Giunti Editore, Firenze. Winnicott D.W., 2005, Colloqui terapeutici con i bambini, Armando Editore, Roma. 24 SITOGRAFIA www.treccani.it www.stateofmind.it www.psiconline.it www.psicoterapiapsicologia.it www.osservatoriocpi.unicatt.it
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