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Recensione di letteratura Italiana Contemporanea, Appunti di Critica Letteraria

Da Antonio Moresco a Wu Ming, da Giuseppe Genna a Nicola Lagioia...

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 23/05/2023

rossano.astremo1
rossano.astremo1 🇮🇹

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Recensione di letteratura Italiana Contemporanea e più Appunti in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! Rossano Astremo L’intruso Qualche lustro di critica militante (2003-2019) Qui di seguito troverete alcune delle recensioni che ho scritto per quotidiani, periodici, siti online e blog letterari nel corso di più di 15 anni. L’ordine è casuale, ma leggendolo si può avere un’idea d’insieme delle linee di tendenza principali della letteratura italiana in questi due decenni, degli editori che più di altri hanno lavorato con dedizione nel dare spazio a nuove voci, delle mie ossessioni per alcuni scrittori. Buona lettura. R.A. assecondando le volontà paterne, abbandonerà gli studi, dedicandosi alla sua grande passione, la fotografia. “La solitudine dei numeri primi” racconta una storia di desideri e assenze, di dolori e perdite, di occasioni mancate e lacerazioni, il tutto scritto con uno stile lucido, chiaro e asciutto. Paolo Cognetti, Una cosa piccola che sta per esplodere (minimum fax, 2008) Secondo libro di racconti per lo scrittore milanese Paolo Cognetti. Dopo il fortunato esordio di “Manuale per ragazze di successo”, è da poco nelle librerie, pubblicato sempre da minimum fax, “Una cosa piccola che sta per esplodere”. Se il leitmotiv della prima raccolta era il mondo femminile, declinato in molte delle sue possibili varianti, in questo nuovo lavoro è l’adolescenza a divenire oggetto privilegiato di rappresentazione, attraverso cinque racconti diversi per contenuto e forma, tutti però accomunati dalla presenza del sottile tema della soglia, quella che separa l’età adolescenziale, per l’appunto, dall’età adulta, il cui superamento, a volte, non è scevro da “piccole esplosioni” interiori. In “Pelleossa” la protagonista è Margot, giovane anoressica rinchiusa in una clinica che cura i disturbi alimentari, ribelle ad ogni tipo di costrizione, libera e incontrollabile, dal corpo inavvicinabile: “Margot odia essere toccata, ha i brividi appena un corpo estraneo entra in contatto col suo: ecco perché sa tutto del sesso e non vuole farlo”. Il racconto può essere letto anche come una sorta di progressiva accettazione del proprio corpo, graduale crescita e impossessamento dell’idea di crescita. La psicologa della clinica obbliga Margot ad aiutare nei compiti una piccola paziente, Lucia, la quale, dopo la comparsa delle mestruazioni, ha totalmente smesso di mangiare. L’incontro con Lucia muta Margot, l’assunzione di responsabilità elimina quella patina distruttiva che aleggiava all’inizio del racconto su di lei. Il finale segna la compiuta evoluzione della protagonista: “Sorride con le labbra blu e poi sente i corpi arrivare: corpi nudi, corpi attorcigliati e brulicanti, corpi dotati di mani che la cercano, la stringono, la tirano sott’acqua, corpi che non sono nient’altro che corpi, e poi prende il respiro e si lascia andare a fondo”. Anche Diego, protagonista di “La meccanica del motore a due tempi”, viene descritto nel momento topico della presa di coscienza del cambiamento della sua vita. In un paese che pulsa all’interno dell’immensa arteria di un centro commerciale, prima del quale c’era una fabbrica che dava lavoro a tutti gli abitanti del posto, Diego, dopo un compleanno rovinato da una discussione burrascosa col padre, incontra il suo amico d’infanzia Simone. Dal dialogo tra i due si comprende la differente percezione della loro esistenza. Da un lato Simone che chiede a Diego di ricostituire la banda di ragazzini di alcuni anni prima, dall’altro Diego che sa benissimo che quel momento è passato e che è di altro che ha bisogno. L’incontro in quella stessa sera con Sonia, sorella di Simone, che lavora all’interno del centro commerciale, si rivelerà epifanico. Diego la porta nell’officina del padre. I due si rinchiudono in un’auto, una Mercuri Grand Marquis del 1977, Diego non ha la patente, ma dopo un bacio con Sonia, decide di portarla a fare un giro: “E pensa: questa vita non è stata già vissuta. Le cose che devono succedere non sono ancora successe”. In “La figlia del giocatore” la protagonista è Mina, una ragazza cresciuta senza un padre, con una madre afflitta da gravi disturbi, una sorella più grande dalla sensibilità molto differente dalla sua, e con una vicina, Antonia, maestra elementare in pensione che l’aiuterà a crescere. Mina è ossessionata dall’assenza del padre e l’unica maniera per farlo rivivere è attraverso la scrittura, attraverso la composizione di racconti che vedono il padre protagonista, senza però che gli stessi abbiano un finale. Solo quando uno dei tanti racconti di Mina troverà la sua puntuale chiusura (“Infilando la lettera nell’album, a Mina sembra di aver trovato la fine della storia. Un vecchio che se ne va, un bambino in arrivo. Conservazione della specie: ecco le ultime righe, la morale che restituisce un senso alle vite senza senso”), la sua adolescenza potrà dirsi risolta. Nel quarto racconto, “La stagione delle piogge”, che ha come protagonista il dodicenne Pietro, il percorso di “esplosione” non potrà compiersi, per ovvie ragioni di età. Gli occhi di Pietro, però, diventano strumento privilegiato di analisi dello stato critico del matrimonio tra i suoi genitori. Incantevole la storia che chiude il libro. In “Tutte le cose che non so di lei” l’io narrante è il figlio della protagonista Anita. Partendo da alcune foto della madre adolescente, il narratore dà vita ad un intenso ritratto non solo familiare, quello della radicale voglia di crescita ed emancipazione di Anita e della sua ferrea lotta con la madre Gilda, ma anche storico, di un’Italia che non è più, l’Italia che negli anni Sessanta si liberò da numerosi tabù facendone un Paese migliore. Quello di Cognetti è un libro ben riuscito, totalmente coeso, stilisticamente pregevole. La conferma di uno dei più brillanti scrittori di racconti oggi in Italia. Federico Fiumani, Brindando coi demoni (Coniglio, 2007) Periodo intenso per Federico Fiumani, leader del gruppo, che oltre alla promozione del nuovo lavoro, ha da poco pubblicato “Brindando coi demoni”, sua autobiografia edita da Coniglio. Fiumani ha scritto canzoni memorabili, da molti critici è considerato uno dei grandi telepredicatore televisivo, divenuto sindaco nel 1993, eletto deputato nel 1996 con 33.960 voti, pari al 45,9 % dei voti, condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa, con conseguenti quattro anni di carcere scontati dal 2003 al 2007. Sino alla sua ricomparsa, pochi mesi prima delle elezioni comunali più delicate nella storia della città di Taranto, le prime dopo il dissesto finanziario da 800 milioni di euro prodotto dalla gestione scriteriata della precedente giunta. Con 40 chili in meno ed una Laurea in scienze giuridiche in più, Giancarlo Cito si candida come sindaco alle elezioni del 27 e 28 maggio. Il resto è storia nota, Cito viene fermato dai giudici, ma candida al suo posto il figlio Mario, il quale è il primo candidato sindaco a prendere il 20,2 % dei voti senza pronunciare nemmeno una parola. La campagna elettorale viene monopolizzata dal padre. È vero, Mario Cito non è stato ammesso per il rotto della cuffia al ballottaggio. È vero, le elezioni sono state vinte dal Ippazio Stefàno, rappresentante della sinistra massimalista, ma At6 è il partito che ha ottenuto più suffragi in città e, soprattutto, è tornato a vele spiegate il citismo, ossia un populismo in grado di intercettare “la pancia del degrado, la fine del sogno industrialista, il terrore dell’inquinamento industriale che si volta in malattia, nello sterminio lento e inesorabile di una parte della città”. Cito è tornato, quindi, e, conclude Leogrande: “Se non sono le moderne consorterie legate al porto e all’industria, sarà (a prendere il potere) ancora una volta una nuova forma di berlusconismo meridionale. E se non prevarranno né gli uni né gli altri, tornerà ancora Cito. Sempre Cito, solo Cito con i suoi fascisti da Amarcord all’assalto di una città sfibrata”. Complementare al testo di Leogrande, come detto, è “Il mare che non c’è” di Ornella Bellucci, dove è l’Ilva di Taranto la protagonista della sua inchiesta, e le condizioni di lavoro degli operai dopo il passaggio dell’azienda nelle mani di Emilio Riva, le morti bianchi che non cessano a diminuire, i morti per cancro che a ridosso dello stabilimento assumono percentuali preoccupanti, l’emissione di diossina che supera ogni quantitativo immaginabile. Dinanzi a tutto questo schifo la bellezza del mare della città è del tutto cancellata. Antonio Pascale, in “Il responsabile dello stile”, si sofferma con la sua consueta bella scrittura, sulla rappresentazione del dolore nei mass media, dedicando alcune pagine introduttive al Live Aid del 13 luglio del 1985, il grande concerto organizzato da Bob Geldof per sensibilizzare il mondo sul problema della fame in Etiopia e nell’Africa tutta. Da un lato, durante quell’evento trasmesso dalle tv di tutto il mondo, la successione di immagini di morte, carestia e apocalisse, dall’altro lato la voglia di canticchiare assieme a Mick Jagger e Tina Turner il motivetto di “It’s Only Rock and Roll but I Like It”. È l’inizio di una personale riflessione sull’alfabetizzazione del dolore piena di citazioni, esempi e interpretazioni. Silvia Dai Pra’, in “Cuor crocifisso”, partendo da una sua incursione al Family Day del 12 maggio, parla delle difficoltà di una trentenne d’oggi a far conciliare la propria voglia di maternità con le ambizioni lavorative. Oggi, molto spesso, decidere di avere un bambino vuol dire anche perdere il proprio posto di lavoro. Perché una donna in maternità costa troppo all’azienda: “Fai uno sforzo e mettiti nei panni dell’imprenditore. Me l’hanno detto Elisa, me l’hanno detto in tante. C’è la globalizzazione. La concorrenza è sfrenata. C’è la Cina, Cristo. Le aziende devono rendere al massimo, altrimenti chiudono, o delocalizzano. È il mercato, che vuoi farci?” In “Professione imam” Stefano Liberti racconta l’amicizia nata con Sami, gestore di un phone center e imam di una delle moschee più antiche di Roma. La conoscenza di Sami e di altri imam della capitale conduce Liberti a considerazioni come questa: “Erano passati diversi mesi dal nostro primo incontro: nel frattempo avevo conosciuto altri imam, tutti più o meno accomunati da questa doppia esistenza, questa schizofrenia tra il loro autorevole ruolo e una banale quotidianità da immigrati lavoratori”. Quello di Piero Sorrentino, in “Il corpo che siamo” è un viaggio allucinato nel mondo delle palestre, dove il doping è prassi. Colpisce davvero il numero e la pericolosità di sostanze che molti uomini e donne iniettano nel corpo per modificare la propria consistenza muscolare. Rischiano la vita per gonfiarsi sino a scoppiare, nel tentativo di costruirsi un’identità che lenisca l’insoddisfazione personale. E se Gianluigi Ricuperati in “La legione straniera del denaro” scandaglia in profondità la prassi del denaro prestabile, che contribuisce a far sì che l’economia nazionale si regga sui debiti, molto toccante è “Scandalo a Filadelfia”, l’inchiesta di Alberto Nerazzini, il quale, sceso a Filadefia, paese della Calabria situato tra Lamezia Terme e Vibo Valentia, intervista Angela Donato e Anna Fruci, madri rispettivamente di Santo Panzarella e Valentino Galati, giovani fatti scomparire nel nulla, aventi in comune il fatto di essere stati amanti di Angela Bartucca, moglie del boss Rocco Aniello. C’è un interrogativo che Nerazzini pone al padre di Valentino Galati: “Non trova allucinante perdere un figlio di diciannove anni per una storia di corna, nell’Italia del 2007?”. La risposta è affermativa. È allucinante. Ma l’Italia oggi è anche questa. Da un lato la voglia di sviluppo, di rinnovarsi, di guardare al futuro, dall’altro la presenza di una mentalità arcaica, di una stasi endemica, di un’infinita irresponsabilità politica. Aprendo le pagina di “Il corpo e il sangue d’Italia” si tocca con mano l’entropia di un Paese malato da rifondare. Riccardo, e uomo di grande umanità, fondatore, a Zurigo, di un rifugio per clandestini, tossici e reietti, figlio, a sua volta, di Gregorio, in fuga dalla guerra civile spagnola e, poi, in fuga dal puro orrore che ha contraddistinto l’ultimo periodo del secondo conflitto mondiale. Majorino costruisce un romanzo storico atipico, in cui gli eventi disposti secondo una precisa successione cronologica lasciano spazio al magma dei ricordi del vecchio Vincenzo, a sua volta tramandati o letti in vecchi appunti e diari gelosamente custoditi. Eventi minimi, esclusi dai volumi che tutto storicizzano, determinando ciò che resterà, in cui ciascun figlio si trova a ripetere l’esperienza del padre in una logica che si evolve senza cambiare e considera il mondo sempre allo stesso modo. Il succedersi di ciò che è stato è intervallato, nell’intero costruirsi del romanzo, dal resoconto di uno sciopero condotto da manifestanti agguerrite che lottano per conquistare un ruolo da protagoniste nelle loro esistenze, per nulla disposte a cedere a ricatti e soprusi, nonostante il dramma sopraggiunto: «Per le strade c’è un vociare che passa di bocca in bocca e di portone in porta. Si bisbiglia che è accaduto veramente e la televisione lo conferma: è morta la ragazza, travolta dalle masse di gambe, corpi, braccia fuori posto». Si genera un gorgo scomposto della memoria, che procede per accumulo di materia orale, resa artificio dalla cura di Majorino per la forma dell’espressione («Portava uno scialle colorato d’azzurro e un grande orecchino a forma di mezzaluna. I capelli arruffati e castani le cadevano disordinati sulle lentiggini e sulla pelle scura, una pelle segnata dalle linee di quel volto plasmato da uno scultore intento a imprimere la forma di uno sguardo pigiando forte con dieci dita»). Alla labilità delle vicende personali dei singoli protagonisti maschili, costante anche nel continuo viaggio spaziale e temporale, si aggiunge la presenza, in ciascuna delle loro vite, di figure femminili dall’immensa aura attrattiva, controcanto emotivo delle loro incrinature e debolezze, corpi ai quali aggrapparsi per non sprofondare. Manuela, Eleonora, Cristina, la piccola Josephine, che muore a dodici anni, figlia di Padre Alvarez, sorellastra di Vincenzo, a cui sarà intestata una villa, sono spie luminose di pura bellezza, idee alle quali consacrarsi nell’irriducibile prosaicità delle piccole storie di uomini esclusi dalla Storia delle pagine scritte. Vittorino Curci, Era notte a sud (Besa, 2007) Vittorino Curci, poeta, sassofonista, operatore culturale e, attualmente, Assessore alla Cultura della Provincia di Bari, ha da poco pubblicato “Era notte a Sud”, raccolta di racconti edita da Besa. Una ventina di brevi testi racchiusi in meno di cento pagine per parlare di una terra, il sud est barese, ricca di storie e personaggi bizzarri, quest’ultimi definiti da Curci, facendo sua una definizione dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, pàbitelé, ovvero sbruffoni che “con le loro chiacchiere e i loro sogni mettono in scena, senza mai annoiarsi, un mondo meraviglioso che comincia nel punto in cui le persone normali si fermano”. Paradossali, grottesche e tragicomiche sono le vicende che strutturano la raccolta. Si va dalla storia del vecchio Schettini, che una notte trafugò il cadavere della moglie dal cimitero di Putignano e per lei costruì i monumenti più belli d’Italia in scala ridotta, a quella del commerciante di legna, in profonda crisi economica, che strappò dalle mani del suo creditore una cambiale che aveva firmato, mangiandola per far sì che se ne perdesse ogni traccia, o, proseguendo, dalla storia di Gesù, il barbiere che durante la guerra suonava la chitarra ai festini in casa, alle pagine che hanno come protagonista l’impiegato comunale che, fuori tempo massimo, si ostinava a tenere nel suo ufficio in bella mostra una foto di Mussolini. In questo diorama variegato di racconti meritano una menzione Gemino, un anziano che, grazie a dei poteri inspiegabili, dava i numeri del lotto facendo arricchire l’intero paese, e Pupuccio, un bidello di scuola media, al quale capitò di uccidere con un pugno secco al mento un collega che si beffava sempre di lui, ma una volta commesso il delitto, pensando al dolore che stava per procurare alla moglie e ai figli del malcapitato, decise di farlo resuscitare praticando un massaggio cardiaco. E l’elenco di questi guasconi di provincia sarebbe davvero sterminato. Questi di Curci sono racconti minimi, che esauriscono il proprio percorso narrativo nel breve giro di un paio di pagine, piccoli bozzetti ai quali manca il colore della complessità rappresentativa, in cui si predilige la chiusa ironica e scanzonata. Non sono presenti, a differenza di quanto scritto in quarta di copertina, immagini di alta poesia. La poesia è altra cosa e Curci lo sa bene, visto che ha pubblicato, negli ultimi anni, libri di versi di rara bellezza. “Era notte a Sud” è un tributo di Curci alla sua terra, agli uomini che l’abitano e a quei personaggi che, anche se considerati da tutti mentecatti e scemi del villaggio, “hanno la capacità di reinventare continuamente la vita”. Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli, 2007) Quattro donne sotto assedio a Mitrovica, in Kosovo, durante il conflitto più dimenticato della storia moderna: la guerra fratricida nella ex Jugoslavia. Un’inviata scrive al direttore della testata per cui lavora pagine di un reportage che mai sarà spedito. Ci sono passi di rara bellezza in Sappiano le mie parole di sangue, l’esordio di Babsi Jones, edito da Rizzoli, nell’onnivora collana 24/7, pagine in cui testa espansa, cazzi, matrici, uno stilista di nome Lupus, una ragazza con l’acne e una non c’è assorbente che tenga, corpi che si arrovesciano nella corsa, indossatrici dal naso pieno di merda, ragazze scartavetrate che esplodono come soli, in questo mondo possibile da brividi, in questa finzione che spinge al vomito, al contorcerci delle budella delicate. Prendete, per esempio, questo breve esempio, inizio del Canto dei cazzi:<< Stiamo convergendo anche noi da tutte le parti verso quel punto, sui nostri lunghi arti che si stagliano nella notte, i nostri cazzi fosforescenti, giganti. Spinti fuori dall’osso pubico puntato in avanti per questa corsa arcuata, crescente, come quelle schiere di insetti che vengono avanti in formazione coi loro pungiglioni innestati nel brulicare dell’aria messa in fermentazione da una miriade di ali trasparenti, innervate>>. Tra questi canti, che sostengono ritmicamente la narrazione, esiste un filo conduttore rappresentato da una campagna pubblicitaria mai osata prima, che porterà alla vendita del pianeta Terra. Canti del Caos è la moderna discesa negli inferi, dove vengono cinicamente ed esasperatamente esplorate le dimensioni più vorticose dell’economia, della pubblicità, della moda, della televisione e della virtualità dirompente, con un’azione corrosiva che distrugge ogni etica ben confezionata, modellata e impasticciata a dovere. Quello di Moresco rappresenta un viaggio ultimo, con il mondo preso per la gola, strangolato, sfibrato, un viaggio che sfida le trame del romanzo creando una struttura stilistico – formale e contenutistica senza precedenti. Moresco, con Canti del Caos, distrugge le definizioni ben iniettate di generi, storie, personaggi, proiettandoci con violenza in un punto, forse, per la letteratura, di non ritorno. Christian Raimo, Dov’eri tu quanto le stelle del mattino gioivano in coro? (minimum fax, 2004) Dov’eri tu quando le stelle del mattino giovano in coro? (minimum fax) è la seconda raccolta di racconti di Christian Raimo, dopo il fortunato esordio con Latte, uscito nel 2001, Premio Tondelli e Premio Settembrini. I racconti presenti nel testo sono apparsi, in versioni spesso diverse o parziali, sulle pagine romane di Repubblica, Il Caffè illustrato, Accattone – Cronache Romane, Fernandel, Linus, Nuovi Argomenti, ‘tina, www.nazioneindiana.com. Raimo è stato curatore, assieme al barese Nicola Lagioia, della fortunata antologia, sempre targata minimum fax, La qualità dell’aria, con venti autori under 40 che raccontano, attraverso i loro racconti l’Italia dei nostri tempi. Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? parla di ragazzini che girano l’Italia a piedi, di suore in crisi di vocazione, di innamorati che temono di divenire assassini, di angeli poco credibili, di malati terminali ancorati alla propria debolezza, bambini prodigio sballottati da un destino ironico. Eccone un assaggio, tratto dal racconto finale Il segno di Giona: “La prima volta che ho sofferto veramente. Ha che a fare con le nervature di questo tessuto urbano. Con le strade che invece dell’asfalto sono composte di sampietrini, e sembrano colonne vertebrali. Immagina: le vie come tracce fossili di spine dorsali di animali estinti. Ha a che fare con il terrore più acuto che sono capace di concepire. Faccio fatica a pronunciare quest’espressione – ciò che della lingua italiana mi fa più paura – il cancro alle ossa”. La scrittura di Raimo si muove con molta forza tra le pieghe dei sentimenti e delle emozioni, delle fobie e delle ansie che sono linfa della nostra generazione. Questi racconti sono atti di fede nell’umanità di coloro che sono costretti ad attraversare questo tempo guasto, a reagire a una catastrofe sentimentale che riguarda non solo loro stessi, ma un’intera generazione e si ostinano a cercare una forma di desiderio e d’amore senza compromessi. Con questo secondo libro, Raimo entra di diritto nella schiera dei migliori giovani autori italiani, accanto a Flavio Santi, Mario Desiati, Umberto Casadei, Tommaso Pincio e Valeria Parrella, solo per citarne alcuni. Giuseppe Genna, Grande Madre Rossa (Mondadori, 2003) Grande Madre Rossa di Giuseppe Genna è un romanzo che lascia senza fiato. Dall’autore di Catrame, Nel nome di Ishmael e Non toccare la pelle del drago arriva il thriller che sonda causticamente i mali della nostra “italietta” e di questo “mondaccio” che crolla a picco e stenta a ridestarsi. Tutto ha inizio con una fragorosa esplosione. Crolla il Palazzo di Giustizia di Milano. Oltre mille morti. Questo inizio non lascia sorpresi. Dopo New York e Madrid i limiti dell’irreale che viene iniettato nella bolla del mondo possibile- romanzo hanno subito un innalzamento in percentuale da brividi. Questo inizio non lascia sorpresi, ma fa paura. Compare Guido Lopez, investigatore presente nei precedenti romanzi di Genna, il quale organizza i lavori volti al recupero dello Schedario sepolto nel cratere del Palazzo di Giustizia. Nelle carte dello Schedario sono sedimentati segreti indicibili che riguardano anche il Presidente del Consiglio. Dove finisce la finzione? Dove comincia la realtà? Lopez entra in un livello di indagine che lo porta alla scoperta di una cellula terroristica eversiva europea, Grande Madre Rossa, che ha organizzato la distruzione del palazzo. Lo Stato ha trucidato tre islamici, considerati colpevoli. Lo stato ha commesso un errore. Gli Islamici non (sempre) c’entrano. Grande Madre Rossa colpirà ancora nel giorno dei funerali di stati delle oltre mille vittime. Grande Madre Rossa colpirà contemporaneamente a Milano, a Roma, ad Aviano, a Bari, a Siena, a Firenze. Grande Madre Rossa colpisce i punti nevralgici della Nazione. Dal trionfo assoluto del terrore la possibilità di una nuova rigenerazione per uno Stato, il nostro, incancrenitosi tanto che puzza da fare schifo. Il romanzo di Genna è un viaggio angosciante nel Male che corrode il nostro mondo. Stile teso, coinciso, vibrante, sincopato, con alcune pagine di grande pagate soldoni, ché questa è la mia storia, credetemi, per quel fatto dell’onestà che a noi di dire le bugie e di essere falsi manco con te stesso te lo puoi permettere, le cose te le dici in faccia anche da solo, sarà per questo che ci stiamo tutti un po’ antipatici, quelli della congregheria mia dico, i Lanzillotti”. Un buon esordio, divertente, per molti tratti scorrevole, che lascia ben sperare per gli esiti futuri del giovane Lanzo. AA.VV, Teoria e tecnica dell’artista di merda (Valter Casini, 2004) Prendete dalle vostre librerie fetide tutte le antologie sparatevi nelle vene in questo 2004, dagli Intemperanti di Meridiano Zero a La qualità dell’aria di minimum fax, passando per l’orrenda Viva l’Italia! di Fandango, mettetele nel vostro camino per dare fuoco al tutto, poi recatevi nella più vicina libreria e chiedete al vostro rivenditore di fiducia Teoria e Tecnica dell’artista di merda, edito da Valter Casini, e capirete che la letteratura ha (forse) ancora senso. Partiamo dal curatore di questa atipica antologia, Claudio Morici, il quale nell’introduzione, dopo aver chiarito il riferimento del titolo al testo di Philip K. Dick Confessioni di un artista di merda, conclude dicendo: “L’ultima volta che ho sentito al telefono Micheal Jackson abbiamo parlato proprio di questo. Gli ho raccontato di Teoria e tecnica dell’artista di merda, perché voleva saperne di più. Gli ho detto che non sarebbe stata un’antologia di giovani artisti brillanti, contemporanei, pronti a far parlare di sé. Probabilmente nessuno di noi pubblicherà tra cinque mesi con Mondadori o registrerà con la Virgin. Tra dieci anni non leggeranno i nostri nomi dicendo “Erano già tutti lì”. Forse nemmeno avremo un momento di notorietà, questo libro non è Saranno Famosi, ci leggeranno 1.000/3.000 persone massimo: così vende la media editoria. Questo libro si autodistruggerà dopo che l’hai letto. Anche io mi autodistruggerò. Spero ti distruggerai un po’ anche te, che farai cadere almeno dei pezzetti”. Il testo è diviso in sei capitoli, ciascuno dei quali ospita un numero imprecisato di artisti di merda con loro testi di merda, ma questo odore tanto sgradevole di feci penso sia la chiave migliore per leggere il nostro tempo, infatti Teoria e tecnica dell’artista di merda è un’antologia sui mali oscuri che affliggono la nostra generazione nell’epoca dell’italietta berlusconiana. Il primo capitolo ha come titolo L’artista di merda fa il doppio lavoro (il secondo in omaggio), e ospita autori quali Marco Andreoli, Andrea Carbone e Miriam Bendia, alle prese con la lotta quotidiana della precarietà lavorativa. Il secondo, dal titolo L’artista di merda è in servizio 24 ore su 24, contiene un testo di Gianluca Gigliozzi, Il giovane disoccupato come avanguardia sociale. Una sintesi teorica, scrittore che ha trascorso gli anni più belli della sua giovinezza nella stesura di Neuropa, un romanzo folle, colto, geniale, tanto apprezzato quanto impubblicato. Il capitolo terzo, L’artista di merda ruba, contiene, tra gli altri, un testo di un autore Anonimo, su come rubare nelle grandi librerie senza farsi fottere, il capitolo quarto, L’artista di merda è di Moda, ospita Matteo Galiazzo, autore pubblicato da Einaudi dimenticato, Marco Mario De Notaris, attore che sopravvive grazie ai suoi ruoli nelle fiction televisive. Ci avviciniamo alla fine e ci si avvicina anche ad alcuni testi che rasentano la follia. Nel quinto capitolo, L’artista di merda non è un genio incompreso, c’è un testo di Gianfranco Marziano, Le più grandi invenzioni del millennio furono fatte da artisti di merda. Un’affascinante ipotesi storiografica. Eccovene un assaggio: “1225. ADALGISO DA CAPASOTTA PISCIA IN CULO ALLA SUOCERA E SCOPRE L’ACIDO ASGUORBICO. 1405: IL CHIMICO EVERALDO DA NORCIA RIESCE A POLARIZZARE UNA VARRA DI RAME E SE LA CHIAVA IN CULO. GIRANO COME I SCIEMI. 1850: DARWIN PIGLIA L’A8 SALERNO BATTIPAGLIA A ORA DI PUNTA. QUANDO SCENDE, VA A CASA A SCRIVERE L’ORIGINE DELLA SPECIE. 1891: GUGLIELO MARCONI COSTRUISCE LA PRIMA RADIO. 1891: (LA SERA) GLIELA FOTTONO DA DENTRO LA MACCHINA”. Il libro nel finale sembra virare verso il demenziale, ma questo lo rende più spassoso, mai noioso, scorrevole e nel contempo riflessivo. L’ultimo capitolo, il sesto, dal titolo L’artista di merda è invincibile, si conclude con il testo di Pino Boresta L’imponderabile e misterioso scorrere della vita. Ovvero dove vanno gli spermatozoi?. Provate anche voi a fare due conticini: “Ho contato anche tutte le volte che ho avuto dei rapporti sessuali, considerando tra questi anche i rapporti orali. Ad oggi 4 marzo 1999 sono 1058 gli orgasmi ottenuti durante rapporti sessuali con donne. Fino ad ora solo con donne. Ho cronometrato che un orgasmo da rapporto dura in media 20”, cinque secondi in più dell’orgasmo autoprocurato. Ho calcolato così in ore il totale del tempo goduto: 1058*20”=211160”=5h8’. Ho quindi sommato le ore delle due categorie cioè: orgasmi da masturbazione + orgasmi da rapporto, ottenendo con buona approssimazione il totale di tutti gli orgasmi della mia gloriosa o misera (secondo i punti di vista) esistenza: 15h25’+5h8’=20h33’. Ho così scoperto che manca poco meno di tre ore e mezzo per raggiungere la famigerata 24° ora che segnerà un gio0rno intero di “orgasmato”. Cosa accadrà allora?”. Il delirio della scrittura si è compiuto. Per chi volesse avere maggiore notizie sul libro può consultare il sito www.valtercasini.com. Emanuele Trevi, Senza verso (Laterza, 2004) La Laterza, casa editrice storica di Bari, alla quale sono legati i nomi più importanti del pensiero filosofico e politico del Novecento italiano, si apre alla letteratura contemporanea, e lo fa con una collana, “Contromano”, che nulla ha da invidiare, sia nella scelta degli autori, sia nell’impostazione grafica, ad altre case editrici che pubblicano narrativa. La collana “Contromano” ha già dato alle stampe sei libri, tra cui spiccano “Milano non è Milano” di Aldo Nove e l’ultimo, da pochi giorni in distribuzione, “Senza verso. Un’estate a Roma” di Emanuele Trevi. Trevi collabora al “Manifesto”, alla cronaca romana di “Repubblica” e ai programmi di Radio Tre. È uno dei più noti scrittori della nuova generazione. Ha pubblicato “Istruzione per l’uso del lupo” (Castelvecchi, 1994), “Musica AA.VV., Best Off 2005 (minimum fax, 2005) Nuova pubblicazione all’interno di nichel, la collana di narrativa italiana della minimum fax, che ha già dato alle stampe successi quali Latte di Christian Raimo, Mosca più balena di Valeria Parrella e Il caso Vittorio di Francesco Pacifico. Best off raccoglie il meglio della produzione narrativa uscita negli ultimi anni all’interno delle riviste italiane, curata da Antonio Pascale, autore di La città distratta (Einaudi 2001) e La manutenzione degli affetti (Einaudi 2003). Il titolo, parodia anglofona del più noto “best of”, si sofferma sul ruolo marginale che hanno le riviste di letteratura nel variegato humus editoriale italiano. Una marginalità che deriva non dall’assenza di contenuti degni di essere letti, ma dalla difficoltà delle stesse riviste di essere distribuite in un numero dignitoso di librerie e di conseguenza di essere vendute. Ora che le librerie Feltrinelli hanno preso l’infausta decisione di dare un taglio radicale ai titoli da accogliere nelle loro strutture, l’invisibilità di molte riviste si accentuerà in maniera esponenziale. Antonio Pascale, nella prefazione al testo, spiega le ragioni che lo hanno spinto a dare vita ad una simile operazione editoriale. In primis “perché alcuni pezzi sono troppo belli. Troppo belli per rimanere confinati alle poche centinaia di lettori che comprano riviste”. Una seconda ragione è legata alla presenza di ottime riviste online, come Nazione Indiana. Il passaggio dal virtuale al cartaceo, a parere di Pascale, rende maggiore giustizia ai pezzi interessanti presenti. “La letteratura è uno strumento lento, almeno a me così piace pensarla. E dunque richiede una fruizione lenta, non è importante scrivere ma riscrivere, così come non è importante leggere ma rileggere”. La terza ragione è che “volevamo riuscire in un’impresa, far dialogare le riviste tra loro. Proporre ai direttori e ai collaboratori uno scambio di idee”. I racconti, i saggi, le recensioni e le interviste presenti in Best off sono tratti da Accattone – Cronache romane, Il caffè illustrato, Una città, Fam – Frenulo a mano, Maltese Narrazioni, Nazione Indiana, Nuovi Argomenti e Lo Straniero. Gli autori antologizzati sono Vanessa Ambrosecchio, Maurizio Braucci, Cristiano De Majo, Andrea Falegnami, Goffredo Fofi, Vittorio Giacopini, Alessandro Leogrande, Ettore Malacarne, Francesco Màndica, Emiliano Morreale, Francesco Pacifico, Roberto Saviano, Attilio Scarpellini, Piero Vereni, Paolo Zanotti. Il testo è diviso in tre parti tematiche, la prima dedicata al Territorio, la seconda all’Immaginario, la terza al Lavoro. Meritano un’attenzione particolare, per i temi trattati fortemente legati alla realtà, Annalisa. Cronaca di un funerale di Roberto Saviano, che si sofferma sul clima irreale che si vive nella Napoli succube delle lotte tra i clan di Camorra e La rivolta di Melfi di Alessandro Leogrande, sulla rivolta degli operai della Fiat dello scorso anno. Per gli esisti narrativi una segnalazione di riguardo Saponi Tristi. La prima soap opera trasmessa da un sito di narrativa (una roba sdolcinata che non finisce mai) di Cristiano de Majo e L’idea di equilibrio di Andrea Falegnami. L’operazione di Antonio Pascale merita rispetto perché non facile, perché implica un criterio di selezioni e scrematura duplice che riguarda e le riviste e i testi delle stesse, con le conseguenti esclusioni eccellenti inevitabili. Perché, per esempio, non avere inserito testi tratti da Carmilla o dai I Miserabili? Perché non aver dato maggiore spazio alle riviste online? Perché è sulla rete che il dibattito tra scrittori, editori e critici sta prendendo piede come non accadeva da tempo. Nonostante questi interrogativi, Best off rappresenta un primo esperimento riuscito, che si propone di legittimare il lavoro delle redazioni di riviste letterarie. Da ripetere. Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo (minimum fax, 2008) C’è chi nell’adolescenza (“quel periodo oscuro in cui ogni manifestazione dell’animo umano viene analizzata e classificata solo in base a dati anagrafici”) scopre di avere un’innata capacità nel suonare la chitarra o nel disegnare corpi umani e chi, come Matteo Carnevale, protagonista di “Il dolore secondo Matteo” (minimum fax), romanzo d’esordio di Veronica Raimo, arriva alla conclusione di essere incapace di provare dolore. Questa assenza del sentimento forse che più d’ogni altro caratterizza e contraddistingue noi essere umani nella nostra quotidianità, spia che s’illumina nei nostri momenti di sconforto, ha, inevitabilmente, le sue ripercussioni nella vita del protagonista (“Non so imbarazzarmi, non so arrossire, non so cambiare il tono della voce concedendomi un’inflessione più timorosa, o un lieve tremolio delle corde vocali”). Matteo, oramai trentenne all’inizio della narrazione, da qualche anno lavora presso un’agenzia di pompe funebri. Un lavoro che sembra essere cucito su di lui. Non provare dolore, anzi godere del dolore altrui, e lavorare in un “settore” nel quale il dolore è l’elemento dominante, il leitmotiv degenere col quale ogni giorno confrontarsi. Cosa si può chiedere di meglio. Non è stato un lavoro cercato, ma, come molte delle cose che strutturano la vita di Matteo, venuta quasi per caso, sul treno Lecce-Roma, di ritorno dal matrimonio di un suo ex compagno di classe. Qui avviene l’incontro con Filippo, truccatore di cadaveri ed omosessuale, figlio di Gustavo proprietario dell’agenzia funebre. Filippo, che presto s’innamora di Matteo, gli propone di lavorare con lui (“ ‘Non sembra, ma è una cosa molto divertente’, mi garantiva. E poi era un impiego sicuro, stabile, la gente avrebbe continuato a morire per molti anni ancora”). E così ha inizio cerca di donne aitanti, poi è la volta di Bahia, dove la vita costa meno, visto il lento diminuire del credito in suo possesso, poi il ritorno, in uno stato pietoso in Europa, nuovamente a Parigi: “Mi sono diretto deciso all’Air France. Ho mostrato il mio biglietto e ho detto: ‘Devo tornare a casa adesso oppure muoio’”. Da Parigi a Cannes, grazie all’invito di una sua vecchia fiamma, Susanne, nella settimana del Festival del Cinema. Mongardo trova lavoro presso un ricco produttore cinematografico, dove partecipa a party in compagnia di Uma Thurman, Nick Nolte ed un numero di star davvero spropositato. Le pagine più brillanti del libro sono quelle in cui Mongardo scorazza con Nolte per la città alla ricerca di rum e donne con cui intrattenersi. Gli incontri, però, non finiscono qui. Mongardo conosce Theo, un commerciante di quadri e gioielli di origine greca. Insieme si recano a Barcellona, poi New York, poi accade l’imprevisto e Mongardo resta solo, è costretto nuovamente a fuggire, in compagnia di un grosso diamante che conserva nel più sacro dei buchi, destinazione Città del Messico, dove viene a sapere della morte della madre, per poi giungere a L’Avana. Meno di duecento pagine ricche di colpi di scena, di spostamenti nello spazio, nei quali Mongardo viene travolto dagli eventi, frequenta la gente più disparata, dalle prostitute ai divi di Hollywood, dai poveri disperati delle periferie cubane ai ricchi faccendieri europei. A questa tribolazione di contenuti corrisponde una parallela effervescenza linguistica. Non c’è spazio in questo libro per artifici letterari, espressionismi ricercati o quant’altro. A tessere il mondo di Mongardo è una lingua viva, calda e necessaria, senza fronzoli, priva di orpelli, che olezza di vita vissuta. Alla fine del viaggio, come è giusto che sia, ci troviamo dinanzi ad un Mongardo diverso, cambiato, perché no, cresciuto. “Sono orfano e uomo”, scrive Mongardo a conclusione delle sue peripezie. Sintesi perfetta dell’avvenuto mutamento. Gaetano Cappelli, Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo (Marsilio, 2007) Grande Gaetano Cappelli! Ogni suo romanzo è spasmodicamente atteso e letto con altrettanto gusto dai suoi affezionati lettori. E, certamente, la sua ultima fatica, dal titolo curioso di “Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo”, conferma le eccellenti doti di narratore dello scrittore potentino. È vero, è davvero difficile riuscire a replicare un romanzo come “Parenti lontani”, capolavoro assoluto di Cappelli, e uno dei romanzi più brillanti e intensi tra quelli pubblicati in Italia negli ultimi dieci anni, ma, il suo marchio di fabbrica è duro a morire ed è ben evidente anche tra le pagine di “Storia controversa…”. Poi c’è anche Antonio D’Orrico, il Re Mida del giornalismo culturale italiano, che trasforma in oro ogni libro recensito e incensato, che ha dedicato un lungo articolo al libro in questione. Certo, ha definito Cappelli il Roth italiano. Con azzardo, a mio parere. Cos’hanno in comune i due? Un ricorso costante all’arma dell’ironia? Ma in Roth c’è quel continuo navigare sull’orlo del tragico che in Cappelli manca. Preferendo alla tragedia la tragicommedia. E tragicomico è Riccardo Fusco, il protagonista del suo nuovo romanzo, ricercatore universitario, con poca volontà di far carriera all’interno del paludato mondo accademico, sposato con Eleonora, regista della compagnia teatrale della città, donna facilmente attratta da attori giovani e aitanti, con quattro figlie piccole da accudire. La sua vita scivola via apatica. Senza scossoni. Con i ricordi di una giovinezza vissuta alla grande che fanno da sfondo al suo presente svuotato. Come ogni romanzo che si rispetti, l’elemento che smuove la narrazione è l’incontro con Graziantonio Dell’Arco, un suo coetaneo che da sfigato ragazzo di provincia si è trasformato in un imprenditore immerso da donne e denaro. Con un grande nemico che mina la sua ascesa nel mondo dorato del capitalismo tricolore. Il nemico in questione è Yarno Cantini dei conti del Canto degli Angeli. Un produttore di vini. Uno che ha sputtanato Graziantonio alla grande definendolo un cafone arricchito. Non che avesse tutti i torti, ma Graziantonio desidera vendicarsi. E l’unico che può aiutarlo in quest’impresa è proprio Riccardo, il quale conosce Chatryn Wally Triny, la sofisticata critica newyorkese cui spetta di stabilire qual è il vino migliore al mondo. L’obiettivo di Graziantonio è sfondare con il suo Aglianico, entrare nella classifica dei vini più buoni al mondo, scalzando il Chianti prodotto da Yarno Cantini, ma tutto questo sarà possibile solo se Riccardo riuscirà a far capitolare, come già successo molti anni prima, l’affascinante americana. Storia di uomini alla ricerca del successo. Storia di cadute e rinascite. Storia di Riccardo Fusco, che cerca un riscatto per questa sua vita sfuggitagli troppo presto di mano. Con finale che non sveliamo. Cappelli ha fatto nuovamente centro. Marco Candida, La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007) Al centro del romanzo d’esordio di Marco Candida, La mania per l’alfabeto, edito da Sironi, c’è un fantasma, che tutto ordina e muove, che determina le azioni e scandisce le relazioni tra i personaggi, s’insinua nello spazio e nel tempo della storia, invade ogni singola “Uno che conta”, un cassiere di banca con la smodata passione per la scrittura, il quale, dopo un numero di rifiuti editoriali esorbitante, ottiene una telefonata inaspettata, in un momento a dir poco provvidenziale: la Mondadori ha deciso di pubblicare il suo “Storie da camera”. Finalmente il destino del quarantenne scrittore subisce uno scossone dirompente tale da fargli prefigurare rivoluzionari mutamenti nella sua grigia quotidianità. Dopo la pubblicazione del romanzo, cominciano le interviste, le recensioni, addirittura una collaborazione con il “Corriere della Sera”, presto conclusasi, che sarà alla base di una personale querelle con la poetessa Patrizia Valduga, alla quale scrive una lettera in cui si evidenzia il suo atteggiamento intransigente nei confronti di tutto il mondo delle lettere: “I poeti anemici dell’Einaudi sono così algidi e tristi e inermi che fanno poesia da obitorio. Oppure le grandi e intoccabili mummie come Zanzotto (glaciale), Luzi (che ha osato scrivere un elogio del Tricolore), la Spaziani (che si ciba da sempre di pane & Montale) o i tromboni come Conte o Carifi e potrei andare avanti per giorni, visto che in quest’ultimi vent’anni ne ho lette di cagate e masochisticamente ne leggerò perché a me piace sputare su cose che conosco”. Ecco in sintesi un ritratto dell’autore di “Storie da camera”, la cui misantropia è accentuata anche dal fatto che il suo libro è entrato nella classica dei più venduti. Si sente, oramai, “uno che conta”, ha raggiunto, finalmente, lo status di scrittore rispettabile. Anche nella sua città lo riconoscono come tale. La parabola, però, si fa presto discendente. Sarà soprattutto l’amore per una splendida ragazza, Valeria, mai ricambiato, a far piombare lo scrittore in uno sconforto assoluto. A ciò si aggiunge il successo del libro, rivelatosi effimero, fugace: “Dopo un momento di gloria – adesso che è finito mi sembra solo un momento – il mio romanzo è sparito dalla classifica. E anche quello era solo un bluff. Il solito Camilleri aveva schiacciato le percentuali, per cui quel decimo posto (la mia gioia, la delizia che mi aiutava a vivere), significa che ho venduto un migliaio di copie appena”. Dopo la gloria, il crollo. Nonostante l’amara ironia che serpeggia tra le pagine, l’epilogo della storia non lascia spazio a speranze. Il sipario sulla storia cala sulle note di uno struggente Bach. Claudio Morici, Actarus (Meridiano Zero, 2007) pagine di puro divertimento Operazione davverro fuori dal normale quella compiuta da Claudio Morici con il suo nuovo romanzo, Actarus. La vera storia di un pilota di robot, edito da Meridiano Zero. Come prendere uno dei cartoon culto per i bambini nati negli anni ‘70 e trasformarlo in una storia grottesca. Perché Actarus, il pilota di Goldrake, non ne può più di lottare contro Vega. Stanco, come non gli era mai capitato, decide di volersi prendere una pausa, magari una bella vacanza a Fleed, dove regna la pace suprema e dove per entrare all’Ikea basta spendere uno yen e poi puoi comprare tutto quello che vuoi. Sì, vorrebbe prendersi una bella vacanza, ma il Dottore non è consenziente. C’è da sconfiggere il nemico. Vega è pronta a scagliare sulla terra le sue armi distruttive. La salvezza dell’umanità è nelle mani di Actarus, il quale, non sopportando tutta questa responsabilità beve come un dannato. Actarus è un alcolista e la cosa più assurda è che l’unica cosa che riesce a bere è la birra Peroni. Questa situazione davvero insopportabile continua sino all’incotro con Roberta, una stupenda ragazza, che vende ad Actarus quaranta confezioni di margherita, una sorta di infuso i cui proventi andranno poi ai bambini poveri. E sarà proprio Roberta a dare una svolta alla vita di Actarus. In fondo, non esiste solo il bene dell’umanità. Oltre alle alabarde spaziali e ai missili perforanti c’è una vita da portare avanti. Actarus parte da Roberta per ricominciare a vivere. Ma le donne, come si sa, nascondono insidie impensabili. E il povero Actarus non regge quest’altro colpo tremendo. Con “Actarus” Claudio Morici si conferma uno tra i più folli scrittori della nuova generazione. Per chi volesse addentrarsi in duecento pagine di puro divertimento, ecco il romanzo giusto. Giancarlo Onorato, Il più dolce delitto (Sironi, 2006) Era la fine degli anni ’90. Ero studente universitario ed un mio amico, nel nostro continuo scambiarci musica e libri da leggere, mi regalò una cassetta del cantautore Giancarlo Onorato: “Io sono l’angelo”. Ora ho tra le mani questo suo romanzo, Il più dolce delitto, pubblicato di recente da Sironi. L’ho letto in questi giorni di tregua pasquale. Ho ritrovato nelle pagine del libro la stessa intensa, estrema ed ossessiva vena lirica presente nell’unico suo album da me ascoltato. Il romanzo racconta la storia del Dottor Marlo, giovane medico inviato in una clinica psichiatrica situata nel cuore della Svizzera, per far luce su presunti abusi e violenze ai danni delle pazienti. Non solo gli abusi in questione sono presenti, ma lo stato di salute mentale di molte pazienti è davvero al limite del sopportabile. Tra queste c’è Geli, adolescente gracile ed inavvicinabile. Marlo s’innamorerà perdutamente di lei. E tutta la storia ruoterà attorno a questa indicibile, incontrollabile ed inspiegabile relazione che imprigionerà medico e paziente. C’è un elemento che più di ogni altro colpisce nella storia in questione: la densità emotiva della scrittura di Onorato. In questo gorgo violento nel quale normalità e lei non si chiama Laika, perché lei non ricorda un cazzo del passato. Il suo vero nome? Era felice? La sua famiglia? I suoi amici? Non ricorda un cazzo di niente. Laika senza il matematico che le fornisce il denaro non può pagare la sua camera d’albergo. Paga con il proprio corpo. Si fa stuprare da un dipendente dell’albergo e da un suo amico. Lei osserva tutto da una crepa del soffita. Laika ha leccato la polvere rossa, quella che ti fa sballare come matti. Poi viene scagliata fuori, nei pressi dello studio di William Burroughs, investigatore psichiatrico, specialista in pedinamenti psicosomatici e ritrovamenti degli stati di coscienza. Ancora una volta Pincio utilizza il suo amato Burroughs, derealizzandolo (Burroughs scrittore nella realtà diviene Burroughs investigatore psichiatrico nel romanzo). Procedimento utilizzato per tutti i personaggi di Lo spazio sfinito. Burroughs è l’hombre invisible che mai compare nel testo. Aleggia la sua cattiva fama. Si dice che abbia voluto fare il figo mettendo una mela in testa alla moglie con l’intenzione di imitare Guglielmo Tell. Risultato: moglie colpita in pieno cranio con pistola di grosso calibro. In questo il Burroughs reale viene a coincidere con il Burroughs fittizio. Interpretano se stessi nel romanzo altri due mitici esponenti della Beat Generation. Ad un certo punto della narrazione si fa un salto nel passato, si parla di Kinky Baboosian, siamo in pieni anni Sessanta, movimento hippy al culmine del suo potenziale utopico. Kinky altro non è che la madre del folle matematico mangiatore di vocali. Lei, ribelle e libertina come molti in quegli anni, si ritrova vestita da coniglietta di Playboy lunga le strade del continente americano. E chi ti va a beccare? Ken e Neal e altri sballatoni, su uno strano furgoncino multicolore. Ken è Ken Kesey, che con le sue indigestioni pilotate di Lsd, psicolocibina, mescalina, peyote, e gli happening organizzati ovunque, apre la strada alla generazione hippy. Neal è proprio lui, Neal Cassady, il Dean Moriarty di On the road, chiamato da Kesey a guidare il furgone dei Merry Pranksters per migliaia e migliaia di chilometri nella ricerca spasmodica di un’esistenza più autentica. Cosa cazzo c’entrano Ken e Neal in tutto questo? Bene, a quanto pare ci sono buone probabilità che il padre del matematico con problemi di linguaggio sia proprio Ken Kesey. Ma visto tutti gli uomini che la madre Kinky si è scopata nella comune nella quale vivevano tutto assume la prospettiva nebulosa dell’incerto. E Laika che fine ha fatto? La narrazione, ad un certo punto, per analessi si volge indietro. Dalla terza persona iniziale che si sofferma sulle sofferenze inspiegabili di Laika Orbit, si passa alla prima persona, che altro non è che il matematico morto. Dall’oltretomba il matematico Zxyz, dal nome più simile ad un codice fiscale che ad altro, racconta la sua storia, la sua infanzia passata in una comune californiana, la sua passione per i calcoli impossibili, lo spostamento ad Amsterdam, la fine progressiva e inevitabile della chimera hippy, l’abbandono dalla madre, l’ossessivo infittirsi di numeri nel suo cranio, il ritorno della madre a distanza di anni, il sesso incestuoso che consumano, l’autoconvincersi che un senso di follia sembra impossessarsi di lui, anzi no, l’immedesimarsi con le vicende esistenziali di un certo K, matematico incarcerato per atti di terrorismo, che altro non era il primo ragazza ad avere infilato le mani tra le cosce della madre molti anni prima, poi il precipitarsi degli eventi sino al congegno esplosivo che invade il finale. E Laika Orbit? Leonardo Colombati, Perceber (Sironi, 2005) Ho completato la lettura di Perceber, romanzo di esordio di Leonardo Colombati, giovedì 2 giugno, festa della repubblica, una giornata piena zeppa di parate istituzionali nelle quali presidenti della repubblica, del consiglio, del senato, della camera, ministri, viceministri e sottosegretari s’incontrano per iconizzare nel formalismo più esasperato le gioie sontuose di un’Italia libera, democratica e repubblicana. Stanco di queste formalità snervanti che la tv ti spara a mitragliatrice nel corso dell’informazione che copre l’intero arco della giornata, il 2 giugno ho tagliato i ponti con il mondo esterno e l’ho dedicato al completamento della lettura del capolavoro oramai mica tanto misterioso. Iniettatomi nel corso della giornata le restanti centocinquanta pagine giungo, in conclusione, alla lettura delle seguenti parole: “La mano destra che penzola mollemente dalla panchina si contrae come se dovesse impugnare una penna. Sei pronto? Allora, su: comincia a scrivere”. Pagina 428, fine del romanzo, escluso appendice, note e fonti. Il romanzo si conclude con la voce narrante (onnisciente? focalizzata?) che aizza uno dei protagonisti a rimboccarsi le maniche e sprofondarsi nella scrittura. Perché nella parte terza, capitolo settimo, episodio quarantuno, una nota tiene a precisare: “Baldini- il Messia, il Creatore – si ritrova davanti al nulla, come davanti al foglio bianco pronto per essere scritto. Il Piano di Baldini e Perceber sembrerebbero alla fine coincidere: basti vedere l’unico punto del Piano che ci viene messo a disposizione: altro non è che lo Schema del trentesimo episodio del romanzo”. Sì, ma così non vada da nessuna parte, perché voi vi starete chiedendo chi cazzo è sto Baldini, e soprattutto che cos’è questa Perceber? È per questo che ho rispolverato alcune nozioni di teoria della letteratura apprese nel base, a riempire i vertici B e C, i due sconfitti. Da una parte Luigi Dodo, la cui presenza nel romanzo coincide con una progressiva crescita della sua perversione sessuale. La sua incarcerazione rappresenta l’antitesi della rinascita, la vittoria del male, l’essere invertiti che va punito con una condanna a tutti visibile. La sconfitta di Luigi Dodo è contestuale, ossia si realizza nel testo per essere da esempio al contesto, a tutti i lettori empirici (io, tu, voi) che prendono tra le mani il romanzo dalla copertina rossa. Dulcis in fundo, Antonio Baldini, rappresentante del vertice C. Leggiamo a pagina 428, ancora: “La Storia ha voluto ripetersi. Ciò che avviene a me, qui, ora, è già accaduto a un altro, in un latro paese, poco meno di settant’anni fa”. A cosa si rifersice Baldini? A pagina 284 Alonso Barrulho conclude il suo testamento: “Nulla mi è parso esserci davvero. Così ho capito che tutto ciò che mi circonda, adesso, non ha un nome: è un nome, solo il sostantivo che gli attribuisce la nostra lingua, la profondità che gli dà il nostro occhio. Mentre non esiste niente, nemmeno noi, neanche le parole”. Perceber, 12 febbraio 1936. Si identifica Baldini con Barrulho, il quale, nella città nella quale sono banditi il Bianco, il Silenzio e lo Zero, si scontra con il nulla, determinando la sua stessa condanna a morte. Baldini, nelle ultime pagine del romanzo, prende atto dell’impossibilità di realizzare il suo progetto topografico immenso, una sorta di rappresentazione tridimensionale di tutta Roma. Ma, come già detto sopra, “il Piano di Baldini e Perceber sembrerebbero alla fine coincidere: basti vedere l’unico punto del Piano che ci viene messo a disposizione: altro non è che lo Schema del trentesimo episodio del romanzo”. La sconfitta di Baldini, quindi, è metatestuale, si realizza nella determinazione sintattica di un testo che discorsivizza lo stesso testo, completandosi poi nell'ammissione della fallibilità dell'operazione. Antonio Moresco, Lo sbrego (Rizzoli, 2005) “Io non ho mai letto niente. Io non so se quello che faccio quando colloco i miei occhi nistagmici di fronte al plasma della visione alfabetica sia quella cosa che viene generalmente chiamata lettura. Se devo dar retta a quello che dicono in molti su questo argomento, io non conosco, non ho mai conosciuto l’esperienza della lettura. Per me leggere non è leggere”. Con questo incipit paradossale prende avvio Lo sbrego, interamente dedicato alla pratica della lettura, ultimo lavoro di Antonio Moresco, autore, tra gli altri, del poderoso romanzo Canti del caos, del quale si attende il terzo e conclusivo volume. Lo sbrego, uscito con la Bur, nella collana Holden Maps/Scuola Holden, non rappresenta solamente un poderoso excursus nelle letture di Moresco, ma è un espediente che lo scrittore mantovano utilizza per raccontare se stesso, nell’alternarsi di episodi del passato susseguitisi nella sua difficile esistenza con avvenimenti del presente che strutturano la sua routine quotidiana. Le difficili vicissitudini della vita di Antonio Moresco sono state già raccontate nel romanzo Gli esordi, dove lo scrittore parla dei tre nuclei sostanziali che hanno scandito i suoi anni, quello della sua esperienza in seminario, quello del suo attivismo politico, sino ad arrivare all’attuale scelta di dedicarsi totalmente ala pratica della scrittura. In Lo sbrego l’esistenza di Moresco assume nuove prospettive, poiché osservata attraverso le lenti riflesse e dense di significato dei libri e degli autori che hanno solcato in maniera irreprensibile i suoi anni. Moresco cita una moltitudine di scrittori ai quali è visceralmente legato, a partire da Leopardi (“Portavo sempre con me, in una tasca, i Canti, in un’edizione Zanichelli del 1955”), per poi passare ai francesi Stendhal, Balzac, Proust, Céline, senza tralasciare Dostoevskij, Kafka, Beckett e soffermandosi con devozione quando passa ad analizzare l’Iliade di Omero: “Questo modo supremo di raccontare per fulminazioni e per urti e per abbandoni cruenti e immobilità e accelerazioni. Senza le semplificazioni narrative che hanno preso piede dopo e che ci sono già persino nell’Odissea. Il quadro immobile, dilatato e compresso, tutto attraversato dal dinamismo delle passioni, dei desideri e dei sogni. Il cozzo e la fusione e l’incontro delle materie corporee psicofisiche nella tragedia vivente dei corpi singoli separati”. Sarebbe impossibile fornire un quadro esaustivo dei testi sui quali Moresco si sofferma, si potrebbe citare La noia di Moravia, La vita agra di Bianciardi, La macchina mondiale di Volponi, Il male oscuro di Berto. È necessario sottolineare la presenza di alcune parti deboli del testo, messe lì quasi per dare spessore ad un volume nato, come specificato dall’autore nelle prime pagine, su richiesta, e quindi assemblato in un tempo ristretto. Nonostante questi limiti la scrittura di Moresco è riconoscibilissima, la sua prosa massimale e onnivora ha un fascino che a tratti incanta e ammalia, tenendo incollato il lettore al testo, sino alla fine, come pochi altri. Giordano Meacci, Tutto quello che posso (minimum fax, 2005) Immaginate un monaco del seicento, un certo Leone Madruzzi, l’ultima persona su cui è finito lo sguardo consapevole di Giordano Bruno, prima di essere bruciato vivo, immaginatelo ora incastrato nel videoregistratore di Alfredo Marconi, un dipendente comunale romano in piena crisi esistenziale, combattuto tra l’amore sfumato per Eleonora, sua fidanzata da nove anni, e le insistenze di suo suocero, un certo Ugo Bernardelli, che, prima della sua morte, vuol senza volto. Così come fu, a suo tempo, per l’esordio di Melissa P., successo senza precedenti targato Fazi. Il desiderio di spiare nel suo buco della serratura è forte. Noi lettori siamo un popolo di voyeur. Perché vincola l’editore al riserbo della sua identità? Cosa ha da nascondere? Scopriamolo leggendo il suo libro. O almeno cerchiamo delle spie che ci aiutino a comprendere. Eppure negli otto racconti non troveremo il corpo di una avvenente adolescente impegnata a destreggiarsi tra un numero imprecisato di membri maschili. A campeggiare nelle storie di Martini è l’ombra ispida della morte che come un macigno s’appiglia alle sagome squarciate dei protagonisti tratteggiati. Sandro Veronesi, nel risvolto di copertina, scrive: “Se si fosse in America, ci scommetto, se ne parlerebbe già come un maestro, e si citerebbe Salinger: siamo in Italia, ed è solo un esordiente”. È vero, siamo in Italia e l’arte della short story è davvero poco apprezzata. Anzi, poco vendibile e come tale poco apprezzata dagli stessi editori che con sempre più ritrosia danno alle stampe libri di racconti. Però, immergendomi nei mondi dipinti da Martini, più che a Salinger ho pensato ad alcuni racconti del maestro del minimalismo americano Raymond Carter. Si può citare un’osservazione di John Barth: “Fra i grandi scrittori minimalisti, l’impoverimento è frutto di una scelta strategica: la semplificazione avviene nell’interesse della potenza espressiva. (…) Fra gli scrittori meno grandi, però, può essere semplicemente un ripiego”. Martini non introduce i suoi personaggi, ci conduce per mano in situazioni che accadono sotto i nostri occhi, frammenti di vite impegnate in dialoghi a volte ellittici per il lettore, anime nel pieno di magma emotivi.Essenziale nelle descrizioni, la potenza espressiva di Martini ci scaglia al centro della vita: “Venticinquemila libri ho letto, mia amata. E nulla so ancora. Ho scavalcato trentacinque montagne rocciose e fiumi in piena e straripanti cascate nella notte del demonio, che nulla chiede e nulla dà”. O ancora: “Non voglio competere con nessuno per quanto riguarda la sofferenza, ma ho una forte sensazione di morte nel mio corpo. Una sensazione di fine”. Entrambi gli estratti sono tratti da “Il limite minimo di resistenza”, il racconto che più può sintetizzare la forza stilistica di Martini.Sempre nella nota biografica si legge che “La nostra presenza” è frutto di una gestazione ventennale. Un libro di cento pagine concepito in vent’anni di vita. Mi viene in mente Stefano D’Arrigo e il suo “Horcinus Orca”, libro di una vita, scritto anche esso ossessivamente per un numero di anni infinito. Ma se D’Arrigo accumulava pagine (“Horcinus Orca” è uno di quei romanzi-monstre che supera le mille pagine), Martini eliminava il superfluo. Lo immagino seduto dietro la sua scrivania a togliere le linee inessenziali, a cancellare frasi inutili, a lucidare lo scheletro rimasto.Dopo questo lavoro da fine cesellatore, restano corpi solitari, dalla voce insicura, privi d’amore, in attesa del sopraggiungere della fine di tutto. Andrea Piva, Apocalisse da camera (Einaudi, 2006) Un esordio davvero convincente quello di Andrea Piva, scrittore barese, autore delle sceneggiature dei film “Lacapagira” e “Mio cognato”, la cui regia è firmata dal fratello Alessandro. “Apocalisse da camera”, questo è il titolo del romanzo da poco nelle librerie, pubblicato da Einaudi nella prestigiosa collana Stile Libero, curata da Severino Cesari e Paolo Repetti. Il romanzo racconta la mirabolante giornata di Ugo Cenci, assistente barese di Filosofia del diritto, poco più che trentenne, nella vita del quale donne e sesso sono il centro perenne dei suoi pensieri, avviluppati in un maschilismo devastante e disarmato. Legato ai genitori da un rapporto malato e contraddittorio, Ugo è dedito a un uso costante di alcol, tabacco, cocaina. Sostituitosi di fatto al suo professore, Ugo porta avanti da qualche anno con le studentesse più “promettenti” un fiorente mercatino del sesso. Sino ad arrivare alla fatidica giornata nelle quale il percorso esistenziale di Ugo subisce virate inaspettate e lo costringe a compiere scelte determinanti. Un romanzo che alterna registro grottesco e tragico, scritto utilizzando un linguaggio manieristico e mai piano, nel quale emergono a chiare lettere i peggiori vizi di una generazione che sembra aver smarrito la bussola. Omar Di Monopoli, Uomini e cani (Isbn, 2007) Gocce di sangue imperlano il bianco totale della copertina. Sintesi perfetta del contenuto che si manifesta leggendo Uomini e cani, romanzo dello scrittore pugliese Omar Di Monopoli, pubblicato dalla casa editrice Isbn. La storia è ambientata in un Salento spettrale, lontano anni luce dalle immagini splendenti da riviste patinate, dove il mare, il sole e il vento sono le tre componenti che spingono migliaia di turisti a trascorrere lì le proprie agognate vacanze. In “Uomini e cane” c’è solo spazio per polvere e sangue. Tutta la vicenda narrata ruota attorno alla trasformazione, a Languore, città fittizia con elementi riconducibili a molte cittadine reali, di una salina in un parco naturale. Ciò comporta la distruzione di case costruite abusivamente, con conseguente spostamento in altra zona degli abitanti del luogo. Attorno alla questione del parco naturale, fortemente voluto dal sindaco di Languore, si annidano, però, le volontà espansionistiche di Don Titti Scarciglia, il potente del posto, immunitarie sparisce anche la rinite allergica”. “No, non sto impazzendo, lo so benissimo: fino adesso da noi in Occidente hanno scoperto un modo solo per vincere la morte, gareggiare con lei, batterla sul tempo. Perciò s’ingozzano. Ma dove ho sbagliato io, che non pensavo di avere ambizioni da centometrista, che volevo andare lenta, prendermi tutto il mio tempo?”. “È vero, il male domina il mondo, ma non puoi vincerlo, puoi solo compensarlo con tutto il bene che hai”. “Mi calmo, mi rilasso. M’immagino metastasi all’utero e al cervello, al colon e al collo. Chissà se possono vederle tutte con questo strumento, se invece molte sfuggono, se si nascondono dietro alle ossa. Luccicano prima, poi vengono su come funghi, si espandono producendo un piccolo piacere, la crescita è sempre dolce anche se è cancro, finché non entrano in guerra con gli organi interni”. Carolina Cutolo, Pornoromantica (Fazi, 2007) Caterina Cicutto è una trentenne con laurea in Sociologia e un lavoro come cameriera presso una trattoria romana. Tutto questo sino alla inaspettata svolta: tenere un corso di sesso per corrispondenza per poter migliorare l’informazione e liberare da tutta quella serie di pregiudizi che ruotano attorno all’argomento. Questo è in sintesi il contenuto di “Pornoromantica”, romanzo d’esordio di Carolina Cutolo. Il romanzo in questione raccoglie i migliori post del suo blog, pornormantica.splinder.com, gestito dal 2003, e cerca di dare agli stessi una plausibile struttura narrativa. All’interno, quindi, è possibile leggere sia le dispense inviate ai suoi studenti, sia le pagine di diario nelle quali la professoressa del sesso romantico racconta le sue esperienze, alcune al limite del grottesco. In fondo è proprio l’ironia la caratteristica portante del libro in questione. Il sesso non va mica preso sul serio. Altrimenti diventa un disastro. Ed ecco che l’autrice passa in rassegna gli elementi basilari della sua nuova corrente di pensiero, ottenuta mescolando magicamente l’integralismo sessuale con il sesso sublime: il Pornoromanticismo. Si va, quindi, dalla prima volta che nella nostra vita abbiamo scoperto la sessualità, alla pratica della masturbazione, dall’apologia del bacio all’abecedario del pompino perfetto, dall’etica del tradimento al sesso anale, dal cunnilingus alla fabbricazione casalinga di vibratori. Un libro che scorre. Diverte. Si divora. Non aspettatevi molto, però. Non è uno di quei libri che lascia il segno nel tempo, ma, di certo, vi farà trascorrere un pomeriggio di grande divertimento. Davide Brega, La cultura enciclopedica dell’autodidatta (Sironi, 2006) Caro Davide, in principio avrei dovuto scrivere una recensione, un qualcosa che abbia un inizio, uno svolgimento ed una fine, in grado di invogliare possibili lettori ad avvicinarsi al tuo CEDA. Ora, invece, mi ritrovo a scriverti una lettera, forse perché stupidamente credo che il giovane Holden abbia ragione quando afferma che la lettura di un libro che ti avvince genera poi la voglia di conoscere di persona il suo artefice. Diciamo che questa lettera rappresenta un modo per essere più vicino all'autore reale. Per stabilire un contatto. Seppur liquido, astratto. Quando termino la lettura di un libro cerco sempre di rintracciare il mio personale momento epifanico, il passaggio che motiva tutto il resto della narrazione, una sorta di punto G del castello prosastico dallo scrittore messo in piedi. In CEDA l'avvistamento della mia personale epifania si trova a pagina 207: "La vita che stiamo conducendo crea incognite per il nostro rapporto. Tutto quello che non stiamo facendo: non stiamo facendo ciò che ci piace, forse nemmeno sappiamo ciò che ci piace, siamo ancora costretti per motivi economici ad abitare con i nostri genitori, non vediamo nessuna prospettiva migliore per il futuro, non abbiamo fiducia in chi governa, non crediamo più a nulla che nasca dalla volontà di riuscita, dubitiamo di tutto, non siamo impegnati politicamente, non facciamo volontariato sociale, non partecipiamo alla crescita del PIL, non versiamo i contributi per mantenere i pensionati che a loro volta mantenevano altri pensionati mentre erano al lavoro…". Senza girarci attorno, caro Davide, il discorso del tuo Giovanni Costa rivolto alla sua Maura è lo stesso che io faccio da tempo alla mia ragazza. La crisi del tuo Giovanni Costa è la crisi che vivo io da un po' di tempo a questa parte. Molte della parole pronunciate dal tuo Giovanni Costa, molti dei suoi pensieri, delle sue derive psichiche, dei suoi errori sono gli stessi che contraddistinguono la mia "precaria" esistenza. Scusa se utilizzo l'abusato termine precario. Ma va molto di moda. Giusto per intenderci. Giusto per farti comprendere che il tuo Giovanni Costa è anche un po' mio. Lo so che può sembrarti stupido, che fa molto lettore di Harmony esclamare durante la lettura di un libro "cazzo, ma questo sono io", però con il tuo CEDA è accaduto più di una volta. Un altro esempio: Anche io ho lavorato per il "Punto Inaudito" e con scarso rendimento economico. Pari quasi al nulla. "La storia che ci siamo sempre raccontati è che siccome nasciamo una sola volta nella vita, viviamo una sola volta, dovremmo sempre cercare di fare ciò che più ci soddisfa, ciò che è nei nostri sogni. Vero". È assolutamente vero, Davide, ma quante volte in questi ultimi mesi perdono, candidato per i Verdi, contro il suo parere, nelle elezioni comunali del suo paese, amante virtuale di una torronaia tutta curve e perversioni, Gregorio cerca di ricoprire tutti questi ruoli contemporaneamente e nel migliore dei modi. Ma la giornata è composta da ventiquattro ore. E Gregorio lo sa bene. Unica possibilità per riuscire a sopravvivere è ingurgitare delle piccole perle blu. Sono pillole di Alprazolam: unica panacea contro il tran tran della vita moderna. È vero, Gregorio cerca di ritagliarsi piccoli spazi tutti per sé, ad esempio il venerdì pomeriggio si rinchiude per quatto ore nella sua casa in campagna, mentendo alla moglie che lo crede impegnato in un laboratorio linguistico pomeridiano a scuola, sino a quando proprio in una delle sue fughe settimanali Gregorio si scaglia con la sua Cinquecento rossa contro una Fiesta beige guidata da un maresciallo in pensione. È la scena con la quale il romanzo si apre e che ci conduce per mano nell’esistenza tragicomica di Gregorio Parigino. L’incapacità di Gregorio di gestire a meglio il menage di questa famiglia allargata, nonostante tutti i suoi buoni propositi e nonostante l’aiuto degli antidepressivi, avrà pesanti ricadute sul suo rapporto con Delia. I due per un po’ si separeranno per la più classica delle pause di riflessione. Ma tutto è bene quel che finisce bene. Certo, il romanzo è molto più ricco di scene esilaranti e grottesche, basti pensare alla email che Gregorio, dopo le elezioni disastrose, crede di mandare ad un suo amico di Cremona, mentre invece la spedisce all’intera sua mailing list, ottenendo uno sputtanamento in prima pagina sul giornale locale. La causa gli frutterà un assegno da diecimila euro. Ma questa è un’altra storia. “Niente da ridere” ha due meriti: il primo è che è scritto alla grande, una sorta di freestyle rappato, un flusso di coscienza pieno di digressioni-matrioska, messe le une dentro alle altre, senza per questo allontanare il lettore dal nocciolo della narrazione; l’altro merito non è stilistico, ma contenutistico: Livio Romano, dopo tanti romanzi di giovani immersi nel loro precariato lavorativo ed esistenziale, ci fornisce un nuovo modello di rappresentazione del trentenne italiano, con lavoro fisso, sposato, con prole al seguito, ma, senza per questo, essere pienamente realizzato, perché la vita non è mai una passeggiata. I problemi sono tanti e continui. Basta non prendersi mai troppo sul serio. Basta vivere con disincanto. Basta avere una famiglia e degli amici che si amano al proprio fianco. Il peggio passa. Chiedete a Gregorio Parigino, se non ci credete. Alessandra Amitrano, Mary e Joe (Fazi, 2007) Dopo “Broken Barbie”, nuovo lavoro per Alessandra Amitrano, da qualche giorno nelle librerie con “Mary e Joe”, come il precedente edito da Fazi, piccolo romanzo dark illustrato dall’ottimo Luca Buoncristiano. Al centro della storia Mary, madre di tre figli, sposata con un uomo che racchiude in sé tutti gli elementi peggiori che contraddistinguono il maschio italico, porco, lurido, violento, sessista (“la bestia”) e, come si scoprirà nel corso della storia, anche peggio (“Un marito che non riesce a guardarsi il pisello per la pancia che ha e che per questo non c’entra mai la tazza del gabinetto, ma sarebbe lo stesso perché non torna mai acasa sobrio. Vecchio maiale che non sa nulla di sé, della moglie e nemmeno dei suoi figli”). Mary vive in questo incubo familiare che pare assediarla, una sorta di “casalinga disperata”, perdonatemi il termine, il cui fascino s’annida proprio in questa sua rappresentazione di donna franta (“Sei bellissima e non lo sai. Nessuno te lo ha mai detto perché non vivi negli occhi della gente. Ti muovi spinta da cose terribilmente tue, nulla di quello che fai proviene da vezzi o futilità. Agisci per sopravvivere e questo ti fa rassomigliare a un animale. Sembri una creatura del cielo Mary”). Buoncristiano non disegna la sola Mary, ma accanto a lei scorrono le immagini di uno strano personaggio, Joe Rotto, giovane dall’aspetto malvagio, in giro con l’inseparabile cagnetto Sid, il quale si aggira ai margini della città svolgendo le poco rassicuranti mansioni di becchino, spacciatore e assassino. La storia scritta della Amitrano sfiora soltanto quella disegnata da Buoncristiano. L’incontro tra Mary e Joe avviene in un sordido luogo di perdizione. Joe sembra incarnare simbolicamente il male che soffia granitico sulla vita di Mary. Perché tutto all’improvviso precipita e il male si fa assoluto. Mary non può più controllarsi: “Tutto il fuoco del mondo sale dalla terra, entra nei piedi di Mary, percorre le sue gambe ed esce prepotente dalla bocca che emette un profondo infinito no”. La vendetta si rivela necessaria. Per risplendere e ritornare a vivere assieme ai suo figli l’aprirsi delle fiamme diviene necessario. Elena Stancanelli, A immaginare una vita ce ne vuole un’altra (minimum fax, 2007) È un libro davvero delizioso questo “A immaginare una vita ce ne vuole un’altra” di Elena Stancanelli, edito di recente dalla minimum fax. Potremmo considerare questo libro una sorta di dilatazione del lavoro svolto dalla Stancanelli per “Repubblica-Cronaca di Roma” e “Accattone”, un incrocio perfettamente riuscito di cronaca e narrazione. Riferendosi alle riunioni redazionali di “Accattone”, alle quali prendevano parte scrittori come Nicola Lagioia, Christian Raimo, Emanuele Trevi e Carola Susani, la Stancanelli scrive: “Cercavamo accanitamente un modo di raccontare la cronaca che che usciamo da qui. In pratica, il fatto che siamo persone che hanno voglia di venire qui come spettatori di Domenica in ci rende automaticamente degli imbecilli, ai loro occhi”. O ancora, ecco il nostro protagonista intento a visitare, nella giornata che segna l’inizio dell’esodo per le vacanze di Pasqua, il peggiore e il migliore autogrill d’Italia, secondo un’inchiesta del “Sole 24 ore”, giungendo alla conclusione che “il migliore autogrill d’Italia è nettamente, nettamente, nettamente peggiore del peggiore autogrill d’Italia”. Si giunge, poi, al reportage più riuscito. Piccolo si reca, il 26 dicembre, a vedere Natala a Miami, il film-panettone, avente come protagonisti Boldi e De Sica, l’ultimo film girato assieme dai due, prima dell’amara conclusione del loro connubio. Ci sono pagine esilaranti, in cui Piccolo cerca di dare motivazione razionale al non senso che appare sullo schermo, caratterizzato da un frullatore di equivoci al servizio della risata: “Noi ormai abbiamo destinato la nostra intelligenza e la nostra capacità di concentrazione tutta agli equivoci, perché la quantità di equivoci che ci sono in questi film non è possibile calcolarla, si passa da equivoco a equivoco, tutto per scopare o per non farsi scopare o per scoprire con chi scopa questo o quello; ma per seguirli tutti non c’è spazio per altro: tutto il cervello è stato prenotato ed è riservato agli equivoci”. Tocca a Mirabilandia. Piccolo accompagna sua figlia Camilla e l’amica del cuore, Stella, nel regno del divertimento, un viaggio tra una miriade sterminata di intrattenimenti, svaghi, giochi e spettacoli nei quali denominatore comune sembra essere la paura: “Perché la gente ha così voglia di provare paura, di sentirsi male, di impallidire, di vomitare? Perché la gente si fa legare su una sedia, si fa tirare su a un’altezza di trenta piani e poi si fa buttare giù a velocità enorme?”. Sempre più allibito e sconcertato, non molto convinto della sua scelta di perdersi nella partecipazione collettiva, Piccolo conclude il suo viaggio immergendosi nella Notte Bianca romana, un evento mostruoso dove un numero incalcolabile di gente è alla ricerca di Cultura in tutte le sue possibili salse: “Chi se l’aspettava che, nella sostanza, la notte bianca diventasse subito eccessiva, sfinente, per molti versi insopportabile. Chi se l’aspettava una parabola così veloce per cui una concezione come la notte bianca fosse prima una cosa impensabile, poi una specie di sogno impossibile, poi una cosa realizzabile, dopo ancora realizzata e riuscitissima, e alla fine anche difficile da tollerare”. Chissà se Piccolo, al termine di questo suo viaggio, tornerà sul luoghi del delitto o preferirà starsene nella sua casetta a scrivere romanzi e sceneggiature senza l’incubo di un nuovo film di Natale da sorbirsi inerme. Io una risposta ce l’avrei. Giovanni Di Iacovo, Sushi Bar Sarajevo (Palomar, 2005) Davvero degno di nota il lavoro che sta svolgendo Michele Trecca come curatore di “Cromosoma Y”, collana di “narrativa, versi e sconfinamenti” edita dalla casa editrice barese Palomar che nell’ultimo anno ha sfornato tre romanzi di ottimo livello, “Sahara Consilina” di Vincenzo Corraro, “Ho sognato che qualcuno mi amava” di Maurizio Cotrona, e il recente romanzo d’esordio “Sushi Bar Sarajevo” del pescarese Giovanni Di Iacovo. Nella seconda di copertina del romanzo di Di Iacovo firmata da Valerio Evangelisti, maestro della letteratura di genere, si legge: “Il romanzo è scritto alla perfezione e, nonostante la struttura articolata e il gran numero di intriganti personaggi, contiene persino una notevole suspanse. Come se McLuhan e Marcuse si fossero alleati a Philip K. Dick e a Robert Sheckley, rendendo avvincete e fantasmagorica la propria saggistica. Insomma, difficile concepire un esordio più brillante”. Quale la trama di questo complicato romanzo? Le vicende si articolano in un arco temporale che dalla guerra di Bosnia si sviluppa oltre il presente, fino ad un futuro prossimo in cui l’Europa ha subito pericolosi mutamenti geopolitici. Trent’anni, dal 1995 al 2025, in cui lo scontro di civiltà da molti paventato si trasforma in una lotta frontale tra le Democrazie Centrali e Unione Islamica Internazionale. All’interno di questo contesto futuribile e apocalittico che, si spera, non sia per nulla profetico, il filo conduttore è rappresentato dalle esistenze di tre fratelli, Tomislav, Vlad e Maja, che in una terribile notte, durante l’assedio di Sarajevo, si perdono, e i cui destini si intrecciano con quello di una ricca signora ossessionata dal sogno che legò Guglielmo Marconi a Gabriele D’Annunzio. Le pagine più belle del libro, piene di cinismo e ironia, sono quelle che si svolgono all’interno di un grande talk show globale, condotto da Max Magenta, presentatore estroso e torbido, pronto a tutto pur di fare audience, sino all’ottenimento dell’evento massimale, quello che più d’ogni altro fa salire l’indice dello share, quello della morte in diretta. Un romanzo che, celandosi dietro la costruzione tipica della “fantascienza sociologica”, si sofferma su molte delle deformazioni del nostro presente, dominato dalla spettacolarizzazione ad ogni costo, dal tutto è lecito purché si alzi l’indice d’ascolto. Marino Magliani, Il collezionista del tempo (Sironi, 2007) Marino Magliani, scrittore ligure che vive da molti anni in Olanda, ha da poco pubblicato per Sironi il romanzo “Il collezionista di tempo”. La prima cosa che ho pensato, una volta terminata la lettura del libro, è stata: “Questo libro mi ricorda “Gli esordi” di Antonio messa in discussione del nulla che sino a quel momento domina la sua vita. Il finale è lirico e struggente, con lo scrittore e Neema che comprano una tartaruga da un pescatore pur di liberarla e di evitarne l’uccisione. Uno spiraglio di speranza in un testo carico di dolore e pessimismo. Maurizio Cotrona, Ho sognato che qualcuno mi amava (Palomar, 2005) “Ho sognato che qualcuno mi amava”, titolo suggestivo del romanzo di esordio del tarantino Maurizio Cotrona, edito nella collana Cromosoma Y della Palomar di Bari, altro non è che la traduzione di un verso di un testo degli Smiths, gruppo culto della “nuova ondata musicale” degli anni Ottanta. Della musica degli Smiths, infatti, il romanzo di Cotrona conserva la stessa pulsione decadente che contraddistingue i tre esili protagonisti della storia, Gabriele, Lisa e Roberto, trentenni disperati che si muovono in una Taranto mai descritta con dovizia di particolari, ma della quale si respira a pieni polmoni l’aria fetida del Moloch industriale dell’Ilva che tutto macina, inevitabilmente. Il romanzo si apre e si chiude con la descrizione del gioco del nascondino che vede protagonisti Gabriele, Lisa e Roberto. Poi un salto temporale notevole. Il tutto si svolge nel presente. Gabriele incontra in un pub Lisa. I due si scambiano i numeri di telefono. L’apatia della quotidianità di Gabriele viene sconvolta dalla comparsa improvvisa di Lisa. Gabriele la tormenta, s’innamora follemente. Lisa progressivamente scompare. È sconvolta dall’ossessione con la quale Gabriele la cerca. Il finale di questa storia non vissuta è tragico. Gabriele si lancia nel vuoto. Vuole farla finita, senza riuscirci. Mentre Gabriele è in coma, Lisa s’innamora di Luca e quando crede di aver raggiunto la felicità si ammala terribilmente. Roberto vive a Roma. La madre di Gabriele lo chiama perché è l’unico amico che potrebbe parlargli e magari destarlo dallo stato comatoso. L’incontro con il corpo immobile di Gabriele per Roberto sarà l’inizio di una sorta di meditazione sul senso della morte. Al di là del groviglio sincopato dell’intreccio, ciò che emerge con forza dalle pagine di Cotrona è il dolore che accompagna le vite di questa generazione di trentenni. Un precariato che non è solo lavorativo, ma anche sentimentale e spirituale. La lettura del romanzo è scorrevole. Ottima la capacità di Cotrona di rendere in prosa le pieghe minime dei pensieri che ossessionano i protagonisti. Punti di debolezza quando Cotrona si perde in disquisizioni filosofiche che snaturano la coesione del testo. Un altro tassello dell’ottimo lavoro che Michele Trecca, curatore della collana, sta facendo per la letteratura meridionale. Flavio Santi, L’eterna notte dei Bosconero (Rizzoli, 2006) Un marasma di sangue. Corpi divelti in ogni dove. Carni stracciate su surreali spazi di una Sicilia irriconoscibile, darkeggiante e putrida. Questa è l’atmosfera che si respira annusando le pagine del secondo romanzo di Flavio Santi, “L’eterna notte dei Bosconero”, edito dalla Rizzoli nella collana 24/7. Un romanzo che evidenzia la verve multiforme di uno scrittore mai domo, sempre alla ricerca di interstizi creativi nei quali ficcarsi per poter sperimentare senza remore. Poeta, tra i migliori della sua generazione, traduttore, critico e romanziere, Santi, nel suo nuovo libro, sposta la lancetta del tempo, cavalcando l’onda di una storia suggestiva e da ultimare, come un puzzle irrisolto che necessita di definitiva ricomposizione. 16 marzo 1832. Pochi giorni prima della sua morte, Goethe è impegnato nella stesura del suo “Diario. Ultimi giorni. Confessioni”, un testo nel quale lo scrittore fa emergere i ricordi terrificanti della sua permanenza in Sicilia, nel lontano 1787. Dieci giorni nei quali il Male si palesa in tutta la sua liquida totalità. Una sorta di traccia nascosta o, meglio, ascoltata al contrario, del suo “Viaggio in Italia”, che getterà nuova luce sulla composizione del “Faust”. Una narrazione-matrioska, in cui gli affabulatori si susseguono, e s’intersecano, s’aggrovigliano e si compenetrano, tutti a gettare luce sull’oscura vicenda che vede protagonista, in una Palermo squamata e onirica, la famiglia Bosconero, ed in particolar modo Federigo Bosconero, pallido individuo colpito da continui attacchi d’amnesia e narcolessia, custode di quel “potentato del male” che tutto divelle e squarcia, affascinando e turbando un Goethe stordito. Storia di vampiri e demoni, storia che più che letta va odorata, nell’abbandono del tentativo di smontare l’intreccio per creare una fabula maggiormente accessibile. È necessario farsi ammorbare dalla truculenza delle descrizioni di azioni al limite dell’accettabile: “La scannai. Con un gesto rapido le strappai quella lingua e mentre lo facevo sentivo di amarla, ma senza desiderarla fisicamente. Non volevo un amplesso con lei. Stavo andando oltre. Stavo arrivando al limite estremo, al sangue…La vita vive nel sangue…Le strappai la lingua. Ne scaturì un violento fiotto di sangue. Me ne cibai avidamente. Non mi bastava. Eccitato da quel fiume rosso andai oltre, sempre più oltre, le afferrai la testa e cominciai a torcergliela come un panno bagnato. Sentii le vertebre stridere, tanti anelli che si separavano di colpo. La pelle cominciò a sollevarsi, le vene esplosero. La lasciai con mezzo capo staccato. Poi fuggii…”. Santi abbandona l’ambientazione friulana del primo romanzo, di certo più consona per una storia gotica, scagliando il lettore in questa Sicilia mostruosa, dominata dal sangue, che ricorre iterativamente nella storia, impestando e disgustando il lettore, una Sicilia il cui frutto del passaparola tra le generazioni, che si sono fatte così ricordare, nello stesso modo in cui la memoria ha trovato la forma per ricordare e per ricordarsi e per testimoniare e per tramandare”. Un testo insolito questo di Moresco. Una sorta di raccolta di b-side, dove molto spesso riesci a catturare interpretazioni insolite della band che veneri, nell’attesa dell’album che spiazzi veramente. Fuor di metafora, nell’attesa della terza parte dei “Canti del caos”. Antonio Moresco, Merda e luce (Effigie, 2006) Ecco il teatro di Antonio Moresco: un uomo e una donna nudi, sotto un cielo stellato, in una notte estiva, con uno spaccaossa a fare da leitmotiv ai loro discorsi sul senso del loro amore; Maria Callas, nel fulgore della sua forza vocale, alle prese con la progressiva prepotenza scenica della sua tenia; un siparista, in un monologo iroso e folle sul senso e sul valore del teatro, interrotto solo dalle incursioni sceniche di un motociclista e dal rigonfiamento improvviso di un cazzo; una partoriente che dialogo con la voce del proprio feto; sullo sfondo il sole, la luna e una meteora, sulla scena un unico attore che incarna, di volta in volta, famosi personaggi del passato, da Primo Levi ad Alessandro Magno, da Adolf Hitler allo stesso Antonio Moresco. Questi, in sintesi, i contenuti dei cinque testi teatrali che compongono Merda e luce, il nuovo libro dello scrittore mantovano, appena edito da Effigie. Nel suo teatro, come già dimostrato in “La santa”, i protagonisti abbandonano il proprio corpo per divenire tutt’uno con lo spazio e il tempo, in una sorta di totale fusione materica, all’interno della quale la parola teatrale riacquista tutta la sua radicalità e violenza, la sua fragilità e poesia. Giuseppe Genna, L’anno luce (Marco Tropea Editore 2005) Giuseppe Genna accantona la scrittura di genere e con essa manda in letargo l’ispettore Guido Lopez, il personaggio seriale dei suoi thriller, dopo che lo stesso si è incarnato nella serie tv Suor Jo. L’anno luce è definito nella seconda di copertina il primo romanzo neoborghese italiano. Definizioni a parte, L’anno luce è un romanzo di un iperrealismo talmente smodato da sciogliersi come burro sfrigolante su padella rovente. Ed ecco il Mente, un manager quaranta-cinquantenne dalle smodate ambizioni. Il Mente è un dirigente della Komtel Italia, una società di telecomunicazioni, sotto l’assedio di compratori inglesi che mirano al controllo delle comunicazioni della nostra nazione. La moglie Maura non riesce ad avere figli anche se tenta più volte la fecondazione artificiale. Una sera il Mente trova Maura riversa sul suo letto. Sembra morta. Ma in realtà è in una sorta di coma psichico. Le ragioni? L’amante minorenne della moglie, autore del folgorante Capolavoro Misterioso, si è suicidato nella sua vasca da bagno. Mentre il protagonista sta preparando materiale per la riunione più importante della sua vita la moglie verrà inseminata da un maniaco in ospedale. Per l'ottenimento del possesso della Komtel si muovono non solo compratori inglesi, i quali conoscono i segreti più oscuri dei dirigenti della società italiana, grazie al lavoro sporco del Faccendiere, ma anche il Vaticano, incarnato, nelle pagine del romanzo, da un Cardinale che conosciamo molto bene. Oggi Papa. Accanto a questi protagonisti compaiono icone immarcescibili del nostro immaginario contemporaneo, da Michael Jackson, al playboy Gigi Rizzi, dalla cagnolina spaziale Laika al Michael Douglas di Wall Street, senza dimenticare lo scrittore Uwe Johnson e il suo infernale Jahrestage. Genna si muove abilmente nelle trame dense di questo torbido intreccio, mixando fiction televisiva e tragedia classica. Pensate al Mente e alla descrizione con la quale è introdotto nella storia: "Lo sguardo bellissimo, però anche molto freddo, e anche ironico, per via di pupille profondamente blu che a volte paiono glaciali e quasi aliene, tradisce un'eccessiva intelligenza: quest'uomo è furbissimo. Il suo umorismo è un'arma. Ha trasferito le competenze di sopravvivenza dal corpo, lievemente più disarmonico della norma, alla mente: rapida, prensile, rettile. I capelli, corvini e tendenti quasi al blu, ultimamente sono spruzzati di bianco, soltanto in un'onda sulla destra della fronte, il che gli conferisce un sovrappiù di marzialità e autorevolezza. In pratica, un biglietto da visita che enuncia: occhio, io sono il finto dolce, sono l'uomo che morde". Ritroviamo il Mente alla fine del suo lungo viaggio, quando la tragedia è oramai montata, nella struggente lettera a Maura, dall'incipit che strazia: "Maura, amore mio, mio amore, è trascorso un anno da che te ne sei andata. Un anno luce. Un anno per me di strazio. Sono straziato, Maura". La tragedia che si compie in L'anno luce è individuale, certo, riguarda il Mente e il crollo di quella marzialità che sembra caratterizzarlo nelle prime pagine, ma è anche collettiva, poiché il Mente è la parte di quel tutto composto da uomini privi di scrupoli pur di poter raggiungere i loro sporchi obiettivi. Il Mente ottiene ciò che vuole, prende il posto del Profeta, è amministratore delegato della Komtel, ma l'assenza di Maura è struggente. Oltre ogni cosa. Altre piccole annotazioni. Prendiamo in considerazione questo breve estratto: "Siamo la rete che sta scoprendo il pianeta. Questo pianeta non morirà esplodendo. Questo pianeta sarà talmente inquinato da congelarsi. Si congelerà. Diventerà livido, violaceo. Come Marte: un pianeta morto, abissi che non recano più traccia di acqua alcuna. Tracce di una vita che fu, completo stravolgimento del diorama realistico, con predilezione di impalcature fantastiche, come dimostrano i racconti di Tiziana Battisti ed in particolar modo “Una notte qualunque all’Oca banana” di Barbara Di Gregorio, i cui protagonisti, giusto per capirci, sono Paperino, Gastone, Paperina e il vecchio Paperon de’Paperoni. In conclusione, il mio giudizio sul Best Off è sempre stato positivo, a partire dal primo volume curato da Pascale, da molti criticato perché risentiva troppo dei gusti personali del selezionatore, passando poi per il lavoro più razionale di Giulio Mozzi, che nel meglio dello scorso anno ha cercato di dare vita ad uno strumento quanto più utile possibile per comprendere i meccanismi, i misteri e le contraddizioni dell’industria culturale. E continua ad essere positivo. Perché ho un amore smisurato per le riviste letterarie e sono convinto che, tra qualche anno, molti di questi nomi li troveremo in collane importanti dell’editoria che conta. Se avessi soldi da buttare scommetterei su un paio di nomi. Per il resto, mi auguro che quest’antologia venga letta da quanta più gente possibile, affinché il progetto Best Off possa continuare ad infettarci. Antonio Pascale, S’è fatta ora (minimum fax, 2006) Nella seconda di copertina di “S’è fatta ora”, nuovo romanzo di Antonio Pascale, edito da minimum fax, viene riportata una considerazione di Alfonso Berardinelli: “Qualunque cosa racconti, Pascale è credibile, è divertente, smonta e rimonta la realtà davanti ai nostri occhi portando ogni elementi e dettaglio al più alto gradi di evidenza”. Parole che sottoscrivo pienamente, poiché la forza di Pascale sta proprio in questa prosa accattivante, coinvolgente, che ci pone dinanzi ai dolori che minano le nostre esistenze, senza, però, perdere mai quel pizzico d’ironia che dona alla disperazione una tenue aura di speranza. C’è una cosa che mi ha colpito, una volta terminata questa piacevole lettura. Il romanzo è strutturato in cinque episodi, tutti aventi come protagonista Vincenzo Postiglione, alter ego dell’autore, già presente in altri libri di Pascale, nel pieno di alcuni momenti focali della vita di un uomo: la giovinezza, la politica, l’amore, il rapporto con il dolore e quello con le scienze. In realtà i cinque episodi possono essere letti singolarmente, come se si trattasse di cinque racconti, senza perdere la loro forza narrativa. In fondo, “Marcovaldo” di Calvino è un libro di racconti aventi un unico protagonista. In “Lezioni americane” lo stesso Calvino dichiara la sua predilezione per le forme brevi, precisando: “Il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio nei testi brevi: la mia opera fatta in gran parte di short stories”. Non è questo il caso di Pascale. Però, sempre nella stessa lezione sulla “Rapidità” Calvino aggiunge: “Oggi la regola dello scrivere breve viene confermata anche dai romanzi lunghi che presentano una struttura cumulativa, modulare, combinatoria”. Ossia non necessariamente legata ad una causalità continua delle azioni. In Pascale, il tempo della narrazione viene smembrato. Non un intreccio lineare, ma circolare. Cinque cerchi concentrici, uno per ogni episodio, all’interno dei quali si dipana la vita dell’io narrante. Perché chiamarlo romanzo e non raccolta di racconti? Prendo in prestito una considerazione di Moravia che in “L’uomo come fine” afferma: “La principale differenza, e fondamentale, tra il racconto e il romanzo è quella dell’impianto o struttura della narrazione. Si scrivono e si scriveranno sempre romanzi di tutti i generi, i quali potrebbero confutare, con la varietà, bizzarria e sperimentale rarità della costruzione, la verità di quanto stiamo per dire. Ma i romanzieri classici stanno lì a dimostrare che alcuni caratteri comuni tuttavia esistono. Il più importante di tali caratteri è la presenza di quella che chiameremo ideologia, ossia di uno scheletro tematico intorno al quale prende forma la carne della narrazione. Il romanzo, insomma, ha un’ossatura che lo sostiene dalla testa ai piedi; il racconto, invece per così dire, è disossato”. È proprio la presenza di quella che Moravia chiama “ideologia”, che io chiamerei “respiro”, a fare di “S’è fatta ora” un romanzo, perfetto meccanismo narrativo nel quale Vincenzo Postiglione è alle prese con cinque iniziazioni fondamentali della sua vita (iniziazioni sentimentali, civili ed esistenziali) che intarsiandosi tra di loro creano un romanzo di formazione prezioso e originale, con momenti di profonda bellezza: “Quando, dopo quella mattinata passata al teatro, riattraversai simbolicamente il lago di fango e tornai a casa, piano piano iniziai ad allontanarmi anche da Peppe e Filippone e, per contrasto, mi avvicinai ad amici che leggevano libri. Perché il potere ci vuole stupidi, e non volevo più essere stupido”. Passaggio tratto dal primo episodio, nel quale il narratore racconta l’importanza avuta nella sua vita della visione a teatro della “Tempesta” di Shakespeare, che ha segnato il suo avvicinamento alla letteratura e il definitivo allontanamento dalla “cattive amicizie”. Chiudo con un estratto del divertente episodio “Amori romani”: “Non perdiamo tempo, perché le chiacchiere stanno a zero, c’è chi l’amore lo fa per strategia chi per desiderio. Io lo faccio per desiderio, cerchiamo di non analizzarlo più del necessario, tanto è destinato a spegnersi, dura giusto il tempo di un attraversamento di strada. Lo sai tu e lo so io. Tu sei qui, su questa terrazza borghese che guarda l’isola Tiberina, solo perché soffri; io per lo stesso motivo. Quindi niente parole, cene, dichiarazioni, complimenti o autopromozioni, niente trucchi e subito sesso. L’unico modo reale che abbiamo per comunicare”. Quanta verità in queste parole! di storie mitologiche”. Febbraio 2006. Lo scrittore Giuseppe Genna non scrive più thriller, quindi. è un uomo libero. Ecco la scena conclusiva: Giuseppe Genna è impegnato in una seduta di Dance Therapy: “Il cupo avanza perché la mente arretra. Arretra una parte della mente: arretra l’intelligenza. La mente è più larga, il corpo reclama di essere mente e ha ragione, io ascolto attonito i reclami, non so cosa fare. Non so niente”. La sua istruttrice è Paola, la stessa Paola che ha vissuto anni di inferno a Berlino e Amsterdam. I loro corpi sono uniti, i loro destini hanno subito analoghe curvature: “Paola che mi prende da dietro e mi tiene la scheina attaccata al suo ventre e irradia calore e nescienza, non sono neanche questa nescienza, ma la pura presenza della quale, discendendo e facendomi più solido e senziente, avverto al tua presenza, papà, e questo è quanto mi è concesso, niente è illimitato e tutto è illimitato, non ho parole, non ho ostentazione”. Il triplice riverbero della parola pace chiude questa storia. Un romanzo del dolore, certo: non di un dolore che crocifigge, ma di un dolore che sventra corpi, immobilizza coscienze, senza però produrre definitive sconfitte, di un dolore terapeutico, necessario, sfrontato, da demolire per poi rinascere. Perfrancesco Majorini, Dopo i lampi vengono gli abeti (peQuod, 2005) Partiamo dal risvolto di copertina firmato da Giuseppe Genna: “Questo non è un romanzo, ma un magnete che attrae con potenza linguistica e immaginifica: e noi, italiani che vivono questo presente lacerocontuso, siamo i frammenti metallici che vengono risucchiati dal vortice di questa storia di storie, dove carcere famiglia lavoro amore sesso morte (cioè: lo sfondo di ogni letteratura autentica) lottano per appropriarsi dei nostri riconoscimenti”. Al di là della scrittura critica genniana, fatta di pulsioni visionarie volte ad introiettare il tutto dentro dell’esistenza, in una sorta di osmosi carnale tra letteratura e vita, ciò che è certo è che “Dopo i lampi vengono gli abeti”, l’esordio narrativo di Pierfrancesco Majorino, più noto al pubblico come segretario cittadino dei Democratici di Sinistra di Milano, è un testo spiazzante se inserito nella massiccia produzione narrativa italiana. È un romanzo che nega se stesso, che possiede le caratteristiche basilari del genere, ossia coerenza e coesione, ma tagliate e incollate in una sorta di patchwork sensoriale nel quale il protagonista Riccardo Filippucci, detto Jason, si perde, dando vita ai 130 frammenti (pagine di diario ritrovate dopo la sua “morte necessaria”) che strutturano la storia. Il nucleo centrale della narrazione, quindi, è determinato dalla confessione che il detenuto Jason fa alla psicologa Pinardi prima del suo ennesimo processo d'accusa per l’omicidio di Toni, dal quale emerge la mente di un uomo costretto a scavare nei meandri della propria memoria in un estenuante corpo a corpo tra i ricordi immersi nella coscienza. Nel silenzio della cella ripensa al passato, all'infanzia, all'adolescenza, a emozioni, scelte, amori e rimpianti di tutta una vita: “Riaffiora, a volte il volto di Toni nelle mie giornate. Succede specialmente quando tiro fuori la sua fotografia, quella che tengo in fondo alle scarpe, appiccicata tra la colla e nelle pieghe della tomaia. Così il suo sorriso banale me lo trovo davanti, sul viso, in mezzo alle dite e lo tengo guardando in rigoroso silenzio, arrivando a sperare di liberarmi l’orizzonte dal suo corpo per terra, dalle pitre nere, tonde, perfette, di cui in tanti facevamo collezione e dai giorni venuti dopo, dalle parole del padre e dal corteo sincero di sguardi vuoti che lo hanno accompagnato lungo i viali che dal campo portano alla chiesa”. La morte di Toni, la causa della reclusione forzata di Jason, è l’elemento generatore delle oniriche riflessioni dell’io narrante. Attraverso l´esperienza individuale, però, il narratore, e con esso l’autore, s´interroga sui cambiamenti sociali degli ultimi decenni, sulla memoria partecipata e comune dei trentenni e sulle proprie influenze culturali. Giancarlo Di Cataldo, Nelle mani giuste (Einaudi, 2007) Dopo il successo di “Romanzo criminale”, era davvero difficile per Giancarlo De Cataldo tornare in pista. Lo ha fatto ripartendo, cronologicamente, dal punto conclusivo di “Romanzo criminale”. “Nelle mani giuste” racconta la storia di un momento epocale per la recente storia italiana, il biennio 92-93, quello della morte dei giudici Falcone e Borsellino, dell’avvento di Mani pulite che getta scompiglio nel marcio della politica italiana, determinando la fine della Prima Repubblica e la messa in crisi dei delicati equilibri tra Stato e mafia, a cui si aggiungono le stragi, sempre di stampo mafioso, della primavera-estate del 93, a Roma, Firenze e Milano. Questa è la macrostoria, lo sfondo all’interno del quale si innervano i destini personali dei protagonisti, le microstorie che si intrecciano sulla scena di questo dramma collettivo: ci sono le mattanze e gli ammazzamenti di ‘u zu’ Cosimo, il capomafia cinico, spregiudicato e paziente che si muove in una Sicilia spettrale. C’è Nicola Scialoja, già presente in “Romanzo criminale”, che ricopre il ruolo di cardine segreto tra Stato e criminalità organizzata, con il difficile compito di scendere a patti con la mafia. Con lui lavorano il carabiniere Camporesi e l’affascinante Patrizia, anche lei presente nel romanzo sulla Banda della Magliana, che però fa il doppio gioco e ha una mura domestiche ad ascoltare vecchi vinili. La passione per la musica, ereditata dal nonno, sembra essere il nido che gli fa da riparo per evitare gli incontri con il mondo “altro”. Tutto questo mondo minimo viene scosso, dopo alcune pagine dall’inizio del romanzo, dall’incontro con una ragazza, Aspra. Ecco, un altro motivo per cui vale la pena leggere Piliego è questo: la storia di Marco (il cui soprannome Zero aggiunge nuovi dettagli sul modo con cui viene percepito dagli altri) può anche essere letta come una sorta di formazione sentimentale del protagonista, scandita dall’incontro con tre figure femminili, ognuna di loro portatrice di un sistema di valori diversi che entrano in collisione con lui, mettendo in subbuglio la sua tiepida identità negli anni acquisita. Leggere questo romanzo, quindi, significa anche entrare in contatto con differenti forme d’amore che prendono corpo oggigiorno. La già citata Aspra è tempesta, fragilità e incognita. Linda è bussola, radici e salvezza. Serena, più grande di Marco, è saggezza, indipendenza, forza. Le pagine si susseguono e le dinamiche in divenire del protagonista con le tre ragazze lo aiutano a scrollarsi di dosso quella sua indolenza, quella sua asfissiante passività, quel suo galleggiare statico sulla superficie della vita. Un altro motivo per cui Se tu fossi una brava ragazza (il titolo riecheggia una celebre canzone di Luigi Tenco, il cantautore più ascoltato da Marco che sembra appropriarsi di alcuni motivi caratteriali del suo idolo) merita di essere letto è rappresentato dallo stile scelto da Piliego per raccontare questa storia di abissi e rinascite. Il romanzo è raccontato direttamente dalla voce del protagonista e il limitato susseguirsi di sequenze narrative (poco accade nel tempo della storia, vista la routine di vita dell’io narrante) lascia spazio a sequenze riflessive assai suggestive ed evocative. Piliego, non a caso autore negli ultimi anni anche di una raccolta poetica, è abile nel dare sostanza lirica al garbuglio interiore che s’agita nel corpo e nella mente di Marco. Leggere questo romanzo, infine, significa scoprire uno degli autori pugliesi più interessanti degli ultimi anni. Claudia Durastanti, La straniera (La Nave di Teseo, 2019) 10 ragioni per cui leggerlo: 1. Perché racconta una storia personale, assai dolorosa, ma lo fa senza mai lasciarsi andare ad eccedenze emotive o piagnistei pietistici. Il suo libro si apre non a caso con un esergo di Emily Dickinson: “Dopo un grande dolore, / viene un sentimento formale”. Questi versi che ben si allineano con la voce assunta dall’io narrante. Il suo racconto è gelido e controllato, anche nel dramma: “A volte cerca di descrivermi il terrore che si prova nel suo essere sordastra e afflitta da mal di testa perenni: è come se vivesse con qualcuno alle spalle che cerca di spaventarla in continuazione (…). La possibilità di un agguato le ha trasformato il corpo in maniera irreversibile; le ha incurvato la schiena e l’ha resa incapace di guardare davvero negli occhi le persone”. 2. Perché questo memoir è scritto in uno stato di grazia. La lingua che usa è chirurgica – mai esondante – ma al contempo perdutamente evocativa: “I miei genitori si sono incontrati per i riverberi simili a quelli di una foresta prima di un incendio, non perché era scritto; il loro futuro non era impresso nella filigrana di una Bibbia o di un vecchio oroscopo, era solo una vibrazione particolare nell’aria, un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza. 3. Perché ci consegna un racconto della disabilità atipico e frastornante: “Poi un giorno, mentre stava per mettere alla prova le sue capacità di nuoto in un fiume inquinato e rivoltante, una ragazza lo aveva preso tra le braccia e lui aveva scoperto che per tutta la vita era andato alla ricerca di un suo simile. Una persona che non voleva affrontare la disabilità con coraggio o dignità, ma con incoscienza”. 4. Perché, attraverso questa narrazione misurata eppur vorticosa, riesce a trasformare i suoi genitori in due dei personaggi letterari più riusciti e indimenticabili degli ultimi anni: “Nella stanza in cui viveva mia madre si alternavano anemia, sonno interrotto e terrore. Un giorno era rientrata a casa e aveva trovato tutte le serrande abbassate, i mobili rovesciati e le bottiglie aperte; mio padre era seduto in cucina con un coltello in mano e le aveva detto che avevano quarantotto ore per scappare in Olanda”. 5. Perché è perfetta testimonianza del fatto che quello che siamo nella vita adulta è proiezione di certo non lineare ma comunque pregnante delle relazioni con la nostra famiglia d’origine: “Mio nonno fu il secondo a contrarre una malattia letale: il fegato cedette per una cirrosi. Gli era sempre piaciuto bere e, a differenza di quasi tutti gli uomini che ho conosciuto, non ha mai avuto una sbronza triste. È una resistenza che si è riverberata in me; quando mi trovo al cospetto di un uomo che dopo aver bevuto inizia ad avere cedimenti nostalgici, smetto di avere rispetto per lui, qualcosa dentro di me si fa freddi e implacabile”. 6. Perché è anche una storia che manifesta la forza salvifica che può avere la letteratura nella vita di una persona: “Ma ormai – come scrive Vladimir Nabokov nelle sue lezioni universitarie – avevo scoperto cosa fosse la letteratura, e non potevo tornare indietro”. 7. Perché il racconto del trasferimento della protagonista a Londra rende il testo anche una valida testimonianza delle sensazioni e degli stati d’animo di molti expat italiani degli ultimi anni: “Non c’è nulla del mio quartiere o delle zone limitrofe che mi sia sconosciuto ormai, eppure la mia insicurezza resta quella del giorno in cui sono arrivata”; “Più vivo a Londra più aumenta la mia sindrome di impostura”. 8. Perché alle sequenze narrative si succedono, andando avanti nella narrazione, molte sequenze riflessive. Una di queste chiarisce inequivocabilmente il significato del titolo del libro: “Possiamo fallire una storia d’amore, il rapporto con una madre. Ma quando una città ci respinge, quando non riusciamo a entrare nei suoi meccanismi più profondi e siamo sempre dall’altra parte
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