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Regie teatrali , Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunti del libro "regie teatrali" della prof. Fazio

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 23/01/2016

costigia3
costigia3 🇮🇹

4.2

(5)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Regie teatrali e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Regie Teatrali – Mara Fazio La messinscena prima del regista La regia e il regista si affermano in Europa attorno al 1870. Prima della nascita del metteur en scène esisteva già la figura del règisseur, ossia un attore di esperienza responsabile dello spettacolo sul palcoscenico. Il metteur en scène appare nel momento in cui lo spettacolo diviene un’industria e come conseguenza della vittoria della romantica, che dà spazio all’individuo, promuovendo i cambi di scena, il movimento e la spettacolarità. Precedentemente, nel Seicento, in un sistema recitativo governato da ruoli, non vi era bisogno di un coordinatore come il regista, ma era sufficiente un attore-direttore che amalgamasse la recitazione degli attori (i quali si preparavano separatamente). Nel Settecento si assiste alla presenza dell’autore alle prove; in questa epoca Voltaire rappresenta una figura peculiare, un protoregista che si interessa non solo del testo ma anche della sua rappresentazione. Le sue tragedie contengono didascalie dettagliate, descrizioni di elementi e coordinate, movimenti che dovevano venire integrati all’azione. Grazie al suo intervento vennero eliminati i lampadari a candele sull’avanscena per creare l’effetto notte e sempre grazie a lui, nel 1759, gli spettatori furono costretti ad abbandonare la scena. Anche Beaumarchais si interessa alla rappresentazione delle proprie opere, dal più ampio contesto generale alla descrizione minuziosa dei costumi dei suoi personaggi. Più giovane di Voltaire, Goethe fu a suo modo un regista ante litteram; cercò di reintrodurre l’abitudine di recitare i versi, curando le prove – che all’epoca erano letture a tavolino – e ricercando armonia tra le varie parti, il lavoro d’insieme la recitazione corale, ossia il Zusammenspiel. Per rinforzare la propria posizione, Goethe chiamò a sé Shiller per creare una drammaturgia idealistica e alta. Il 12 ottobre 1798 venne inaugurata la nuova sede del Teatro di Corte di Weimar: Goethe rappresenrt o Wallenstein Lager di Shiller, provando a realizzare l’impressione di masse in movimento. Negli stessi anni, in Francia, troviamo nei teatri popolari Guilbert de Pixérécourt, l’inventore del mélodrame, una specie di romanzo in azione. Un teatro spettacolare e con uno scarso approfondimento psicologico, diretto alle masse a un pubblico illetterato, che cercava di commuovere per la violenza e la stravaganza delle azioni, i compi di scena, le casualità, l’esagerazione dei sentimenti e le tematiche forti. Un teatro dove di fondamentale importanza era l’aspetto visivo e dunque tutto ciò che riguardava la scenografia, complicata e on frequenti cambi di scena. Pixèrècourt non si limitava a scrivere i suoi mélodrames ma curava anche la scenografia, gli effetti scenici, il movimento degli attori, la parte musicale e ogni piccolo dettaglio; d’altro canto la stessa idea di mélodrame implicava la fusione di generi e l’incremento della componente visiva; il testo in sé invece era ricco di particolari e inoltre si caratterizzava per delle lunghe e dettagliate didascalie, elemento che rendeva i testi quasi delle sceneggiature. Comprendendo l’importanza della disciplina e dell’impegno sulla scena, Pixérécourt dedicava una ventina di giorni (molti all’epoca) alle prove della sua mise en scéne (termine apparto nel 1821). Questa dunque si afferma prima nei teatri popolari, dove contava il parere del pubblico, che nei teatri colti, dove valeva il parere degli intellettuali. E’ solo negli anni Venti che si comprende che, per salvare il teatro dal suo tracollo, bisognava aprire alla messinscena anche nei teatri dominati dagli intellettuali; l’intuizione del barone Taylor, primo administrateur général, fece sì che le autorità concedessero i fondi per rinnovare costumi e scene del Theatre Français: il prototipo fu l’allestimento di Léonidas di Pichat nel 1825, di cui Taylor curò personalmente la mise en scéne. Hugo e Dumas, a partire dal 1830, sognano di avere un teatro dove occuparsi della messinscena delle proprie opere; nel 1837 Dumas dirige la mise en scéne del suo Cligula alla Comédie Français; la profusione di accessori previsti nelle didascalie è confermata e perfettamente realizzata ai macchinisti. Eliminate le quinte laterali, furono costruite sei scene diverse dove Dumas fece muovere una folla di quasi cento comparse. Notevoli furono gli aspetti di illuminazione: grazie a delle garze era possibile passare dalla notte all’alba al giorno pieno; furono eseguiti più di 160 costumi. Ma questa fu solo una breve vittoria: il romanticismo nel teatro di prosa trionfa per una breve stagione e la Comédie Française rinuncia alla messinscena per ragioni economiche e ideologiche, restando fedele ai classici. Si ritorna così nei teatri popolari e quindi secondati, dove Dumas e Hugo riuscirono ad avere un proprio teatro. Contemporaneamente si accentua la polemica tra i fautori dello spettacolo e i fautori dell’Arte. La spettacolarità viene vista da alcuni tradizionalisti come prerogativa del teatro commerciale come la letteratura era prerogativa di quello alto; parallelamente cresce il conflitto fra le esigenze della messinscena sostenuta dai direttori teatrali impresari, e il potere degli attori. Mentre in Francia nel secondo Ottocento trionfano le piéces à grand spetacle, in Italia continua a dominare il teatro dei ruoli e del grande attore e questo causerà un notevole ritardo per la nascita del regista. L’attore italiano è individualista, non si cura della globalità dello spettacolo; i costumi erano in dotazione agli attori e le scene erano dipinte da un pittore-decoratore, non da uno scenografo. Gli accessori di scena erano approssimativi e le prove erano principalmente prove di memoria e molto limitate in quanto ogni attore si esercitava per conto proprio. Negli stessi anni, in Inghilterra, un’altra proprietà della regia, il lavoro del coordinamento, è anticipata nella cura artigianale che Henry Irving metteva nella sua attività sul palcoscenico: si occupava personalmente della preparazione degli spettacoli, curando dettagli, luce, e le scene di massa. Tuttavia il contributo più esplicito al riconoscimento della regia come arte viene dal mondo dell’opera lirica. È Wagner che anticipa l’idea di regia perché ha chiara l’idea di unità della messainscena e teorizza il teatro come spettacolo d’arte totale, nobilitando anche l’aspetto rappresentativo. Del tutto contrario alla tradizione del grande attore virtuoso in quanto considerava gli attori come parte del tutto, non esisteva come individualità. Per Wagner il piacere dello spettatore era legato alla percezione simultanea di tutti gli elementi dello spettacolo, favola, dialogo, danza, mimica, architettura e costumi. Tutta l’audacia teorica di Wagner si scontra con una pratica deludente: spegne la luce in sala e nasconde l’orchestra, elimina le arie ancora presenti nell’opera italiano e francese, ma non è ancora in grado di inventare una nuova idea di scenografia o di eliminare la pesantezza dei macchinari o le abitudini teatrali degli interpreti. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, nel mondo dell’opera lirica italiana si diffonde l’uso delle disposizioni sceniche; il prototipo è il livret de mise en scéne, legato alle consuetudini dell’Opera di Parigi e rivolto ai direttori di scena dei teatri, che noleggiavano le indicazioni sceniche insieme alle partitura e ai costumi. Di lì passò in Italia alla metà dell’Ottocento con il nome di disposizione scenica, entrando nelle consuetudini del Teatro della Scala: tutti gli allestimenti successivi dovevano riprodurre fedelmente la prima rappresentazione alla Scala che faceva da esempio. Con l’imposizione della regia la fortuna delle disposizioni sceniche andò rapidamente declinando in quanto andavano in direzione opposta alla regia perché invece di individuare un artista coordinatore cercavano di controllare le diverse componenti dello spettacolo. Il duca di Meiningen e il “Giulio Cesare” di Shakespeare Il primo metteur en scéne fu un duca, Georg duca di Meiningen (Turingia); formatosi in ambito artistico e militare, una volta asceso alla guida del ducato applicò al lavoro artistico una rigida disciplina; la Germania aveva finalmente davanti la realizzazione di un teatro nazionale tedesco. Collaboratore intimo del duca fu Ludwig Chronegk, che divenne il suo regisseur: eseguiva sul palco le sue idee e metteva in pratica i suoi suggerimenti, occupandosi di tutti i risvolti pratici dello spettacolo. Nel piccolo teatro di Meininger il duca era tutto: sovvenzionatore, padrone, mecenate, scenografo, meteur en scéne e spettatore, incarnando inoltre la figura del regista despota per il rigido ritmo di lavoro imposto ai suoi attori. Uno degli spettacoli più celebri fu il Giulio Cesare di Shakespeare, in repertorio dal 1867: la piece viene rappresentata come un opéra, con grandi masse in scena, effetti di luce elettrica. Il protagonista venne scelto per la somiglianza con delle illustrazioni del dittatore romano e prima di procedere con le prove il duca si recò a Roma per controllare l’esatta posizione del foro romano e per procurarsi degli schizzi per meglio curare la scenografia: il debutto dell’opera si ebbe il 1 maggio 1874. La scena riproduceva plasticamente l’architettura della Roma di Cesare (per eccesso di rigore storico il foro, distrutto nella guerra civile, appare in fase di ricostruzione). Si nega qui la simmetria neoclassica e si cancella il vincolo prospettico; di conseguenza l’impianto scenico appariva obliquo, on traiettorie sghembe e vari punti di fuga. Le scene, come detto, erano plastiche, a parte l fondale dipinto e gli arredi erano autentici; anche i costumi di scena erano stati disegnati dal duca in base a studi antiquari. Gli attori non recitavano in proscenio, ma in tutto lo spazio del palcoscenico, illuminato da luce elettrica, e dovevano ignorare la presenza del pubblico, non guardando mai la sala buia. Gli spettatori si trovavano davanti una messa in scena di qualità e di massa, dove la folla non si muoveva confusionariamente ma dove chiamata da S, memoria affettiva o memoria emotiva. Questa esperienza è fondamentale perché attraverso la memoria emotiva l’attore può individuare nel suo passato la stessa sensazione vissuta in circostanza analoghe dal personaggio che deve interpretare, riuscendo così a rivivere le proprie emozioni e a far scaturire quelle del personaggio. Si tratta della tecnica della revivescenza. L’interesse per la preparazione degli attori si accentua con gli anni. S. tralascia sempre più i problemi pratici e si dedica alla sperimentazione e alla pedagogia degli attori, al lavoro dell’attore su se stesso e al lavoro dell’attore sul personaggio. (titoli di due suoi volumi); fonda inoltre studi per la preparazione degli attori. Dal settembre del 1922 all’agosto del 1924 S, si reca in tournè in Europa e negli USA, riscuotendo un clamoroso successo. Mentre l’America resta fedele al rimo S., una volta di ritorno a casa S. continua a cercare e a sperimentare. Dopo il 1930, S. mette a punto un uovo metodo per la costruzione del personaggio: il metodo delle azioni fisiche; l’obbiettivo resta lo stesso, dare espressione sensibile ai sentimenti veri. Ma ora S. crede che attraverso il corpo l’attore possa agire sull’anima e decide di iniziare il processo verso il personaggio cominciando non dall’immaginazione e dal sentimento ma dalle azioni fisiche. L’attore deve farsi un disegno generale del ruolo, individuare le circostanze e scomporre questo disegno, interrogando se stesso su cosa farebbe lui, attore, se si trovasse in circostanze analoghe a quelle del personaggio. Solo attraverso l’azione si raggiungerà la revivescenza. Questo metodo non rivoluziona nella sostanza il fine de sistema di S., che resta quello di costituire il personaggio intersecando due vite, quella dell’attore e quella per personaggio. Ora l’attore deve trovare il sottotesto, seguendo un processo di smontaggio e montaggio che è lo stesso di molti anni prima; l’importante è che l’attore metta in evidenza ogni blocco, rendendo il passaggio da una parte all’altra chiaro. La cosa fondamentale resta, ovviamente, l’interazione tra psichico e psichico, sia che si cominci dalla psiche sia che si cominci dal fisico. Appia e il “Tristano e Isotta” di Wagner Adolphe Appia ha dato il suo contributo alla definizione della regia moderna attraverso la riflessione sul Wort-Ton-Drama di Wagner; nel dramma musicale di Wagner, Appia riconosce lo spettacolo del futuro. Inoltre viene rapito, durante una rappresentazione wagneriana, dall’orchestra nascosta, la platea ad anfiteatro e il buio in sala durante la rappresentazione. Ma non era convinto dalle scene, i costumi e l’uso della luce; egli comprende che il problema principale delle opere di Wagner era che l’azione drammatica e la musica restavano estranee alla forma rappresentativa, che era realistica. Nel 1888 Appia decide di dedicare la sua vita alla riforma ella messinscena, a partire dal dramma di Wagner, dove la scena mirava a creare un’illusione, la visione della realtà rappresentata e dove vi erano grandi sperimentazioni della meccanica moderna. Uno degli espedienti wagneriani più efficaci in questo senso era il cambio di scena a vista il cui scopo era quello di non interrompere quella melodia infinita dell’opera, per instaurare una delle condizioni basilari del Gesamtunstwerk, ossia l’unità temporale. Il vizio capitale delle messinscene contemporanee dipende soprattutto dalla convenzione della pittura, che con la sua rigidità è rarefatta a qualunque forma di sviluppo; le vecchie abitudini vanno sostituite da nuovi principi rappresentativi che devono emanare direttamente dall’pera d’arte. Inoltre Appia critica anche i cantanti wagneriani: condannando il cantante che invece che ai colleghi si rivolge al pubblico, Wagner aveva fatto sì che la recitazione realistica stridesse con la potenza della musica che raccontava una vicenda interiore e trasportava lo spettatore in un mondo ultraterreno. C’era dunque in contrasto tra espressione musicale ed espressione plastica. Le storie di Wagner, dice Appia, non sono reali bensì appartengono al mito. Wagner aveva trovato, dice il teatrante, una dimensione metafisica che solo la musica poteva esprimere, ma non un’adeguata trasposizione scenica, restando così prigioniero del realismo illusionista del suo tempo. Con lo studio della messinscena di Tristano e Isotta, Appia cerca di superare la contraddizione wagneriana; l’azione drammatica è un’azione interiore in cui la lotta tra interiorità ed esteriorità è tematica, interna al testo: i protagonisti, in conflitto col mondo esteriore, si danno liberamente la morte tramite una pozione che credono mortale, ma invece di ucciderli essa li infiamma reciprocamente di desiderio. Il regista deve restituire la visione che hanno gli eroi del dramma, per i quali il mondo è un’allucinazione, e ciò per Appia si realizza riducendo il materiale figurativo e sostituendolo con un uno espressivo della luce, capace di creare un’atmosfera astratta, in grado così di tradurre il conflitto tra il mondo esterno e mondo interno, tra piano della realtà e inconscio. Il procedimento è evidente nel primo atto: Appia abolisce qui ogni elemento descrittivo e riduce al massimo ogni illustrazione figurativa; ma nello stesso tempo il primo atto doveva mostrare la vita esteriore, la durata della vita reale, perché è proprio questa che viene vissuta in modo tragico dagli eroi, che crea conflitto. Per esprimere questo contrasto Appia si serve della lice: per fuggire dalla realtà Isotta si rifugia in penombra, nella sua tenda, elemento che diviene così il simbolo della separazione tra spettacolo della vita esteriore e espressione del suo mondo interiore. La luce en plein air del mondo esteriore, che si intravede quando la tenda si apre, contrasta con la penombra e il chiaroscuro dei personaggi nascosti nella tenda stessa. Ecco che le diverse componenti del Gesamtkunstwerk concorrono in maniera unitaria, a partire dall’unità di intenzione. Anche nel secondo atto la luce diviene fondamentale: la scena si apre ed è notte; Isotta deve far capire a Tristano che può avvicinarsi e per farlo spegne la fiaccola che teneva accesa. Nel progetto di Appia, all’inizio del secondo atto, quando si alza il sipario, il pubblico non doveva vedere altro che una grande fiaccola brillare al entro del palcoscenico, Le forme che determinavano e delimitavano lo spazio si afferravano vagamente; solo poco a poco, abituandosi all’oscurità, gli spettatori iniziavano a distinguere i vari elementi. Ma quando Isotta spegne la fiaccola, facendo scomparire il mondo materiale, la scena prende un’uniformità chiaroscura in cui l’occhio si perde, tutto si perde nell’oscurità mentre gli amanti si riuniscono. Ma ecco che una luce, quella che segna l’arrivo del re Marke con la sua gente, appare sul fondo della scena. Il giorno cresce lentamente e l’occhio dello spettatore inizia a comprendere la struttura dell’impianto scenico e il mondo materiale riaffiora. In piana luce, Kurvenal irrompe in scena per avvertire Tristano che è tradito e si arriva così al terzo atto. Anche qui la luce, come nel secondo atto, sta ad indicare il mondo materiale e corrotto: Tristano è diviso tra una sensazione di luce che l’inquieta e lo fa soffrire e una sensazione di tenebre che gli sfugge e che lui vorrebbe ritrovare. Per Appia nella rappresentazione tutte le componenti rappresentative che collaboravano alla messinscena, come la luce, la recitazione, il movimento egli attori, i costumi, agissero in maniera unitaria, condividendo la stessa intenzione delle parole e della musica, e inoltre tutte le risorse della meccanica moderna dovevano servire per facilitare l’uso ei praticabili da parte del corpo dell’attore. Le idee di Appia erano troppo avanzate per l’epoca e i suoi pioneristici progetti di messinscene furono criticati e respinti. Con il tempo, l’espressione del corpo umano plastico e mobile dell’attore divenne per Appia sempre più importante, anche rispetto alla musica: aveva intuito che bisognava trovare una specie di ginnastica musicale che servisse da intermediario tra espressione musicale e espressione gestuale, tra attore e musica: la ginnastica ritmica del viennese Emile JaquesDelcroze era per Appia la concretizzazione e la conferma per cui egli aveva già annunciato, ossia una ginnastica che conferiva all’attore di un dramma musicale e che permetteva al corpo dell’attore di visualizzare e tradure scenicamente nello spazio il ritmo e la durata musicale. In tal modo il corpo dell’attore veniva eletto a mezzo espressivo: era una rivoluzione per l’estetica moderna. La ginnastica ritmica era ora il cardine del teatro dell’avvenire e un elemento indispensabile per il coinvolgimento del pubblico. Nel 1923 Appia fu invitato a mettere i scena al Teatro della cala il Tristano e Isotta di Wagner. Il progetto di messinscena dell’opera, del 1899, servì di base per l’allestimento ella Scala; le scene che Appia disegnò in quell’occasione non erano molto diverse dagli schizzi precedenti. Tuttavia, l’impianto tecnico e illuminotecnico della Scala consentivano possibilità realizzative molto inferiori a quelle auspicate da Appia. Molti dei materiali necessari alle costruzioni plastiche mancavano e la luce non aveva potenza sufficiente per offrire la mobilità prevista. La prima ebbe luogo il 20 dicembre 1923 e il pubblico accolse con freddezza la sobria e severa messinscena di Appia, che sostituiva alla centralità della pittura quella della luce. Craig e il “Didone e Enea” di Purcell Edward Gordon Craig nasce e cresce sulle tavole del palcoscenico, dove inizia a recitare sin da bambino, quando a teatro c’era ancora il controllo del primattore. È il 1897 quando Craig lascia definitivamente la sua carriera di attore, dedicandosi al mestiere di scenografo e regista. Come Appia, Craig parte per i suoi primi esercizi registici da un’opera musicale: la sua prima messinscena risale al maggio del 1900 e di tratta del “Didone e Enea” di Purcell; l’opera seicentesca era basata su una struttura convenzionale, in cui ciò che contava non era l’intrigo quanto la musica, ampiamente sufficiente a dar vita allo spettacolo. Per la rappresentazione Craig aveva a disposizione una sala da concerto semicircolare, con un grande podio costituito da una piattaforma aggettante e altre che si sollevavano dal fondo. Con una serie di trai Craig trasformò la sala in un palcoscenico teatrale, senza quinte: veniva abbandonata la solita stanza per creare uno spazio scenico praticabile e dare importanza alla luce elettrica. Soppressa difatti la luce di ribalta, Craig costruì un ponte di luci che rischiarava il palco dall’alto, e aggiunse due proiettori in fondo alla sala che illuminavano il volto degli attori passando attraversi il pubblico. Gli interpreti dello spettacolo erano volutamente dei dilettanti, ad eccezione del tenore e del primo ruolo femminile: questa scelta – obbligata per i scarsi mezzi economici – era dovuta anche all’ostilità del regista per o star system. Per tre sole repliche ci furono tre mesi di prove e ciò fu un grande elemento di novità: si dava finalmente più importanza alla preparazione, legittimano il teatro come pratica artistica e non commerciale. Elemento peculiare di Craig era la cura del dettaglio: le sue note di regia rivelano una conoscenza artigianale del mestiere teatrale, inseguendo una totale inesattezza dei dettagli. L’arte, per Craig, è l’arte della suggestione, quell’arte che deve affidare al pubblico il compito di immaginare liberamente. Non era importante che l’intrigo dell’opera fosse debole perché più che al libretto Craig si ispirava alla musica; ogni scena era tradotta in un quadro che trasferiva in visioni l’atmosfera drammatica suggerita dalla componente musicale e le varie componenti di questo quadro, ossia scene, costumi, luci e colori, erano in perfetta armonia tra loro. Di particolare rilievo è l’uso simbolico del colore (derivato dal movimento): egli si concentra molto sulla combinazione del chiaroscuro e del contrasto, dando al color e una funzione simbolica e facendo lo stesso per la luce (in un modo che anticipa il cinema). Nei suoi appunti Craig non segnava i movimenti e le sue indicazioni di regia sul libretto, bensì sullo spartito. Lo spettacolo non si rivolgeva alla riflessione dello spettatore, bensì alla sua sensibilità; privi di indicazioni psicologiche, i suoi quaderni erano lo strumento di lavoro di un artista visivo. A ciò si aggiungevano indicazioni sui tempi e sui ritmi scenici, che riguardavano sia gli interpreti sia le variazioni di tono, di luce e di movimenti del sipario. All’inizio del primo atto Didone ed Enea avrebbero dovuto trovarsi all’interno del palazzo reale, ma Craig allestisce la scena con un lungo traliccio di fiori e piante varie: al centro, il trono. Il fondale non era più dipinto prospetticamente ma era auna stoffa dai contorni invisibili. Nel secondo atto la scena delle streghe che tramano contro i due amanti si svolge in penombra; nel finale, la stessa scena del primo atto era impregnata di una luce giallastra e quegli stessi cuscini he pima erano scarlatti diventavano neri, così come l’abito della regina. La regia attuta da Craig prelude all’idea del regista come creatore assoluto, un regista-artista. Tutto ciò che riguardava il teatro commerciale poteva essere facilmente rimpiazzato con l’arte (sobria e povera); il ruolo dell’attore veniva ridimensionato a favore dell’equivalenza tra le varie parti dello spettacolo. Il compito del regista era ormai quello di essere responsabile dell’intero progetto visivo. Qui si aveva adesso una grande semplificazione del linguaggio espressivo; la scena non doveva più raccontare o descrivere, ma suggerire significati. Dalla prosa e dal naturalismo si passava alla poesia e al simbolismo. E per il simbolismo era fondamentale l’uso della luce. Non solo, eliminata la ribalta, l’illuminazione veniva ora dall’alto, ma compariva già in quello spettacolo il sistema di illuminazione per scorci improvvisi e toni di colore che preludeva lo studio a raggi e macchie ce Craig avrebbe attuato nell’Amleto. La luce cessa di essere uno strumento tecnico e diventa un elemento artistico, così come il colore. Dedicandosi poi agli scritti teorici (Arte del teatro; 1905), Craig teorizza la necessità della figura del regista come creatore assoluto e la necessità da parte sua di conoscere concretamente tutte le attività e tecniche che formano l’arte della scena, così da controllarle. Per diventare un artista per Craig erano necessari 5 anni di pratica come attore e 2 anni come regisseur. Nel 1907 Craig comincia a disegnare i primi screens, pannelli rettangolari snodabili in gradi i assumere configurazioni e posizioni diverse in relazione alle diverse situazioni del dramma (essi diventeranno l’emblema della sua scenografia). Sempre nel 1907 pubblica un saggio teorico “’attore e la supermarionetta”; utopia dell’attore perfetto, la supermarionetta era figura dal significato ambiguo in quanto espressione del desiderio di un attore pure e prefigurazione di un teatro meccanico e inumano. Reinhardt e il “Sogno di una notte di mezz’estate” di Shakespeare E’ il 31 gennaio del 1905 quando Max Reinhardt mette in scema a Berlino Sogno di una notte di mezza estate. Ad eccezione della scena iniziale e della scena finale delle nozze, nel testo di Shakespeare il bosco è lo scenario dell’intera commedia. Nella messinscena, quando si alzava il sipario, dietro veli di nuvole attraverso le quali brillava la luce della luna, si sentiva scorrere un ruscello e si intravedeva un bosco, allestito con quelle che sembravano vere piante, e si poteva percepire odore di abete per via dell’essenza spruzzata sulla scena. Tra i fili di una rete invisibile erano appese e si muovevano delle lampadine che di Stalin. Ma per il momento M. poteva ancora sperimentare e dunque si accostò ai costruttivisti, coloro che si proponevano di rendere l’arte funzionale alla società escludendo l’arte per l’arte. Nel “Magnifico Cornuto” (il cui tema, lontano dai temi di rivoluzione, interessava a M. per la dimostrazione paradossale della gelosia), che M. mise in scena con un centinaio di allievi dopo essersi liberato della scarola scenica, del soffitto e della scenografia standard, gli attori recitarono sullo sfondo di mattoni nudi del teatro, sopra una leggera costruzione stilizzata. Gli attori indossavano un’uniforma da lavoro alla quale si aggiungevano accessori identificativi; lo spettacolo si poneva così in chiave non realistica, con un tono di infantile innocenza che azzerava il contenuto erotico del dramma originale. L’impatto sul pubblico fu grande soprattutto per il modo di recitare dei suoi attori, improntato sulla biomeccanica, una tecnica incentrata su esercizi muscolari che consisteva nella trasposizione ginnica dei dati psichici e mirava a insegnare agli attori le attitudini basilari per muoversi agilmente sulla scena, suscitando una grande duttilità di riflessi per poi tradurre in atti fisici i sentimenti del personaggio. Nella seconda metà degli anni Venti inizia per M. una nuova fase, quella del grottesco, che mette fine all’analisi, alla schematizzazione dei precedenti spettacoli; il suo metodo è ora la sintesi. Scartando i dettagli, il grottesco mescola gli opposti e ricrea la pienezza della vita. Il capolavoro di questa fase è il “Revisore” di Gogogl, andato in scena nel dicembre del 1926 nel tratro che dal 1923 fu autorizzato a chiamarsi Teatro Mejercol’d. La messinscena faceva appello a tutte le ricerche precedenti sul gesto, sulla pantomima, il ruolo della parola e della musica: si dà vita a una creazione puramente teatrale. Il testo di Gogogl era famoso in Russia: Chlestakov, funzionario di San Pietroburgo capita in un albergo di una piccola città; il Governatore lo scambia per l’ispettore generale in incognito e lo riempie di attenzioni. C. sta al gioco e il Governatore è sicuro di averlo conquistato, mentre il protagonista cede alle proprie inclinazoni naturali e inizia a vantarsi delle sue relazioni sociali a San Pietroburgo, promettendo agli abitanti cose impossibili. Ma il suo vecchio servitore, grazie alla sua furbizia, fa recapitare al Governatore una lettera che svela l’inganno casuale. Nel momento più patetico, un gendarme viene ad annunciare l’arrivo di un vero revisore e tutta la società si fissa in una scena di sbigottimento che è uno dei capolavori della drammaturgia mondiale. M., nell’opera, faceva parlare ‘opera della Russia di Nicola I, rivelando con spietato sarcasmo il senso simbolico dei temi sociali (la borghesia, il burocratismo) e rendendo l’opera assolutamente attuale. I personaggi perdevano quel senso provinciale dell’opera di Gogol ed alludevano alla capitale; il Generale un generale giovane e sua moglie una maliarda ancora fascinosa. Il protagonista era invece un avventuriero di classe che cambiava volto a seconda della circostanze; infine il servitore, unico personaggio positivo, era un giovane scaltro e non più un vecchio come nel piano originale. M. introdusse nell’opera nuovi personaggi e frammentò i 5 atti in 15 episodi, mettendo così il fulcro dell’attenzione sull’azione teatrale. La scena aveva come fondale una parete semicircolare con 15 porte; a destra e a sinistra due pannelli simmetrici prolungavano il dispositivo scenico verso la sala facendo così concentrare l’azione sul proscenio. L’azione era quindi compatta, concentrata nei limiti di un piccolo spazio e quindi l’attore doveva possedere una grande agilità, garantita dalla biomeccanica e perfezionata grazie all’allenamento a ritmo di musica (gli oggetti di scena avevano la funzione di sopporto per l’attore ma anche una funzione simbolica). L’azione scenica era costruita su due assi portanti: de sul proscenio M. illustrò la commedia del potere, la satira dell’impero russo, mettendo in evidenza la dissoluzione della macchina statale, negli altri episodi di mise in mostra il livello più personale e umano della pièce, dove il caos e la dissoluzione della famiglia facevano da contorno alla decadenza della società. La scena finale del Revisore chiudeva lo spettacolo con un palcoscenico vuoto, mentre dietro le porte era in corso un banchetto: all’arrivo del gendarme che annuncia l’arrivo del vero revisore tutte le porte si spalancano simultaneamente e in piedi su delle piccole pedane stavano raggruppate delle figure nelle pose descritte da Gogol: sembravano uomini veri ma erano delle bambole di cera. Scrisse a riguardo M. “questo revisore è la nostra coscienza che si è risvegliata, che ci costringe d’un tratto e di colpo in una sola volta a guardare ad occhi bene aperti dentro di noi stessi”. Lo spettacolo rimase in cartellone per 12 anni, fino al 1938, quando il teatro di M. venne chiuso in seguito alle accuse di formalismo cosmopolita mosse a M. nel 1936, nel corso della conferenza dei registi, quando venne invitato a fare autocritica (e rifiutò). Nel 1939 fu invitato nuovamente ad abiurare ma rifiutò una seconda volta: venne arrestato 48 ore dopo; poco tempo dopo sua moglie fu ritrovata assassinata nel suo appartamento e M fu giudicato colpevole: la condanna a morte fu eseguita il 2 febbraio 1940. Fino al 1956, quando ebbe inizio la sua riabilitazione, il suo nome rimase all’indice e sconosciuto in Russia. Piscator e “Oplà noi viviamo!” di Toller Piscator interessa non solo per quel che concerne la parte teorica relativa al “Teatro politico” ma anche – soprattutto – per l’aspetto tecnologico e multimediale che è il mezzo del suo teatro. Avendo intuito il rapporto che intercorreva tra massa e cultura delle immagini, egli ha individuato una nuova forma di teatro multimediale che funziona per le masse proletarie di ieri ma che continua ad attirare la società contemporanea. Egli comprese che le trasformazioni storiche esigevano un linguaggio artistico basato su una concezione più accelerata del tempo e più ampia dello spazio, sulla centralità del movimento e sulla percezione della simultaneità. Siamo negli anni Venti, gli anni del cinema muto, e Piscator ha colto il primato della visione rispetto alla parola, creando un nuovo sistema di comunicazione spettacolare: inserendo il cinema nel teatro, utilizzando film per innovare la scena, ha dato vita a una nuova drammaturgia, non più incentrata sulla parola recitata ma su un testo-ottico, il cui autore non era più il letterato bensì il regista. Usò quindi il cinema in modo creativo, allargando lo spazio della scatola scenica e mettendo in contatto la funzione con la realtà del mondo, tramite la tecnica del montaggio, imprimendo alla rappresentazione un andamento rapido e ritmico. Siamo nel 1918-19 quando Piscator fa conoscenza con Gli inventori del fotomontaggio e si unisce al partito comunista: sarà appunto l’intreccio di marximo e dada il tratto peculiare del regista. Dopo il debutto registico egli do vita a Proletarische Theatre nei locali dei quartieri operai di Berlino, trasformati in teatri provvisori, con attori professionisti, con l’intendo di mettere il teatro al servizio della propaganda politica. Ma sono questi gli anni in cui l’americanismo scoppia in Europa e dunque Piscator, alla regia di “Fahnen”, dove si denunciava lo sciopero degli operai anarchici di Chicao e il processo contro di loro, fa della lotta degli operi sopracitati il simbolo delle lotte degli operai in generale, con evidente allusione all’attualità, e trasforma la messinscena in un reportage. All’alzarsi del sipario, il titolo della pièce e una breve introduzione storica venivano proiettati sullo schermo; i personaggi non comparivano in palcoscenico ma i loro ritratti apparivano uno dopo l’altro sullo schermo. Un narratore recitava il prologo in versi, indicando con un bastone le immagini proiettate. Nel corso della rappresentazione su due pannelli situati in diagonale sui lati dell’avanscena venivano proiettati estratti di giornali e fotografie che spiegavano il retroscena. I vari episodi erano intercalati dalla proiezione di didascalie che traevano la morale dei fatti e costituivano il testo connettivo tra la scene e sollecitavano il pubblico alla riflessione. La reazione della stampa fu negativa. Il 7 novembre 1924 andò in scena Revue Roter Rummel: Piscator metteva in scena una rivista vera e propria, dove i era un intreccio di musica, acrobazia, canzoni, proiezioni fisse, film, dati statistici, scene drammatiche, il tutto accompagnato da un testo senza pretese, la cui struttura aperta permetteva l’inserimento di nuovi elementi nel corso delle prove. Nel luglio del 1925 va i scena “Trotz alleem”, una rivista storica sulla storia del movimento operaio incentrata sugli anni che andavano dallo scoppio della guerra all’assassinio dei capi del movimento spartachista: la rivista consisteva nel montaggio di sketch teatrali, discorsi autentici, articoli di giornale, manifesti, immagini filmate e proiezioni di fotografie. Per la prima volta nella rappresentazione teatrale (23 scene) fu inserito materiale proveniente dagli archivi di stato. Nel 1927, grazia a un finanziatore, Piscator poteva disporre di un suo teatro, la Piscator-Buhne. Fece costruire una cabina tecnica nuova, in modo da poter lavorare dietro la scena con 4 impianti di proiezione allo stesso tempo e creò un collettivo di collaboratori. Lo spettacolo inaugurale ebbe luogo il 3 settebre 1927: “Hoppla, wir leben – Oplà noi viviamo!”: Karl Thomas, condannato a morte per la partecipazione alla rivoluzione, graziato ma internato in una casa di cura a causa dello shock subito, usciva dalla clinica nel 1927. Ritrovava una Germania irriconoscibile, piena di sogni infranti e davanti a una realtà politica ormai mutata: l’unica soluzione per lui era il suicidio. Piscator trasformò questo testo teatrale di Toller in una specie di sceneggiatura. In occasione della rappresentazione, Piscator creò un libro di regia, redato prima di iniziare le prove, in cui ad ogni pagina del testo corrispondeva un grande foglio suddiviso in sei colonne con tutte indicazioni relative alla messinscena (atmosfera, attori – espressione e spostamenti – , proiezione e film, musica e rumori, luci).La scenografia era un impianto costruttivista, consistente in un’impalcatura di ferro, tubi metallici per il gas, divisa verticalmente in 3 parti. Nella parte centrale un pannello mobile poteva arretrare e diventare la parete di fondo per uno spazio chiuso nel quale si svolgeva l’azione degli attori; in alternativa il pannello poteva servire come schermo. Le altre due parti erano divise a loro volta potevano essere usate tutte come piccoli palcoscenici che potevano dar vita a un’azione simultanea. Nel primo film si riproduceva una sommossa, la sua repressione e l’interno di una prigione. Verso la fine della proiezione, un velo scendeva davanti allo schermo e ne catturava l’immagine; mentre il grande schermo saliva, il velo nero rendeva l’immagine visibile su quello bianco: poco a poco l’immagine cinematografica si dissolveva in quella fissa proiettata dietro la scena. Il palco non era illuminato; poi le piccole scene con attori-prigionieri si illuminavano e la luce rendeva invisibile l’immagine delle sbarre, il velo spariva e iniziava il dialogo: Piscator aveva riprodotto sulla scena la tecnica del montaggio e della dissolvenza. Nel secondo film, che in 7 minuti illustrava 8 anni di detenzione del protagonista, Piscator mescolò spezzoni di materiale documentario con sequenze girate dal suo collettivo di lavoro. Successivamente, nel terzo atto, attraverso proiezioni simultanee e recitazione sovrapposta il contesto storico e sociologico mondiale era messo a confronto con i diversi destini individuali; il film contrastava con le scene fisse, le scene recitate con quelle filmate, l’illusione con la distanziazione, il coinvolgimento con l’intento didascalico. In ogni caso la presenza del film metteva in crisi la recitazione degli attori, i quali si adattarono progressivamente la nuovo contesto teatrale. Essi dovevano destreggiarsi sullo sfondo di tre diverse tipologie di film: uno di intento didattico, uno era un film drammatico e il terzo era un commento che accompagnava l’azione coralmente rivolgendosi allo spettatore e facendo, talvolta, propaganda diretta. Nel 1928 Piscator fu costretto per motivi economici a cedere il teatro; nel 1929 crollò la Borsa di NY e in Germania i danni collaterali furono gravi anche a livello teatrale in quanto vi furono drastiche riduzioni delle sovvenzioni statali e la vita nei teatri privati non divenne certo più facile. Dopo un periodo all’estero (che in ogni caso vide la produzione di nuovi lavori, tra cui uno sull’aborto), nel 1951 fu costretto dal maccartismo a rientrare in Germania, dove lavorò come regista-sopite in vari teatri; dal 1966 in poi si dedicò esclusivamente alla messinscena del dramma documentario. Brecht e “Madre Coraggio” Sebbene si formi nell’ambito espressionista, Brecht ne prende subito le distanze, preferendo la ricerca del piacere della ragione, il divertimento intelligente. Attorno al 1925 Brech si avvicina al marxismo e alla sociologia, e da questo momento in poi il suo teatro diviene politico: ma a differenza di Piscator Brecht non oppone propaganda a propaganda, è indotto proprio dallo stile e dai metodi della pubblicità hitleriana a sviluppare un nuovo sistema critico per affrontare non solo il teatro ma anche la vita. E’ in questo contesto che nasce il teatro epico (1926). Nell’intendo di creare uno spettatore attivo, non legato al sentimentalismo partecipe ma critico, Brecht individua un fine essenziale: rinunciare all’immedesimazione che dai tempi di Aristotele viene considerata connaturata all’opera teatrale. Brecht studia i mezzi per realizzare il suo fine e così nasce una nuova forma drammatica, una drammaturgia basata sulla rinuncia allo charme. Il 31 agosto 1928 va in scena “L’opera da tre soldi”, dove si fondono le due tendenze del teatro di Weimar fino ad allora: divertimento e politica, divertimento e ammaestramento: si tratta della storia di una banda di gangster londinesi intorno al 1900 e viene raccontata alternando le scene recitate con songs, le cui parole ironiche venivano cantate dagli attori a contrasto con l’atmosfera melodica e piacevole della musica. Qui si sperimenta nella costruzione del dramma una nuova tecnica che si fondava sul principio provocatore: invece dell’immedesimazione, lo straniamento. Straniare significava togliere al personaggio o alla vicenda qualsiasi elemento sottointeso, noto, lampante, e farne oggetto di stupore e curiosità. A partire da questa opera Brecht sperimentò la tecnica dello straniamento anche nella messinscena e nella recitazione, e insieme a un giovane gruppo di giovani attori perfezionò un nuovo stile sobrio di rappresentazione, ossia lo stile epico. La dizione veniva associata alla gestualità, il linguaggio familiare, la recitazione di versi si riplasmavano sul cosiddetto principio gestuale. Gli attori mantenevano un distacco rispetto al personaggio da loro interpretato al fine di presentare un personaggio in modo freddo e obiettivo, non come oggetto di immedesimazione ma come oggetto del pensiero; al fine di garantire un certo distacco Brech consigliava agli attori di recitare usando la terza persona e di pronunciare anche le didascalie per porsi in modo straniato rispetto alla propria battuta. Per spiegare agli attori lo straniamento Brecht propone una serie di modelli per esercitarsi: un esempio è quello della scena da strada. Il testimone oculare di un incidente stradale mostra a delle persone come è capitata la disgrazia; ciò che conta è che il dimostratore rappresenti il comportamenti dell’autista o del pedone o di entrambi in modo tale che gli stanti possano formarsi un’opinione sull’incidente. La scenografia viene completamente rivoluzionata: non è più necessario ricostruire il luogo dell’azione ma basta qualche accenno. Inoltre ora la scenografia non può assolutamente preesistere allo spettacolo: va
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