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Recensire. Istruzioni per l'uso di M. Onofri, Appunti di Letteratura Contemporanea

Riassunto dettagliato di "Recensire. Istruzioni per l'uso" di M. Onofri per l'esame di Letteratura Contemporanea e Sistemi Editoriali

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 07/02/2023

Martie.J.
Martie.J. 🇮🇹

4.6

(30)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Recensire. Istruzioni per l'uso di M. Onofri e più Appunti in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! RECENSIRE. ISTRUZIONI PER L’USO 1. SCHERZO METAFISICO: SOLTANTO PER COMINCIARE Roland Barthes scriveva in Critica e verità (1966), che «nel momento in cui nasce una scienza della scrittura, muoiono ogni Letteratura e ogni Critica». C’è modo e modo di rapportarsi ai testi, ma è forse possibile individuare due atteggiamenti alternativi: da una parte, quello deduttivo della Teoria della Letteratura, dove il testo non è altro che un’estensione logica di un concetto di letterarietà, una sua verifica e una sua conferma; dall’altra, quello induttivo ricondotto all’atto della lettura e che è identificato con l’attività del recensore, dove è l’oggetto, cioè il testo, a imporre la propria legge. 2. IL CRITICO: CHI ERA COSTUI? Chi è il critico letterario? È ciò che tutti stanno chi sia. Chi altro è se non un lettore che scrive di quel che legge? Ma c’è differenza tra un lettore che legge per leggere e basta e quel lettore che, invece, si dispone a scrivere proprio per dar conto della sua esperienza di lettura? Prendere appunti significa selezionare in vista di qualcosa. Chi scrive di quel che legge, tra l’atto di scrivere e quello di leggere, punterà sempre sullo scrivere, perché il suo stesso atto di lettura non ha altro senso se non quello che dalla scrittura ha via via acquistato. Luigi Baldacci dà una definizione: «Il critico non è semplicemente un lettore che scrive o che scrive per gli altri. Il critico è colui che legge “solo per scrivere”, obbedendo allo stesso impulso dello scrittore». La critica letteraria ha sempre a che fare con l’invenzione del vero. Il critico, infatti, inventa ciò che già c’è, nel senso che ad un certo punto se lo trova davanti per via d’una potente immaginazione, che è sempre proliferazione di proposte, eccesso di sollecitazioni, ma anche rinuncia e sacrificio. Ogni recensore, a partire dal testo che ha di fronte, ha a disposizione una possibilità di scelta quasi illimitata. Dietro “quel romanzo”, il lettore deve sforzarsi di vedere tutti gli altri romanzi dello stesso autore. Per queste ragioni, la definizione più sintetica e penetrante del critico letterario resta quella di Franco Fortini, formulata in Verifica dei poteri (1965): Il critico letterario ha come oggetto un’opera che pretende di avere la complessità stessa del «mondo», della «vita» e dell’«uomo». Esercitare la critica vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di «scienza della letteratura». Giacomo De Benedetti rimane, forse, il più grande critico del Novecento italiano. Per Baldacci, il critico scrive in obbedienza a un impulso che è lo stesso che lo scrittore ha già provato. Nel senso che il critico è uno scrittore? È bene ribadire che nella critica l’immaginazione non coincide con la finzione. La critica ha a che fare con ciò che Benedetto Croce chiamava oratoria. L’oratoria compie il processo inverso a quello dell’arte: questa dalla vita va alle immagini, quella dalle immagini alla vita. Si può parlare di pendolarismo arte-vita: laddove tra lo scrittore che crea e il critico che interpreta sembra esservi come uno scambio di testimone. Il critico letterario, ovvero lo scrittore-lettore, il lettore che legge solo per scrivere, non può fare a meno di scrivere dopo aver letto: si tratta di metaforizzare l’atto di scrivere nel faticoso tentativo di ritradurre il caos in cosmo, con l’ambizione di ricostruire quel cosmo nei limiti di una recensione. 3. UNA RECENSIONE NON È UNA RECENSIONE Di che cosa si parla quando parliamo di recensioni? Una definizione univoca arriva dal Grande dizionario della lingua italiana, il Battaglia, che lo intende come un: «articolo pubblicato su riviste o giornali che, attraverso un’analisi critica, esamina un’opera letteraria, storica, scientifica, ecc., di recente pubblicazione, dando un giudizio sul valore di essa». In sintesi: analisi critica di un’opera appena pubblicata e sua valutazione. Però, del termine recensione, non si dovrà ignorare un altro significato che si appone al primo: la restituzione di un testo che si ritiene, se non esatta, almeno la più vicina a quella originale. Si potrebbe dire che la recensione va a collocarsi tra la scheda e il saggio, mantenendo tutte le caratteristiche dell’una e dell’altro: presenza di dati informativi ed elementi di riflessione critica. La differenza filosofica tra scheda, recensione e saggio risulta di tipo quantitativo, non qualitativo. Se la recensione resta un genere tendenzialmente giornalistico prima ancora che letterario, non se ne può non cogliere la capacità di esemplificare, nella sua dialettica, tra informazione e valutazione, l’attività critica in quanto tale nella sua versione militante. Il recensire dà luogo a ciò che chiamiamo recensione, di cui troviamo traccia sui quotidiani, sui settimanali, sui mensili, sulle riviste. Va ricordato il memorabile articolo rivolto ai recensori che Cesare Cases scrisse nel 1984 per il primo numero della rivista più autorevole in Italia, «L’Indice dei libri del mese»: La recensione può avere un tono saggistico ma non è un saggio. Il saggio implica una connivenza del lettore che è di tipo culturale; perciò, il saggio si permette molte allusioni e ammiccamenti e ha il diritto di divagare per introdurre considerazioni soggettive che riscuotano l’interesse del lettore. Nella recensione normale, invece, si può al massimo sentirne l’aroma in qualche battuta o in qualche riferimento a fatti esterni universalmente noti. I destinatari del saggio, pur non essendo specialisti, sarebbero degli happy few, cioè culturalmente più informati del lettore ipotetico di recensioni, complice col saggista. La recensione eviterà, insieme alle allusioni e agli ammiccamenti tipici della scrittura saggistica, quell’attitudine alla divagazione che introduce il lettore a considerazioni soggettive. Cases fa di tutto per sottolineare l’importanza di una deontologia dell’informazione riducendo al minimo ogni elemento d’arbitrio, che nel saggio avrebbe invece obbligo d’esistenza. La recensione è, insomma, il luogo di una rigorosa informazione, ma anche quella della valutazione. La recensione è già un saggio. Anche il riassunto vale come atto critico, essendo tra tutte le arti oratorie quella più nobile e difficile. 4. ELOGIO DEL RIASSUNTO Non si può dare un riassunto al grado zero di soggettività. Però, se non può esistere un riassunto che coincida in tutto e per tutto, dentro una recensione, con se stesso al suo massimo grado d’oggettività, non potrà nemmeno esistere una recensione che, del riassunto, possa farne a meno. Ogni articolo va giudicato sulla base delle sue stesse premesse. L’articolo di Francesca Borrelli, che ne fa un ampio uso, consente d’intendere appieno qual è la vera funzione del riassunto. Il critico va a riprendere quelle parole che lo «scrittore-scrittore» ha che è fuori di lui. In questo scontro-incontro tra il critico-scrittore e lo scrittore-scrittore ciascuno dei due è necessario all’altro. 10. PER UN’ETICA DELLA CRITICA Si può e si deve parlare di un codice etico minimo del recensore? I lettori veramente interessati alla letteratura sanno sicuramente di quale critico fidarsi e di chi no, insomma con chi hanno a che fare. Ogni critico, del resto, ha i lettori che si merita. Quand’è e come può avvenire che la critica letteraria, pur pretendendosi tale, manchi invece completamente l’appuntamento con se stessa, diventando altro da sé? È interessante il caso di Antonio D’Orrico, l’unico critico italiano che sia in grado di far vendere davvero i libri degli scrittori di cui parla, facendo però qualcosa che non ha niente a che vedere con la critica. Si è inventato, sul settimanale del più venduto quotidiano italiano, una specie di community in cui il lettore può trovare spazio per tutte le sue esternazioni. Il luogo della recensione è così diventato uno spazio performativo: dove resta sempre attivo il personaggio-lettore. Performativo, ma anche liturgico, perché quello che settimanalmente si consuma è un rito che come sacerdote il solo D’Orrico, che giudica i lettori, celebrandoli o irridendoli quando il caso. D’Orrico la spara sempre grossa ed ha una scrittura che vuole avere ragione a prescindere da qualsiasi ragione. Si può parlare di paradosso: esercitare la critica privandola dell’unica sua autorevolezza e plausibilità. Un modo di fare critica, sopprimendola proprio mentre la si fa. L’assoluto disprezzo per gli argomenti, l’autoritarismo delle scelte, la costruzione del proprio oggetto a discapito di ogni evidenza, il travisamento della lettera, la scrittura greve. Cosa non dovrebbe mai essere la critica? Non dovrebbe mai essere il tradimento di se stessa, l’abiura delle proprie ragioni, che sono le stesse della ragione. Il caso D’Orrico lo dimostra. 10. UN PROBLEMA DI GIUDIZIO: IN DIFESA DELLA STRONCATURA Emanuele Trevi scriveva: «Se una scrittura è per forza opaca quando elude il giudizio di valore, altrettanto opaca è quella scrittura in cui il giudizio di valore si accampa come unico reale contenuto del ragionamento». C’è però bisogna di una precisazione: il fatto che il giudizio di valore si costituisca in una dimensione soggettiva non significa che si indentifichi con l’arbitrio o col capriccio. Il giudizio è sempre formulato da un soggetto nella sua costituzione empirica, coi suoi gusti e il suo temperamento, dentro un contesto storico, geografico e antropologico ben preciso. Il giudizio di valore coincide con tutti gli argomenti che sono risultati necessari al critico per formularlo: il valore di un’opera non si può dimostrare con una regola, ma si può e si deve contendere in vista della persuasione di chi ci ascolta o legge. La critica sono i critici. L’interpretazione e la valutazione rappresentano la stessa ragione d’essere della critica. «L’Indice dei libri del mese» è uno dei pochi luoghi di sperimentazione critica, di vera apertura a firme ancora ignote e giovani. L’estinzione del rubrichista letterario non è cosa di poco conto. Gli spazi si restringono, ma i critici tendono a riprenderseli. La letteratura occupa uno spazio sempre più marginale e meno prestigioso: così i critici letterari, che preoccupano e interessano sempre meno i potenti di turno, sono forse più liberi, non hanno più niente da perdere. Se la letteratura è un modo di abitare il mondo, il critico non potrà non attribuirsi, oltre il ruolo di guida turistica, anche quello di sovrintendente ai beni culturali o di ispettore pubblico. Todorov ha scritto che «il lettore non specialista non legge le opere per padroneggiare meglio un metodo di lettura, né per ricavarne informazioni sulla società in cui hanno visto la luce, ma per trovare in esse un significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisca la sua esistenza; così facendo, riuscirà a capire meglio se stesso». 11. LA LETTERATURA E L’«ALTRO»: UNA QUESTIONE DI IDEOLOGIA Per Todorov, «la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano». La letteratura non sarebbe nulla se non ci portasse «a riflettere sulla condizione umana, l’individuo e la società, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione». E la critica sarebbe ancora meno se non contribuisse alla costruzione del senso della vita del lettore. La forza della letteratura si misura soltanto sulla sua capacità di rapportarsi ad «altro» e darne qualche conto. Si apre così il problema del «contenuto». Ma non si può dire che sia esso a consentirci di distinguere la buona letteratura dalla cattiva, però nella formulazione del giudizio di valore anche il «contenuto» ha la sua decisiva importanza. Alla parola «contenuto» dovremo però sostituire quella di «ideologia». La letteratura non ha uno scopo edificante, non è utile, non mira come prima finalità alla gradevolezza. La letteratura non ha uno scopo e la sua moralità non coincide con una morale. La stupidità e i luoghi comuni che albergano nei romanzi, la cattiva ideologia che li innerva, non costituiscono un reato contro la morale ma contro la stessa letteratura. Un romanzo schiacciato dalla sua stessa ideologia è, innanzitutto, un libro brutto. La letteratura, ad esempio, non deve e non può intervenire nella sfera politica: ma esiste un metro su cui, quando il caso, può essere misurata.
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