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Recensione libro, Sintesi del corso di Biologia

fdsgazvdcav sd

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 29/06/2015

Daniele.Cepa
Daniele.Cepa 🇮🇹

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica Recensione libro e più Sintesi del corso in PDF di Biologia solo su Docsity! Andrea Camilleri Il birraio di Preston 1995 Indice Era una notte che faceva spavento («Era una notte buia e tempestosa»: Snoopy, Il Romanzo) C'è un fantasima che fa tremare («Uno spettro s'aggira per l'Europa»: K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista) Avrebbe tentato d'alzare la muschittera? («Avrebbe tentato di sollevare la zanzariera?»: A. Malraux, La condizione umana) Chiamatemi Emanuele («Chiamatemi Ismaele»: H. Melville, Moby Dick) Nella matinata del giorno in cui («Il giorno in cui l'ammazzarono»: G. Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata) Egregie signore e diciamolo pure («Egregie signore e diciamolo pure»: A. Cechov, Il tabacco fa male) Turiddru Macca, il figlio («Turiddu Macca, il figlio»: G. Verga, Cavalleria rusticana) Solo chi è picciotto può avere («Solo i giovani hanno sentimenti così»: J. Conrad, La linea d'ombra) Lei sa home la penso («Lei sa come la penso»: L. Sciascia, Porte aperte) Colore latte e appannato («Lattiginoso e appannato»: T. Mann, Tonio Kruger) In ritardo, come u solitu («In ritardo, al solito!»: A. Huxley, Dopo i fuochi d'artificio) Avissi voluto che mio padre («Avrei desiderato che mio padre»: L. Sterne, Tristram Shandy) Tutti orama' lo conoscevano («Tutti oramai lo chiamavano»: C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) Il vento s'alzò da occidente («Il vento si levò alto da occidente»: G. K. Chesterton, Uomo vivo) Nell'accingermi alla descrizione («Nell'accingermi alla descrizione»: F. Dostojevskij, I demoni) Oh che bella giornada! («Ma che bella giornada!»: D. Tessa, L'è el di di mort, alegher!) Quanto durerà ancora? («Quanto durerà ancora?»: A. Schnitzler, Il sottotenente Gustl) Sono un maestro di scola elementare («Sono un maestro elementare»: L. Mastronardi Il maestro di Vigevano) Un giovanotto dall'ariata semplice («Un giovanotto dall'aspetto semplice»: T. Mann, La montagna incantata) Se una notte d'invernata tinta («Se una notte d'inverno un viaggiatore»: I. Calvino, romanzo omonimo) Era una gioia appiccià er foco («Era una gioia appiccare il fuoco»: R. Bradbury, Fabrenheit 451) Giagia mia cara («Giagia mia cara»: M. Praga, Anime a nudo) L'aranci erano più abbondanti («Gli aranci erano più abbondanti»: L. Durrell, Clea) Capitolo primo («Altri avrebbero potuto farci un libro»: A. Gide, La porta stretta) Nota P.S.: Arrivati a quest'ora di notte, vale a dire all'indice, i superstiti lettori si saranno certamente resi conto che la successione dei capitoli disposta dall'autore non era che una semplice proposta: ogni lettore infatti, se lo vuole, può stabilire una sua personale sequenza. [Nell’edizione cartacea comodino. «C'è che questa notte fa luce da Vigàta». «Luce? Quale luce? Alba di mattino?». «Sì, vater». Senza dire altra parola, l'ingegnere fece 'nzinga al figlio di avvicinarsi e appena questi gli venne a tiro gli mollò una solenne timbulata. Il caruso variò, si portò una mano alla guancia, ma s'incarognì. Ripeté ostinato: «Sissignore, vater, fa alba di mattino a Vigàta». «Fai subito in kamera tua!» ordinò l'ingegnere che mai si sarebbe mostrato, levandosi dal letto, in camicia da notte agli occhi che supponeva innocenti del figlio. Gerd ubbidì. Qualcosa di strano dev'esserci, pensava l'ingegnere mentre indossava la veste da camera e si recava nel retrè. Gli bastò e superchiò una sola occhiata per rendersi conto che altro che alba, a Vigàta era scoppiato un incendio, e grosso assai. A tendere bene l'orecchio, si sentiva magari la campana di una chiesa che suonava alla disperata. «Mein Gott!» fece l'ingegnere quasi senza fiato. Poi, trattenendo a stento urla e vociate di gioia, di purissima felicità, febbrilmente si vestì, raprì il cassetto grande dello scagno, ne trasse una grande tromba dorata munita di cordone per tenerla ad armacollo ed uscì di casa di corsa senza manco preoccuparsi di chiudere la porta alle sue spalle. Appena in strada, diede via libera a un lungo nitrito di contentezza e poi principiò a correre. Grazie all'incendio, poteva per la prima volta sperimentare un suo ingegnoso marchingegno spegnifuoco che aveva in mente di far brevettare e che era stato costruito su suo progetto, in lunghi mesi di appassionato lavoro fuori orario di miniera. Si trattava di un largo carretto senza sponde, sulla cui piattaforma era stato inchiavardato uno spesso lastrone di ferro. Su questo lastrone era saldamente avvitato una sorta di gigantesco alambicco di rame collegato ad un altro alambicco assai più piccolo e sotto il quale uno scomparto in ferro, aperto in alto, faceva da caldaia. L'alambicco piccolo, pieno d'acqua e con il fuoco acceso sotto, produceva, secondo la folgorante scoperta di Papin, la pressione necessaria a far uscire con forza l'acqua fredda contenuta nell'alambicco più grande. Agganciato al grosso carretto ce n'era uno di proporzioni ridotte che portava legna da ardere e due scale a pioli innestabili l'una nell'altra. Il tutto era trainato da quattro cavalli; la squadra dei volontari spegnifuoco era composta da sei persone che si assistimavano all'impiedi ai lati del carretto grande. L'ingegnere aveva il suo posto allato a quello del cocchiere. Nel corso degli allenamenti e delle prove, l'apparecchio aveva sempre dato buona riuscita. Arrivato al principio della strata che tagliava a metà il quartiere una volta arabo del Ràbato, dove ora abitavano minatori e zolfatari, Fridolìn Hoffer pigliò fiato e suonò un altissimo squillo di tromba. Si fece tutta la via, ch'era lunga, sentendosi dolere il petto capace per la forza con la quale soffiava nella tromba e, arrivato alla fine della strata, fece un rapido dietro front e ripigliò in salita a suonare Gli effetti di quella notturna sonata furono quasi immediati. Gli uomini della squadra, che erano stati preavvertiti del significato di un'improvvisa sveglia notturna a botta di tromba, principiarono a vestirsi di prescia, dopo aver rassicurato mogli e figli tremanti e piangenti. Poi uno corse ad aprire il magazzino dove stava la macchina, il cocchiere provvide ad impaiare la quatriglia di cavalli, un terzo e un quarto addrumarono il fuoco sotto l'alambicco piccolo. Gli altri abitanti del popoloso quartiere, ignari di tutto ma debitamente terrorizzati da quel suono di tromba che pareva quella del Giudizio, barricarono per il sì e per il no porte e finestre, in un subisso di urla, grida, voci, pianti, preghiere, giaculatorie, santionì. La novantatreenne signora Nunziata Lo Monaco, arrisbigliata all'improvviso, si susì a mezzo del letto, si fece rapidamente convinta opinione che fossero tornati i moti del quarantotto, attisò, ricadde all'indietro rigida come un manico di scopa e di subito attanata. I parenti, all'alba, la trovarono morta e ne diedero colpa al cuore e all'età, non certo al do sovracuto del tedesco. La squadra intanto, ultimati i preliminari, si era tutta stretta attorno all'ingegnere; erano agitati e commossi per la grande occasione che s'apprisintava. L'ingegnere lì taliò occhi negli occhi, uno a uno, poi isò un braccio e diede il via. In un vìdiri e svidiri montarono e partirono a redini stese verso Vigàta. Hoffer, dalla tromba che teneva ad armacollo ogni tanto lanciava uno squillo, forse per avvertire qualche coniglio o qualche cane che si trovava a passare e non certo un cristiano, perché a quell'ora di notte e con quel malotempo, cristiani in giro non se ne vedevano. Magari per Gerd, rimasto solo in casa, fu nottata stramma. Quando sentì suo padre uscire, si susì da letto, andò a serrare la porta di casa, addrumò tuttì i lumi uno dopo l'altro fino a fare una grande luminaria. Poi si assistimò in piedi davanti allo specchio della cammara di sua madre (l'ingegnere e sua moglie dormivano in stanze separate, e questo era lo scandalo del paese, non era certo cosa cristiana, ma del resto di che religione fossero il todisco e la todisca non si riusciva a capire), si levò la camicia da notte e, rimasto nudo, pigliò a taliarsi. Poi andò nello studio paterno, agguantò dallo scrìttoio un righello, tornò davanti allo specchio che era uno di quelli che ci si poteva vedere dai piedi alla testa. Pigliata la cosa che aveva tra le gambe (minchia? pesce? cazzo? uccello? pisello?), la stese lungo il righello. La misurazione, ripetuta più volte, risultò sempre insoddisfacente, malgrado avesse tirato la pelle sino a farsi male. Posò il righello e, sconsolato, tornò a coricarsi. Serrati gli occhi, cominciò a rivolgere una lunga e circostanziata preghiera a Dio perché glielo facesse, con adeguato miracolo, diventare come quello del suo compagno di banco Sarino Guastella che era alto quanto lui, pesava come lui, ma inspiegabilmente ce l'aveva quattro volte più lungo e più grosso di lui. Arrivati al piano Lanterna, sotto il quale si estendeva Vigàta, l'ingegnere e i suoi uomini si resero conto, preoccupati, che quell'incendio non era cosa da giocarci, almeno due grossi edifici erano in fiamme. Mentre stavano a taliare, e l'ingegnere studiava da quale parte scendere coll'apparecchio per più lestamente attaccare il fuoco, videro, alla luce traballante dovuta alle fiamme, un uomo che camminava con aria assorta, anche se di tanto in tanto sbandava. Aveva i vestiti bruciacchiati e i capelli dritti in testa, non si capiva se per spavento o per pettinatura. Le mani le teneva alte sopra il capo, come se volesse arrendersi. Lo fermarono. E dovettero chiamarlo due volte perché alla prima l'uomo parse non averli manco sentiti. «Kosa essere successo?» spiò l'ingegnere. «Dove?» spiò a sua volta l'uomo con fare gentile. «Kome dofe? A Figàta, kosa essere successo?». «A Vigàta?». «Sì» fecero tutti in una specie di coro. «Pare che ci sia un incendio» disse l'uomo taliando verso il paese in basso quasi a ottenere conferma. «Ma kome è stato? Lei sa?». L'uomo calò le braccia, se le mise darré la schiena, si taliò la punta delle scarpe. «Non lo sapete?». «No. Nessuno kvi sa». «Ah. Pare che la soprano a un certo punto stonò». E detto questo si rimise in cammino, ripigliando la posizione di mani in alto. «Che minchia è la soprano?» spiò Tano Alletto, il cocchiere. «Ô una tonna ke kanta» spiegò Hoffer scuotendosi dallo stupore. C'è un fantasima che fa tremare «C'è un fantasima che fa tremare tutti i musicanti d'Europa!» proclamò a gran voce il cavaliere Mistretta dando contemporaneamente una forte manata sul tavolino. Era per tutti chiaro che dicendo musicanti intendeva riferirsi ai compositori di musica. Il cavaliere commerciava in fave, non era amico della lettura, ma certe volte, parlando, gli scattava il firticchio d'apocalittiche immagini. A quella vociata e a quella botta improvvisa, i soci del circolo cittadino di Vigàta, «Famiglia e progresso», sobbalzarono perché si erano fatti nervosi dopo tre ore e passa d'accesa discussione. Una reazione completamente diversa l'ebbe invece il perito agronomo Giosuè Zito, che da un quarto d'ora s'era appinnicato dato che la notte prima non aveva chiuso occhio per un gran mal di denti. Arrisbigliato di colpo, avendo appena sentito nel mezzo sonno la parola fantasima, lestamente si calò dalla sedia, s'inginocchiò, si fece il segno della croce e pigliò a dire il credo. Era cosa cògnita in paese che il perito, tre anni avanti, mentre dormiva nella sua casa di campagna, era stato scantato a morte da uno spettro, un fantasima che l'aveva assicutato di cammara in cammara con grande rumorata di catene e strazianti lamenti d'addannato. Finita la preghiera, Giosuè Zito si susì, ancora pallido come un catafero, e si voltò verso il cavaliere con la voce che gli ballava. «Lei, privo di Dio, in mia prisenza non si deve azzardare a parlare né di spiriti né di fantasimi! Lo vuole capire, sì o no, testa di calabrese? Io so bene quant'è spaventoso un fantasima!». «Lei, mio caro, non sa un'amata minchia». «Come si permette?». «Mi permetto perché posso» fece risentito il cavaliere Mistretta. «Si spieghi meglio». «Lo sanno cani e porci che quella famosa notte con la quale lei, contandola e ricontandola, ha rotto i cabasisi a tutto il creato, quella famosa notte, dico, lei non venne assugliato da un fantasima, ma da quel gran cornuto di suo fratello Giacomino, travestito con un linzòlo, che voleva farlo uscire pazzo e fottersi lui tutta l'eredità paterna». «E che significa?», «Come, che significa? Il fantasima non c'era. Era suo fratello Giacomino che garrusiava!». «Ma io lo scanto me lo pigliai lo stesso, a me mi fece l'effetto preciso di un fantasima autentico in carne e ossa! La febbre, mi venne, a quaranta! Mi spuntarono le vescicole sulla pelle! E perciò lei, per rispetto, poteva cangiare quella parola!». «E come?». «Che minchia ne so, lei parla con le parole sue, non con le mie». «Guardi, non potevo e non posso cangiarla. Perché la parola mi è venuta propriamente propria! Non ne trovo altre, ora come ora!». «Vogliano scusarmi» s'intromise a questo punto e sempre in punta di forchetta, tutto scocchi, maniglie di cerimonia e riguardo, il marchese Manfredi Coniglio della Favara «ma vuole gentilmente spiegarci l'egregio cavaliere di quale fantasima sta parlando?». Occorre aprire una parentesi. Il posto giusto del marchese Coniglio della Favara era, ed era stato, fra i soci del « Circolo dei Nobili » di Montelusa, vuoi per ceto vuoi per censo. Però, un brutto giorno dell'anno avanti, la statua di san Giuseppe si era trovata a passare sotto i finestroni del circolo, dato che era la sua festa. Ad uno dei finestroni si affacciò, per vedere la processione, il marchese Manfredi. Sfortuna volle che allato gli si allocasse il barone Leoluca Filò di Terrasini, facinoroso papista e terziario francescano. Fu solo in quel momento, perché prima mai nella vita ci aveva ragionato sopra, che il marchese s'addunò quanto fosse vecchio san Giuseppe. Cominciò a specularci, su questa differenza d'età fra Giuseppe e Maria, pervenendo ad una conclusione che dobbiamo agliuttìri, volenti o nolenti, una musica che manco sappiamo com'è solo perché così vuole l'autorità! Cose da pazzi! Dobbiamo fare soffrire le nostre orecchie con la musica di questo Luigi Ricci solo perché il signor prefetto ordina così!». Lo studioso di patristica era veramente indignato, tanto che mandò all'aria le carte di un solitario che, a forza d'imbrogli, stava questa volta per riuscirgli. «Lo sapete?» intervenne il medico Gammacurta. «Questo Ricci che ha scritto la musica del Birraio di Preston, pare abbia fatto un'opera che è una dichiarata risciacquatura di una cosa di Mozart». A quel nome i presenti inorridirono. Dire il nome di Mozart, inspiegabilmente detestato dai siciliani, era come dire un santione, una vestemmia. A Vigàta, a difendere quella musica che a parere di tutti non sapeva né di carne né di pesce, ci stava solo il falegname don Ciccio Adornato, ma pare che lo faceva per ragioni sue personali, delle quali scarsamente parlava. «Mozart?!». Non fu un coro, anche se tutti allo stesso tempo quel nome esclamarono. Ci fu chi lo disse con disprezzo e chi con dolore, come per un tradimento, chi con stupore e chi con indignazione. «Sissignore, Mozart. Me l'ha detto uno che le cose le conosce. Pare che circa trentacinque anni fa, alla Scala di Milano, questo stronzo di Luigi Ricci ha fatto rappresentare un'opera, che si chiamava Le nozze di Figaro e che era una stampa e una figura con un'opera di Mozart che si chiamava allo stesso modo. E i milanesi, alla fine, gli cacarono sulla testa. E allora questo Ricci si mise a chiangìri e in lacrime si precipitò a farsi consolare fra le braccia di Rossini che gli stava amico, va a sapere perché. Rossini fece il dovere suo, gli fece coraggio, però diede a sapere a tutti che, in fondo, Ricci se l'era andata a cercare», «E noi dovremmo inaugurare il nostro teatro di Vigàta con un'opera di questa mezza calzetta solo perché il signor prefetto amminchiò?» spiò il preside Cozzo tastando minacciosamente la sacchetta dove teneva il revorbaro. «Oh Gesù, Gesù santo!» fece il canonico. «Già Mozart è quel mortorio che è, figuriamoci cosa deve essere la brutta copia di un brutto originale! Ma si può sapere cosa ci ha in testa questo signor prefetto?». Poiché nessuno seppe dargli una risposta, venne ancora un silenzio, tutto meditativo. Il primo a romperlo fu Giosuè Zito che intonò, basso basso, per non farsi sentire dalla strada: «Ah, non credea mirarti...». Gli subentrò il marchese Coniglio della Favara: «Qui la voce stia soave...». Intervenne il commendator Restuccia, da basso profondo: «Vi ravviso, o luoghi ameni...». A questo punto il canonico Bonmartino si susì dalla seggia, corse alle finestre, tirò le tende a fare scuro, mentre il preside Cozzo addrumava un lume. Attorno a quella luce si ritrovarono tutti a semicerchio. E il medico Gammacurta attaccò con voce da baritono: «Suoni la tromba e intrepido...». Primo gli si unì, come da partitura, il commendatore. Poi, uno a uno, tutti gli altri. In piedi, taliandosi occhi negli occhi e stringendosi a catena le mani, abbassarono d'istinto il volume del canto. Erano congiurati, lo erano diventati in quel preciso momento nel nome di Bellini. Il birraio di Preston, opera lirica di Luigi Ricci, imposta dal prefetto di Montelusa, non sarebbe passata. Avrebbe tentato d'alzare la muschittera? «Avrebbe tentato d'alzare la muschittera?» si domandò la signora Riguccio Concetta vedova Lo Russo, trepidante, nascosta darrè la tarlantana che d'estate, stesa torno torno e sopra il letto, serviva a ripararla dai pizzichi delle muschitte, le zanzare, dei pappataci, delle mosche cavalline. Ora la muschittera, massa di velatino leggero, pareva un fantasima che pendeva da un chiodo. Il generoso pettorale della vedova era investito da un fortunale forza dieci, la minna di babordo scarrocciava verso nord-nord ovest e quella di tribordo invece andava alla deriva verso sud-sud est. Mogliera di un marinaio annegato nelle acque di Gibilterra, non le riusciva di pensare con altre parole, sapeva adoperare solo quelle marine che il marito le aveva imparato da quando si era maritata a quindici anni fino ai venti, quando aveva dovuto pigliare il lutto stretto. Gesù, che tirribìlio! Che nottata! Che mare grosso! Per la facenna convenuta che doveva succedere, lei era già di conto suo col sangue in movimento, che ora se ne calava abbascio facendola pallida, ora se ne acchianava in coperta facendola più che rossa, viola. Infatti, per buon peso e zavorra, di prima notte aveva ascutato, scantata, grandi vociate venire dal nuovo teatro, che era il flabbicato davanti al suo, poi il suonare d'una tromba, dopo ancora una corsa affannata di cristiani e di cavalli, e c'era stata magari qualche sparatina. Si era allora fatta persuasa che per tutto quel virivirì che stava succedendo, e di cui lei non capiva la scascione, lui quella notte non si sarebbe azzardato a venire, poteva mettersi il cuore, e qualche altra parte del corpo, in pace. Rassegnata, si era spogliata e curcata. Poi, mentre stava per appinnicarsi, aveva sentito una piccola rumorata sul tetto, quindi i passi lenti e quatelosi di lui sulle canala, e in seguito il tonfo soffocato quando dal tetto lui era saltato sul finestrone, lasciato semichiuso come da intesa. Ora, quando sentì che lui era stato di parola e che fra pochi minuti sarebbe trasùto nella sua cammara, venne pigliata di vrigogna, non aveva saputo restare stinnicchiata mezza nuda sul letto come una buttanazza, in cammisa e senza nenti sotto. Si era susuta di corsa, ed era andata ad ammucciarsi darrè la grossa pezza di tarlantana. Da lì, lo sentì trasìri nello scuro fitto, chiudere il finestrone. Capì che si stava dirigendo verso il letto e intuì la sua sorpresa nel non trovarla dopo avere più volte tastiato con la mano. Ora lui si era messo ad armiggiare allato al comodino e difatti percepì la strusciata di un acciarino, ne intravide la luce splapita attraverso la fitta tarlantana e poi la cammara tutta s'illuminò: lui aveva addrumato il candeliere doppio. Fu allora, per effetto di controluce, che Concetta Riguccio vedova Lo Russo si addunò che lui era completamente nudo - ma quando si era spogliato? appena trasuto o aveva camminato così sopra le canala? - e che tra le gambe gli pendevano una trentina di centimetri di cavo d'ormeggio, di quello grosso, non di barca ma di papore di stazza, cavo che poggiava su una bitta d'attracco curiosamente a due teste. A quella vista un'ondata più forte la travolse, la fece piegare sulle ginocchia. Malgrado la nebbia che di colpo si era parata davanti ai suoi occhi, vide la sagoma di lui dirigersi con precisione, fare rotta sicura verso il posto dove lei si teneva ammucciata, fermarsi davanti la zanzariera, calarsi a posare a terra il candeliere, afferrare la muschittera e isarla di colpo. Non sapeva, la vedova, che bussola per lui era stata non la vista, ma l'udito, il lamentoso tubare di palumma che lei si era messa a fare senza manco rendersene conto. Lui se la vide davanti inginocchiata, che rapriva e serrava la bocca come una triglia pigliata nella rete. Ma l'apparente mancanza d'aria non impedì alla vedova di notare che il cavo d'ormeggio cangiava forma, principiava a diventate una specie di rigido bompresso. Poi lui si chinò, la pigliò senza dire parola per di sotto le asciddre sudate, la isò alta sopra la propria testa. Lei sapeva di essere diventata un carrico pesante per le sue sartìe, ma lui non perse l'equilibrio, la calò solamente di tanticchia, perché lei con le sue gambe potesse ancorarglisi darrè la schiena. Intanto il bompresso aveva ancora cangiato di forma: ora era diventato un maestoso albero di maestra, solidamente attaccata al quale la vedova Lo Russo pigliò a oscillare, a battere, a palpitare, vela piena di vento. Una volta suo marito le aveva ripetuto una storia che gli era stata contata da un marinaro che se n'era andato a caccia di balene: nelle acque fridde del nord, aveva detto il marinaro, esiste un pesce spettacoloso, che si chiama narval. Grande tre volte un omo, ha sulla testa, in mezzo agli occhi, un corno d'avorio che supera i tre metri. Chi lo trova, arricchisce, perchè tanticchia di polvere di quel corno rende un mascolo capace di farsene quindici in una notte. Allora la signora Concetta a quella storia non aveva voluto crederci. Adesso invece capì che era tutto vero, che lei stava stringendo fra le braccia un piccolo narval, con appena trenta centimetri di corno, però bastevoli assai. La storia era principiata una domenica, quando lei e sua sorella Agatina erano arrivate tardo alla santa missa. La chiesa era piena, delle seggie di paglia che il sagrestano affittava a mezzo tarì l'una manco l'ùmmira, e davanti avevano una fitta schiera di omazzi che non era di dicoro traversare dimandando primisso. Abbisognava perciò, di necessità, starsene lontane dall'altaro. «Restiamo addritta qua in fondo» aveva perciò detto Agatina. A un tratto la porta della controporta s'era aperta e lui era trasuto. Mai prima l'aveva veduto, ma appena Concetta lo taliò capì che per qualche minuto il suo timone sarebbe stato ingovernabile. Beddru, era, beddru, un angilo di paradiso. ·vuto, biunnu e ricco di capelli ricci, sicco sicco ma quanto era giusto in un omo sano, un occhio cilestre come il mare e l'altro, quello di dritta, che non c'era. Se ne stava, l'occhio, ammucciato sotto la palpebra che si era come impiccicata, murata, alla parte di sotto. Però non faceva impressione, anzi: tutta la luce dell'occhio astutato si riversava nell'altro, lo faceva sparluccicante come una pietra priziosa, come faro di notte. Seppe poi da Agatina che lui l'aveva perso per una coltellata nel mentre d'una azzuffatina, ma poco le importò. Capì, in quel preciso intifico momento, che ogni cosa nella navigazione cangiava per lei: lui, per forza, doveva essere il suo porto, a costo di doppiare Capo Horn. E magari lui l'aveva sentita, tant'è vero che girò la testa fino a incontrare i suoi occhi, e lì gittò l'ancora. Rimasero a taliarsi per un minuto eterno. Poi, dato che oramai era cosa fatta, lui riunì le dita della mano destra a cacocciola, a carciofo. e le agitò ripetutamente dal basso in alto e viceversa. Era una precisa dimanda. «Come facciamo?». Concetta lentamente scostò le braccia dal corpo, le lasciò penzolare lungo i fianchi, rivolse il palmo delle mani verso l'esterno con faccia scunsolata. «Non lo so». Il dialogo s'era svolto veloce, per gesti minimi, appena accennati. La strambata violenta che a un certo momento lui decise di fare la pigliò di sorpresa, ma non fece discussione, lesta obbedì. E Concetta, diventata questa volta barca, paranza di vela latina, si trovò con la prua sopra il cuscino e la poppa tutta alzata a cogliere il vento che proprio da poppa, facendola balzare da cavallone a cavallone, irresistibilmente la sospingeva verso il mare aperto, senza più bussola e sestante. Alla missa della domenica appresso lei fece le umane e divine cose per arrivare apposta tardi, tanto che sua soro Agatina si squetò e le disse ch'era femmina scialacqua tempo. Ma appena trasuta nella chiesa, il faro cilestrino l'illuminò, la quadiò, la beò. Si sentì, sotto quella luce e calore, come una lucertola stinnicchiata sopra una pietra dentro il sole. Poi lui stese l'indice della mano destra verso di lei. «Tu». Arrivotò l'indice verso se stesso. «A mia». Strinse a pugno la stessa mano, fece combaciare il pollice e l'indice, la ruotò. «La chiave». Lei mosse la testa da babordo a tribordo e all'incontrario. Chiamatemi Emanuele «Chiamatemi Emanuele!» ordinò sua Eccellenza il prefetto di Montelusa, Bortuzzi cavalier dottor Eugenio, riconsegnando all'usciere una voluminosa carpetta di pratiche già firmate. «Ô qui fuori che aspetta da una mezzorata». Sua Eccellenza s'infuscò. «Te tu, Orlando, sei sempre una gran bella testa di 'azzo. Dovevi dirmelo immediatamente. Vai». Parse un gioco di prestigio. L'usciere Orlando non aveva ancora oltrepassato la soglia che addirittura attraverso di lui si materializzò, cancellandolo, Emanuele Ferraguto, meglio noto in provincia e fuori come «don Memè» o più semplicemente «u zu Memè», zio Memè, soprattutto da chi con lui legami di parentela non aveva, manco lontanissimi. Cinquantino, alto, sicco di giusto peso, abbastanza bono vestito, don Memè accennò a un inchino, un largo cordiale sorriso stampato sulla faccia, aspettando che il prefetto gli facesse 'nzinga d'avanzare. Diceva la voce popolare che don Memè il sorriso non l'avesse perso manco quando il delegato di pubblica sicurezza, cinque anni avanti, sollevando un lenzuolo gli aveva mostrato, steso nudo sopra un bancone di marmo, il corpo martoriato del figlio Gnazino che non era riuscito a toccare i vent'anni. Dopo l'autopsia, sempre con lo stesso sorriso, educatamente don Memè aveva domandato una spiega al medico legale e questi l'aveva ragguagliato che, a suo parere, al giovane, prima di essere strangolato, avevano tagliato la lingua, segato le orecchie, cavato gli occhi, asportato minchia e coglioni. Nell'ordine. E di quell'ordine don Memè aveva pigliato accuratamente nota, su un foglio di carta, con una matita copiativa che di tanto in tanto bagnava con la punta della lingua. Il messaggio che quel morto portava col modo stesso della sua morte era chiaro: chi aveva ammazzato il picciotto lo pensava uno dalla parola facile e sempre pronto a fottere femmine, picciotte o maritate che fossero, a dritta e a mancina. Nei due mesi successivi, don Memè si era dedicato ad una laboriosa transazione d'affari. Al termine della quale, ceduta ad altri la primazìa sul feudo Cantarella, aveva ricevuto in cambio, presso una sua casa di campagna, i due assassini del figlio, messi in condizione di non potere arriminare manco un dito. Di loro, diceva sempre la voce popolare, don Memè aveva personalmente voluto pigliarsene cura dopo avere indossato una parannanza per non lordarsi di sangue il vestito. Tirato fuori il foglietto che aveva scritto dopo aver parlato col medico legale, l'aveva appizzato a un chiodo, e si era messo pedissequamente a seguirlo, senza mostrare fantasia. Però, dopo aver tagliato loro minchia e coglioni, aveva avuto una botta di autonoma creatività, staccandosi dal copione. Infatti, pigliati i due moribondi, li aveva messi di traverso sopra una mula ed era andato a impalarli sui rami di un olivo saraceno che sorgeva proprio nel transatto feudo Cantarella. Scoperti i cadaveri ormai mangiati da cani e corvi, il delegato, fatta una sbrigativa indagine e sempre persuaso che due più due facessero quattro, era andato di corsa ad arrestare don Memè. Nel giro della stessa giornata, dieci insospettabili abitanti di Varo, a cinquanta chilometri da Montelusa, si erano precipitati a testimoniare che il giorno del duplice omicidio don Memè era nel loro paese, a godersi la festa di san Calogero. Tra i fornitori dell'alibi c'erano il ricevitore postale Bordin Ugo, veneto, il dottor Pautasso Carlo Alberto, astigiano, direttore dell'ufficio imposte, e il ragionier Ginnanneschi Ilio, pratese, addetto al catasto. «Ma quant'è bella l'unità d'Italia!» aveva esclamato don Memè con un sorriso più cordiale dei solito, mentre gli si aprivano le porte del carcere. Finito d'inchinarsi, Emanuele Ferraguto avanzò verso l'ampia scrivania prefettizia con qualche difficoltà. Nella destra teneva la coppola di stoffa 'nglisa e un pacchetto, con la sinistra reggeva un pacco voluminoso. «Avanti, avanti, 'arissimo» fece gioviale il prefetto. Don Memè, che aveva chiuso con un piede la porta, continuò a camminare tanticchia zuppiando con la gamba destra. «Vi siete fatto male?» s'informò premuroso Sua Eccellenza. Don Memè arriniscì a fare 'nzinga di no con l'indice della mano destra, senza far cadere coppola e pacchetto. «Ô per il rotolo» sussurrò misterioso taliandosi attorno. Sulla scrivania depose il pacchetto. «Sono cannoli di Sfiacca, quelli che piacciono tanto alla sua signora» Poi fu la volta del pacco grosso e pesante. «E questa immeci è una bella sorpresa per lei, Eccellenza». Il prefetto taliò il pacco con occhio fatto di subito lucido e speranzoso, la voce gli trimuliò. «Non mi di'a!». «E immeci sì, glielo dico!» fece trionfante Ferraguto. «Ô la storia archeologica della Sicilia del du'a di Serradifalco?». «Voscenza c'inzertò. Sono i libri che cercava». «E home avete fatto a trovarla?». «Ho visto che ce l'aveva il notaro Scimè, gliel'ho domandata cortesemente e lui me l'ha regalata per farne omaggio a lei», «Davvero? Gli manderò un bigliettino di ringraziamento». «Meglio di no, Eccellenza». «E perché no?». «Potrebbe sentirsi cornuto e mazziato. Ce n'è voluto a persuaderlo, sa? Il notaro a questi libri ci teneva. Ho dovuto, come dire, forzarlo un pochino, convincerlo quale era il suo interesse». «Ah» fece Sua Eccellenza passando sul pacco una mano amorosa. «Sapete Ferraguto, vi rivelo una hosa. A me m'annoiano i libri fitti di scrittura, mi honfondono. 'apisco meglio dalle figure. E per fortuna i libri del Serradifalco ne sono pieni, di figure». Don Memè decise di porre termine all'intermezzo culturale. «Vossia mi scusassi, Eccellenza» fece mentre principiava a sbottonarsi le bretelle. D'un balzo, il prefetto si susì, corse alla porta, diede una doppia mandata, si mise in sacchetta la chiave. Dal pantalone destro intanto Ferraguto aveva sfilato un lungo rotolo che posò sullo scrittoio, di prescia riabbottonandosi. «Mi faceva camminare tutto storto» disse. «Avevo scanto che il foglio pigliasse piegature. Con una lupara ammucciata nel pantalone impeci problema non c'è». Rise a lungo, da solo, mentre Sua Eccellenza svolgeva il rotolo. Erano le bozze di stampa di un manifesto che annunziava la prossima recita dell'opera Il birraio di Preston per l'inaugurazione del nuovo teatro di Vigàta. Alla fine di un'attenta lettura, non avendo riscontrato alcun errore, il prefetto ridiede a Ferraguto il rotolo e questi se lo rinfilò nel pantalone. «Siamo alle porte hoi sassi, 'arissimo». «Non capisco, Eccellenza». «Ô un modo di dire delle mie parti. Vuol signifi'are che oramai c'è pohissimo tempo. Doman l'altro, anzi fra tre giorni, l'opera va in scena. E io sono molto preoccupato». Si abbandonarono a una pausa, taliandosi occhio nell'occhio. «Io, da nicareddro, giocavo coi comerdioni» fece lento lento, rompendo il silenzio, Emanuele Ferraguto. «Ah, sì?» disse tanticchia disgustato il prefetto che s'immaginò i comerdioni come una specie di ragni pelosi e viscidi ai quali il bambino Ferraguto strappava le zampe una ad una. «Sì» continuò Ferraguto. «Come li chiamate dalle parti vostre quei giochi che i picciliddri si fabbricano...» «L'è un trastullo?» l'interruppe il prefetto visibilmente sollevato. «Sissignore. Si piglia un foglio di carta colorata, lo si taglia a forma, vi si incollano due stecche di canna con colla di farina... poi si mandano in aria attaccati a una cordicella». «Ho capito! I cervi volanti! Gli aquiloni!» esclamò Sua Eccellenza. «Gli aquiloni, sissignore. Ci giocavo dalle parti di Punta Raisi, vicino a Palermo. Conosce il posto?». «Che domande, Ferraguto! Voi sapete benissimo che io non amo uscire da 'asa. La Sicilia la honosco bene sulle figurine. Meglio che andarci di persona». «Per i comerdioni è un posto negato, Punta Raisi. Certe volte non c'era vento e non c'erano le umane e divine cose per farli alzare. Certe volte immeci vento ce n'era ma il comerdione, appena in volo, incocciava una manata di corrente forte che lo faceva capozziare e poi lo mandava a sbattere sui rami degli alberi. Io mi ci incaponivo. Ma sbagliavo, stavo in errore. Mi sono spiegato?». Sua Eccellenza rimase fulminato dalla domanda improvvisa. Che 'azzo c'era da capire in quella storia di aquiloni e di venti contrari? «No, non si è spiegato». «Sempre una testa di minchia fiorentina è» pensò Ferraguto e di conseguenza rivotò la domanda. «Vostra Eccellenza mi permette di parlare latino?», Il prefetto si sentì bagnare la schiena da un rivolo di sudore. Fin dal momento che si era imbattuto in rosa-rosae aveva capito che quella era la sua vestia nera. «Ferraguto, in confidenza, a scuola non ero mi'a bravo». Don Memè allargò il sorriso leggendario. «Ma che ha capito, Eccellenza? Da noi, in Sicilia, parlare latino signifìca parlare chiaro». «E quando volete parlate oscuro?». «Parliamo in siciliano, Eccellenza». «Vada avanti in latino». «Eccellenza, perché s'intesta a voler fare alzare questo comerdione del Birraio proprio a Vigàta dove ci sono venti contrari? Mi creda, da amico quale mi onoro, che non è cosa». Finalmente il prefetto agguantò la metafora. «A Vigàta, hosa o non hosa, devono fare quello che ordino io, quello che diho e homando io. Il Birraio di Preston sarà rappresentato e avrà il successo che merita». «Eccellenza, posso parlare spartano?». «O che vuol dire?». «Spartano vuol dire parlare con parole vastase. Mi spiega per quale amatissima minchia lei è amminchiato a imporre al vigatesi la rapprisintazione di un'opera che i vigatesi non si vogliono agliuttìri? Voscenza vuole forse fare succedere un quarantotto, una rivoluzione?». «Che parole grosse, Ferraguto!». «Nonsi, Eccellenza, non sono parole grosse. Io quella gente la conosco. Sono persone buone e care ma se gli salta il firticchio sono capaci di fare una guerra». «Ma Dio santo, perché i vigatesi farebbero una guerra pur di non ascoltare un'opera lirica?». «A secondo di quale opera si tratta, Eccellenza». «Hosa mi viene a raccontare, Ferraguto? Che a Vigàta ci stanno i migliori critici musi'ali del mondo?». «Non si tratta di questo. I vigatesi non capiscono niente di musica, fatta eccezione di tre o quattro La musica attaccò e spuntò uno con una parannanza grigia, inteso, come da foglietto, Bob il capoperaio. Era tutto allegro, si mise a sonare una campana. Subito da darrè il cancello trasirono sei persone con la stessa parannanza, ma invece di mettersi a travagliare si sistemarono in fila avanti alla gente che stava in teatro. Dalle facce e dai gesti che facevano parevano persone più felici ancora del loro capo. Questi li taliò, allargò le vrazza e attaccò. Amici, alla fabbrica allegri corriamo! I sei operai parsero toccare il cielo con un dito. Allegri corriamo! fecero tutti assieme, isando le vrazza. Con biade e luppoli la birra facciamo! I sei con le parannanze si misero a satare di gioia. La birra facciamo! Il caposquadra Bob si esibì in una girata torno torno il cortiglio, facendo mostra degli attrezzi. Il nostro è il migliore d'ogni altro mestier. I sei si abbracciarono, si diedero grandi manate darrè la schina. D'ogni altro mestier. E Bob, correndo da una carriola a un sacco, da un sacco a una pila di cannestri. Facciamo un liquore che arreca piacer. «A tia piace!» esclamò a voce alta uno che stava assittato nei posti proprio sotto al soffitto. «A mia la birra pare pisciazza, a mia mi piace il vino!». La voce aveva sovrastato magari la musica. Ma il coro non si lasciò stunare, proseguì. Che arreca piacer. A questo punto, ad arrabbiarsi per davvero, fu don Gregorio Smecca, commerciante di mandorle e trita, ma soprattutto omo di puntiglio. «Ma perché questi sei stronzi ripetono sempre le cose? Che credono, che siamo zulù? Noi quello che c'è da capire lo capiamo a prima botta, senza bisogno di ripetizione!». Ne approfittò Lollò Sciacchitano, che stava assittato in loggione ma distante dal suo amico Sciaverio, quello che aveva proclamato che la birra non gli piaceva. «Sciavè, ma pirchì sunnu accussì allegri?» spiò con la sua voce che in mare si sentiva magari sopra la tempesta. «Perché vanno a travagliare» fu la risposta di Sciaverio. «Ma non dire minchiate!». «E tu allora spialo a loro». Sciacchitano si susì, si rivolse ai sette ch'erano in palcoscenico. «Domando pirdonanza, ma me la volete contare giusta? Perché siete tanto contenti di ire a travagliare?». Questa volta sulla scena ci fu un certo sbandamento. Due del coro si misero la mano a pampèra sugli occhi per pararli dai lumi di scena e taliàre verso il loggione, ma la bacchetta del direttore li rimise subito in riga. Nel palco reale, il prefetto Bortuzzi, vista la mala parata, sentì che gli acchianava il sangue alla testa. Fece rabbiosa 'nzinga al delegato Puglisi che aveva alle spalle. «Arresti queste teste di 'azzo! Subito!». Puglisi non se la sentiva d'eseguire l'ordine, sapeva che a quel punto bastava un biz per fare succedere il quarantotto. «Guardi, Eccellenza, mi perdoni, ma non c'è assolutamente cattivo animo o intenzione in quello che fanno. Non sono disturbatori, io li conosco uno per uno. Brava gente, mi creda, rispettosa. Solo che non hanno mai visto un teatro e non sanno come starci». Ce la fece: il prefetto, che era tutto sudato, non insistette. Intanto dalla scaletta a mancina era comparso Daniele Robinson, il padrone della birreria. Lui, poi, era più allegro degli altri e spiegò finalmente che quel giorno era festa perché si maritava con una certa Effy. La notizia a momenti fece svenire tutti dalla contentezza. Attaccò Bob: Chi miglior poteva sceglierla chi più buona e chi più bella? I sei con la parannanza non fallarono manco questa volta, furono pronti a ripetere. Chi più buona e chi più bella? Don Gregorio Smecca non ce la fece più a resistere. «Arrè, sta camurria! Io me ne vado, buonanotte». Si susì e se ne andò, lasciando in tridici sua moglie. Intanto quelli sulla scena descrivevano Effy come «gemma preziosissima» e come «emblema dell'amor». Daniele Robinson allora si mise a regalare soldi a tutti mentre ordinava che si facesse una grande festa. Cercate, trovate in tutti i contorni i flauti, i timballi, i pifferi, i corni. «I corni non hai bisogno di cercarli, vengono da soli» disse una voce dal solito loggione. Qualcuno rise. «Ma il timballo non è quello che mi fai col riso, la carne e i piselli?» spiò seriamente Gammacurta alla moglie. «Sì». «E allora che ci accucchia coi pifferi e i flauti?». Nel teatro si fece finalmente tanticchia di silenzio. Gli operai se ne erano niseiuti tutti a cercare gli strumenti e ad invitare i vicini. Daniele, magari se allato a lui non c'era più nisciuno, si mise a fare gesti misteriosi a Bob come per dirgli una cosa segreta. Bob si avvicinò e il padrone gli rivelò che in giornata sarebbe arrivato un suo fratello gemello, che era da due anni che non si vedeva da quelle parti. Di nome faceva Giorgio, era un militare, ma non era tanto quieto di carattere. Bob si mostrò dubbioso: Ed ei verrà? Daniele si fece pensoso, poi arrispose. Lo spero, se quel brutto mestiero di stare tra le palle... A sentire il perlomeno curioso mestiero dei gemello Giorgio, la latata mascolina degli spettatori trattenne il fiato, a qualcuno parse di non avere capito bene e s'informò col vicino. Daniele, come voleva la musica, ripeté l'occupazione del fratello in tono più alto. Se quel brutto mestiero di stare tra le palle... Le risate esplosero questa volta immediate, percorrendo tutto l'arco dalla a alla u e poi ci furono magari quelle a raschio di gola, a stranuto, a fontanella, a singhiozzo soffocato, ad avvio di motore, a verso di porco e via dicendo. Sicché la spiegazione cantata dello strano mestiero di Giorgio si perse completamente: .. di stare tra le palle e la mitraglia. La risata che il cavaliere Mistretta tentò di trattenere fu quella che fece maggiore scarmazzo. Il cavaliere era asmatico, l'aria gli venne a mancare e per ripigliarla tirò un respiro che sonò preciso a un corno da nebbia. Malgrado la sonata, il fiato non gli tornò e cominciò ad annaspare, dando grandi e convulse manate a chi gli stava attorno. La moglie si scantò e si mise a fare voci, altri corsero allato al cavaliere e uno, più pronto degli altri, se lo carricò sulle spalle e se lo portò nell'atrio con la signora darrè che faceva come una maria. In un primo momento, il dottor Gammacurta si era congratulato con il cavaliere, pensando che quella rappresentazione fosse stata messa in piedi da Mistretta per disturbare, secondo gli accordi, lo spettacolo. Poi capì che quello invece faceva sul serio. Sul palcoscenico intanto era spuntata lei, Effy, la zita settebellizze. Era un fimminone di due metri e passa, con certe mani che parevano pale e un naso che uno ci si poteva saldamente afferrare se tirava vento forte. E sotto questo naso c'era un'ombra scura di baffi che il belletto generosamente cosparso non riusciva a nascondere. Si muoveva inoltre a larghe falcate, battendo rumorosamente i talloni. La moglieri di Giosuè Zito, signora Filippa, stava serena. Essendo nata completamente sorda, non aveva sentito niente di quello che dicevano tanto in platea quanto in palcoscenico. Tutto, per lei, si stava svolgendo nella pace degli angeli. Gli venne però curiosità alla vista della fimminona. «Giosuè, cu è?». Giosuè Zito, all'apparire di Effy in scena, si era messo in allarme. «Non me la contano giusta» aveva pensato. «Qua sotto c'è qualcosa che fete, questa non è una fìmmina, ma un omo». «Ô Giorgio, il fratello gemello» arrisponnì convinto e la risposta, naturalmente, la dovette gridare per superare la surdìa della moglieri. Esplose un'altra risata, ma il contributo di Giosuè Zito all'affossamento dell'opera era stato del tutto involontario. Evidentemente in preda al panico per tutto quello che stava capitando in sala e per quello che aveva avuto modo di sentire mentre si approntava per entrare in scena, la cantante che faceva Efly con la faccia, con gli occhi, con l'arravuglìo convulso delle mani, con certi scatti improvvisi della stazza, mostrava tutto l'opposto di quello che doveva esprimere, la contentezza per il prossimo sposalizio. Al gesto imperioso dei maestro, principiò con una voce che pareva un lumino senza più «E dunque, dunque e dunque. Questo Luigi Ricci se ne nasce bello bello a Napoli in pieno càvudo, vale a dire nella mesata di luglio del milleottocentocinque. E come se non bastassero le disgrazie che solitamente patiscono i napoletani, quattro anni dopo nasce magari suo fratello Federico, che farà musica puro lui. «Ma c'è una cosa importante da dire, statemi tutti a sentire, cristo, ma si può sapere perché ridete? Io vi caccio fuori dalla classe, capito? Dunque. Padre di loro era uno che si chiamava Pietro, non era però napoletano, ma fiorentino di nascita, non so se sto spiegandomi bene, fiorentino come una persona di nostra conoscenza, anzi una personalità, e suonava il pianoforte come lo sanno suonare tutti, per esempio la mia signora. Acqua frisca, mi spiego? Ma siccome la mia signora è bella tutti stanno a dirle che suona come un angelo, mentre, a mio sapere, gli angeli suonano clarine e tube, mai pianoforti. A proposito, c'è qualcuno tra i presenti che possa vendermi un pianoforte usato ma bono? Quello che la mia signora mi aveva fatto accattare s'è sfasciato mentre facevamo il trasloco, da Bicari, dove insegnavo latino, a Fela. Un pianoforte magari non di gran marca, purché soni, tanto per quello che deve sonare... Che andavo dicendo? Che cristo stavo dicendo? Ah, stavo parlando di Luigi Ricci. Bene, studiò musica, si mise a fare composizione. Le prime minchiate, chiedo scusa, m'è scappato, che scrisse ebbero, vai poi a sapere perché, grande successo. Tutti i teatri lo vollero, da Roma a Napoli a Parma a Torino a Milano. E lui, siccome non ce la faceva a stare appresso a tutte le musiche che gli domandavano, pigliò a scopiazzare di qua e di là, come fanno certi miei scolari. Ce n'è uno che pare insegnato dal diavolo. Quando io detto un tema di composizione latina, lui che fa? Si mette... Dove si mette? E poi che c'entra questo? Ah, Ricci Luigi. Comunque a Ricci le mani gliele battevano e lui non perdeva tempo, scriveva, copiava e si curcava con tutte le cantanti che gli venivano a tiro. A Trieste fece accanuscenza con tre fìmmine di Boemia, no, detta accussì pare una cosa di vìtro, di cristallo, no, meglio dire della, ecco, tre fìmmini della Boemia che erano soro e che facevano Stolz di cognome. Ludmilla, Francesca e Teresa, erano. L'ultima, Teresa, è quella stessa angelica, questa volta sul serio, intreppete delle opere di Verdi, il cigno di Busseto. E pare che questa Teresa assai spesso per il cigno si sia cangiata in Leda. Ah ah ah! Mi spiegai? Perché non ridete? Non sapete la storia di Leda e il cigno? No? E io non ve la conto, gnoranti. Andiamo avanti, anzi indietro. Con Ludmilla e Francesca Luigi Ricci cominciò a inzupparci il pane. Magari con Teresa pare che ce lo abbia inzuppato, ma solo quando non trovava le altre due tazze a portata di mano. Ah, ah. Tra Ludmilla e Francesca Luigino non sapeva quale scegliere e il dubbio se lo mangiava vivo quando la notte stava in mezzo alle due fìmmine e per non fare scortesia equamente all'una e all'altra si prestava. Finì che si maritò con Ludmilla e fece un figlio con Francesca. Succede. Non ci credete? Vi giuro che una cosa intifica è capitata para para, una stampa e una figura, a un mio amico che vedo assittato in sala allato alla sua degna signora. Aveva due fìmmini, mi confidò: con una parlava e con l'altra faceva la cosa. Fece una figlia con quella con la quale se ne stava a parlare. Ora io domando e dico: con che cosa parlava il mio amico?». Il mediatore Patanè, che stava in quarta fila, immediatamente riconoscendosi nelle parole del preside, ebbe un tale spavento da concretizzarsi in una specie di botta alla vucca dello stomaco. Si piegò in due. «Ti senti male?» gli spiò preoccupata la moglieri. «Nenti, nenti, tanticchia d'àcito. Il capretto mi restò sullo stomaco» rispose il mediatore augurandosi che un terremoto, una tromba d'aria, un qualsivoglia cataclisma impedisse a Carnazza di andare avanti nel discorso. Ma il vino, nelle vene e quindi nella testa del preside, seguiva un percorso imprevedibile. Il nome dell'amico, Carnazza non lo fece. «Scusatemi, ripiglio il filo d'Arianna, anzi no, del discorso, che poi è la stessa cosa. Sissignore. Il filo d'Arianna che serve ad arrivare a capo del discorso è fatto dai congiuntivi. Ve ne siete mai accorti? Se uno riesce ad agguantarne uno e poi segue gli altri che vengono dopo si trova fora dal labirinto. Ah, Ricci. Luigi Ricci se ne è morto qualche anno fa nientedimeno che a Praga. Ha fatto danno in tutto l'universo creato. Magari con l'aiuto di suo fratello. E veniamo a questo Birraio di Preston. Ô stato rappresentato per la prima volta a Firenze nel 1847. E ci risiamo. A Firenze, mi spiegai? Vedete come tutto torna. Fiorentino il padre di Luigi, fiorentina la prima rappresentazione, fiorentino quello che noi sappiamo e che ci governa. Mi pare che quello che ha scritto il libretto, un certo Francesco Guidi, l'abbia copiato da un autore francese, un tale Adolfo Adam che nel 1838 aveva fatto rappresentare all'Opéra Comique un'opera comica... Fermi tutti, mi sono perso. Allora, Guidi copia da Adam un'opera con le parole francesi ma che ha lo stesso titolo. Basta. A questo punto mi pare che si tratta di un copia copia a tinchitè, tanto di parole quanto di musica. Posso esprimere un concetto? Devo andare al cesso, mi sento la panza soprassutta». Se ne niscì, col passo che pareva incontrare mare grosso, ora rollìo ora beccheggio. E don Memè pigliò una decisione disperata: ora vado appresso a lui, traso nel cammarino di commodo e appena s'assetta sul càntaro, gli sistemo una botta sulla testa col calcio del revorbaro e lo lascio morto. Stava susendosi per eseguire, quando il marchese Coniglio della Favara gli si parò davanti. «Grazie, don Memè» fece col sorrisino «non pensavo che lei malgrado tutto fosse dalla parte nostra». «Questo beccamorto ha ragione» pensò fulmineo e agghiacciato don Memè. Il prefetto, visto come stavano andando le cose, sarebbe stato autorizzato a pensare che lui gliela aveva tirata, proponendo una conferenza che si stava rivelando un colpo basso, tutta a favore degli oppositori del Birraio. Dopo averlo taliato a lungo, sempre col sorrisino, il marchese s'allontanò per parlare con altri ospiti. Infatti la conferenza si stava facendo nel salone di musica del suo palazzo di Montelusa, perché Ferraguto glielo aveva espressamente richiesto. E il marchese non si era tirato indietro: una volta che l'aveva fatto, di negare un favore a don Memè, per curiosa coincidenza duecento alberi di ulivo saraceno di una sua proprietà se ne erano andati in fumo. Don Memè si taliò attorno, nessuno di quei cornuti di nobili montelusani si era apprisintato. E forse, data la 'mbriacatura del preside, era meglio accussì. C'erano i soprappiù borghesi, certo, e molti impiegati, ma se ne stavano per la maggior parte andando, soprattutto le signore chiesastre, scandalizzate dal modo di parlare di Carnazza, che si tiravano dietro i mariti. I quali malvolentieri cedevano alla richiesta delle mogliere, assai voleritieri sarebbero rimasti per vedere come andava a finire la farsa. Restavano una trentina di persone. Non sapendo cosa decidere, se andare ad ammazzare Carnazza o lasciarsi beatamente affondare nella merda che lui stesso aveva provocato, don Memè si mise a taliare gli affreschi del soffitto. A un certo punto stunò, si preoccupò svegliandosi dal torpore: ma da quanto tempo il preside se n'era nisciuto? Non fece a tempo a rispondere alla domanda, che il marchese gli si parò nuovamente davanti. «Mi scusi, carissimo Ferraguto, ma non pensa che il professor Carnazza stia abusando della pazienza dei miei ospiti e mia?». «Marchese cornuto» pensò don Memè. «Vuole godersela sino in fondo la mia ruvina!». Nel cammarino di commodo il preside non c'era. Anzi, un servo ch'era messo davanti alla porta del cesso, dichiarò che il preside Carnazza di quel loco non s'era servito. Spiò a un altro servo che stava a capo di un lungo corridoio se l'avesse visto passare, ma quello arrispose di no. Raprì una o due porte della casa ma non lo trovò. Santiando, tornò dentro al salone, si avvicinò al marchese che ora gli arrideva in faccia senza rispetto e senza ritegno. «Non lo trovo». Il marchese fu lesto a radunare servi, famigli e ospiti che volevano prestarsi come per un gioco. Perché il preside dentro il palazzo sicuramente doveva essersi perso, dato che il guardaportone giurava e spergiurava che non l'aveva visto nèsciri. Cercarono per ore e ore, muniti di lampe, candele, lumini, lumi, scesero nelle cantine, salirono nei tetti morti, passarono la nottata nella cerca, anche perché il marchese aveva pensato bene di fare un intervallo verso la mezzanotte per farsi una portata di spaghetti con la carne di maiale seguita da quattro capretti al forno. Ce la misero tutta, ma il preside non lo scugnarono, era scomparso appena uscito dalla porta del salone di musica. «Quando gli passa la sbornia solenne, torna» concluse alle prime luci del mattino il marchese. Fu cattivo profeta. Il preside Artidoro Carnazza non ricomparve mai più. Qualcuno lo incontrò, o credette di averlo incontrato, anni dopo, in una bettola di Palermo, mentre recitava versi di Orazio a gente più strammata di lui dal vino. La baronessina Jacopa della Mànnara giurò d'averlo visto fra i ruderi del teatro di Taormina, con una corona di pàmpine di viti in testa, mentre declamava a gran voce versi di Catullo. L'unico fatto certo è che la moglieri, dopo qualche anno, si fece fare una dichiarazione di morte presunta e poté così acquistare lo stato vedovile. Si rimaritò, passato il periodo di lutto, con un nipote di Sua Eccellenza Bortuzzi che era capitato nell'isola per partecipare a una battuta di caccia alla lepre. (Questa parentesi non viene aperta per volontà del narratore, ma per una necessità che il racconto stesso manifesta protervamente. Nel 1942, durante la guerra, Montelusa, al contrario di Vigàta che ne subì parecchi, venne sottoposta ad un unico, ma devastante bombardamento da parte degli americani. Nel corso di questa azione più o meno guerresca, palazzo Coniglio venne distrutto a metà. Appena suonato il cessato allarme, i soccorritori, e anche qualcuno che era seriamente intenzionato a mettersi in tasca qualcosa dei tesori che in quel palazzo si favoleggiava ci fossero, si sparpagliarono in ogni parte alla ricerca di eventuali vittime o feriti. Nel tettomorto dell'ala ovest rimasta miracolosamente in piedi, dentro un baule, venne rinvenuto lo scheletro di un uomo in abito da cerimonia, sicuramente deceduto per cause naturali, dato che non c'erano segni di violenza. Il baule era speciale, si poteva raprire dall'esterno ma, una volta chiuso, scattava una molla che non consentiva di raprire dall'interno. Chi ci si metteva dentro, magari per sgherzo, per babbiare, poi non poteva più nèsciri. Allato ai resti, alcuni fogli sui quali ancora a malappena si leggevano parole incomprensibili. Si poté a stento capire un nome, quello di un tale Luigi Picci, o Ricci, che fosse). A furia di santioni, biastemie e vociate, Turiddru Macca ce la fece a superare il cerchione dei militi a cavallo. Si ritrovò, con gli occhi chini di lagrime vuoi per la pena vuoi per il suffolizio acre, davanti alla casa della madre che abbrusciava. E foco era ancora quasi tutto al pianoterra, ma lingue maligne si susivano verso il finestrone grande del primo piano, da dove tante volte so matre l'avevano salutato. Chiangiva, Turiddru, per lo scanto del piricolo che so matre stava correndo, ma chiangiva magari per la bella casa che se ne stava andando in fumo, quella casa di tre cammari e cucina dove lui e la sua famiglia, dopo la morte della grià Nunzia, ma all'ora giusta e santa, quella voluta da Dio, sarebbero potuti andarci ad abitare, con più largo e còmido del catojo dove adesso stavano. «Unn'è me matre, a gnà Nunzia?» spiò convulso al diligato. «Ancora non l'abbiamo veduta» fece Puglisi. «Ma è viva?». «E che ne saccio? Bisognerebbe trasìri dentro la casa, ma tu lo vedi, non possiamo ancora manco avvicinarci». «Fermi! Stop! Halt!» gridò improvvisamente l'ingegnere ai suoi e Nardo chiuse la manopola. Hoffer si era addunato che i secchi pieni arrivavano troppo lentamente: l'acqua che usciva dalla manichetta era di gran lunga superiore a quella che veniva immessa e quindi il manometro della pressione in modo pericoloso se ne acchianava verso l'alto. C'era pericolo che la caldaia esplodeva, «Schnell! Presto! Fare più presto! Acva, acva! Più acva!» gridò ancora l'ingegnere volto alla lunga catena umana. I cati d'acqua finalmente ripigliarono a scorrere con più velocità. Fu a questo punto che il finestrone del quartino abitato dalla gnà Nunzia si raprì di colpo e spuntò una figura di fìmmina anziana in cammisa bianca di notte. L'apparizione alzò le braccia verso il cielo. «Gesuzzu beddru! Madunnuzza santa! Foco doviva èssiri e foco fu!». «Mamà! Mamà!» chiamò Turiddru. La vecchia non fece 'nzinga d'averlo sentito. Sparì nuovamente dentro la casa. «Schnell! Presto!» fece a gran voce Hoffer esaltato. «Pisoghna salfare vecchia tonna!», Vide che l'indicatore del livello d'acqua ora era a buon punto, forse sarebbe stato meglio aspettare ancora tanticchia, ma non c'era tempo da perdere. La gioia che in quel momento provava nel poter salvare una vita umana con la sua invenzione, gli fece commettere un fatale errore. Per un attimo infatti Hoffer dimenticò che si trovava a Vigàta, in Sicilia, e non riuscì a controllare la continua traduzione che era costretto a fare dal tedesco in italiano. «Schnell! Kaltes wasser!» fece. Nardo Sciascia, che già stava per raprìre la manopola dell'acqua fredda, si fermò di botto, taliandolo stunato. «Kaltes wasser! Kalt! Kalt!» rugg! l'ingegnere. «Calda! Vuole quella calda! La pressione» gridò allora Sciascia a Cecè Cònsolo che se ne stava vicino alla parte di darrè della machina. Cecè girò la manopola dell'abbascio di pressione e si scansò. Subito un violento getto di vapore e d'acqua bollente scaturì dal retro della caldaia. Il gruppo quasi statuario dei Pizzuto, che ancora sostava dietro la macchina, venne di colpo cancellato da una nube bianca, dalla quale si levarono altissimi lamenti da coro greco. «Errore! Errore! Acva fredda! Fredda!» si sgolò Hoff er. Quando la nuvola bianca si dissipò, i Pizzuto erano a terra che gemevano e si rotolavano con ustioni di grado variabile. Accanto a loro corse il delegato con due dei suoi òmini. «Presto!» fece Puglisi. «Fatevi aiutare. Metteteli adagio dentro una carrozza e portateli dal dottor Gammacurta», «Il medico Gammacurta non si trova» disse uno, «Allora portateli dal dottore Addamo», «Addamo è chino fino al collo di signore che si sono fatte venire il sintòmo per il bordello che c'è stato in tiatro e magari di gente che s'è fatta male quando don Memè si mise a sparare». «Non mi scassate la minchia, non voglio sentire storie. Portate queste persone da Addamo, lo capirà lui stesso che queste sono gravi». Intanto al finestrone era riapparsa la gnà Nunzia. Teneva un foglio in mano che principiò a spizzicare, facendone tanti pezzetti che via via lanciava il più lontano possibile, aiutata dal vento. «A vui pregu, bullilochisanti! Gesù, Giuseppi e Maria, luntanu lu focu di mia!». «Ma kosa fa vecchia zighnora?» spiò Hoffer esterrefatto. «Nenti. Sono bolle dei luoghi santi che vendono i frati di Terrasanta. Dovrebbero tenere lontani il fuoco e l'acqua». L'ingegnere rinunziò ad ulteriori spiegazioni. «Mamà!» gridò Turiddru. Nuovamente la vecchia parse né vederlo né sentirlo. «L'aviva ditto u parrino Virga che u tiatro è cosa do diavulo! L'aviva ditto ca u tiatro è cosa di Sodduma e Gomorrìa! Santo è u parrino Virga! Foco avia èssiri e foco fu!». Gnà Nunzia, esaurita la bolla, se ne ritrasì. Turiddru fece caso che la macchina dell'ingegnere, bene o male, tanticchia di focu l'aveva abbacato. Senza dire né ai né bai, pigliò la rincorsa, trasì nel portone, sparì per le scale. Non passarono manco cinque minuti che Turiddru Macca assumò dal fumo tenendo la gnà Nunzia immobile carricata sulle spalle. «Sbinni?» s'informò Puglisi. «Nonsi. Ci desi un cazzotto in faccia». «E pirchì?». «Diciva ca n'un vuliva scìnniri in cammisa da notte in mezzo a tutti questi ominazzi». «In kvesta kasa fuoco kaputt» disse l'ingegnere che quasi cantava per la felicità. «Ki ancora apitare sopra?». Il delegato taliò verso l'alto. «Al secondo piano abita una vedova, la signora Concetta Riguccio. Ma non si è fatta sentire. Con tutta questa rumorata, a quest'ora, se era in casa, avrebbe spiato aiuto. Io la conosco. Forse stanotte se n'è andata a dormire da sua sorella». Solo chi è picciotto può avere «Solo chi è picciotto può avere sentimenti così» pensò don Pippino Mazzaglia con una punta d'invidia e una di compatimento mentre ascoltava la discorruta di Nando Traquandi, il giovane arrivato clandestino da Roma e che lui teneva ammucciato nella sua casa di campagna da una simàna. Sicco, capelli rossicci e ricci, con gli occhialetti darrè i quali sparluccicavano gli occhi spiritati, la mano mancina a grattarsi di tanto in tanto, come un ticchio, la rada barbetta torno torno il mento, la mano dritta che a ogni cinque parole portava alle labbra un fazzolettino di pizzo per asciucare la macchietta bianca che la sputazza, condensandosi, formava ai lati della bocca. Traquandi era arrivato in Sicilia con due biglietti, uno di Napoleone Colajanni e uno dell'onorevole Pantano, che domandavano agli amici mazziniani ricetto, assetto, sussistenza e aiuto per il giovane, indicato come l'esecutore di una tanto segreta quanto perìglìosa missione. Aveva obbedito, ma già fin dalle prime parole che aveva scangiato con lui, Pippino Mazzaglia si era fatto un concetto: che dal forasteri, dalla sua prisenza, non poteva venire altro che danno. Il picciotto vedeva la luce di una sola verità: che il bianco era bianco e il nìvuro era nìvuro. Scarsi gli anni ancora per capire che quando il bianco sta vicino vicino al nìvuro fino a toccarlo, si forma, tra i due colori, una linea media, una linea d'ùmmira, dove il bianco non è più bianco e il nìvuro non è più nìvuro. Il colore di quella linea si chiama grigio. E dentro quella linea, dove due colori maritandosi ne hanno figliato un terzo, ogni cosa è difficile che trovi nome e figura di netta visione. Ô come quando la sira si fa avanzata, e lo scuro che ancora non è scuro fitto, notte, ti fa scangiare una persona per un àrbulo. Ma il picciotto di queste preoccupazioni non teneva, si vede che sapeva dove mettere i piedi magari quando la luce abbacava. «Ma quant'è 'ntipatico!» si disse ancora Mazzaglia mentre l'altro parlava e parlava. «Mi pare di essere io trent'anni narrè, davanti al tribunale borbonico, prima di pigliarmi in culo dieci anni di carcere duro. L'orgoglio mi mangiava vivo. E dunque vuol dire che magari io, all'epoca, ero uno strunzo come questo qua». «Ho qui con me altri documenti che dimostrano come la situazione sia ormai arrivata a un punto estremo» fece il picciotto senza manco ripigliare sciato. «Vi leggo alcuni passi di un rapporto al ministro che siamo riusciti a procurarci, ma non vi dirò come». Si aggiustò gli occhialetti, infilò la mano col fazzoletto dentro la vurza piena di carte, principiò a cercare, Fu a questo preciso momento che Ninì Prestìa, che mai aveva staccato gli occhi dal romano da quando si erano radunati, per la prima volta parlò. «E io non sto ad addumannarglielo questo come, dato che di questo come me ne fotto». Il picciotto lo taliò stunato, sorpreso dalla violenza che avvertì in quelle parole. «Non ho capito bene». «Mi permette una domanda che non c'entra niente con tutto quello che ci sta dicendo?». Gli occhi di Traquandi diventarono due fessure, capì che doveva mettersi in guardia e gli venne naturale rispondere in dialetto. «Si nun c'entra gnente perchè me la fa?». «Perchè accussì mi piace». «Allora me dica». «Noi qua, assittati attorno a questo tavolo, siamo quattro persone, lei escluso. Pippino Mazzaglia, io, Cosimo Bellofiore e Decu Garzìa. Se lei, metti caso, scopre che uno di noi vuole andare a denunziarlo per farlo arrestare, lei che fa per prima cosa?». «Je sparo in bocca» rispose senza esitare Traquandi. «Senza manco spiargli la scascione per la quale lo vuole fare?». «E che me frega a me perchè lo vor fare? Nun m'interessa, cazzi sua, io je sparo e basta. Ma, si vole scusarme, perché m'ha fatto questa dimanda?». A teatro c'erano professionisti, commercianti, padroni di paranze. Il popolo, quello che travaglia supra u seriu, se n'era già andato a curcarisi». «Sarà come dite voi. Ma noi ce dovemo approfittà de la situazione, falla diventà più grossa, senza remedio. Me spiego mejo. Si la cosa resta com'è, hai voia a dì: doppo du giorni tutti se so scordati de tutto. Ma si la cosa la famo diventà grossa assai, ne dovranno parlà tutti, e non solo qua a Vigàta. Me spiego? Bigna che diventi un caso nazzionale». «E come?» spiò Decu Garzìa di subito attento. Ogni volta che c'era da fare bordello lui era pronto a mettersi in prima fila, magari se delle ragioni per cui il bordello era nato a lui non gliene fotteva assolutamente niente. Traquandi s'asciugò le labbra, li taliò uno per uno. «Se manna a foco er teatro». Mazzaglia satò sulla sedia. «Sta scherzando? E poi guardi che stanotte c'è vento forte, ammesso e non concesso che tutti siamo d'accordo d'abbrusciare il teatro». «Che vor di che c'è vento?». «Le vampe possono appigliarsi ad altre case, dove c'è gente che dorme», «E che me frega a me de la gente che dorme? Se ce scappa er morto, mejo, la cosa farà più rumore». Lei sa home la penso «Lei sa home la penso» disse duro il prefetto Bortuzzi infoscato, nìvuro di faccia, appoggiandosi all'alto schienale della poltrona. Non gli piaceva il discorso, a trasi e nesci, che l'altro gli stava facendo da mezz'ora senza spostarsi di un millimetro dalle sue posizioni, cortesemente ma fermamente. «Piemontese!» si disse Bortuzzi. «Piemontese falso e cortese». «E lei allora sa altrettanto bene come la penso io» arrisponnì di brutto il colonnello Aymone Vidusso, comandante la piazza militare di Montelusa, e sicutò taliando Bortuzzi nella palla dell'occhio: «Io trovo assolutamente insensato quello che sta accadendo», Se il prefetto voleva che si parlasse latino, come dicevano i siciliani, latino sarebbe stato, visto che Sua Eccellenza non capiva o non aveva voluto capire tutto quello che lui gli andava dicendo dal principio di quell'incontro difficile. «Insensato?!». «Sissignore». «E perché?». «Non si può rischiare un moto popolare solo perché a lei è saltato il ticchio di far rappresentare a Vigàta un'opera lirica che ai vigatesi, a quanto pare, proprio non va giù, non piace». «Non è vero» «Non è vero cosa?». «Che ai vigatesi non piace. I vigatesi non 'apiscono un 'azzo di niente, s'immagini se 'apiscono di musi'a. Il fatto è che qualcuno che ancora non honosco ha detto loro di homportarsi in codesto modo». «E quale sarebbe la ragione?». «Semplice, mio 'aro holonnello. Opporsi a tutti i hosti al volere del rappresentante del governo». «Sia pure, Eccellenza. Ma lei, insistendo, rischia di provocare dei malumori in un momento in cui non ce n'è proprio bisogno, lei dovrebbe saperlo almeno quanto me. Non devo essere io a rammentarle che l'isola è una polveriera e che, se non è esplosa fino ad ora, ciò è dovuto alla prudenza o, se le suona meglio, alla paura, di Mazzini. E quindi io non metterò l'esercito, i miei uomini, a servizio di un puntiglio, di un atto di testardaggine». «Testardaggine dei vigatèsi». «Sì. Ma anche sua». «Mia! Home si permette?». Aymone Vidusso riuscì miracolosamente a trattenersi dal pigliarlo a pagnottuna in faccia. «Eccellenza, cerchiamo di stare calmi e ragionare». «Io ragiono, sa? E diho, ragionando, che quando c'è periholo di sommovimento hontro l'autorità, lo stato, tutte le forze, diho tutte, senza distinzione di horpo e arma, devono, madonna bambinaia, essere hompatte a reprimere senza stare a spaccare il culo ai passeri. Questì siciliani la son gente che puzza, lo sa o no?». Il colonnello manco parse averlo sentito, non rispondette alla domanda, si aggiustò il monocolo. «Sissignore, puzzano. E i vigatèsi più degli altri» insisté Bortuzzi. «Non entro in merito agli odori» fece diplomaticamente Aymone Vidusso al quale da tempo pareva che invece puzzasse, e come, Sua Eccellenza il prefetto. «Ma torno a ribadire: non ho mai inteso che sia lecito imporre a chicchessia il gradimento di un'opera lirica attraverso apposito decreto prefettizio». Appena dette queste parole, aggelò e si fermò, strammato. Da dove gli era venuta fuori quella frase ironica a lui, piemontese ferrigno? Si vede che il prefetto gli stava smuovendo i nervi come mai prima era accaduto. Si ripigliò, continuò. «Lei, se vuole, può farlo. Non ne è padronissimo, ma può farlo. E può darsi che qualcuno ravvisi nel suo modo d'agire un abuso d'autorità. Fatti suoi. Ma l'esercito italiano non può e non deve restare coinvolto in una quistione stupida come questa. Ad ogni modo, domanderò il parere a chi di competenza. Mi scusi». Si susi, alto e rigido, s'incastrò meglio la caramella all'occhio, portò la mano alla visiera con un mezzo inchino. Bortuzzi osservò la manopera sempre più nìvuro, se poteva l'avrebbe abbrusciato con lo sguardo. «Holonnello» disse. «Holonnello, la preavviso. Ho dovuto honstatare il suo preciso rifiuto alla hollaborazione. E quindi mi troverò hostretto a farne rapporto al suo superiore diretto. Ô il generale 'asanova, vero?». «Sissignore, Avogadro di Casanova. Faccia come meglio ritiene opportuno, Eccellenza». Girò sui tacchi, nisci, chiuse la porta alle sue spalle. «Hoglione d'un hoglione!» murmuriò Sua Eccellenza. «Te tu me la paghi! Te tu ti troverai nella romba della bufera col sinibbio ghiacciato addosso! Io t'impiombo home un beccaccino!». Bortuzzi poteva murmuriàrisi quanto voleva, il colonnello Vidusso aveva le spalle coperte. Quattro giorni avanti dell'invito al colloquio col prefetto, avendo sentito il vento che tirava e prevedendo una richiesta d'intervento dell'esercito in caso che le cose si fossero messe male, aveva scritto un ampio e dettagliato rapporto al tenente generale Avogadro di Casanova, di stanza a Palermo, dove spiegava come qualmente il prefetto fosse un incapace e, quello che era peggio, un buffone disposto alle peggiori buffonate. Anzi, più che un pagliaccio: un individuo al quale il potere aveva dato alla testa e che per esercitarlo, questo potere, non aveva esitato ad allearsi con un losco figuro, un noto maffioso. Il danno che quell'uomo poteva provocare, ostinandosi a imporre ai vigatesi la rappresentazione del Birraio di Preston, si sarebbe potuto rivelare incalcolabile. Aveva quindi convocato il suo pertaordini fidato. «Porta 's mesage al Cumand. Conseinlu it man del general Casanova. Veui la risposta per sta seira. Ti y la fas?». «Giìda fauss!» fece il portaordini, offeso dalla domanda del suo superiore: a tornare in serata con la risposta era certo di farcela. E difatti, verso le dieci della notte, Vidusso se lo rivide comparire davanti, sporco di fango, con gli occhi felici. Gli tese una busta. Curiosamente, la busta non aveva né intestazione o timbro, lo stesso era per il foglietto, assolutamente qualunque, che c'era dentro. Lo scritto consisteva in due righe firmate con la sigla inconfondibile del generale Casanova. Diceva: «Ca y disa al sur Prefet, cun bel deuit y'm racumandu, c'a vada a pieslu 'nt cùl». Non sapeva con quanto tatto, ma seguendo l'ordine e la propria personale inclinazione, lui a Sua Eccellenza glielo aveva detto chiaramente di andarselo a pigliare in quel posto. Il prefetto, che dal momento dell'uscita di Vidusso se n'era rimasto assittato con la testa tra le mani a sparare biastemie sempre più complicate via via che se l'inventava, talìo cupo Emanuele Ferraguto che stava trasendo nel suo ufficio con un sorriso che gli tagliava la faccia da una grecchia all'altra. «La va mi'a bene, Ferraguto. Con Vidusso ho tirato su basso. Non vòle». «Ma che fu, Eccellenza?» spiò premuroso don Memè. «Non so che mi fare. Questo bu'aiolo di Vidusso m'ha detto e honfermato che l'esercito, in 'aso di bisogno, non interverrà». «Noi però possiamo altissimamente fottercene». «Lei dice?». «Ma certo, Eccellenza. A noi basta e superchia il capitano Villaroel con i suoi militi a cavallo. Colore latte e appannato Colore latte e appannato da strati di nuvole, il sole di prima matina principiò a spuntare sopra Vigàta, e pareva non avesse tanta gana di farlo. Nell'arìa stagnava un odore testa di moro, vale a dire di un marrone scuro scuro che tirava al nivuro. Ce l'aveva questa di dare una tinta all'odore il delegato Puglisi. E una volta che aveva detto al questore di essere stato colpito, durante un appostamento, da un odore giallo di frumento mietuto, per poca quello non l'aveva spedito dritto al manicomio. Il teatro ancora abbrusciava, con più fumo che foco, ma solo dentro il suo perimetro, i muri esterni avevano resistito magari se il tetto era crollato e lentamente si consumava dentro quella specie di grande fornace. L'ingegnere Hoffer, con la sua machina e i suoi uomini morti di stanchizza, continuava a sparare acqua, il rifornimento ora era assicurato da una decina di grosse botti trasportate da cinque carretti messi a disposizione dal commendator Restuccia. Era uno dei congiurati, certo, contro la rappresentazione dell'opera, ma si era sentito indignare per l'incendio, secondo lui doloso, del teatro. Per questo collaborava con l'ingegnere. Allo scarico e al carico delle botti provvedevano i militi a cavallo, che altro non avevano da fare dato che quasi tutta la popolazione se n'era andata da tempo a curcàrisi. Puglisi non seppe resistere alla tentazione di seguirne l'esempio, ma il senso del dovere gli fece scegliere una via di mezzo. Si sentiva la carne pesante, le ossa spaccate, la testa confusa, ma quello che lo faceva peggio stare era la sensazione di lordo, di sporco, che fumo e fango gli davano sulla pelle. Pensò che una lavatina se la poteva permettere, per poi tornare a sorvegliare le operazioni. Avrebbe al massimo perso una mezz'ora. «Tu resta qua» disse all'agente che aveva messo di guardia alla casa mezzo abbrusciata della grià Nunzia e dei Pizzuto per evitare che qualche figlio di troia ci trasisse dentro a rubare. «Io tra picca ritorno. Il tempo di andare a casa per lavarmi». Si avviò verso la sua abitazione: due camere con retrè e uso di cucina che gli erano state affittate dalla signora Gesualda Contino, una settantina che lo trattava come un figlio. Ruvina e desolazione regnavano nella piazzetta davanti al teatro che il sindaco aveva voluto abbellire con un giardinetto e una fila di lampioni messi in tondo, e tutto questo danno era stato fatto, prima che l'incendio scoppiasse, dai cavalli dei militi e dalla fuitina della gente scantata. Il giardinetto praticamente non esisteva più, tre dei sei lampioni erano caduti a terra sradicati. Al limite della piazzetta c'era una carrozza scassata con le ruote per aria e un'altra le stava allato poggiata su un fianco, con il cavallo morto ancora attaccato. Puglisi taliò verso la facciata del teatro: poco fumo l'aveva allordata, gli uomini di Hoffer stavano trasendo dal portone principale per andare a combattere il foco residuo proprio dentro la sua tana. Una sproporzione, una diversità, una cosa che non tornava si fece lentamente strata dentro la testa di Puglisi. Con le gambe rotte, tornò darrè, verso la parte posteriore del teatro e via via che vi si avvicinava rasentando il muro, si addunava come i segni della devastazione diventassero sempre più evidenti. Arrivò al vicolo posteriore, quello fra il teatro e la casa della gnà Nunzia. L'agente se lo rivide comparire. «Ma non era andato a casa?». «Ancora no. M'è venuto un pensiero». «Che c'è, delegato?». «M'è venuto il pensiero di pigliare aria, va bene?» fu la risposta brusca. Puglisi amava farle, le domande, non sentirsele fare. Taliò attentamente la facciata posteriore del teatro. A livello terra c'erano sei vasiste, quelle finestre a bocca di lupo che servono a dare aria e na picca di luce ai luoghi posti sotto il livello stradale. Restavano mozziconi d'intelaiatura senza vetri, il foco se l'era mangiate. In mezzo alle sei vasiste c'era una porta di legno, o almeno quello che restava, tutta abbrusciata. Da essa si partivano sei gradini di pietra che scendevano all'interno, verso il sottopalco. Ai lati e sopra la porta c'era marcato il segno di un fuoco rabbioso e divorante, assai più forte che altrove. Davanti a questa porta Puglisi si fermò imparpagliato. Poi si addunò che l'ultima vasista a destra era stata per miracolo quasi sparagnata, vi si avvicinò, si calò a taliarla bene. Il vetro della vasista era stato spaccato ma i pezzi erano caduti all'interno. Puglisi si rialzò e arretrò lentamente, fino a trovarsi con le spalle quasi appuiate alla casa della gnà Nunzia. La visione d'insieme lo confortò nell'opinione che andava facendosi: il foco non aveva pigliato nel salone d'entrata, dove c'erano la biglietteria e lo scalone che portava ai palchi, alla platea e al loggione, perché uno spettatore aveva lasciato un sicarro acceso vicino a una tenda, ma era principiato dalla parte esattamente opposta. E la colpa capace che era di un macchinista, andato magari nel sottopalco per farsi una fumata. Ma allora perché rompere i vetri delle vasiste e lasciare aperta la porta? Non c'era infatti dubbio che la porta di dietro era aperta al momento dell'incendio, lo testimoniavano i resti delle ante ancora attaccate ai cardini. E allora perché la porta era stata spalancata per far nascere una forte corrente d'aria che attizzasse il foco? Il cane cirneco che era Puglisi si arrisbigliò, appizzò le orecchie, fiutò l'aria, ma la stanchezza era tanta, decise che dopo la lavatina sarebbe tornato a studiare la quistione con la testa più leggera e libera. Di lavarsi, però, quella matina, non era destino. Stava mettendo il chiavino nella toppa del portone di casa, quando lo paralizzò una domanda: cosa lo faceva essere tanto sicuro che la vedova Lo Russo, che abitava sopra la gnà Nunzia, fosse andata a dormire da so soro Agatina? Per tutta la durata dell'incendio e del relativo burdello non aveva mai dato segno di vita, certo, ma poteva magari essersi sentita male fin dal principio e ancora lì stava, svenuta o ferita, abbisognosa d'adenzia. Si rimise arrè il chiavino nella sacchetta, e ancora tanticchia restò sul pianerottolo a pensare quello che doveva fare: o sfondare la porta della casa della vedova o andare da sua sorella a spiare se la signora Concetta aveva dormito lì. Si persuase per questa seconda soluzione, magari perché Agatina Riguccio, maritata a Totò Periffica, di mestiere pescatore, gli aveva sempre fatto sangue, fin dalla prima volta. E dire che proprio quella prima volta l'aveva veduta in laide condizioni: il marito, durante una lite di gelosia, sua di lui, le aveva spaccato con un cazzotto uno zigomo. Chiamato dai vicini, il delegato aveva trovato questa Agatina con la faccia gonfia ma gli occhi scuri e vivi che pareva addimannassero sempre qualcosa, le labbra rosso viola (odoravano di zafferano e cannella, pensò Parisi) tremolianti, le minne leggere e danzanti sotto il corpetto slacciato. «Chi la chiamò a vuscenza? Non ci fu lite. Io fui che caddi e sciddricando sbattei nell'armuar». «E perché allora facevate voci?». «Voscenza non fa voci quando si fa male?». Non solo bella, ma magari sperta. Sei mesi dopo, altra chiamata. L'aveva trovata con un segnaccio viola torno torno al collo. «Chistu? Chistu signo ccà? Ma che va pinsannu, voscenza! Iu mi lu fici, cu na sciarpa ca s'impigliò nella maniglia d'una porta». Ma lo taliava dritto negli occhi, mentre diceva quelle parole e c'era in quella taliàta una domanda diversa, che gli fece venire una rizzonata di freddo alla schiena. «Allora me ne posso andare tranquillo?». «Certu, diligà. E grazie» e gli pigliò la mano per salutarlo. Non s'aspettava il modo con cui lei gliela strinse: fu come se gli avesse arrovugliato attorno alle dita non la sola mano ma il suo corpo intero e come la mano dell'uomo, diventata un'altra cosa, fosse entrata nel dentro più dentro di lei, fino alla sua noce di fìmmina. Dovette tuppiare tre volte prima che Agatina risponnisse assonnata. «Cu è?». «Io sono, il delegato Puglisi». In un fiat la porta venne aperta. Agatina gli stava davanti in cammisa da notte, la sua pelle sciauràva di càvudo di letto, e il colore che immediatamente se ne rappresentò Puglisi fu quello rosa tremolante di un riccio di mare appena aperto. «Chi fu? Chi successi? Capitò quarchi cosa a me maritu?». «No. Calmatevi. Niente capitò a vostro marito». Agatina parse sollevata, le minne si susirono e si abbassarono in un lungo sospiro. «Trasissi». Puglisi entrò, lasciandosi stordire dal colore di riccio spalancato che era diventato più forte. «Allora chi fu?». «Vostra sorella Concetta dormì qua stanotte?». «Nonsi. Pirchi?». Puglisi si sentì aggelare. Se era in casa, perché non aveva chiamato aiuto? «Ce l'avete una chiave della sua casa?». «Sissi». Andò a un canterano, raprì un cassetto cautelosamente per non arrisbigliare il figlio di tre anni che dormiva nel letto matrimoniale, pigliò un chiavino, glielo dette. Poi principiò a tremare. «Chi capitò, diligato?». «Non avete sentito niente questa notte?». «Nonsi, nenti. Semu quasi 'n campagna, qua. Aieri a sira ninni jemu a curcàrinni versu i setti, doppu l'Aviammaria. Po' me maritu si susì stamatina prima di l'arba ca duviva rèsciri cu a paranza, Ma chi successi? 'Un mi facissi scantiri!». Barcollò, per non cadere gli si appoggiò addosso. Istintivamente, Puglisi le cinse la vita con un braccio. Al contatto, lei gli si strinse un poco di più. Il delegato provò un leggero giramento di testa, quella fìmmina era pericolosa assà, doveva subito nèsciri da quella casa. «Facciamo una cosa. Ce l'avete una vicina alla quale potete dire d'abbadare al picciliddro?». «Sissi», «Dopo averlo sistemato, mi raggiungete nella casa di vostra soro. Ma, mi raccomando, non fate né rumorate né voci per tutto quello che vi capiterà di vedere». «Ma chi c'è di vidiri?». «Ci fu un incendio, stanotte». «Va bene» disse Agatina come rassegnata. Meno di dieci minuti dopo, fatta la strata sempre di corsa, Puglisi si ritrovò davanti al suo uomo che aveva messo di guardia alla casa abbrusciata. Il piantone lo taliò perplesso: «Delegato, a me pare che siete più lordo e più ingrasciato di prima». «Non mi scassare la minchia e non fare lo spiritoso. Hai sentito voci dentro la casa?». «No. Chi doveva parlare? La gnà Nunzia è da so figlio e i Pizzuto sono all'ospedale». «Senti, io vado su, al secondo piano». «Ma perché? Il secondo piano non si è abbrusciato. Se c'era quarcuno, a quest'ora sarebbe nisciuto fora». «Non ti ho domandato come la pensi». militari, e difatti alcuni ufficiali e soldati stavano davanti alla porta dell'osteria e cantavano. «Cu sunnu?» spiò il medico alla moglie. «Sunnu sordati 'ngresi». «Questo lo vedo. Ma che fanno?». «Cercano al fratello gemello del birraio. Questo gemello se l'intendeva con una certa Anna, soro di un capitano di nave. Ma poi se n'è scappato. Mi pare che andrà a finire a scangio». «Spiegati megliu». «A scangio di persona. I soldati che cercano il gemello arresteranno il birraio scangiandolo per l'altro». A scangio. Se la storia era come persino quella cretina di so moglieri Angelica pensava, un'opera simile non avrebbe potuto avere nessuna scascione di successo. Qual era, in Sicilia, la proporzione delle cose che succedevano per scangio rispetto a quelle che invece accadevano senza scambio di persone o cose? Per restare a Vigàta, e limitatamente agli ultimi tre mesi, Artemìdoro Lisca era stato ammazzato per scangio al posto di Nirino Contrera una notte che non c'era luna; Turiddruzzu Morello s'era maritato a scangio con Filippa Mancuso che aveva sberginato nottetempo senza addunàrisi che non si trattava di so soro Lucia che invece era la predestinata; Pino Sciacchitano c'era morto perché so moglieri aveva scangiato il veleno per i sorci con il ricostituente che so marito pigliava dopo ogni mangiata. E nasceva magari il dubbio che tutto quello scangia scangia fosse un finto scangia scangia, che non c'era stato nessun errore, che lo scangiamento era stato solamente un alibi, addirittura un vezzo. E allora di che cosa poteva ridere per uno scangio più finto di quelli finti, gente che al contrario nello scangio quotidiano viveva? Gammacurta, dopo la riflessione, tornò a taliare verso il palcoscenico. C'erano lì sopra un tale Tobia, Daniele il birraio e la so zita Effy. Questo Tobia voleva insegnare a Daniele come apparire un preciso militare, con il portamento rigido di chi ha agliuttuto un manico di scopa, con la testa ingessata sul collo, con il passo di chi cammina con due gambe fatte di legno. Tobia imitava con la voce il suono del tamburo, rataplan rataplan, ma Daniele non pareva capace d'imparare, mentre invece prontissima a marciare a passo era la sua zita Effy, che a lei le veniva facile, essendo più omo che fìmmina, Di questa bravura di Effy Tobia si rallegrava tutto: In un momento essa ha imparato, del reggimento sembra un soldato. «Ma allora» si domandò Gammacurta per un momento pigliato d'interesse «è lui, Daniele, che vuole essere scangiato per suo fratello, il militare. E perché?». Si voltò verso Angelica che pareva pinnotizzata da quello che succedeva sulla scena. «Perché Daniele si vole fare scangiare per il gemello?» «Non lo capii». «Ma allora che minchia stai taliando con glì occhi sgriddrati che pari completamente infatata?». «I vestiti» fece Angelica. Gammacurta si sentì smuovere lo stomaco a quella risposta. Capi che non ce l'avrebbe fatta a restare in teatro sino alla fine. «Io me ne vado». «Unni?». «Unni voi che vada a quest'ora di notte? A casa, vaju». «E non passi prima dal tuo gabinetto medico?» gli spiò Angelica col sorrisetto. Una provocazione, alla quale reagi prontamente. «No, stasera nessuno abbisogna di cure. Arrivederci». Si smosse, domandò scusa per il disturbo ai quattro che lo separavano dal corridoio e che stavolta si susirono taliandolo storto e mormoriando gastime. Come aveva fatto so moglieri a capire che da tempo aveva una relazione con la mammana dei paese e che quando tornava tardo a casa dicendo che era rimasto al gabinetto, era tutta una farfantarìa, ancora non era riuscito a capirlo. Almeno due volte la simana le cosce fresche e le minne sode di Ersilia Locuratolo, levatrice, lo consolavano del quotidiano soffrire, ma della cosa pochissimi sapevano. Però si vede che tra questi pochissimi c'era stato un cornuto che aveva ìnformato la propria moglieri la quale, a sua volta, si era affrettata a parlarne con Angelica. Ma quella sera pativa veramente di stanchezza, aveva solo gana di letto senza compagnia. Stava per sollevare il pesante tendaggio di velluto che cummigliava la porta di platea che immetteva nel salone d'ingresso, quando una voce altissima sovrastò il parlottìo della sala, il canto dei cantanti, la musica dell'orchestra, e lo fermò. «Signor prefetto! Signor prefetto!» invocava disperata la voce che proveniva dal loggione. Si fece di colpo attonito silenzio, magari i cantanti rimasero paralizzati nel movimento e con la bocca aperta, il direttore impietrì con le braccia levate a metà. «Signor prefetto!» proseguì la voce. «Come mi devo comportare a questa scena? Si deve ridere? Devo ridere? Mi dica i suoi ordini che io obbedisco. Ce lo faccia sapere il suo pensiero, signor prefetto!». Gammacurta sollevò il tendaggio, lo lasciò ricadere alle sue spalle soffocando la risata del pubblico e i suoni e le voci dell'opera che ripigliava la sua via crucis. Tirò fuori dalla sacchetta lo scontrino, lo consegnò all'addetto. «Cappotto, cappello». Ninì Nicosia, quello del guardaroba, che era un suo paziente, prontamente glìeli diede sorridendogli. «Come ti senti, Nini? Ti fa ancora male la panza?». «Nonsi». Avvicinò il volto a quello del medico. Disse piano: «Duttù, stassi attento». «Attento?» si meravigliò Gammacurta. «Attento a cu, a che cosa?». «Stassi attento, duttù» ripeté l'altro senza spiegare, Il medico indossò il cappotto, si avviò alla grande porta in vetro e legno del teatro, niscii. Ma non aveva manco fatto tre passi che venne fermato da due militi armati di moschetto. «Dove andate?» gli spiò uno dei due con la tipica voce da sbirro che faceva saltare i nervi a Gammacurta, magari se mai aveva avuto a che fare con la liggi e i suoi rappresentanti. Perciò arrispunnì sgarbato. «Vado a fare i cazzi miei». «Non potete» disse il secondo milite. Ma che gli pigliava a quei due stronzi? Vide con la coda dell'occhio che si stava avvicinando un altro uomo in divisa, aveva i gradi di tenente. Salutò correttamente portando la mano alla pampèra. «Ci scusassi, ma è per ordine di Sua Eccellenza il prefetto. Nessuno può lasciate il teatro prima della fine dell'opera». «Vogliamo babbiare?» gridò Gammacurta, e per dare più forza alla domanda la tradusse in italiano. «Vogliamo scherzare?», «Nonsi. E lei o torna subito dentro o io sono necessitato a portarla in carcere, E per una fesseria così, non mi pare il caso di passare una nottata in galera». Il tenente, era chiaro, non voleva fare quistione. Strammato, il medico gli volse le spalle, rientrò. Ninì Nicosìa, che aveva seguito la scena da dietro i vetri, gli fece 'nzinga di starsene calmo. Ma una rabbia cieca faceva ormai cimiare Gammacurta come un àrbolo sotto una raffica di vento. Un'altra uscita doveva per forza esserci in quella minchia di teatro. Spinto da una specie d'istinto e risoluto a non darla vinta ai militi e al prefetto, invece di ritornare in sala e assittarsi al suo posto (tra l'altro quelli che ogni volta doveva scommodare questa volta l'avrebbero certamente pigliato a legnate), percorso il corridoio a mezzo ferro di cavallo che correva torno torno quel lato di platea, si trovò di fronte a una porticina, la scostò, trasì. Dava su un piccolo pianerottolo dal quale si partivano due scale di legno: una saliva al palcoscenico, l'altra scendeva al sottopalco. Scelse quest'ultima, non poteva venirsi a trovare in mezzo ai cantanti, avrebbe fatto succedere un altro quarantotto. Si sentiva sempre di più attanagliato da una raggia sorda, lui a casa voleva andare e ci sarebbe andato. Si trovò in un cammarone grandissimo, a malappena rischiarato da qualche lume a petrolio: c'erano scene arrotolate, corde, travetti, costumi, elmi, barili, sciabole. Intravide verso la parete di fondo una porta chiusa. Le voci e i passi dei cantanti gli arrivavano da sopra la testa, soffocati. La porta stava in capo a sei scalini, li salì, tirò il chiavistello, si trovò fuori, nel vicolo che c'era dietro il teatro. Sorrise, gliela aveva messa in culo a militi e a prefetto. Tentò di chiudere la porta alle sue spalle ma ci arriniscì a mezzo, qualche cosa ostacolava il giro dei cardini. La lasciò accostata e mosse qualche passo. E fu in quel momento che una voce gridò: «Fermati! Ladro!». Si taliò attorno, scantato veramente questa volta. Un milite a cavallo era fermo all'angolo del vicolo e gli teneva il moschetto puntato. «Alza le mani, ladro!». Uno scangio. Il milite si era fatto persuaso che lui era un ladro introdottosi nel sottopalco per arrubbare qualche cosa. Sorrise, ma invece di fermarsi e dare una spiegazione, scappò. Si mise a correre, perdendo il cappello e sentendo alle sue spalle gli zoccoli del cavallo che si facevano più vicini. «Fermati o sparo!». Continuò a scappare col fiato grosso, sorpassò la casa della gnà Nunzia, si trovò dietro di essa, nel grande deposito di sale. Ci entrò decisamente dintra, pensando che il cavallo del milite non si sarebbe potuto arriminare in quel mare di sale fino fino come la rena. Difatti il milite non ci entrò, fermò la vestia, pigliò accuratamente la mira verso l'ùmmira nìvura che sul bianco del sale spiccava malgrado lo scuro, sparò. «Che vor dì cangia?». «L'appalto dell Illuminazione l'ha vinto un mio ziano e perciò ti posso spiegare come sta la cosa. D'estate si tiene addrumato fino a tardo, perché alla gente piace tambasiàre e fissiarsela in giro dato che fa càvudo, d'inverno invece s'astuta prima». «Va bene, semo d'inverno, che significa 'sto prima?». «A siconno di quello che ci devono guadagnare u mè ziano e Vanni Scoppola, che è l'eletto aggiunto al municipio, Ora vegnu e mi spiegu. Metti caso che Scoppola ha bisogno di soldi, e allora dice allo ziano: dichiariamo che le luci si astutano alle nove e tu inveci l'astuti alle sette. Quelle due ore di pitroglio non spardato, non consumato, ce lo spartiamo noi due. Chiaro?». «Lampante» rispose Traquandi e sorrise per l'involontario gioco di parole. «E l'illuminazione der teatro com'è?». «A pitroglio». «Ce stanno lumi fissi? Non ne la piazza der teatro, dico, che lì ce n'è un fottìo». «Ci sono lampioni davanti alle case dei due medici, della mammana, del sinnaco, del delegato Puglisi». «Questo delegato Puglisi, m'ha detto Mazzaglia, ce l'ha a morte cor prefetto, perché Bortuzzi l'ha mandato sotto inchiesta con l'accusa che stava a protegge er gioco del lotto clandestino». «Veru è». «Dunque sto Puglisi è uno cor quale se po ragionà?». «Non mi spiegai bene. Ô vero che il prefetto l'ha denunziato, ma è puro vero che Puglisi se ne è nisciuto pulito. Questo però non significa». «Nun significa che?». «Che Puglisi te la lassa passare liscia se abbrusci il tiatro. Sempre sbirro è, ed è sbirro bravo. Ecco, questa è la casa di Pitrino che fabbrica cose di crita». Traquandi taliò la costruzione poco più grande di un canile. «Ma lui ndo dorme?». «E dove vuoi che dorme? Là dentro». «E le cose che venne ndo stanno?». «Darrè». E infatti nel retro della casupola c'era un piccolo spiazzo circondato da una bassa palizzata. Scavalcarla per Decu fu uno scherzo. Pigliò in mano due carusi di media grannizza, li fece vedere a Nando che disse che andavano bene. Ripigliarono a camminare. «Qual è il lampione fisso più vicino ar teatro?». «Quello della mammana». «Annamo». Prima d'arrivarci, dovettero ittàrisi darrè un carretto spaiato perché stavano passando due militi a cavallo in perlustrazione. Ma nun fu cosa di vero pericolo. Poi videro il lume della mammana. Si fermarono ai margini del cono di luce, sistemandosi dentro un portone aperto. Con santa pacienza, Traquandi inchì di pitroglio i due carusi attraverso la fessura per dove trasivano gli spiccioli, poi si stracciò un pezzo di cammisa che spartì in altri due pezzetti infilandone uno in ogni fessura. Per ùltima cosa bagnò di pitroglio i due pezzi di stoffa che sporgevano. «Mo potemo annà» disse. Si mossero con molta cautela, perché nella piazzetta davanti al teatro sentivano, magari se non lo vedevano, che erano arrimasti soldati di guardia. Pigliarono una stratuzza parallela al muro laterale del teatro e si trovarono alle spalle dell'edificio. Qui non si sentiva né si vedeva anima criata. «Ce semo» disse Traquandi a vascia voce. «Tu vai verso er lato destro. Spacca tutti i vetri delle finestrelle, poi butta drento er dindarolo. Io faccio l'istesso coll'artro. Aspetta che te l'appiccio». Diede fuoco alla miccia di Garzìa, poi addrumò la sua. «De corsa». Traquandi con la sbarra di ferro aveva spaccato il primo vetro cercando di fare il meno rumore possibile, quando sentì la voce soffocata di Decu. «Nandu, veni ccà, curri». Traquandi arrivò in un fiat. Decu gl'indicò, senza parlare, la porta mezzo aperta che immetteva nel sottopalco. «Dammi puro il dindarolo tuo» fece il romano «e tu intanto spacca tutti i vetri, faranno corrente d'aria». Con i due carusi in mano che fumavano dalla miccia, Traquandi scinnì la scaletta in pietra e si venne a trovare nel sottopalco. Intravide in un angolo quattro ceste di costumi e senza esitare vi scagliò contro il primo caruso che di subito si spaccò. In un attimo le ceste pigliarono foco. Alla luce più forte di quel principio d'incendio, il romano si taliò attorno con calma. Scorse in un altro angolo, appoggiati al muro, molti rotoli di scene ripiegate. Il secondo caruso lanciato con forza principiò a cangiarle in gigantesche torce. Risalì affannato i gradini. «Via de corsa». «Unni?». «A casa tua, Garzìa. M'è venuta fame e puro sonno, Vino bono ce n'hai?». Tutti orama' lo conoscevano Tutti orama' lo conoscevano come don Ciccio, e del resto lui stesso non faceva opposizione, malgrado che il suo nome di nascita facesse Amabile e il cognome Adornato, Adornato Amabile detto don Ciccio. Era arrivato a Vigàta una decina d'anni prima dei fatti che capitarono in paese per l'inaugurazione del teatro, da Palermo, dove faceva il mestiere di falegname e si era fatto accanusciri come mastro d'opera fina. Restato vedovo, si era trasferito a Vigàta per state vicino al suo unico figlio, Minicuzzo, che era maestro d'elementari. Siccome con la sua arte a Palermo si era fatto i sordi, quelli che gli avevano permesso di mandare Minicuzzo allo studio, quando arrivò in paese poté accattarsi un magazzino, una specie di capannone dove poter continuare a fare il suo travaglio, e magari una casuzza dove stare da solo per non portare disturbo al figlio che si era intanto maritato e aveva due figli nichi. Ci mise picca e nenti a farsi stimare per la sua bravura, non solamenti a Vigàta ma magari a Montelusa, a Fela, a Sfiacca. Così il travaglio non gli mancò mai. Don Ciccio teneva un particolare: non solo aveva studiato musica, sapeva leggere la carta, ma era puro capace di sonare il flauto traverso con la stessa bravura con la quale si contava sapessero sonare gli angeli quando il padreterno comandava loro di fargli un concertino. Prigato e riprigato da quelli che avevano scoperto la sua particolarità e capacità, si era deciso di fare ogni domenica dopo pranzo due sole orate di musica per pochi amici veri: il ricevitore postale, un pescatore, il capitano del papòre per Palermo che ogni domenica faceva scalo proprio a Vigàta, un viddrano che magari lui sapeva sonare il flauto ma quello di canna dei caprari, e qualunque altro che, passando nelle vicinanze del magazzino, perché lì don Ciccio teneva la domenicale sonata, aveva gana d'ascutare musica. Non c'era dubbio però che don Ciccio fosse persona che faceva nascere, a ragionarci sopra, qualche dimanda. E una, sopratutto: dove, e come mai, aveva imparato a sonare e a capirne tanto di musica? Perché non c'era dubbio nisciuno che nella musica don Ciccio fosse di competenza, e fonduta assai. Ma lui, a ogni dimanda, faceva come il porcitello di sant'Antonio, che appena lo sfiori s'inserra a pallina. Al massimo, se si decideva a raprìri bocca, rispondeva con un monosillabo variabile: sì, ma, se, no. Però un giorno, la iurnata che faceva settant'anni di vita e gli amici gli avevano fatto festa insino a farlo 'mbriacare, il capitano del papòre glielo spiù diretto: «Don Ciccio, comu fu?». E lui, senza che nisciuno se l'aspettasse, lo spiegò com'era stato che la musica fosse trasuta nella sua esistenzia e non ne fosse mai uscita. Fu un cunto bellissimo, che uno se lo stava a sentire con la vucca aperta e gli occhi sgriddrati, un cunto che pareva uno di quelli che si cuntano e si bon cuntano ai picciliddri per fargli pigliare sonno. La voce si sparse, ogni tanto quarcuno spiava: «Don Ciccio, comu fu?». E don Ciccio, passata quella volta, non aveva ora più ritegno a cuntare, di cunto in cunto abbellendo fatti, situazioni, persone e cose. Si guadagnò una 'ngiuria, un soprannome, «Don Ciccio comu fu». Una simana avanti che s'inaugurasse il triatro, era di dominica e don Ciccio stava per portare il flauto alle labbra per dare principio al concertino, quando vide trasire nel magazzino tutt'intero lo stato maggiore del circolo «Famiglia e progresso», dal marchese Coniglio della Favara al medico Gammacurta, dal canonico Bonmartino al preside Cozzo. Le seggie non abbastarono per tutti. Don Ciccio si sentiva commosso e onorato, non sapeva né che dire né che fare, taliàva con occhi interroganti. Il marchese, primo per nobiltà e censo, attaccò senza perdere tempo. «Don Ciccio, ci dovete scusare l'invasione, ma abbiamo urgente bisogno della vostra stimata opinione». Don Ciccio si confuse, fece due o tre inchini agli a stanti. «Non vorrei portarvi offesa per nisciuna ragione al mondo, don Memè. Ma c'è quarchi cosa che io modestamente posso fare per voi o per quarchi amico vostro?». «Vogliamo babbiare, don Lillo? Nenti ho di bisogno. Onoratemi sempre della vostra amicizia e sarò più che pagato». Aveva usato il verbo pagare. E questo stava a significare che don Lillo doveva insistere. «La mia amicizia sarà eterna, di questo manco si deve parlare. Ma ora e qua, che posso fare?». Il sorriso di don Memè si tramutò in una risata cordiale. «Mi state facendo venire una cosa a mente. Se proprio ci tinìte, potreste darmi una mano d'aiuto per una minchiata, uno sgherzo a un amico». «Felicissimo, basta che vi spiegate». E don Memè si spiegò. Poi, per essere più sicuro, si rispiegò. Alle tre di dopopranzo, mentre don Ciccio stava raprendo il magazzino, si vide arrivare un servo di casa Lumìa. Don Lillo, che gli piaceva tenersi in casa mobilia bella, era stato suo bono cliente in diverse occasioni. «C'è bisogno?» spiò. «Sissi. Don Lillo vole ca vossia veni a pigliare un tanger». «Etagère» corresse il falegname. «Comu si chiama si chiama. Voli ca vossia veni a casa ora stessu, senza perdiri tempu». «Bih, e chi sugnu? Dutturi?». Due ore appresso don Ciccio, aiutato dai servi di Lumìa, carricò con tutte le cure possibili il tanger sul suo carretto e se lo portò nel magazzino. Aveva spiegato a don Lillo che abbisognavano almeno due simane di travaglio, e don Lillo si era dichiarato d'accordo. Alle sette del matino del giorno appresso, don Ciccio, che aveva appena aperto, vide trasìre nel magazzino il tenente Pillitteri dei militi a cavallo con due dei suoi uomini. Senza dire manco una parola gli sbirri lo sbatterono contro il muro, mentre Pillitteri andava a colpo sicuro verso il tanger. Lo raprì, levò un quadratino di legno che nascondeva un angolo morto, ci infilò la mano, tastiò, tirò fora due anelli di brillanti e un colliè di cui la signora Lumìa aveva denunziato la sira avanti la scomparsa. Pillitteri gli mise i ferri ai polsi e gli fece attraversare tutta Vigàta a piedi in mezzo ai due militi a cavallo. «Latro, no! Latro, no!» gridava disperatamente don Ciccio e piangeva, si sentiva murìri di raggia e di vrigogna. Il vento s'alzò da occidente Il vento s'alzò da occidente, dalle parti di Montelusa, un vento arraggiato perché mai ce l'avrebbe fatta a spazzare le nuvole pesanti che sopra Vigàta stagnavano. Un colpo più furioso degli altri sollevò di qualche millimetro l'asse di legno, la pesante farlacca che il morto sconosciuto aveva messo a ponte tra la montagna di sale e il tetto della casa per raggiungere l'alloggio di Concetta Lo Russo, poi la lasciò ricadere con un botto sordo sopra le canala. Sul finestrone il delegato Puglisi finì di taliare la farlacca, poi diresse lo sguardo dintra la cammara da letto e quello che vide l'atturbò. Il vento aveva staccato dalle pareti, dal pavimento, e da ogni altro loco della cammara il fumulizzo, la fuliggine, e ora una nuvolastra di polvere grigia galleggiava nell'aria e dava l'impressione che i due morti sul letto avessero ripigliato vita e nuovamente principiato a fare l'amore, arriminandosi lenti lenti. Lasciando le persiane aperte per vederci meglio, il delegato chiuse i vitra del finestrone e proprio in quel momento il vento si diede vinto, abbacò di colpo per dare passo a una pioggia densa e serrata che rimbalzava tamburiniando sul tetto. Puglisi provò friddo, un brìpito darrè la schina, un autro ancora, lo fecero tremare. Dalla scala una voce principiò a chiamarlo, era quella di Agatina. «Diligatu! Diligatu!». Niscì di corsa dalla cammara, traversò con due passi l'anticammara, si fermò sul pianerottolo. «Ccà sugnu, signora Agatina. Acchianàte e state attenta a i scaloni». Quando la picciotta col fiato grosso gli arrivò a paro, la pigliò per una mano, la fece trasìrì nell'anticammara. La prima cosa che Agatina fece fu di raprire granni granni gli occhi e spiare: «Pirchì pittò la casa di nìvuro?», «Non è stata pìttata, è il fumo che si è attaccato. Ed è un fumulizzo che attossica e che ammazza». Stava cercando di dirle le cose con maniera e prudenzia, ma Agatina era sperta e fu pronta ad arrivare alla conclusione. «E me soro dov'era, nella so cammara?». «Sì». «Durmiva?». «Sì». Non era umanamente possibile a criatura sgriddrare di più gli occhi, eppure lei ci arriniscì e raprì la bocca per fare voci. Ma era proprio questo che Puglisi di natura sua non era capace di reggere, le vociate e le lagrime delle fìmmine. Violento e improvviso, lo schiaffo del delegato fece torcere la faccia di Agatina tutta da un lato, mandò a sbattere la picciotta contro un muro. Contemporaneamente Puglisi le arrivò di sopra con tutto il corpo, schiacciandola. «Statti azzittata. Non ti cataminare, non fare voci. Ferma, o ti arriva un'altra timbulata che ti spiccica la testa. Mi senti? Stai ferma o ti spacco la faccia. Talìami, mi capisci?». Intronata, lei lo taliò per un momento, poi abbassò più volte il capo per dire che aveva capito, non si sarebbe smossa. «Stai attenta: io ti porto nell'altra cammara per farti vìdiri quello che è successo, ma tu non parli, non fai nenti». La girò come fosse una pupa priva di vita propria con la faccia a muro, l'abbrazzò darrè per i fianchi, la sollevò in aria, la portò nell'autra cammara. Agatina ebbe appena il tempo di vedere le due statue sul letto che una botta di vommito inarrestabile le niscì dalla bocca, allordò le scarpe del delegato. Principiò a dire parole mancanti di senso. Sempre tenendola a mezz'aria, Puglisi se la portò nella cucineddra, la fece assittare nell'unica seggia ch'era vicina al tavolino, agguantò una pignata di creta, l'infilò nella giara, la riempì d'acqua e si mise coscienziosamente a lavare la vucca e la faccia d'Agatina. «Ti senti meglio?». «Sissi». «Allura stai a sentire a mia: tua sorella morì contenta, nel sonno, mentre faceva l'amuri. Mi stai sentendo?». «Sissi». «Non lo capì che stava morendo, credi a mia, non patì dolore o spavento. Te l'assicuro, pirchì io ce n'ho spirenzia di queste cose». Lei parse calmarsi, tanto che si susì dalla seggia e ripigliò a lavarsi la faccia, ma tremava tutta. «Lui chi è, lo conosci?» spiò Puglisi. «Ô uno della latata degli Inclima. Quello che ha un occhio solo». «Se avesse avuto gli occhi aperti, l'avrei raccanusciuio» fece il delegato. «Si chiamava Gaspàno Inclima. Da quando durava?». «Che cosa?». «Da quand'è che s'erano inganzati?». «Non erano inganzati». «Ah, sì? E allora come me lo spieghi che to soro e Gaspàno Inclima se ne stavano nudi sopra il letto e ficcavano?». «Doviva essiri la prima volta, diligà. La prima e ultima vota». La prima volta. La prima, dopo cinque anni di vedovanza strettamente osservata, tanticchia di felicità pagata a prezzo di vita. «Ma che minchia di giustizia c'è nelle cose di Dio e della terra?» si domandò Puglisi senza raprire bocca. Come se gli avesse leggiuto nella testa, Agatina gli fece eco. «Ma che giustizia è? Ora me soro paga non sulamente con la so vita ma magari con l'onore!». E questa volta sì misi a chiàngiri in modo lungo e desolato, tanto più piatoso perché era quasi silenzioso, niente parole, niente lamenti, solo ogni tanto una tiratina di naso. «Che giustizia è?» continuava a murmuriare. »Magari l'onore?«. Puglisi isò una mano e gliela posò sopra i capelli. Gliela tenne, senza accennare a una carezza, solo per farle sentire che lui stava lì, allato a lei. Allora Agatina fece una cosa stramma. Si raddrizzò, pigliò con la sua la mano che aveva sulla testa, la taliò, la vide nìvura di fumo, lorda, se la portò alle labbra, la baciò, la taliò nuovamente, se l'avvicinò alle labbra, la pigliò a leccare, a lungo, con coscienza, come un cane. Quando l'ebbe tutta puliziata, se la mise sulla faccia, la tenne premuta con le mani. Stettero in silenzio, poi Puglisi arrisorbì. «Tu resta qua» disse. «Non ti arriminare, magari se senti rumore non ti fare pigliare dalla curiosità. Ti chiamo io quando tutto è a posto». Tornò nella cammara da letto, s'avvicinò ai due morti, allungò una mano e toccò i corpi. Erano ancora morbidi e cedevoli, si vede che il calore del fumolizzo aveva ritardato la legnosità della morte. Si levò la giacchetta, i pantaloni, la cammisa: rimase in mutande e maglia di lana. Tirò un lungo sospiro e si mise all'opra. Tornò nella cucineddra che manco era passata mezz'ora, si fermò allato ad Agatina abbottonandosi la cammisa, dopo l'obbligò ad isare la testa pigliandola da sotto il mento. «Aggiustai tutto» disse. «Fatti forza e veni cu mia. Tu devi dire a tutti le cose che ora vedrai, devi contare che erano accussì appena sei trasuta». La fìmmina si alzò ma s'assittò subito, le mancavano le gambe, non ce la faceva a stare addritta da sola. Agguantandola da sotto le ascelle che sentì vagnate di sudore, Puglisi la mise in piedi, la girò, la spinse verso la cammara, forzandola a camminare malgrado che ad Agatina le gambe parevano testa e poi al petto e finalmente vide assumare una pastetta rosa, fatta di acqua, sale, sangue. Nell'accingermi alla descrizione «Nell'accingermi alla descrizione degli avvenimenti, invero dolorosi, che tanto danno e sommovimento hanno arrecato alla cittadina di Vigàta che fa corpo alla provincia di Mentelusa, provincia in cui indegnamente io vesto la divisa di rappresentante prefettizio dello Stato, mi corre l'obbligo di rammemorare alla Signoria Vostra Illustrissima quale sempre sia stato il mio sentire in ordine ai problemi che affliggono la Sicilia. Tra i prefetti di quest'isola che nell'agosto scorso furono interpellati, e specialmente fra i quattro di essi che furono adunati in Palermo, non fui io certo di quelli che in maggioranza si manifestarono favorevoli al mantenimento dei mezzi ordinari per ottenere la invano tanto desiderata e cercata pacificazione di quest'isola. Poiché, forte dell'esperienza trasmessami dal mio predecessore nell'alta carica, l'illuminato commendator Saverio Foà, che a lungo resse le sorti di questa provincia, vedevo disperato il caso di riscontrar la medesima in tutto uguale a quanto raccontatami, dopo che aveva deluse le fatiche e logorata la riputazione di tanti abili e zelanti funzionari mandati a governarla. In conseguenza l'Eccellenza vostra, che il mio pensiero ben conosce e che in qualità di Ministro degli Interni di sì alto incarico ha voluto gravarmi, non si meraviglierà se io, che appieno conosco per pratica indiretta e diretta il pervertimento morale di questa popolazione, per la quale le idee del giusto, dell'onesto e dell'onore sono lettera morta, e che per conseguenza è rapace, sanguinaria e superstiziosa, sia di parere, come lo sono vieppiù, di non rinunciare a veruna delle leggi restrittive straordinarie che il Governo puntualmente propone senza mai però metterle in atto con la dovuta e necessaria fermezza. «Il caso proprio ier sera avvenuto a Vigàta è conferma, sia pur penosa, di quanto da tempo io vado pensando, perché, a parte ogni altra considerazione, quello che è accaduto in occasione dell'apertura al pubblico del novello teatro di Vigàta, precisamente attiene a una vera e propria sollevazione popolare, aizzata da pochi facinorosi, contro la mia persona di rappresentante dello Stato. Si è trattato, checché altri possa diversamente dire e sostentare solo con vane vociferazioni, di un moto sedizioso atto a rivoluzionare e a sconfiggere l'Autorità dello Stato in codesta provincia siciliana. Vengo al fatto puro e semplice, e possa valere in forza della sua verità. «Quando io presi possesso della mia alta carica, il teatro di Vigàta era stato già quasi edificato, mancanti solamente alcuni abbellimenti di scarso conto. A me spettando la designazione dei membri del Consiglio d'Amministrazione, divisai di nominare due personalità di Vigàta e quattro di Montelusa, parendomi che la propinquità del capoluogo di sicuro avrebbe contribuito alla prosperità del teatro istesso in modo certamente superiore a quanto i vigatèsi, gente scarsamente interessata alle cose dell'arte, avrebbero potuto fare. Conosciuta la composizione del Consiglio, i due membri di Vigàta immediatamente si dimisero, adducendo ragioni miseramente campanilistiche. Al fine di evitare dannosi ritardi e vane diatribe, sostituii i due membri designati di Vigàta con due specchiate personalità di Montelusa. Il Presidente del Consiglio d'Amministrazione, marchese Antonino Pio di Condò, persona di elevato sentire e di squisita sensibilità, ebbe un giorno convivialmente a chiedermi se avessi un qualche suggerimento circa l'opera da prescegliere per la serata inaugurale, serata che avrebbe certamente avuto carattere di solennità. Mi venne allora, del tutto casualmente, di formulare un titolo, quello del Birraio di Preston, opera da me goduta in anni più verdi e precisamente alla sua prima esecuzione trionfale avvenuta in Firenze nell'anno 1847. Feci quel titolo certamente non per ragioni personali, ma perché ritenevo che quell'opera, nella sua vaga leggerezza, nella sua semplicità di parola e di musica, fosse atta alla ritardata comprensione dei siciliani, e dei vigatèsi in particolare, per ogni superno manifestarsi dell'arte. Si trattò, ribadisco, di un semplice suggerimento conviviale, ma il marchese, buon patriota e noto esponente del partito di governo, ebbe ad interpretarlo, equivocando, come un ordine, ordine che io, in verità, non ero in potere né avevo l'intenzione di dare. Alcuni componenti del Consiglio d'Amministrazione, frammassoni e mazziniani in combutta con frammassoni e mazziniani di Vigàta, saputo che il suggerimento da me proveniva, fieramente e per puro partito preso s'opposero, spargendo in malafede la voce che trattavasi non di un mio umile parere ma di un mio preciso ordine. Il marchese Antonino Pio di Condò, sdegnato dalle vili accuse d'esser uomo pronto a chinar la schiena di fronte alle Autorità, irrevocabilmente si dimise. Al posto suo venne eletto il commendatore Massimo Però, persona di senno e d'equilibrio. Fu allora il professor Artidoro Ragona, membro del Consiglio, a riproporre l'opera, che intanto aveva avuto modo d'apprezzare durante un suo soggiorno a Napoli. Ciò avvenne, è bene ripeterlo, senza mio intervento alcuno. Anche su questo si cominciò a malignare, sostenendo un rapporto non casuale fra la proposta del commendatore Però e la vittoria riportata dal di lui figlio, Però dottor Achille, al concorso per Primo Segretario presso la Prefettura di Montelusa. Devo a questo punto con fermezza dichiarare che al meritato successo del valente giovine Però Achille è del tutto estraneo l'interessamento presso di me del Signor Emanuele Ferraguto, come malevolmente si è voluto lasciar credere. Il Ferraguto, persona d'alto sentire, di civilissima costituzione, di generoso animo...». «Al signor profeto Bortuzziiccillenza Montelusa «Caro Profeto, tu si na grandi testa di cazzo. Pirchì non te ne torni a Forenze? Tu non sì un profeto ma uno strunza ca feti e uno sasìno. Tieni tre morti sopra li spaddri per il foco del triatro. Tu sì la peju sdilinquenzia. Nun ai cuscienza. Firmato un citatino». «A Sua Cillenza Bortuzzi prifeto di Montelusa «Non ci scassare la minghia ai vigatèsi. L'opra che tu vuoi non si farà. Lascia perdire, ca è meglio pi tia. I vigatèsi». «Figliuzzi miei, parrocciani miei carissimi nel Signore. Come quello di Gesù inchiovato alla croce, magari il mio costato sta perdendo in questi giorni più fiele che sangue, credetemi. Un consiglio comunale ateo e biastemio ha fatto flabbicare in questa citatina operosa e onesta di Vigàta un triatro e domani lo rapre con la rapprisintazione di un'opera. Non ci andate, figliuzzi amati! Pirchì nell'attimo istesso in cui il vostro pedi entra dintra a quella costruzione, l'anima vostra viene a trovarsi pirduta pi l'eternità! Voi forse non credete a quello che sta dicendovi il vostro vecchio parroco, voi certamente pensate che sto sgherzando o che mi sono rimbambito. Forse è vero che con la testa non ci sto più tanto, ma allora io non parlo più con parole mie, ma con le parole di gente che ha tanta testa maggiore di mia e di tutte le teste vostre messe inzemmula. Vi dico e v'arripeto: il triatro è la casa preferita dal diavolo! Sant'Austinu, che puro era stato uno che faceva vita tinta, cattiva, che iva nelli burdelli con le fimminazze impestate e s'imbriacava comu una scimmia, sant'Austinu, dico, cunta che una vota a Cartagine che è paisi di qua vicino, verso l'Africa, una vota trasì in un triatro e vide la rapprisintazione di fimmini e òmini nudi che facevano cose vastase e quannu sinni turnò a la so casa, sonno non poté pigliare per tutta la nuttata, tanto si era ammareggiato! E vi voglio puro contare una cosa che conta Tertulliano, che non è una cacatella di capra ma una testa granni assà. Conta Tertulliano che una vota una fìmmina divota, onesta e bona matri di famiglia, s'intestò a tutti i costi che voleva andare a triatro. Non ci poté né marito, né patre, né matre, né figli. La fìmmina tistarda taliò lo spittacolo, ma quando niscì non era più la stissa, Biastimiva, diciva parulazzi, vuliva che ogni mascolo che incontrava la cavarcasse sulla strada stissa. A forza marito e figli si la purtarono ni la casa e chiamarono un parrino di corsa. Il parrino vagnò con l'acqua biniditta la fìmmina e disse al diavolo di nèsciri fora. E sapete che arrisponnì il diavolo? «Tu, parrino, non t'intricare in una cosa che è mia! Io questa fìmmina mi pigliai pirchì issa di sua volontà vinni dintra di la me casa, che è u triatro! ». «E la fìmmina morì addannata pirchì il santo parrino niente ci poté. E voi, parrocciani me, volete farvi pigliare dal diavolo? Addannarvi l'anima? Il triatro è la casa del diavolo! Ô il loco del diavolo! E quel loco merita il foco che Dio scagliò contro Sodoma e Gomorra! Il foco! Il foco!». «Reverendissimo canonico «G. Verga - Chiesa Matrice - Vigàta «Ero in chiesa aieri a sentire la sua predica contro il triatro. E mi scappa una dimanna: la fìmmina che vossia si è tenuta in parrocchia e dintra il letto per vent'anni e dalla quali ha avuto magari un figlio mascolo di nome Giugiuzzo di anni quindici, a quale categoria di buttane appartiene? Fìmmina di triatro, fìmmina di Sodoma, fìmmina di Gomorra o troia semplice? Un parrocciano che crede alle cose di Dio». «... e in ordine alla compagnia dei militi a cavallo, impiegata a Vigàta da S.E. il Prefetto Bortuzzi a far opera di non legale repressione, il mio parere non può che concordare con quello della maggioranza del popolo siciliano che stima tale corpo in combutta da sempre con la maffia e con la malavitanza delle campagne. In una situazione di già per essa istessa delicata, l'intervento della compagnia dei militi a cavallo ha maggiormente acceso gli animi dei vigatèsi che l'hanno reputato come un sopruso sovraggiunto, tanto più che né l'Esercito, stante gli ordini cosi chiaramente impartitimi da Ella, signor Tenente Generale Casanova, né le forze di Pubblica Sicurezza, in paese rappresentate dal delegato Puglisi, uomo a parere unanime di retto procedere, né tanto meno l'Arma dei Reali Carabinieri, da tre giorni prudentemente consegnati in caserma per ordine del Maggiore Santhià, loro Comandante, avevano partecipato al servizio d'ordine ritenuto dal Prefetto indispensabile. «Non è mio compito esprimere un qualsivoglia giudizio sull'operato di Sua Eccellenza Bortuzzi prima e durante i fatti dolorosi di Vigàta. «Non posso però esimermi dal segnalare che a fianco del Prefetto è sempre venuta a trovarsi una persona, tale Ferraguto Emanuele, che la Benemerita ha più volte proposto per il confino di polizia, ma che da sempre non ha potuto procedere per espressa volontà del Prefetto e della magistratura locale. «Faccio inoltre presente, malgrado la quistione non sia di nostra competenza, che al medesimo Ferraguto Emanuele è stato concesso, per diretto intervento del Prefetto sul Questore in persona, il permesso di porto d'armi. «Vidusso colonnello Armando-Comandante la Piazza militare di Montelusa». «A S.E. Spanò dott. Vincenzo «Presidente del Tribunale di Montelusa «Lo sa che l'impresario dell'opera Il birraio di Preston che verrà rappresentata dopodomani in Vigàta è il signor Spadolini Pilade, figlio di una sorella del cognato del prefetto Bortuzzi? Tanto per i doverosi provvedimenti. «Un gruppo di leali abitanti di Vigàta». «A Sua Eccellenza il Prefetto Bortuzzi e la ruera. Lassa perd». «Ah, sì?». «Sì. E basta». La signora, che se ne stava assittata a lucidarsi le unghie, si era susuta lenta lenta. Con l'indice della mano dritta aveva indicato quel posto del suo corpo dove Everardo Colombo trovava, due volte la simana, l'oro, la mirra e l'incenso. «Quest l'è me» aveva detto donna Pina alta ferma e terribile come un oracolo. «E io non te lo doo mai più. Per me, da oggi in poi, puoi restare con le ball per ari». Ed era stata di parola. L'arrabbiatura del questore principiò a svaporare mentre scinniva la grande scalinata che dal quarto piano della Regia Questura lo portava al terzo dove c'erano ad aspettarlo rotture di ball, è vero, ma anche i simboli tangibili del suo potere, di quello che era saputo arrinèsciri nel giro di pochi anni. «Bona iurnata, cavaliere» lo salutò ai piedi dello scalone l'agente Salamone Alfonso, assegnato al servizio di protezione dell'appartamento privato del questore per due ragioni: primo, perché aveva le gambe scassate da alcuni colpi di moschetto che un latitante gli aveva sparato e secondo perché la signora Pina da sei mesi si era intestata a volere lui e solo lui di piantone. Sosteneva infatti la signora che, chissà perché, con Salamone era certa che nessun malintenzionato sarebbe riuscito a penetrare nel suo alloggio. «Ma chi vuoi che venga in cà? Un lader in questura, figurarsi!». Non c'era stato verso, voleva Salamone e Salamone aveva avuto. «Come vanno le gamb, Salamone?». «E le corna tue?» avrebbe voluto spiare a sua volta l'agente, ma si trattenne. «Oggi meglio, cavaliere». Sul pianerottolo, girò a dritta, dove c'erano l'anticammara, la segreteria e il suo grandissimo ufficio. Cinque o sei persone, che già dall'alba stavano ad aspettare d'essere ricevute, appena lo videro comparire si susìrono e s'inchinarono. «Buongiorno, Eccellenza» fecero in coro. Colombo isò la mano con tre dita aperte, non si sa se a salutare o a paternamente benedire, trasì nella segreteria dove non ci stava anima criata, spalancò la porta semichiusa del suo ufficio. Fu pigliato in pieno da una botta di luce, le tende dell'ampio finestrone erano state aperte, il sole scialava dalle vetrate. «Che splendor d'ona mattina!». «Se non si guasta, cavaliere». Il tono di voce e la frase del suo primo segretario, Meli dottor Francesco, sempre vistuto di nìvuro, sempre con la faccia come se tutt'intera la sua famiglia fosse stata il giorno avanti cancellata da un terremoto, addritta allato al tavolo, lo fermarono dal proseguire nell'inno alla giornata. Quell'uomo che pareva il sunto del di dì mort, si riferiva solamente al tempo o alludeva a qualche cattiva notizia? «Che c'è?» spiò il questore assittandosi e cangiando d'espressione. «A Fela un tale che nisciuno è arrinisciuto a riconoscere è trasuto nella sede del circolo locale e ha sparato, ammazzandolo, a Peritore Nunzio, di professione agrimensore, incensurato, che stava giocando a tressette e briscola con altre tre persone». «Mi sta dicendo che gli altri non hanno riconosciuto quello che stava lì a mazzar?». Il primo segretario tirò un lungo sospiro prima d'arrispondere, parse che una sofferenza ancora più grossa della solita l'affliggesse. «Cavaliere, uno era calato sotto il tavolino perché si era addunato che aveva un lazzo della scarpa sciolto e se lo stava rimettendo a posto, il secondo raccoglieva, sempre sotto il tavolino, una carta che gli era caduta per terra e al terzo, proprio in quel momento, gli si era impiccicata una muschitta nella palla dell'occhio». «Una muschitta?». «Zanzara, cavaliere». «Tutti siciliani, eh, i giocatori?». «Nonsi, cavaliere. Quello della scarpa slacciata si chiama Vendramin Giulio, è veneziano, fa il commesso viaggiatore». «Che altro c'è?». Meli esalò un altro angosciato sospiro. «C'è che il delegato Puglisi di Vigàta ci ha segnalato la presenza in paese del pericoloso repubblicano romano Traquandi Nando, per il quale c'è un mandato di cattura emesso dal Ministero». «Quel fioeul d'ona baltrocca del Mazzini è stato segnalato a Napoli. Si vede che vuole venire nell'isola per creare rebelòtt e intanto manda in rondera qualcuno a tastare il terreno. Puglisi ha scoperto chi dà ricetto al Traquandi?». «Sissignore. Abita in casa di don Giuseppe Mazzaglia, che non ammuccia certo come la pensa». «Dite a Puglisi d'arrestarli subito, Traquandi e Mazzaglia. Ch'ei vagan foeura di cojon». Meli parse sprofondare in un abisso di disperazione. «Che c'è, Meli?». «Guardi, cavaliere, che don Pippino Mazzaglia non è persona da nenti. Ô uno che tutta Vigàta ci voli beni. Ô omo sempre pronto a dare ogni cosa che possiede per fare del beni. Ci facciamo nemica Vigàta. E a Vigàta non tira aria bona, in queste giornate, grazie al prefetto Bortuzzi. Vogliamo mettere altra ligna sul foco? Si potrebbe intanto arrestare il solo Traquandi». «Ghe semm nun chi al busilles» fece pensoso il questore. Si susì, si mise le mano in sacchetta, s'avvicinò alla vetrata, si vagnò tutto di sole. «Facciamo così» disse poi voltandosi. «Dite a Puglisi d'arrestare Traquandi il giorno appresso l'andata in scena dell'opera a Vigàta. Il giorno appresso, mi sono spiegato bene?». «Chiarissimo» fece Meli. «Ma, se mi è permesso, perché il giorno dopo? Magari potrebbe essere tardi, magari quello s'è spostato in un altro paese e noi lo perdiamo di vista». «Tardi, farlocch? I vigatèsi pari a scorbatt, se gli diamo un'altra occasione, faranno più casino. Ripetete: cossa v'hoo ditt?». «Arrestare il Traquandi il giorno dopo l'andata in scena dell'opera a Vigàta. Per ora non toccare don Pippino Mazzaglia». «Benissimo. C'è altro?». «Sì, cavaliere. Ma mi faccia pirdonanza dell'insistenza: pirchì fare arrestare Traquandi fra tre giorni?». «Tu non capiss ona gotta» tagliò il questore. Verso le dieci di quella stessa matinata davanti all'agente Salamone s'apprisintò Tano Barreca, giovane rappresentante della palermitana casa di profumi e cosmetici « La parisienne ». Veniva una volta ogni quindici giorni, da sei mesi a questa parte. «Posso acchianare? La signora è sula in casa?». «Ô in casa, acchiana». «E mi raccomanno, in caso di pericolo, friscassi». «Fischio, fischio, vai sireno e sicuro». L'eventuale fischio concordato con Salamone, che veniva profumatamente pagato dalla signora Pina, avrebbe risparmiato tanto alla questoressa quanto al picciotto Barreca una scena perlomeno imbarazzante. L'incontro quindicinale si svolgeva sempre alla stessa manera. Barteca, senza manco tuppiare alla porta, trasìva nella cammara della signora Pina che, preparata, l'aspettava a cosce aperte, nuda sul letto. Barreca ittava alla sanfasò sulla toletta i profumi e le creme che s'era portato appresso, si levava scarpe, cazuna, giacchetta, cammisa, maglia e mutanna e d'un balzo affunnava nella carne dura e tisa della fìmmina. In silenzio si facevano la prima di minuti due, che il picciotto mentalmente dedicava a so patre Barreca Santo, arrestato una ventina di volte da gente come il marito della signora Pina che lui in quel momento si stava fottendo, poi si stinniva allato a lei respirando forte e tenendole la mano sulla fissa, mano che non stava ferma ma mutuperiava senza pace, contava fino a duecento e s'assistimava di bel nuovo nuovamente fra le cosce della signora e si faceva la seconda di minuti tre dedicandola questa volta a suo fratello Barreca Sarino che era stato ammazzato mentre se ne stava scappando dal càrzaro della Vicaria per colpa di gente come il marito della signora Pina che lui in quel momento si stava fottendo, poi si stinniva allato a lei respirando forte e tenendole la mano sulla fissa, mano che non stava ferma ma mutuperiava senza pace, contava fino a trecento e s'assistimava di bel nuovo nuovamente fra le cosce della signora, dedicando la terza ficcata a se stesso che un giorno o l'altro sarebbe andato a finire in galera per colpa di gente come il marito della signora Pina che lui in quel momento si stava fottendo. Era, la terza, lunga, insistente, assufficante. Poi arrivava il momento che Tano cominciava rispettosamente a spiare: «Signora sta vinendo? Sta vinendo, signora?». E mai la signora aveva voluto arrispunnìri. Ma quella mattina, stremata dall'astinenza coniugale, al soffocato e ripetuto addimannàri che ritmava il tràsirì e il nèsciri: «Sì... Sì... Vegni!... Ve...gni... Ghe sont!» la svinturata arrispose. A mezzogiorno spaccato, il cavaliere Colombo mise l'ultima firma a una pratica, posò la penna, isò le vrazza e si stirò con un lungo sospiro. La matinata di travaglio era finalmente finita. Con Meli si scangiarono un'occhiata. «Allora io vado via» disse il segretario. «Ha cumanni, cavaliere?». «Ci vediamo alle tre, caro Meli» lo congedò il questore. Mentre Meli s'allontanava, Colombo lo taliò. Era persino tanticchia zoppo. Aveva avuto la tentazione di mandarlo a farsi fottere dopo manco una simana che aveva pigliato possesso della carica, ma poi aveva capito tutta l'utilità di quell'uomo. E infatti in un'occasione, avendogli dato un ordine in milanese, Meli aveva compreso tutto arriversa e aveva di conseguenza fatto il contrario di quello che gli era stato ordinato. Colombo, sul momento, si era incazzato ma poi si era reso conto che il segretario sarebbe stato comunque un alibi perfetto: poteva sempre scaricare su di lui la colpa di non capire quello che gli si diceva. Si susì, traversò la segreteria e l'anticamera deserte, si trovò sul pianerottolo davanti all'agente Salamone. «Come va?». «Beni, Eccellenza. E vossia?». «Bene, bene». «E meno male» pensò Salamone «che le tue corna non sono ancora arrivate all'altezza del lampadario». A tavola, il questore s'accorse che la sua signora aveva gli occhi sparluccicanti e l'incarnato vivo. Pareva di buon umore. Allora, per farle apparire quello che era, si mise a contarle la storia del mazziniano Traquandi. Non l'aveva fatto arrestare subito, spiegò, perché lui, il questore, poteva tirarci il suo tornaconto. E difatti: se l'opera imposta dal prefetto ai vigatèsi fosse andata male, lui «Un momento di cortese attenzione» principio. L'apparizione paralizzò tutti, che rimasero aggelati nel gesto che proprio in quel momento stavano facendo. «D'ordine di Sua Eccellenza il Prefetto Bortuzzi, allo scopo di evitare pubblico disordine, si fa comando a tutti quelli che qui stanno di continuare a starci. Cioè, voglio dire, che non si può uscire manco nei corridoi. Ognuno ha l'obbligo di restare al posto suo». Questa volta Puglisi si scantò veramente. Dalla platea, dai palchi, dalla piccionaia principiò a sentirsi un rumore strammo. Pareva che una gigantesca pignata, cummigliata da un coperchio altrettanto gigante, fosse arrivata al punto di bollitura. Capì che si trattava del mormorio minaccioso del pubblico. Villaroel isò ancora la mano. «Sua Eccellenza il Prefetto invita i cittadini tutti di Vigàta a stare a sentire questa...». E si fermò. Con. spavento s'accorse che non gli veniva la parola. «Minchiata?» suggerì con fraterna premura una voce dalla piccionaia. «Cacata?» rinforzò un altro dalla platea. Ma a Villaroel era tornata la memoria e poté ripigliare da principio, con voce più ferma. «Sua Eccellenza il Prefetto invita i cittadini tutti di Vigàta a stare a sentire quest'opera lirica con attenzione, senza mettersi a fare o a dire cose che possono offendere l'alta e suprema Autorità dello Stato che è qua presente di persona». E voltò le spalle per andarsene. Nello stesso momento, come un grillo, Puglisi saltò due file di seggie e si precipitò verso Mommo Friscia, che, l'aveva notato un attimo prima con la coda dell'occhio, stava immettendo aria nei polmoni mentre la faccia gli diventava tonda come un melone. Riuscì a mettergli una mano sulla bocca impedendogli di fare quello che aveva intenzione. I pìrita, o pernacchi, di Mommo Friscia erano leggendari in paese e fuori. Avevano la forza, la consistenza e la brutalità di un devastante terremoto, di una calamità naturale. L'onorevole Nitto Sammartano s'era vista bruciare una brillante carriera politica che l'avrebbe sicuramente portato a diventare ministro, da un pìrito inaspettato di Friscia nel mezzo di un comizio affollatissimo. Non che Mommo gli fosse avversario, l'aveva fatto così, solo per spirito d'arte. Più le parole erano alate, stentoree, vibranti e più gli nasceva inarrestabile il pirito. E da quel memorabile pìrito durante il comizio, Sammartano non si era mai ripreso, una specie di shock gli scattava al momento di rapriri bocca in pubblico, diventava scemo e balbuziente. Ora in quel momento, in tiatro, con l'agitazione che c'era, un pìrito di Friscia sarebbe stato come il suono d'una tromba incitante alla rivoluzione. Puglisi gli tenne la mano sulla bocca fino a quando non lo vide addiventare viola per la mancanza di sciato, poi la levò, sentendo che il palmo della mano gli abbrusciava come se avesse astutato la miccia d'una bomba. E intanto alle orecchie gli arrivò un coro poderoso, composto non dagli artisti cantanti, ma dagli spettatori stessi. «Acqua! Acqua! Acqua! Foco!». Taliò strammato verso il palco. Villaroel non ce la faceva a trovare la spaccatura centrale del sipario che gli avrebbe permesso di nèsciri. Si spostava ora a dritta (acqua! acqua!), ora a mancina (acqua! acqua!) e solo quando si trovava in mezzo sentiva che la gente gli gridava «Foco! Foco!». Ma se con le mani tentava di dividere il velluto pesante, quello mostrava di consistere solo di pieghe abbondanti, senza mai rivelare una qualsiasi apertura. Finalmente gli venne in aiuto un macchinista che gli tenne aperti i due lati del sipario. Villaroel se n'uscì mentre il pubblico scoppiava in un caloroso applauso, il primo e l'ultimo della serata, misto a grida di «Bene! Bravo!». Il sindaco di Vigàta, che si scantava dell'ironia dei suoi compaesani assai più di una sparatoria, si susì, giarno come un morto. «Amici, paesani» principiò con voce tremante. «Io vi prego, vi supplico, in nome di Dio...». Non arriniscì a finire. Il prefetto l'agguantò, sotto gli occhi di tutti per una manica, l'obbligò ad assittarsi nuovamente. «Che 'azzo le piglia? Che 'azzo prega? Questa è gente che va passata per le armi! Stia bono e non rompa i hoglioni!». Stavano, al di là del sipario, cangiando la scena a grande velocità. Malgrado lo spessore del velluto, giungevano in sala grandi vociate, biastemie, passi di corsa, martellate su martellate. Tutto in sala parse essersi calmato, quando di nuovo si sentì la voce altissima di Lollò Sciacchitano. «Voglio pisciare! Voglio ìri a pisciare e non mi ci fanno ìri, sti cornuti di militi! Ora mi metto a pisciare supra a platea!». Subito, come a un ordine dato, a tutto il pubblico, masculi e fìmmini, gli venne bisogno di fare bisogno. Due o tre signore principiarono a torciuniarsi sulle seggie, tenendosi le mani sulla panza. Il commendatore Restuccia, vedendo che alla sua signora ci scappava, si susì, impugnò la mazza da passeggio dalla quale mai si separava e ordinò alla moglieri: «Veni con mia!». Nel corridoio gli si parò davanti un milite. «Dove va?». «Porto la mia signora a pisciare. C'è cosa in contrario?». «Si. Il prefetto non vuole». «Parliamone» fece calmo il commendatore Restuccia e tirò con la destra il manico della mazza: ne venne fuori una lama di una quarantina di centimetri. Si trattava non di un bastone da passeggio, ma di uno stocco affilatissimo. »Si accomodino pure« disse il milite facendosi di lato. Intanto il sindaco, su suggerimento del prefetto, si era nuovamente susuto e faceva gesti di starlo a sintìri. «Concittadini!» disse. «Tutti quelli che hanno bisogno, lo spieghino ai militi che li accompagneranno ai cessi». Mezzo teatro di colpo si svuotò, e scoppiarono liti e azzuffatine sulle precedenze, davanti ai cammarini di comodo. Poi, finalmente, il terzo atto principiò. La scena mostrava la galleria di un castello, con in fondo la sala del trono che si travedeva traverso una porta larga. Tutti, cantando, dicevano che stavano ad aspettare l'arrivo del re. «Quali re?» spiò la signora Restuccia che, essendosi alleggerita, sentiva interesse per cose dell'arte e della vita. «Ma che minchia mi vieni a spiare? Quali re! Che ne saccio, io? Chi ci capisce niente?» esplose il commendatore, e aggiunse: «Ripiglia sonno, che è meglio». Onore! Onore! Onor! Al prode vincitor! Per esso l'Inghilterra cessò la lunga guerra cantavano intanto in palcoscenico gli stessi che prima avevano cantato da birrai, poi da soldati e ora comparivano tutti vestuti con ricchi abiti da nobili ma sempre con le stesse facce. Preoccupato, Puglisi taliò verso il loggione, dalle parti di Lollò Sciacchitano, ma quello aveva attaccato turilla con un vicino e non s'addunava delle cose del palcoscenico. Dentro il triatro, va a sapere pirchì, tutto si era fatto calmo e sireno. Forse la gente si era stancata di parlare e arridere, aspittava solo con santa pacienza che la cosa finiva. Il prefetto pareva tanticchia meno arraggiato. Villaroel gli era tornato allato e stava col busto calato a mezzo, dato che il pinnacchio era tanto alto da toccare il soffitto del palco reale. Don Memè, con un sorriso che gli spaccava la faccia da un capo all'altro e lo raffigurava una stampa e una figura con un granato, un melograno, era all'altro lato del prefetto. Ma fra lui e Sua Eccellenza ci stava donna Giagia, la prefettessa, ferma che pareva una statua. Il sindaco, l'ultimo ospite del palco reale, si teneva la testa tra le mani e muoveva silenziosamente le labbra. Pregava. Puglisi niscì dalla platea, non più fermato dai militi che ora lo raccanoscevano, si fece mezzo corridoio, raprì una porta e si trovò su un pianerottolo dal quale si partivano due scalette, una che portava al palcoscenico e l'altra che scendeva al sottopalco. Pigliò la prima e arrivò tra le quinte, a un passo da quelli che stavano a cantare. Vide un uomo in tait, nirbuso, sudato, che si passava un fazzoletto una volta bianco sulla fronte. «Bonasira» disse. «Sono il delegato Puglisi. Ci vuole molto a finire?». «Diciamo mezz'ora. Ma sono assai preoccupato». «Magari io» fece Puglisi. «Io sono in pensiero per Maddalena, la soprano che fa la parte di Effy. Si è molto innervosita, sa? Per quello che sta succedendo in teatro. Nell'intervallo mi è svenuta e ho dovuto darle i sali. Poi non voleva rientrare in scena. Non so se reggerà sino alla fine». «Andiamo bene. Lei, mi perdonassi, chi è?». «Sono l'impresario. Mi chiamo Pilade Spadolini. Sono il nipote di Sua Eccellenza Bortuzzi, il prefetto». «Tutto in famiglia» pensò Puglisi, ma non disse niente. «Ecco, guardi, ora viene il momento più delicato, il duetto tra Effy e Anna: qui Maddalena è impegnata al massimo». «Ebben, che dite?» cantò sul palco con aria sfottente Efly rivolta all'altra fìmmina, Anna, e poi, voltandole le spalle e taliando il pubblico: «(mi vuò un po' divertire)», Ma dalla faccia che si trovava, da come le tremavano le mani, era chiaro che non si stava divertendo per niente. «Ch'io sarò la sua sposa!» le arrispunnì Anna risoluta, taliandola con occhio infocato e mettendosi le mani sui scianchi. «Forse sì, forse no. Ah! Ah.!». «Ridete?» spiò Anna tra ammammaloccuta e arraggiata. «Sì, rido perché ancora non vi siete persuasa» cantò Effy che pareva sempre più arrisoluta a fare nésciri pazza di raggia la rivale. «No! No!» disse infatti quella con voce disperata. «Vi do un consiglio per vostro...». La parola che ancora Effy doveva dire era «ben», «per vostro ben», ma siccome la musica glielo permetteva, tra «vostro» e «ben» si fermò, si riempì i polmoni d'aria per sparare l'acuto e raprì la bocca. Proprio in quel preciso momento il milite Tinuzzo Bonavia, che pativa di attacchi di sonno tanto improvvisi quanto inarrestabili, s'addormentò di colpo, in piedi, nel posto dove faceva la guardia e cioè proprio davanti la porta, socchiusa, che immetteva sul palcoscenico e nel sottopalco. Appena appinnicatosi, le mani che reggevano il moschetto s'ammollarono, l'arma sciddricò, sbatté col calcio sul pavimento, scasciò. Il botto delle sparo improvviso, ampliato in virtù d'acustica teatrale, fece saltare tutti per aria, cantanti, orchestrali, pubblico, mentre la palla sfiorava il naso dello stesso Bonavia che principiava a perdere sangue come un maiale scannato e a fare voci come l'animale medesimo un attimo prima della scanna. Senonché Effy, che aveva ormai tant'aria dentro ai polmoni da far navigare una nave a vela, diede via al suo «ben», una frazione di secondo dopo lo sparo. Per lo spavento, al posto del «ben», ci niscì dalla gola una specie di sirena di papòre, rauca, potentissima, tanto che ad alcuni dei presenti, che avevano navigato nei mari del nord, parse addirittura la terrificante friscata che fa la balena quando viene arpionata. La signora moglieri del commendatore Restuccia, arrisbigliata nel mezzo di un sonno profondo e senza capire quello che stava succedendo, ci mise il carrico di undici. Gridò. Ora il grido, la vociata della signora Restuccia mènnule, fave, quanto scarricare merci e machinari che non lo fanno i miei òmini. E dunque sul fatto di chi travaglia bono e chi travaglia tinto, io ne saccio chiù assai di lei». Il maestro tirò dalla sacchetta nica del gilé il rilogio, lo taliò. «Grazie per la sua solidarietà» disse. «Ma s'è fatto tardi e devo tornare in classe». «Mi perdoni ancora un momento. Io sono qua perché mi è stato riferito che l'altro giorno, quando arrestarono suo padre, lei si mise a chiàngiri davanti a tutta la classe». «Ô vero. E ho subito domandato scusa ai miei addrevi che erano rimasti impressionati. Non dovevo farlo». «Lo doveva fare, imbeci. Ha dimostrato così che suo padre fa parte della sua famiglia. Ed io per questo sono qua. Maestro, so patri don Ciccio è un galantomo specchiato che si è trovato contro una cacata, salvando la faccia di chi mi sente, come il prefetto Bortuzzi, solo per avere detto pubblicamente come la pensava su questa minchiata del Birraio di Preston. E io mi sono pigliato la libertà di provvedere. Ho scritto due righe sulla quistione all'onorevole Fiannaca». «A Fiannaca? Ma l'onorevole manco vorrà starmi a sentire!». «A lei certo no, ma a mia sì». Il maestro si fece scuro in faccia, aprì due o tre volte la vucca come per parlare, la richiuse. «Che c'è?» spiò il commendatore. «Mi perdoni una domanda, e questo non è un modo di dire, me la perdoni per davvero, la domanda. Ma u zu Memè non se la piglierà a male?». Gli occhi del commendatore si fecero friddi friddi. «Memè è la mosca che si posa sulla merda. Non si preoccupi di Ferraguto. Lei domani a matino piglia il treno delle cinque per Misilmesi. Arriva alle sette e mezzo, alle otto tuppìa alla casa dell'onorevole e quello la riceve subito». «Che ha scritto in quella lettera?». «Nenti. Ho scritto che lei è persona di merito, che ha subito un'ingiustizia e che è amico mio». Alle otto spaccate, Minicuzzo Adornato si trovò nell'anticamera dell'avvocato onorevole Paolino Fiannaca, a Misilmesi. Appena s'appresentò, l'onorevole, magrissimo, altissimo, baffi alla tartara, l'occhio pazzo darrè gli occhiali a pinzanaso, giacchetta da cammara, pantofole ai piedi, isò le braccia e le tenne davanti a sé come a mettere distanza fra lui e Minicuzzo. «Mi scusi, ma è necessarissima una premessa. La lettera dell'amico Restuccia non specificava. A chi vuole parlare lei?». Minicuzzo lo taliò strammato, s'era levato di primo matino e si sentiva con la testa confusa. «Io vorrei parlare...». «Con l'avvocato Fiannaca?» interruppe pronto l'altro. «Con Fiannaca sì, ma non con l'avvocato» disse Adornato ricuperando una certa lucidità. «Con l'onorevole Fiannaca, allora?». Minicuzzo restò incerto. Fiannaca decise d'aiutarlo. «Ô questione politica?» «Nonsi. Almeno non credo». La faccia dell'onorevole s'illuminò. «Allora lei vuole parlare col Fiannaca presidente della Società di Mutuo Soccorso Onore e Famiglia?». «Con lui» fece Adornato che tanto stronzo non era. «In questo caso, dobbiamo nèsciri da qua, questo è lo studio dell'onorevole». Brandì un chiavino che aveva pigliato fra i tanti che stavano appesi al muro e fece 'nzinga a Minicuzzo di seguirlo. Vestito com'era, l'onorevole usci dal portone, svoltò a destra. Non si fermò davanti a un portoncino allato al quale c'era una targa smaltata con la scritta «PAOLO FIANNACA, AVVOCATO» e davanti al quale sostavano cinque o sei persone che al passaggio dell'onorevole devotamente s'inchinarono mormorando saluti e benedizioni. Qualche metro più in là c'era un altro portoncino con la sua targhetta a lato che questa volta recitava: «SOCIETA’ DI MUTUO SOCCORSO ONORE & FAMIGLIA». Appoggiato allo stipite ci stava un omo di due metri, vestito da cacciatore, coppola, scopetta sulle spalle, cartuccera torno torno la panza. «Dassi a mia» fece appena l'onorevole gli fu a tiro. Fiannaca gli porse il chiavino. Quello raprì la porticina, trasì, spalancò la finestra dell'unico stanzone che costituiva la sede della Società di Mutuo Soccorso. «Serve altro, cillenza?». «Nenti, aspetta fora». Lo stanzone, a parte una decina di sedie, due scagni, darrè di uno dei quali si assittò l'onorevole, e qualche lume a pitroglio, non aveva altro arredamento. Non si vedeva un foglio di carta, una cartella, un raccoglitore: in quella Società tutto veniva fatto a parole. «Il mio carissimo amico Restuccia mi ha scritto che lei sta patendo un'ingiustizia. E allora perché non si è rivolto alla giustizia?». «Perché se la giustizia fa un'ingiustizia, non può la stessa giustizia mettersi a fare giustizia fottendo se stessa». «Il ragionamento fila» fece l'onorevole. «L'ingiustizia la sta patendo lei?». «Nonsi, onorevole, me patre. Che è stato arrestato sotto accusa di latrocìnio per ordine del prefetto Bortuzzi». «Ah!» commentò secco Fiannaca. «E questa filàma d'essere un latro il prefetto l'ha fatta tirare fòra solo perché a me patre non piace l'opera di canto che il prefetto vole fare prisentare al teatro novo di Vigàta. Ha messo di mezzo il capitano Villaroel e don Memè Ferraguto». «Fermo qua» intimò l'onorevole improvvisamente attentissimo. E gridò: «Gaetanino!». Il cacciatore si materializzò come per un gioco di prestigio. «C'è cosa?». «Per favore, ripeta a Gaetanino quello che ha detto ora ora a me». Minicuzzo si sentì pigliare dalla raggia, che volevano quei due da lui? Era una minaccia? «Lo ripeto magari davanti a Cristo. Il prefetto ha mandato in galera mio padre con l'inganno e la complicità del capitano Villaroel e di quel gran cornuto di don Memè Ferraguto». «Ho sentito bene?» spiò calmo l'onorevole. «Ha detto che don Memè è un cornuto?». Minicuzzo capì che la sua vita, quella di suo padre e della sua intera famiglia erano sospese alla risposta che avrebbe dato. Scoprì un coraggio che non pensava di possedere e fu più la scoperta che la tensione a farlo sudare. «Sissignore. Don Memè è un gran cornuto». L'onorevole lo taliò un momento, poi si volse al cacciatore. «Gaetanino, hai sentito con le orecchie tue. Questo signore, che mi è stato appresentato dal commendatore Restuccia, è persona nostra. Da oggi in poi se, metti caso, esce in un giorno che piove e scìddrica sul bagnato, voglio che non tocchi terra, voglio che allato a lui ci sia qualcuno che lo piglia a volo. Mi sono spiegato?». «A perfezione». Gaetanino si toccò la coppola con due dita e niscì. «E ora a noi» fece Fiannaca. «Ripigliamo tutto daccapo. Sono tre mesi che manco dalla Sicilia, sono sempre stato impegnato in Parlamento. E su questa quistione mi sono solo arrivate voci delle quali io, onestamente, non ci ho capito una minchia. Mi vuole spiegare cosa sta succedendo a Vigàta?». Verso le tre di dopopranzo don Memè, arraggiato che gli pareva niscisse fumo e foco dal naso, stava a sorvegliare quelli che attaccavano sui muri di Vigàta i manifesti della prossima rappresentazione. Perché, mentre a Montelusa e nei paesi vicini, i manifesti attaccati restavano, quelli imbeci attaccati a Vigàta dopo manco mezz'ora non c'erano più e non si sapeva che fine avessero fatto. Don Memè aveva stabilito di seguire di persona l'attaccatura (la terza! figli di troia), fino a quando la colla non avesse preso, perché una volta la colla pigliata, strazzare i manifesti per quelli che ci avevano la 'ntenzione sarebbe stato assai più difficile. La sua attenzione al travaglio degli attacchini venne distratta da un trotto di cavallo che si smorzò arrivato alla sua altezza. Don Memè sollevò la testa e vide che sul cavallo ci stava Gaetanino Sparma, camperi dell'onorevole Fiannaca di Misilmesi. Camperi per modo di dire, perché era cosa cognita all'urbi e all'omo, primo, che Gaetanino non era capace di distinguere un olivo da una vite e, secondo, che l'onorevole non aveva manco un orto. Era un eufemismo: stava a significare che Sparma era addetto agli altri «campi» di cui Fiannaca s'occupava. E questo don Memè lo sapeva benissimo. «Don Gaetanino! Che piaciri! Come mai dalle parti nostre?». «Sugnu di premura e di passaggio». «Scinnissi un momento, ci offro un bicchieri di vinu». L'altro scese, reggendosi la scopetta che teneva sulla spalla, e si strinsero con forza le mani. «Vossia, don Memè, mi deve pirdonari se non accetto. Ma veramente non tegnu tempo. Mi sono trovato qua di passata». E non disse più una parola, limitandosi ad aggiustare le redini. Don Memè, di colpo, capì che la cosa era seria e che toccava a lui di parlare. «C'è cosa? L'onorevole...». «L'onorevole» tagliò l'altro «mi disse proprio stamatina che se avevo il piacere d'incontrare a vossia ci dovevo dire una parola». «Agli ordini». «Ordini? Sempre preghiere umilissime. L'onorevole ci vole fare assapere che per la facenna del falegname fatto arrestare sicuramente ci fu errore. Errore suo di vossia, don Memè». «Ah, sì?». «Sì. E che c'è puro errore nella vostra troppa amicizia col prefetto». Don Memè si fece giarno. «Io vorrei spiegare» principiò. L'altro lo taliò fatto di ghiaccio. «A mia? Vossia vuole spiegare a mia? Io nenti ne capiscio di queste cose, io faccio solo quello che mi viene comandato. Se vossia havi da spiegare ànichi cosa, la deve spiegare all'onorevole». Rimontò di furia sul cavallo e ripartì al galoppo senza manco salutarlo. Dopo che don Memè, pallido ma deciso, fece un concitato discorso ai Lumìa, marito e moglieri, la signora mandò a chiamare il capitano Villaroel. A sua volta pallida ma altrettanto decisa, spiegò al capitano come sant'Antonio, apparsole in sogno, l'avesse illuminata facendole tornare la memoria: era stata lei a nascondere i gioielli, scantandosi che una serva nova glieli potesse arrubbare. Poi se n'era completamente scordata. Occorreva provvedere subito, un innocente come il falegname, a torto accusato, non doveva stare in càrzato un minuto di più. Lei era pronta a pagare il danno per la falsa accusa. fàvuso. Mi spiegai?». «Si spiegò. E lei che pensa?». «Che al teatro è stato dato foco intenzionalmente». «Questo lei è tenuto a pensarlo, mi scusi, perché questo pensiero, se dimostrato, farebbe sparagnare alla sua società una barca di soldi. La quistione è che non basta solo il pensiero». «Delegato, io non ho pensiero. Ho precisa e convinta pinione, confortata da certi fatti. La cosa, mi creda, è penale. Per questo venni da lei, per pregarla d'accompagnarmi al teatro. C'è qualche cosa che devo farle vedere. Vedrà che non parlo a filo di vento». «Ora?». «Ora stesso» fece implacabile il picciotto Filastò. Pioveva ad assuppaviddrano, quella pioggerella rada che manco pare che stia piovendo e il contadino, il viddrano, continua a travagliare nel suo campo fino a sera e alla fine si ritrova assuppato peggio del sdilluvio universale. Mentre andavano verso il teatro, Puglisi sentiva che il vestito gli si ammollava, i pantaloni ora gli permettevano un passo più sciolto. «Mi stia a credere» disse Filastò. «Io sperienza di foco ne ho assai. So come nasce, come cresce, com'è capriccioso, quanto basta un niente a fargli cangiare idea, direzione, forza. Il foco nel teatro principiò dalla parte di dietro, da darrè, e non dal salone dove stava la gente». »Su questa storia di dove il foco pigliò, magari io ci avevo fatto una mezza pensata« disse Puglisi. Erano arrivati davanti la porticina che immetteva nel sottopalco. tutta abbrusciata e con quel signo nìvuro e bianco di fiammata che s'allungava sul muro, sopra il riquadro dell'apertura. «Il foco, come si può vedere, tirava da qua» disse il perito. «Ô da qua che pigliò corpo. Poi fece una mezza curva di ritorno e principiò ad attaccare il darrè del palcoscenico. Da lì si mosse verso il salone. Tutto al contrario di quello che la gente crede. Chi ha dato foco, ha rotto magari i vetri delle vasiste perché ci fosse maggiore tiraggio. Vede, delegato? I vetri rotti delle vasiste sono caduti dentro il soppalco, e non fora. Ora venga con me». Trasìrono scendendo i gradoni che avevano resistito. E appena entrato, Filastò accese un lume a pitroglio che aveva in precedenza, neì primo sopralloco, posato ai piedi della scala. «Taliassi qua» disse indicando un posto proprio allato alla porticina. «Qua i macchinisti mi hanno detto che ci stavano le scene arrotolate e messe vicine alla porta, pronte ad essere portate fora e ad essere carticate quando lo spettacolo finiva, Taliassi. Che cosa sono questi pezzi di creta, a sua pinione?». «Mi pàrino i resti di un bùmmolo, che so, di una quartarella. Sicuramente qualche cosa per metterci l'acqua da bere». «Nonsi, si sbaglia. Mi stassi a seguitare». Il giovanotto posò il lume, s'acculò, principiò a mettere in ordine i pezzi di creta, facendoli combaciare. Quando finì, tenendo tra le mani la cosa di creta che minacciava a ogni momento di tornare a ridursi a pezzi, si rivolse al delegato. «Non è un bummolo né una quartarella. Non è fatto per tenerci dentro l'acqua, lo taliasse bene». »Ô un caruso, un sarbadanaro« fece Puglisi stupito. «Giusto» fece Filastò. «E altri pezzi di un secondo sarbadanaro si trovano più in là, dove ci stavano i costumi della compagnia». «Certo che è curioso che a tutta la gente del tiatro ci venne all'improvviso una botta di risparmio» commentò Puglisi che non si capacitava. Filastò fece cadere i pezzi del sarbadanaro per terra, in mano gliene restarono solo due che mise sotto al naso di Puglisi. «Sciaurassi» disse. Puglisi accostò il naso, odorò, una ruga gli apparse sulla fronte. «Sa di pitroglio» disse. «E mi crede se le dico che magari gli altri pezzi del secondo caruso fetono di pitroglio?». «Ci credo. Ma che significa?». Filastò non arrispose, rimise a posto i due pezzi, si puliziò le mani sul vestito che ora non si capiva di quale colore fosse stato. «C'è quarcheduno in paese che fabbrica o vende cose di creta?». «Sì, c'è don Pitrino». «Andiamolo a trovare». «Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno» disse rassegnato Puglisi allargando le braccia. Mentre facevano la strata, il delegato sentì la necessità di complimentarsi col giovanotto. «Certo che ci vuole occhio a capire che quei pezzi di creta non erano cose di rottura a scascione del foco». «Ci vuole occhio, sì. Ma è come un ioco, una scommessa. Uno talìa tutto il danno che il foco ha fatto, talìa attento, talìa e ritalìa e poi dice: c'è qualche cosa che non quatra. E ritalìa di bel nuovo nuovamente fino a quando non scopre che è quello che non quatra». Zu Pitrino salutò con un sorriso il delegato, Puglisi gli stava a genio. «Il mio amico qua» disse il delegato «vorrebbe accattare un caruso per suo figlio nico». «Ne ho di tutte le grannizze». «A lui c'interessa un caruso mediamente accussì». E con le mani segnò la grandezza. «Grandi accussì ne ho una mezza dozzina» disse il vecchio. «Venite nel recinto». Darrè la casetta, il recinto era stipato di bummola, bummoliddri, quartare, quartareddre, cocò, giarre, giarriteddre, graste, tannùra, canala. Il vecchio, mentre stava loro indicando il loco dove ci stavano allineati i carusi, si fermò imparpagliato. «Che c'è?» spiò Puglisi. «C'è che carusi come quelli che voli l'amico qua, aieri a dopopranzo li contai e ce n'erano sei, ora ce ne stanno solo quattro. Vede lo spazio vacante e quei due circoletti a terra che indicano il posto dove stavano? Si vede che qualche figlio di laida buttana stanotte scavarcò il recinto e me li fotté» Filastò e Puglisi si scangiarono un'occhiata rapida d'intesa. Il vecchio si calò a pigliare uno dei quattro carusi che restavano. «Accussì va bene?». Andava bene. Allora Filastò domandò che il caruso venisse riempito di pitroglio, che era merce venduta nella putia. Zu Pitrino, per quanto la richiesta fosse stramma, non fece domande, si limitò a eseguire con qualche difficoltà. Filastò si fece magari dare un pezzo di pezza. Puglisi pagò e uscirono. A una decina di passi dalla casuzza del vecchia, già era campagna aperta. Filastò fece praticamente vedere al delegato come funzionavano il caruso, il pitroglio e il pezzo di pezza. Dopo si allontanarono che alle loro spalle i cippa, i legnetti e gli sterpi che il giovanotto aveva ammucchiato per gettarci contro il caruso, ancora abbrusciavano malgrado fossero assuppati di pioggia. «Lei come c'è arrivato?». «Vuole dire ai due carusi usati in questo modo? Non ci sono arrivato io, me ne sono solamente arricordato. La nostra compagnia d'assicurazione è grande. Ha uffici in tutta Italia e questi uffici si scangiano informazioni sui modi sempre diversi che la gente strumentìa per fottere l'assicurazione. Ho fatto mente che il nostro agente di Napoli e magari quello di Roma ci avevano segnalato due casi che...». «Di Roma?» interruppe Puglisi, di colpo attentissimo. «Sì, di Napoli e di Roma». «Mi scusi, vorrei una sua pinione. Perché secondo lei hanno dato foco al tiatro?». «Bah, non saprei. O forse perché a Vigìta c'è quarcheduno che vuole fottere il prefetto più di quanto il prefetto non si sia fottuto con le sue stesse mani». «Mi scusasse ancora, ma lei è veramente convinto che l'incendio è scoppiato qualche ora dopo che tutto era finito e che la gente se n'era tornata a casa? Mi spiego meglio: dopo assai del tempo ragionevole perché un incendio casuale abbia modo di nascere e crescere?». «Non c'è dubbio: l'incendio è stato appiccato a freddo, dopo qualche ora che a Vigàta era tornata la calma». «Non mi persuade». «Che cosa?». «Che qualche vigatèse, dopo che tutto è tornato calmo, alla scordatina ci ripensa come un cornuto e manda a foco il triatro. Non è maniera della gente di qua, questa è mano stranea». Tornati in centro, Filastò lasciò il delegato. «Rivado in teatro, a cercare altre conferme. Lei, di massima, è d'accordo che l'incendio è doloso?». «Sono d'accordo». Si salutarono taliandosi con simpatia. Poi il delegato voltò le spalle e quasi si mise a correre verso il suo ufficio. «Sellatemi il cavallo, di corsa». A mezza strata verso Montelusa, con l'acqua tornata forte, cadì da cavallo per la stanchizza, s'allordò ancora peggio il vestito, si fece male a una spalla, rimontò e ripigliò il galoppo per quanto glielo consentiva alla vestia il terreno bagnato. In questura lo taliarono curiosi e strammati a vederlo in quelle condizioni, e magari il dottor Meli, «u tabbutu», manifestò la pinione che gli altri avevano pensato ma non detto. «Cosi come siete combinato, non potete farvi vedere dal questore». «E allora al signor questore ci parlasse lei per conto mio». «Vi devo avvertire che il questore è irritato assai con voi per il biglietto che gli avete fatto avere. Domandate tre giorni di tempo per le indagini e va bene, però avete aggiunto che queste indagini avrebbero potuto coinvolgere alte personalità. Vi pàrino cose da mettere nero su bianco, senza nessuna quatèla?». Puglisi avvampò di raggia. «Ecco, dato che ci siete: fate sapere al questore che quando scrissi alte personalità io usavo il plurale per mantenermi largo ma pensavo solo al prefetto. Ora mi sono persuaso che il plurale era giusto». «Ci sarebbero altre personalità implicate?». «Sissignore». «Per esempio?». «Per esempio la persona con la quale andrete a parlare tra un momento». Il dottor Meli fece un salto in aria, un salto vero e proprio, tanto che alla ricaduta un vetro della finestra tintinnò. Impallidì, strinse con violenza un braccio del delegato, sibilò faccia a faccia: «Vi rendete conto di quello che state dicendo?». «Perfettamente. Perché non mi avete dato subito l'ordine d'arrestare il mazziniano venuto da Roma?». «Muto!» intimò Meli. «Venite nel mio ufficio!». l'uscita, vennero, per così dire, arretrate in seconda linea, mentre ad attaccare i militi si misero i picciotti più forti e i signori disposti a giocarsi la partita. Ora corre l'obbligo di precisare che al caporale Caruana Vito, quando aveva ricevuto l'ordine di non fare nèsciri anima viva dal triatro, era venuta la pensata di chiudere a chiave tutt'e due le file dei palchi, dato che i chiavini si trovavano appesi di fora. E quindi gli occupanti dei palchi per un certo tempo non poterono fare altro che tentare di sfonnàre le porte che però solidamente resistevano. Diversa invece era la situazione per tutti quelli della platea e della piccionaia che non avevano porte da abbattere, ma che si trovavano solo davanti i militi armati. Intanto quelli del primo ordine di palchi, scoperto dopo qualche tentativo che le porte non si raprivano, si addunarono che bastava scavalcare il parapetto e fare un piccolo salto per trovarsi nel più largo spazio della platea. E così fecero, tra di loro aiutandosi, e calando a forza di vrazza femmine e anziani. I più picciotti perciò, finita l'evacuazione, corsero ad appoggiare, a dare una mano a quelli della platea che cercavano di nèsciri. In piccionaia invece le cose stavano andando diversamente. Al primo botto di moschetto, alla sirenata del soprano e al sono tirrificante e misterioso che vi aveva fatto seguito, Lollò Sciacchitano e il suo amico Sciaverio si vennero a trovare automaticamente spaddra a spaddra, come era costume per loro in ogni sciarra di taverna. Si taliarono, con le teste voltate l'una verso l'altra, e senza parlare stabilirono il piano d'azione. Avanzarono lentamente verso un milite che li stava a taliare immobile e poi, quando furono arrivati a due passi, si lanciarono in avanti facendo vociate altissime. Atterrito, il milite alzò il moschetto e mirò. A questo punto i due gli voltarono le spalle e sempre vociando come pazzi si misero a correre in senso contrario. Istintivamente il milite currì dietro a loro, e fu la sua fottitina: Sciacchitano si fermò di botto, Sciaverio continuò a curriri e il milite gli andò appresso. Troppo tardi si accorse del trainello, alle sue spalle Sciacchitano gli sparò una gran botta darrè il cozzo con la mano di taglio e quello cadde come un sacco vacante. Il secondo milite che si trovò faccia a faccia con i due, ebbe sorte uguale con sistema diverso. Sciacchitano e Sciaverio gli si impiccicarono addosso e pigliarono ad ammuttare, a sua volta il milite ammuttò in senso contrario. Quando il terzetto si venne a trovare in posizione di stallo, i due si tirarono improvvisamente narrè di un passo e il milite, portato dalla forza della sua stessa spinta, cadde a facciabocconi in avanti. Sciaverio gli diede un càvucio in testa e lo mandò a dòrmiri, gli levò il moschetto e gli pigliò magari sei palle dalla cartuccera. I quattro militi arrimasti cedettero alla pressione dei loggionanti, uno cadì all'indietro rotolando per la scala, gli altri tre si scansarono mettendosi di lato. E la folla si precipitò abbascio, verso il salone di trasùta. Nella seconda fila di palchi la situazione pareva stazionaria, tanto che il capitano Villaroel raprì quatelosamente la porta del palco regio e taliò: nel corridoio non ci stava gente. Gli si avvicinò il caporale Caruana, unica anima viva. «Qui tutto è in ordine, signor capitano. Non ce la fanno a nèsciri dai palchi, li ho serrati dentro e le porte sono forti. Che devo fare?». «Vai sotto con i tuoi uomini a dare una mano ai militi in platea. Resto io a fare la guardia a Sua Eccellenza». Caruana obbedì, mentre Villaroel, sempre con la sciabola sguainata si metteva davanti al palco regio, l'occhio vigile. Nessuno dei due aveva messo in conto l'abilità ginnastica di Serafino Uccellatore, in gioventù ladro di case e ora stimato commerciante di cordami. Serafino, resosi conto che quelli della seconda fila erano prigionieri, dalla platea si arrampicò sulla balaustra della prima fila, vi si mise addritta, si reggé in equilibrio, agguantò i pedi di una statua di ligno che rappresentava una fìmmina nuda con le ali, si sospese in aria, artigliò la balaustra del palco di sopra, si tirò su a forza di vrazza e con mezza volata si venne a trovare dintra il palco, dove fu accolto da un applauso di quelli che stavano a seguire la sua manopera. Una volta dintra il palco, scocciò il revorbaro che si portava sempre appresso, mirò alla toppa, sparò. Il botto fu seguito da un urlìo ginerale, da un accrescimento di moto ondoso della gente. La porta si raprì. Sotto ai propri occhi spaventati, il capitano Villaroel vide una specie di atleta in corsa di velocità che spalancava tutti i palchi porta dietro porta e gli occupanti che ne uscivano vociando, come una grande evasione da un càrzaro. Squasicché i militi che si trovavano a difendere i due pianerottoli dai quali principiavano le scale che portavano abbascio non poterono fare altro che impiccicarsi al muro e dare via libera agli scappati. A questo punto, tutti i vigatèsi che erano andati a triatro si stiparono nel grande salone di trasùta. Ma nèsciri era impossibile: il tenente Sileci, che stava di fora coi suoi sordati, aveva fatto mettere dei pezzi di legno di traverso nelle maniglie della grande controporta di vetro e di ligno, in modo che dall'interno non fosse possibile raprirla. E per buon peso, una fila di militi teneva i moschetti minacciosamente puntati verso il salone. Sufficate dalla ressa, tre o quattro signore svìnniro e dovettero essere stinnicchiate per terra. Allo stesso modo come don Artemisio Laganà aveva in un certo senso pigliato il comando militare, il preside Cozzo stabilì che lui stesso era il capo civile. «Tutte le signore sbinùte da questo lato!» ordinò. Gli ubbidirono, e le signore, vuoi pigliate per i pedi e strascinate, vuoi tenute per testa e pedi e sollevate, vennero ammassate in un angolo del salone. «Tutti alla carica! Alla carica!» faceva intanto voci Laganà. «Ma ci sono fora i cavaddri!» gli disse uno. «E i militi hanno i fucili puntati!» rincalzò un altro. Mentre l'indecisione parse pigliare possesso dei salone, il capitano Villaroel, all'oscuro di quello che succedeva d'abbascio, stabilì che si poteva tentare una sortita. «Fuori tutti!» gridò agli occupanti del palco. Il prefetto, la prefettessa, don Memè e il sinnaco, che si teneva un fazzoletto assuppato di sangue sulla fronte, uscirono ed ebbero un ingannevole rasserenamento, visto che non c'era attorno a loro anima criata. Principiarono a scìnniri la scalonata, il capitano avanti con la sciabola e don Memè per urtimo a chiudere la marcia. Ancora sulle scale, appena arrivati a vista del salone, si trovarono di fronte a un muro umano smosso, agitato, in tempesta, pieno di voci di grida e di lamenti. Allora Villaroel urlò, con quanta voce poteva tirare fòra: «Largo a Sua Eccellenza!». E, tanto per non sbagliare, principiò a mollare piattonate a dritta e a mancina, all'urbigna. Così il gruppo poté arrivare fin dentro il salone ma qui non arriniscì più a fare un passo, né avanti né narrè. Tanto più che Villaroel, mentre continuava a fare voci e a usare di piatto la sciabola, si sentì puntare sul cozzo la fridda bocca di un moschetto. Era l'arma della quale si era impadronito Sciaverio. «Jetta la sciabula, strunzo!» Villaroel eseguì e della sua arma prontamente s'impadronì Laganà. «Alla carica! Alla carica!» ripeté brandendola e passando lo stocco a un signore suo vicino. Vista la baraunna che stava succedendo, saggiamente don Memè fece avvicinare il prefetto e la so moglieri in un angolo e li parò col suo corpo. Nel mentre Sciaverio, tanto per fare quarche cosa di novo, sparò un colpo del suo moschetto verso la controporta. I vitra si ruppero, provocando altre altissime vociate dalla folla. In tutta questa iradiddio, don Tanino Licalzi, detto «manolesta» perché aveva il vizio di toccare il culo, con un'abilità quasi sovrumana, a tutte le femmine che gli venivano a tiro, nell'ammuìno, nello scuro e folla aveva fatto una tale provvista di toccatine che la mano dritta gli doleva. Ma ora si fissò che alla sua collezione mancava il culo della signora moglieri dei prefetto. Tanto fece e tanto disse, manovrando in mezzo alla folla tumultuante, che si venne a trovare proprio allato alla prefettessa. Con gli occhi chiusi per il piacere pregustato, allungò una mano, trovò una chiappa coperta di seta, strinse. «Mi stanno to'ando i' culo!» strillò sbalordita, indignata e leggermente felice la prefettessa. Don Tanino, raggiunto lo scopo, si piegò sulle ginocchia e si fingì sbinùtu. Ma il grido della signora aveva raggiunto al cuore e all'onore don Memè il quale, pazzo di raggia per quel gesto sacrilego, scocciò il revorbaro dalla sacchetta e sparò tre colpi in aria. «Largo! Largo!» gridava con voce strozzata. Ai colpi, la gente più vicina si scansò e tanticchia di largo si fece torno torno a don Memè, al prefetto e alla signora che continuava a murmuriare: «M'hanno to'ato i' culo!». Sentiti i tre colpi di revorbaro, il preside Cozzo decise di passare all'azione. Questa volta il suo revorbaro lo scocciò per davvero, dopo anni che ci provava. L'indice sul grilletto, ci pensò un attimo sentendosi in bocca un sapore di limone, poi sparò. La pallottola, felice di libertà dopo decenni di chiuso, si scapricciò lungo un percorso che avrebbe fatto uscire pazzo un esperto di balistica. Colpito il tetto del salone, deviò verso una parete e pigliò quella latata del bassorilievo in bronzo che rappresentava la faccia del maestro Agenore Zummo (1800-1870), eminente capo del «Circolo di musica» di Vigàta. Dall'occhio destro del maestro Zummo la pallottola si diresse verso l'enorme lampadario centrale, sfiorò un pinnacolo di rame e, a parabola, andò a conficcarsi poco sotto la pelle del cozzo del sindaco che intanto non arrinisciva ad attagnare il sangue dalla fronte. Nuovamente ferito, il sinpaco lanciò una vociata di porco scannato e cadì a piombo sul pavimento spaccandosi il naso. Sempre per non sapere né leggiri né scrivere, Sciaverio, ammucciato darrè gli ampi sederi di tre dame svenute e messe l'una sull'altra, sparò un altro colpo di moschetto a dove viene viene. A questo punto, nello spazio libero che si era formato attorno a don Memè e ai suoi due protetti piombò il tenente Sileci col suo cavaddro. Si era fatto aprire la controporta dai suoi militi che rimanevano però di guardia a impedire l'uscita alla gente. Il salto fu d'antologia ippica, il tenente non l'aveva imparato a una scuola d'equitazione ma dalla frequentazione fraterna con un brigante latitante che andava a trovare alla macchia nelle ore libere per diletto, simpatia e rapporti d'affari. Sileci si chinò dal cavaddro, pigliò la prefettessa per un vrazzo e se la mise davanti sulla sella, agguantò il prefetto, lo isò e se lo mise darreri. Spronò il cavaddro, a questo punto, per farlo satare novamente e farlo tornare narrè. Ma la vestia, appesantita, non ce la fece. Fu proprio allora che il preside Cozzo, in preda letteralmente all'estasi per aver potuto usare il revorbaro, tirò un secondo colpo a ridesse alle grecchie del cavaddro. Il quale, atterrito, satò tutta la folla e si trovò fora del triatro. Sileci, aiutato dai militi, trasportò la prefettessa e il prefetto nella loro carrozza e li spedì a Montelusa facendoli scortare da quattro dei so òmini. Il passaggio del cavaddro di Sileci però aveva inevitabilmente aperto un varco momentaneo tra i militi di fòra e la folla ne approfittò, scatasciandosi di colpo all'aperto, intanto che le luci della piazza si astutavano. Era successo infatti che na poco di picciotti del paìsi, per dare aiuto ai compaesani che stavano dintra il triatro, avevano pinsato che lo scuro della notte sarebbe stato amico e perciò, ligati con le corde tre fanali a tre cavaddri, li avevano divelti. Senza che ci fossero né una ragione né un ordine i militi attaccarono allora nella piazza e per le strate la gente che si stava di corsa allontanando. E qui capitarono altre storie. Come quella di Sciaverio che, assicutato da un milite, gli sparò un colpo che lo pigliò alla mano o come quella del milite Miccichè Francesco che, andando appresso a uno, nel passare dintra un vicolo stritto stritto gli arrivò in testa un càntaro chino di merda e pisciazza. A tutta la battaglia il diligato Puglisi non partecipò. Fin dal principìo del burdello si era assittato sconfortato su una seggia della platea e si era pigliato la testa tra le mani. tutta coscienzia, magari stavolta è stato lui. Puglisi si sbaglia». «Se sete cussi convinto che a dà foco ar teatro è stato sto pazzo coione, perché sete venuto stanotte qua a rompe er cazzo?». Traquandi stava nirbuso, aveva tirato fora dalla sacchetta il fazzoletto e si asciucava in continuazione la vucca. «Perché la cosa è complicata. E ora vegno e mi spiego. Puglisi non solo è pirsuaso che chi desi foco al tiatro, e fici du morti, è il mazziniano arrivato da Roma, ma ebbe il coraggio di dire al questore che se iddru ci dava l'ordine d'arrestarlo immediatamente, a questo romano, quello non avrebbe avuto né modo né tempo d'abbrusciarlo, questo santo tiatro. E quindi di consequenzia puro il questore è, sempri seconno Puglisi, risponsabile del burdello. E questa è cosa seria assà, Puglisi è uno scecco gessaro». «Che cazzo vor di?». «Viene a dire che è uno che va avanti per la strata sua, e succeda quello che deve succedere, magari la morti di Sansone con tutti i filistei. Mi sono spiegato?». «A perfezione» fece Decu. «A questo punto io, di mio principio, senza dire nenti a nisciuno, pigliai la decisione di trovare un modo d'arrisorbìri tutto. Siccome il questore ha dato ordine a Puglisi d'arrestare il romano domani a matina presto, verso l'arba, cioè fra qualche orata, io sono venuto di corsa qua. Se quanno arriva Puglisi trova a tia, Decu, che te ne stai a durmìri come un angileddro, solu, e senza che ci sia segno del passaggio ne la to casa del romano, tutto addiventa una fantasia del diligato Puglisi. Non ci sono prove, non c'è niente». «Ho capito» disse Traquandi. «Seconno voi io me ne devo annà fora de qua de prescia». «Preciso» fece Girlando. «E vabbè. Ma me metto a scappà cussì? Ndo vado? Ndo coro?». «Scappare accussì, no. Vi ripiglierebbero subito e allora sarebbero cazzi amari, in primo loco pi mia che vi ho fatto scappari». «E allora?». Girlando fece una pausa artistica, astutò il mozzicone di sicarro. «Al bivio, a cento metri da questa casa, c'è un mio omo fidato che v'aspetta. Si chiama Laurentano e ha due cavaddri, uno è per voi. Se partite senza fissiarivilla, ora, domani a mezza matina siete dalle parti di Serradifalco, dove c'è una persona mia che vi può tenìri in casa per tre o quattro jorna. Poi provvede lui stisso dove mandarvi». «Allora bigna che me ne vo?». «E certo. In questa manera che io ho strumentiato s'arrisorve tutto. Puglisi non vi trova e perciò quello che ha pensato su chi ha abbrusciato il tiatro vale meno d'una merda, me cugino nega magari d'avervi canusciuto, io arresto Cocò Impiduglia e lo persuado a dire quello che voglio io, magati che diede foco a Roma ai tempi di Nerone. E accussì continuamo a campare tutti felici e contenti, questore compreso, paro paro a una storia di quelle che s'arricontano ai picciliddri per fargli pigliare sonno. Persuadetevi, non c'è altra strata. Pinsàteci fra voi due, io magari me ne vado fora di casa, a pigliare fresco». Ci pensarono, ci ragionarono, a momenti fecero a pugni, s'abbrazzarono, decisero. Traquandi raccolse le cose sue, strinse la mano a Decu e se ne niscì accompagnato dallo sbirro. «Aspettami arrisbigliato che ti devo parlare» sussurrò Girlando a Decu prima di accompagnare il romano. Tornò dopo manco un quarto d'ora, era contento. «L'amico romano ora è nella mano giusta. E tu mi devi ringraziare. Perché se non era per questa pensata mia, tu domani a matina ti trovavi nel càrzaro e tirarti fora sarebbe stato difficile assà. Ci sono due morti, Decuzzu, non te lo scordare». «Che devo fare quanno s'apprisenta Puglisi?». «Non devi fare nenti di nenti. O almeno, arràbbiati, fatti vedere meravigliato, fai voci di raggia. Intanto dammi questa scopetta, non mi piace che Puglisi qua dintra trova un'arma da foco. La jetto nel pozzo, appena nisciuto da qua. A Puglisi ci dici che non sai nenti di questo romano, che non l'hai mai visto, che sulla storia del tiatro sei 'nnuccenti come a Gesù bammìno. Magari se t'arresta perché s'è incaponuto, dopu mezza jurnata ti deve per forza rimettere in libertà. E ora dammi tanticchia di vinu, che mi pigliai di friddo» Camminavano lungo un viottolo di campagna, faceva già luce. A un tratto Laurentano, un burino come tanti Traquandi ne aveva visti in quei giorni, si arrivolse al romano senza manco voltare la testa. «Vu siti di Roma?». «De Roma, sì». «E com'è Roma?». «Bella», «E u Papa, lu viditi?». Traquandi non capì la domanda. «Che avete detto?». «U Papa lu vidiri?». «No. Mai visto». «Maria santissima!» si meravigliò Laurentano. «Vu siti di Roma e non avete mai veduto il Papa? Se io abitassi a Roma, tutta la santa jurnata starei, inginucchiuni, davanti a la chiesa indovi se ne sta il Papa, ad aspettari di vidirlo e di addumannàrici perduno di tutti li me piccati. Ma vui, seti cristiano o no?». Traquandi non rispose. E Laurentano non raprì più bocca per tutte le ore di viaggio che seguirono. Quasi nello stesso momento in cui Girlando lasciava il cugino Decu fra abbracci e baci, il diligato Puglisi si trovava nel salone di casa Mazzaglia, «C'è don Pippino?». «Sì, ma è curcato, non si sente bono. Ora ci spio se può arriceverla». La cammarera s'allontanò. E su Puglisi nuovamente calò la stanchizza di corpo e di cuore che se ne stava acquattata nei momenti in cui lui parlava o faceva ma che nisciva fora appena restava solo, magari per qualche secondo. Capì che non poteva arreggersi addritta, si appuiò alla spaddrera di una seggia e gli parse magari che quarche cosa di scuro, svolazzante, gli fosse passata davanti agli occhi. Tornò la criata. «Putiti vèniri. Don Pippino sta meglio». La seguì e si trovò nella cammara di letto di Mazzaglia che se ne stava con tre cuscini darrè la schina, era giarnu, teneva la vucca aperta come se assufficasse. Con una mano che tremava fece 'nzinga al diligato d'assittarsi su una poltrona allato al letto. «Non haiu fiato pi parlari» disse don Pippino. «Lo vedo. E perciò, se vossia mi permette, io faccio a voscenza una sola addimanda». Mazzaglia cori la testa fece signo di sì, che era d'accordo. «Unn'è u romano?». E siccome Mazzaglia aveva isato una mano come a fermarlo, Puglisi continuò senza dargli tempo di rapriri viicca. «Lo saccio che da vossia il romano non c'è, perché vossia non dava ricetto in casa a uno che è capace di dare foco a un tiatro e ad ammazzare, senza starci a pinsari, due poveri 'nnuccenti. Vossia non è persona capace di queste cose. E io sugnu qua per spiare: unni è ammucciato quest'assassino?». «Non lo sacciò» disse don Pippino con un filo di voce. «Io invece saccio una cosa: che vossia è caduto malato perché ha avuto a che fare con questo dilinquente». Don Pippino serrò gli occhi, parse farsi ancora più giarno in faccia. «Vossia non parlassi, che parlo io. Io mi sono fatto conto e ragione. Vossia non si mette con una carnetta come questo Traquandi, e non ci si mette manco don Ninì Prestìa, che è un galantomo come vossia. E, ci pozzo mettiri la mano sul foco, non ci si mise manco Bellofiore. E allora, di tutti voi mazziniani, resta solamente un nome. Quello di Decu. Mi sto sbagliando?». Mazzaglia non disse né sì né no. «Ô Decu che si tiene in casa il romano?». Il vecchio non si cataminò. «Grazie» disse Puglisi susendosi. «Lo vado a pigliare». La mano di don Pippino scittò, serrò forte il braccio del delegato. «Statti attento, questo romano non è cosa». «Pirchì mi fa arruttari e pisciari». «E a mia mi fa arruttari, pisciari e piritiari». Risero. Ma le risate vennero ìnterrotte da una voce cortese. «C'è primissu? Pozzo arrìdire magari io?». I due si voltarono sorpresi. Gli occhi azzurri, il largo sorriso cordiale, l'atteggiamento composto dell'uomo li fecero cadere nel trainello. «Nautri stiamo arridendo per i fatti nostri. Se voi avete quarche cosa per arridìri, arridìti per i cazzi vostri» arrispose Cocò mentre pigliava Arelio sottobraccio e faceva per muovere un passo. «Fermi» disse uno dei due òmini con la coppola levandosi la scopetta dalla spalla. I due sensali si fermarono. Con violenza, don Memè, alle loro spalle, li divise, si mise in mezzo ai forasteri. »Ho detto che voglio arridìri magari io«. Arelio, distinto, isò una mano a colpire. Don Memè gliel'afferrò a volo e gliela torse darrè la schina mentre centrava con un càvucio i cabasisi di Cocò che cadì 'nterra lamentandosi e tenendosi le mani sulle palle. Una decina tra sfacennati e persone che passavano si fermarono a taliàre, ma tenendosi a debita distanza. Arelio fu lesto a ripigliarsi, si scostò d'un passo sfilando dalla cintura un liccasapone con trenta centimetri di lama affilata. «Ah ah» fece ammonitivo don Memè portando la mano destra verso la sacchetta posteriore dei calzoni dove teneva il ferro, il revorbaro. Dall'improvviso stracangiarsi della faccia di quell'omo, Arelio capì che non era cosa, quel gesto non era fatto solo per mostra. Arelio serrò il liccasapone, se lo rimise alla cintura. «Scusassi» disse a bassa voce. «Tutti possiamo sbagliare» fece don Memè. «Bona jurnata». Voltò le spalle ai due e si allontanò. Era contento, gli veniva di cantare: tutti avevano visto quello che capitava a sfottere l'opira. Il paìsi, del fatto, ne sarebbe stato informato in meno di un'ora. Arelio intanto stava aiutando Cocò a mettersi addritta, da solo non ce la faceva, se ne stava piegato in due e si lamentava. Nessuno di quelli che stavano a taliàre la scena fecero 'nzinga d'aiutarli. «Ma si può sapere unni minchia abbiamo sbagliato?» si spiò Arelio. Non aveva risposta da darsi né gliela diedero gli sfacennati che ripigliarono a sfacennare né quelli che si trovavano di passaggio che ripigliarono a passare. «...ecco perché ho voluto testardamente che a Vigàta quest'opera si rappresentasse. Altra cagione non v'è e quale essa sia stata niuno potrà mai scovrirla, essa si tien celata nell'intimo del cuor mio e del tuo. Questa sera siederemo in teatro nel palco Reale l'uno accanto all'altra, non più distanti come allora, e ti stringerò fortemente la mano. Te la stringerò a rimembrare i momenti più belli del nostro primo incontro. Godiamoci insieme, adorata, questo regalo che il tempo e l'occasione m'hanno permesso d'offrirti, arra di futura felicità. Ti bacia, con la dolcezza che tanto ti piace, il tuo per la vita Dindino». Pigliò una busta, ci scrisse sopra «alla mia Giagia» e, senza manco chiuderla, se la mise in sacchetta. All'ora di mangiare, trasì nella cammara da letto e la posò in evidenza sotto lo specchio della toletta. Non ebbe, come sperava, pronta risposta tanto che pensò che Giagia non se ne fosse addunata, però, quando tornò a taliare nella toletta, la busta non c'era più. Il silenzio di Giagia durava magari in carrozza, mentre andavano da Montelusa a Vigàta. La signora pareva distratta, ora s'aggiustava i capelli, ora si rassettava l'abito. Possibile che si fosse pigliata la lettera senza manco leggerla? Il prefetto non resistette. «Hai letto la mi' lettera, Giagia?». «Sihuro. Grazie, Dindino». Giagia era fatta hosì, un c'erano santi. Un anno dopo che s'erano maritati lui le aveva regalato un pendantif che per homprarlo s'era dovuto vendere du' poderi del su' pooro nonno. E lei, per tutta risposta: «'arino». Dopo una pausa, mentre venivano sballottati per la strada infame, lei aprì nuovamente la bocca e disse: «Però te tu ti sbagli, Dindino». «Hosa sbaglio?». «La data, Dindino. Io nun venni mi'i allo spettaliolo di cotesto birraio. Io un l'ho mai visto. Un l'ho mai udito». «Stai scherzando?». Prima di rispondere, si toccò i capelli, il petto, l'anca sinistra, l'anca destra, gli occhi, le labbra. «No, Dindino mio, mi'a scherzo. Io quella sera in teatro 'un son venuta. Son rimasta a 'asa con la mi nonnetta. Avevo le mie hose, Dindino, e stavo tanto male. Ne son certa, Dindino, sono andata a riguardarmi il diario. Son rimasta a 'asa», «Ma noi due non ci siamo visti per la prima volta alla Pergola?». «Certo, Dindo, al teatro della Pergola, ma sei giorni dopo. L'era mi'a questo birraio ma un'opera di Bohherini, mi pare si chiamasse La Giovannina o qualche hosa di simile». «Si chiamava La Clementina, ora mi ricordo» disse torvo Bortuzzi e quindi ammutolì. L'aranci erano più abbondanti L'aranci erano più abbondanti del solito, quell'anno. Puglisi lo notò mentre con Catalanotti si appostava darrè un muretto tirato a secco a pochi metri dalla casa di Decu. L'alba si faceva tenere compagnia da un venticeddro camurrioso e friddo, la jurnata s'appresentava scurosa. Il diligato quel friddo doppiamente lo pativa per mancanza di sonno, non aveva voluto pigliare letto, era sicuro che appena disteso sarebbe sprofonnato in un sonno ferrigno di almeno quarant'otto ore. E perciò, la sira avanti, dopo avere parlato con don Pippino Mazzaglia, se ne era juto a casa, si era lavato, cangiato d'abito e si era messo a passiare dintra la càmmara. Dopo un certo tempo aveva sentito necessità di nèsciri, di pigliare aria, si era diretto alla plaja e aveva principiato a camminare a ripa di mare, pensando alla minchiata che aveva combinato con Agatina. Minchiata sì, perché se quella storia la continuava, come ne aveva desiderio, senza fallanza suo marito ne sarebbe venuto a canuscenza. Geloso com'era, si sarebbe arribbellato. E lui, il diligato, l'omo della liggi, avrebbe dato scannalo a tutto il paìsi, sarebbe diventato di malo esempio. Nenti: con Agatina, quando l'avrebbe rivista, tutto doveva parere come se fra loro due la cosa non fosse mai successa ma non solo, Agatina stissa avrebbe dovuto capiri che non ci sarebbero stati altri incontri. «Se sto fermo ancora cinque minuti, addivento rigido come uno stoccafisso» gli disse a bassa voce Catalanotti muovendo le dita per non farle intorpidire. «Tu non ti cataminare da qua» fece il delegato. «Guardami le spaddri e non viniri allo scoperto se non ti chiamo io», La casa dei Garzìa, che un tempo erano state persone ricche e di riguardo, oramai era alle sfacelo. Il tetto era mezzo sfunnato, il tettomorto solo in parte faceva da riparo all'acqua e al vento perché in più punti era spertusato anch'esso, alle finestre e al finestrone centrale del piano alzato non c'erano più né persiane né vitra. Chiaramente quelle di sopra erano cammare inabitabili, Decu e il suo amico romano per forza dovevano starsene a dormìri al piano terra. Calato tutto in avanti, Puglisi si fece una corruta fine alla porta. Non successe nenti. Allora si mise di lato, allungò un vrazzu e tuppiò. Nisciuno arrispunnì. Tuppiò più forte. «Cu è?» spiò una voce impastata di sonno dall'interno. Puglisi immediatamente si fece persuaso che quello che aveva risposto stava facendo tiatro, si capiva che faceva finta di essere stato arrisbigliato proprio in quel momento. «Io sono, il diligato Puglisi. Vi devo parlari. Venite fora». «Ora vegnu, un minuto di pacienza» disse la voce non più addrumisciuta ma vigile, attenta. La porta si raprì e spuntò Decu in mutande e maglia di lana, una coperta sopra li spaddri. «Bongiornu, diligatu. Che c'è?». «Unn'è il romano?». Decu sbatté le parpibre facendo mostra d'essiri sorpreso, ma non sapeva recitarà. «Quali romano?». «Il romano ca è cu tia». «Volete babbiare? Solo sugnu. Trasìte voi stesso e taliàte». «Vai avanti tu» ordinò Puglisi, revorbaro alla mano. La ricerca del romano durò pochi minuti, dell'uomo non c'era traccia. Puglisi principiò a sentirsi pigliare da una raggia sorda, qualcuno sicuramente ci aveva pensato prima di lui a mettere le cose a posto, a fare scomparire il mazziniano. Ma la partita non era ancora persa. «Vestiti» disse a Decu. «Ce ne andiamo in caserma e parliamo tanticchia, tu e io, suli, faccia a faccia. E vediamo dopo chi è più sperto, se tu o io». Senza dire parola, Decu si assittò sul letto, si calò in avanti per pigliare le scarpe. Era disposto a fare tutto quello che gli aveva suggerito suo cugino, tanto contro di lui non c'era manco una minchia
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