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Regie teatrali di Fazio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Sintesi del libro Regie teatrali di Fazio

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 04/02/2022

Giorgia.Laviano
Giorgia.Laviano 🇮🇹

4.5

(47)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Regie teatrali di Fazio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! La messinscena prima del regista: La regia (mise en scène) come pratica ed il regista (metteur en scène) come mestiere si sono sviluppati in Europa intorno al 1870. La gestazione inizia a metà ‘700 in Francia e in Germania. I primi sintomi cominciano quando il testo letterario perde importanza a favore della messa in scena. Prima della nascita della figura del mettèur en scene in Francia esisteva già la figura del regisseur: un attore di esperienza fungeva da direttore di scena. Il mettèur in scene compare nell’800 quando il pubblico da aristocratico diventa borghese e lo spettacolo è ormai industria. Così questa figura viene a mettere ordine e arte nel direttore di scena. È una conseguente vittoria della battaglia romantica che abbatte il sistema retorico e codificato del classicismo, dando spazio all’individualità, eliminando le unità aristoteliche ed aumentando la spettacolarità. Quando alla fine del ‘500 iniziano a nascere le prime compagnie di professionisti entrano in uso i repertori e il sistema di ruoli che permettevano di preparare più spettacoli insieme. Nel ‘600 e nel ‘700 in Francia e in Italia la qualità più richiesta era la specializzazione. Più di interpretare dovevano imparare a memoria ed esserci. Ognuno si preparava e recitava per conto proprio, solo poco prima dello spettacolo iniziavano a provare insieme. In Francia nel ‘600 i generi vengono nettamente divisi: la spettacolarità è una prerogativa del teatro musicale, non di prosa (operà). I teatri per la prosa erano dedicati alle tragedie e alle commedie: ciò che contava era il testo, non lo spettacolo. Li coordinava il capocomico, gli attori erano pochi. Si rispettavano le unità aristoteliche, quindi, non avveniva il cambio di scena. Fino a metà ‘700 in Francia la recitazione è una “mise en scène”: era impossibile ogni illusione teatrale. Il pubblico era ammesso sulla scena. Dal ‘700 in Europa troviamo l’autore alle prove. Voltaire fu un proto-regista dato che non si interessava solo al testo, ma a tutti gli elementi teatrali, oltre a dirigere le prove. Nelle messinscene delle sue tragedie c’erano molte comparse, si ispirava a Shakespeare e grazie a lui dal 1759 gli spettatori abbandonarono il palcoscenico. Anche Beumarchais si interessa alla mise en scène delle proprie opere drammatiche. “Eugenie” inizia con una lunga didascalia, basata sulle idee di Diderot, sulla recitazione muta e sui tableau drammatiques. Anche Goethe, che diresse il teatro di Corte a Weimar, fu un regista ante litteram. Tutto nel suo teatro dipendeva da lui. Cercò di reintrodurre l’abitudine di recitare in versi e dirigeva le prove. Puntava sulla recitazione corale, una teatralità armonica, non incentrata su un solo attore. Voleva portare in scena immagini in movimento. Scena e recitazione dovevano interagire. Il carattere di festa della rappresentazione di Corte era amato da Goethe e funzionava grazie alla collaborazione di varie maestranze. Il 3 dicembre 1799 arrivò Schiller, da lui invitato per creare un teatro di successo. Da “Egmont”, rielaborato da Shiller, G intensificò l’attenzione per la scena. Il 2 ottobre 1798 venne inaugurato il nuovo teatro di Corte. Come secondo spettacolo G preparo “Wallenstein Lager” di S tentando un disegno d’impressione di masse in movimento. Da questo spettacolo i due si impegnarono ad insegnare ad interpretare. Negli stessi anni nei teatri popolari di Parigi, i boulevard, lavora un altro proto-regista, Guilibert de Pixérécourt, l’inventore del mélodrame, genere di successo tra il 1800 e il 1840. Mélodrame: un romanzo in azione, per le masse, spettacolare, ingenuo, con colpi di scena, incidenti ed esagerazioni di sentimenti, con tematiche forti. Influì sul teatro romantico. Fondamentale per lui è l’effetto: dava importanza all’aspetto visivo e, quindi, alla scenografia, puntando su emozioni e sorprese, complicate e con molti cambi di scena. Mentre la tragedia generalizzava, il mélodrame sceglieva situazione rare e le complicava all’infinito, scegliendo tutto ciò che la tragedia aveva respinto, quindi, facendo il suo opposto. Pixérécourt, oltre a scrivere, si occupava anche della parte materiale del suo teatro. L’idea stessa di Mèlodrame implicava la fusione dei generi e l’incremento della spettacolarità. Siamo nel momento in cui gli scavi di Pompei avevano portato in Francia la moda del Vesuvio, P scrive: “Tete de mort”. P prima di molti altri intuì l’importanza della disciplina: per riuscire a teatro era fondamentale imprimere ordine, gusto e severità nel lavoro teatrale. Impegnava molto tempo nelle prove rispetto ai colleghi, 20 giorni, ed era convinto che un autore drammatico dovesse essere in grado di mettere in scena le proprie opere. Per lui, alla base di tutto c’era l’unità di una persona che guidasse tutti attraverso un solo punto di vista. “Mise en scéne” lo leggiamo per la prima volta nel 1821 su “Le Quotidienne” in occasione della rappresentazione di P di “Valentine”. Quindi la mise en scéne si sviluppa prima nei teatri popolari e commerciali, dove serviva l’appoggio del pubblico, solo in seguito anche nei connaiseurs, il teatro dei letterati. Grazie all’estetica della scuola romantica la sensibilità per l’aspetto visivo cresce nell’800 anche nella Comedie Francaise. Negli anni ’20 l’amministratore generale capì che per salvarlo dalla crisi dovevano anche loro puntare sulla mise en scéne, accogliendo sulla scena l’azione e il movimento, l’effetto spettacolare: ovvero passare dal repertorio classico a quello romantico dei boulevard. Hugo e Dumas dal 1830 sognano di avere un proprio teatro in cui occuparsi della messinscena. Nel 1837 Dumas dirige la mise en scène del suo “Caligula” alla Comedie Francaise, testo tra la tragedia neoclassica e il dramma romantico. Furono eliminate le quinte e costruite sei scene in cui fece muovere quasi 100 comparse. Ma la battaglia romantica nel teatro di prosa in Francia è generalmente perdente, la CF rinuncia presto, anche per ragioni economiche, oltre che ideologiche, restando fedele ai testi classici. Il romanticismo migra definitivamente nei teatri popolari, radicando la mise en scéne nei boulevard dove effettivamente nasce. Victorien Sardou, con Scribe, l’autore più rappresentato, nella seconda metà del’800, mise in scena i suoi drammi storici à gran spetacle, recitando accanto agli attori, dandogli indicazioni. La spettacolarità viene vista dai classicisti come prerogativa del teatro popolare mentre la letteratura del il teatro colto. In Francia dal 1860 nella messinscena della piéces à spectacle si utilizzano scene mobili e cambi a vista. Dal 1775 iniziano ad aumentare le didascalie dei testi. In Italia, da poco nazione, continuava ad esserci il teatro basato sui ruoli e sul grande attore, individualista. La figura del regista sarà per questo ritardata. Le scene erano generiche, fatte dal pittore, non dallo scenografo. Mancava il legame tra le parti dello spettacolo. In Inghilterra un’altra prerogativa della regia viene anticipata da Irving, primattore e direttore del Lyceum Theatre di Londra: curava tutto lui, anche luci e comparse. Ma il contributo più esplicito per la nascita della regia va all’opera lirica, a Wagner, che crede che il teatro sia un’arte totale, un qualcosa che diviene vero solo quando percettibile e nobilita la spettacolarità, fino ad allora prerogativa del teatro commerciale à grand spetacle. Per lui l’artista drammatico non esisteva come individualità, era un mezzo figurativo e non poteva rompere l’armonia. Per W il piacere era legato alla percezione simultanea di tutti gli elementi. Ma nella pratica non avvenne: non è in grado di creare una nova scenografia, aggiunge delle scene mobili, che comunque aveva criticato. Fondamentale resta il suo contributo perché ha intuito l’esigenza dell’unità dello spettacolo e ha teorizzato l’opera d’arte totale. Nel 1898 Stanislavskij fonda con Demirovic-Dancenko il Teatro d’Arte di Mosca, dopo venti anni di esperienza teatrale. Per 10 anni è stato coordinatore ed attore del circolo Alekseev e per altri dieci attore principale della Società d’arte e di letteratura da lui fondata. Tramite questo apprendistato ha acquistato le capacità di regista, ma non è ancora quello che conosciamo. Lo diventa grazie all’incontro con Cechov, mettendo appunto la regia come arte di narrare. Nel 1898 va in scena “Il gabbiano”, come altri testi di Cechov, metteva in scena la vita di una famiglia. S anima lo spazio. Con lui il regista diventa direttore d’orchestra, mettendo al centro gli attori, la recitazione. Stende un “quaderno di regia”, una sceneggiatura, una struttura non costruita sull’azione ma sulle parole. Scrive a sinistra le battute di C e a destra le didascalie, molto più lunghe dato che cerca di rendere vivo il testo, definendo tutte le psicologie. Gli attori russi non erano abituati a dialogare tra loro, parlavano come tenori, declamavano, non vivevano il testo. Così S crea una trama visiva in movimento, vicina al quotidiano. I personaggi dell’opera erano antieroici, banali, deboli, inetti e sofferenti: S rende visibili le loro emozioni. I suoi attori fanno gesti volutamente slegati dalle battute. La partitura è basata sulla variazione continua delle emozioni. Con lui gli attori diventano minimalisti: realismo. Importante era anche la partitura sonora utile a scandire il tempo e a dilatare lo spazio. Con C per S diventano fondamentali l’atmosfera e gli stati d’animo. Grazie a C e ai suoi personaggi insoddisfatti S divenne bravo a portare sul palco la noia, fare qualcosa per superarla, il passare delle stagioni e del tempo. Aspira alla sincerità, allo smascheramento della menzogna teatrale. Nel 1904 con l’ultima rappresentazione de “Il giardino dei ciliegi” e la morte di C inizia una nuova fase nella quale vuole che sia l’attore che, tramite il suo lavoro, inventi simboli e riempia il vuoto. Così si impegna a sviluppare la creatività negli attori. Così nel 1906 nasce il sistema: non vuole essere più un regista despota, ma diventa un regista pedagogo che insegna a dimenticare il mestiere e ad apprendere l’arte. L’attore d’arte è concentrato su di sé, prova le emozioni, non si preoccupa del pubblico. Non bisogna partire dalle forme o dallo stile, ma dall’anima. Il suo scopo non è quello di rappresentare ma di generare un vero sentimento e un’immagine vera. Il lavoro dell’attore è interiore. Solo le anime artisticamente pure posso diventare creatrici, possono creare involontariamente nuove forme. L’attore artista non può imporsi di provare un sentimento che non sente, deve risvegliare lo spirito creatore. Il sistema è un metodo per aiutare l’attore a credere nella verità della scena con la stessa sincerità con cui crede nella verità della vita. Il lavoro dell’attore inizia con il lavoro di sé. Scopre che con la concentrazione creativa l’attore riesce a sentire un’emozione analoga già vissuta, le chiama “emozioni affettive” o “memoria emotiva”: rivivendo le proprie emozioni vive in modo autentico quelle del personaggio. Con gli anni tralascia sempre più i problemi pratici e la messinscena impegnandosi sull’elaborazione del sistema del “lavoro dell’attore su sé stesso” e del “lavoro dell’attore sul personaggio”. Nel 1912 fonda il suo primo studio e lo affida a Sulerzickij, fondamentale per aver insegnato agli attori e a S il lavoro su se stessi, nel ’16 alla sua morte lo affida a Vachtangov e fonda il secondo studio, nel ’18 apre il terzo, nato dal laboratorio indipendente di Vachtangov che alla sua morte prenderà il suo nome. Il sistema, grazie ad un suo collaboratore trasferitosi lì, si radica negli USA attraverso Lee Straseberg e il suo Actor’s Studio. S va avanti: nel 1930 mette a punto un nuovo metodo per la costruzione del personaggio: “azioni fisiche”, una tecnica fisica per l’induzione dei sentimenti. Obbiettivo: espressione sensibile per generare sentimenti veri. S pensa che attraverso il corpo si possa agire sull’anima. Questo metodo non rivoluziona la sostanza, ovvero: continua ad unire la vita dell’attore a quella del personaggio quindi l’attore deve trovare oltre alla parola il vissuto, quello che S chiama: il sotto-testo. Per S l’importante è l’interazione tra fisico e pubblico. Trova indifferente partire dall’uno o dall’altro: bisogna aiutare gli attori ad essere uomini reali. In URSS dopo il ’34 S viene visto come maestro di realismo socialista. In USA e nel suo cinema si diffondono le idee del primo studio. Appia e il “Tristano e Isotta” di Wagner: Le idee di Appia e Craig hanno portato alla nascita del concetto di regia che divenne teorico per necessità, dato che le convenzioni del tempo resero difficile l’immediata realizzazione delle loro idee. Hanno messo in luce l’esigenza dell’unità delle componenti teatrali rendendo necessaria la figura di un coordinatore: il regista. Adolphe Appia: svizzero, figlio del medico fondatore della croce rossa, ha contribuito a definire la regia moderna, attraverso la riflessione sul “Wort-Ton-Drama” di Wagner. Nel 1882 partecipò ad un’opera da lui diretta: “Parsifal”, rimase rapito dalla drammaticità della musica, riconoscendo lì lo spettacolo futuro. Wagner, grazie all’unione tra suono e parola, aveva estratto dalla musica la massima espressività. Era anche affascinato dalle innovazioni, ma non era convinto della scenografia, dei costumi e delle luci. Si rende conto che i problemi delle opere di Wagner erano dovuti alla messinscena perché la dimensione extraquotidiana dell’opera rimaneva fuori dalla forma rappresentativa, che era realistica. Nel 1888 Appia decide di dedicarsi alla riforma della messinscena partendo dal dramma wagneriano. Per Wagner il teatro era il luogo dove si metteva in scena il dramma, una storia e quindi la scena aveva un fine preciso: contribuire a creare l’illusione anche facendo cambi di scena a vista per non interrompere la melodia. Appia è critico per la recitazione dei cantanti di W che, volendo dare loro una vita concreta cercavano di recitare realisticamente e ciò strideva con il carattere impalpabile della musica che raccontava una vicenda mitica, interiore. Nelle messinscene di Bayreuth c’era un contrasto evidente tra espressione musicale e gestuale, tra musica e recitazione. A Beyeruth, Isotta cantava vestita da regina di Cornovaglia, ma la musica che comunicava il suo stato d’animo perdeva di importanza in un ambiente così descrittivo. Appia smaschera una contraddizione negli allestimenti wagneriani: il conflitto tra la dimensione metafisica e il realismo della rappresentazione teatrale. Le storie raccontate non sono reali, ma miti che mostrano dei sentimenti più forti rispetto ai quotidiani. Per Appia, Wagner aveva trovato una dimensione metafisica che solo la musica poteva esprimere, ma non una giusta trasposizione scenica: sul piano visivo rimaneva schiavo del realismo del tempo. Appia, deciso di impegnarsi nella riforma della messinscena del dramma wagneriano, nel 1899 va come volontario al Teatro di Corte di Dresda e poi al Burghteatre e all’Opera di Vienna per studiare sul campo le varie possibilità. Tra il 1890 e il 1900 crea un’opera teorica e disegna molte scene. Con lo studio di “Tristano e Isotta” cerca di risolvere la contraddizione tra visivo e sonoro tipica delle opere di Wagner. L’azione drammatica di Tristano è un’azione interiore. I due, in conflitto con l’esterno, si vorrebbero uccidere con una pozione che però è un filtro d’amore. Appia per restituire la visione che hanno gli eroi del dramma, per i quali il mondo è un sogno spettrale, deve ridurre il materiale figurativo, sostituendolo con luci che creano un’atmosfera astratta. Lo si nota particolarmente nel primo atto, che si svolge su una nave, dove Tristano, per suo zio Marke, re di Cornovaglia, chiede la mano di Isotta. Un destino unisce T a I. Mentre la nave sta attraccando bevono un filtro che li dovrebbe far morire e pensando di essere vicini alla morte si dichiarano. Quando si risvegliano sono arrivati e il re li attende. Appia abolisce ogni elemento descrittivo. Il primo atto doveva anche rappresentare la vita esteriore, vissuta tragicamente dagli eroi, e, per mostrare questo conflitto, usa la luce. Il secondo atto si svolge nel parco del castello, di notte. Mentre il re è a caccia I attende T: si ricongiungono finché non arriva Melot che li ha traditi e ha condotto con sé Marke e i cortigiani. Per Appia all’inizio del secondo atto il pubblico avrebbe dovuto vedere solo la fiaccola, le altre forme dovevano essere confuse. Con l’arrivo del re il mondo materiale ritorna. Nel terzo atto T è ferito nel suo castello in Bretagna e sogna l’arrivo di I che arriva realmente mentre lui le muore tra le sue braccia. Muore anche lei ricongiungendosi nell’eternità del loro amore. Appia voleva che le componenti rappresentative si muovessero in modo uniforme. La bidimensionalità della scena dipinta era incompatibile con la tridimensionalità mobile del corpo umano. La pittura veniva sostituita, quindi, dalle proiezioni luminose. Le sue idee erano però troppo moderne, non vennero accettate nemmeno dalla moglie di W. Con il tempo l’espressione del corpo plastico e mobile dell’attore divenne per Appia sempre più importante, anche rispetto alla musica. Nel 1895 intuì la necessità di trovare una ginnastica musicale che servisse da intermediario tra espressione musicale e gestuale, tra attore e musica. Nel 1906, assistendo ad una dimostrazione di ginnastica ritmica, si rende conto di quanto questa disciplina conferisse all’attore di un dramma musicale una scioltezza anomala che gli permetteva di tradurre sul palco il ritmo musicale. Appia individuò nella ginnastica il futuro del teatro e nel ritmo un fattore per il coinvolgimento del pubblico. Iniziò così a disegnare gli “spazi ritmici”: scene tridimensionali, astratte, senza riferimenti ad opere. Nel 1923, grazie a Toscanini, mise in scena alla Scala “T e I”: per la prima volta, a 61 anni, poteva mettere in scena un dramma di W, ma non era possibile metterlo in scena come lui avrebbe voluto. Il 20 dicembre 1923 avvenne la prima, il pubblico e la critica non lo accolsero bene. Morì nel 1928: le sue idee si instaurarono soprattutto dopo la sua morte. Ha proposto un tipo di regia utile non solo per i drammi di W, ma di portata generale. Con intelligenza ha tracciato i limiti e caratteristiche della regia. Craig e il “Didone e Enea” di Purcell: Craig: figlio di una grande attrice della compagnia di Irving, cresce sul palco, da attore a direttore di una compagnia. Nel tempo della sua infanzia predominava su tutti il primo attore, nel Lyceum di Londra si rappresentavano prevalentemente testi contemporanei, nelle intenzioni naturaliste. Ma la ricerca del dettaglio portò alla sovrapposizione di elementi eterogenei, senza unità. Nel 1897 lascia la sua carriera d’attore, tornando nel 1900 come scenografo e regista. Anche lui parte da un’opera musicale: “Didone ed Enea” di Purcell nel 1900. Particolare la scelta di un’opera del ‘600, ciò che contava non era l’intrigo, né le parole ma la musica, che già parlava da sola. Il musicista Shaws propose di rappresentarla come oratoria con i cantanti disposti a semicerchio, mentre Craig propose di rappresentarla su un palco, rendendola teatrale. Fece costruire un ponte di luci dall’alto, gli attori erano volutamente dilettanti, solo il tenore e il primo ruolo femminile erano professionisti. Questo era fatto per opporsi allo star system, oltre alla mancanza di denaro. I dilettanti avrebbero anche accettato più facilmente il lavoro del regista. Per tre repliche ci furono tre mesi di prove: il teatro come pratica artistica, non come commerciabilità. Altra novità era la cura dei dettagli: insegue una totale insensatezza dei dettagli, opponendosi a Irving e alla sua ricostruzione storica della scenografia. Precisione nel metodo ma non nel particolare, nel tratto, crea l’atmosfera, preferisce il mistero. L’arte di Craig è arte della suggestione, dal “Sogno”. Si attuava una momentanea sospensione della vita sociale, in cui si stava con il pubblico, non di fronte ad esso e trionfava una seconda realtà. Nel ’28 Berlino entrò in una nuova fase: tutto ciò che non sembrava reale pareva non interessare più. Nel ’33 mise in scena il “Sogno” a Firenze con attori italiani. Nel ’38 si traferì negli USA, a Hollywood dove aprì una scuola di teatro. Alla fine della sua carriera, come all’inizio, ci fu un nuovo “Sogno” di S messo in scena in un teatro all’aperto. Lo star system gli rese impossibile il lavoro artigianale. Il progetto di rifare il Festival fallì. Nel 1943 morì a NY. Fu un regista di attori che amava gli attori. Mejerchol’d e “Il revisore” di Gogol’: La sua carriera inizia da attore scontento al Teatro d’Arte di Mosca. Nel 1898 Vsevolod Mejerchol’d aveva ventiquattro anni ed era allievo di Nemirovic-Dancenko alla scuola d’arte drammatica di Mosca quando quest’ultimo fondò con Stanislavskij il Teatro d’Arte. Lì interpretò il ruolo nervoso e insofferente di Treplev nel “Gabbiano” di Cechov. La scuola fu fondamentale per la sua preparazione attorica e registica. Nonostante non fosse spesso d’accordo con S lo ha sempre rispettato, grazie a lui imparò che l’attore era l’anima del teatro, finché non sopraggiunse la sofferenza, dopo che i metodi di Cechov li iniziarono ad adottare molte altre opere diventando dei cliché. Gli sembrava che il naturalismo di S avesse bloccato il mistero, l’illusione e l’immaginazione. L’eccesso di particolari gli sembrava un tradimento verso autori poetici come C. M era incompatibile con il naturalismo: ragionava in termini musicali, ritmici. Nel 1902 lasciò il Teatro d’Arte, fondò una compagnia. Il suo repertorio seguiva il realismo, con autori contemporanei difficili. Aveva bisogno di sperimentare e convinse S ad aprire una succursale del Teatro d’Arte, un teatro-studio: il Primo Studio di S, nel 1905. Lasciava gli attori liberi, armonizzando solo dopo. Era convinto che il lavoro teatrale fosse un’opera collettiva e che il regista dovesse equilibrare tutto. Allo Studio sperimentò un nuovo modo di recitare. L’elemento costante di M è la continua ricerca e la messa a punto di un ritmo d’insieme. Ma in questa visione si succedono varie fasi sperimentali. In opposizione al naturalismo, su influsso di Maeterlinck, seguì la linea simbolista, la scena di stile. Invece di dettagli lui stilizzava. Invece di folle, usava gruppi e macchie di colore. Invece di suoni, musica. La recitazione divenne allusiva, volutamente imprecisa. Dato che i movimenti plastici dell’attore erano il principale mezzo espressivo di M creò scene in cui si potesse concentrare tutta l’attenzione sui movimenti degli attori. M abbandonò l’uso dei modellini e dispose gli attori in una piccola parte di palco, davanti o dietro, muovendosi di profilo. Sembravano modelli. La recitazione era flemmatica, senza fuoco. I personaggi erano ridotti a parvenze indifferenziate. I costumi erano scelti per far sembrare i personaggi dipinti. Sembrava un ambiente di presagi e sogni, senza riferimenti concreti. Le sue idee derivano da Maeterlinck, ma l’idea di ridurre a due dimensioni i personaggi viene dal cinema muto. Nel 1906 lo chiamò a San Pietroburgo l’attrice Vera Kommissarzevskaja che dirigeva un proprio teatro ed era in cerca di novità espressive. Nel 1906 andò in scena “Hedda Gabler” di Ibsen in cui M creò una scena impressionista che dava l’idea di una ricchezza fredda. Gli attori entravano e uscivano dopo pochi gesti, ritmici e lenti. Per creare una sinfonia M subordinava gli attori al ritmo d’insieme. In “Nora” del 1906 fu ancora più evidente. Presto la concezione teatrale di V e quella di M si rivelarono incompatibili. Andò avanti, cercò di eliminare il sipario, di portare l’azione in mezzo al pubblico, riscoprì il proscenio, abolito dal naturalismo. Si accorse che la prossimità con lo spettatore non tollerava la mancanza di pathos, e le stilizzazioni impoverivano l’opera. Abbandonando i semitoni e la gestualità statuaria riscoprì il teatro delle tradizioni classiche, popolari e primitive nelle quali non c’era l’aspirazione all’illusione: l’attore era solo e sapeva di esserlo con la sua voce, i suoi gesti e la sua mimica. Alla marionetta impersonale e statica subentrò la marionetta viva e mobile del baraccone. Lo spettacolo clou fu il “Don Giovanni” di Molière al teatro Alexandriskij di San Pietroburgo, invitato con stupore da Teljakpovskij, direttore dei teatri imperiali a lavorare come attore e regista, restando lì dal 1908 al 1914. Le musiche dell’opera furono di Rameau. Inaugurò un processo che la regia del ‘900 ereditò da lui: più che sul testo si concentrò sull’aria, sullo stile. Mostrò il lusso nella corte di Luigi XIV, mostrando tutta la libera inventiva di Molière. Eliminando il sipario, tutto divenne visibile al pubblico. Le opere in questo teatro erano rielaborazioni di classici. In quegli anni lavorò anche con lo pseudonimo di Dottor Dappertutto, personaggio demoniaco dei “Racconti” di Hoffmann, prima al cabaret, poi dal ’13 al ’17 allo Studio-scuola di via Borodinskaja, dove approfondisce la commedia dell’arte italiana. Il ritorno al proscenio aveva significato il ritorno alle tre dimensioni, machere, clown, travestimenti e trucchi da baraccone. Nello studio la parola manca, più che il testo conta la mimica, l’acrobazia, il circo. Al tempo lento di C e S subentra il ritmo e il tempo che preparano la rivoluzione. L’attore è vicino all’acrobata. Nell’arlecchinata “Arlecchino sensale di matrimonio” Mejerchol’d e Solov’ev riscrissero come pantomima un vecchio scenario della commedia dell’arte. Quando non era di scena l’attore poteva improvvisare, ma doveva subordinarsi alla musica. Nel 1917 si butta anche lui nella rivoluzione proclamando “l’ottobre teatrale” e ricopre anche cariche importanti nella nazionalizzazione del teatro. Nel frattempo rinuncia alla carriera d’attore per impegnarsi in quella di regista. La rivoluzione per un decennio gli permette di sperimentare. Lascia l’Alexandrinskij e il teatro professionale per lavorare con giovani allievi attori. Nel ’18 mise in scena “Misteri buffi” di Majakovskij: parodia del racconto biblico, identificava il diluvio con la Rivoluzione. Il luogo scenico era il globo raffigurato da una calotta blu su cui si fissavano gli umani scampati divisi in sette copie di puri, i borghesi, e sette copie di Impuri, i proletari, i quali costruirono un’arca con la quale raggiungevano la Terra promessa, ovvero il paradiso proletario. Lo spettacolo con il suo stile da circo e le sue creazioni cubiste non piacque alla politica per i quali il teatro sarebbe dovuto essere uno strumento di formazione culturale improntato ad un realismo educativo. Da Stalin M iniziò ad essere accusato di formalismo. Dopo “Les Aubes” di Verhaeren in cui utilizzò una scenografia cubista inaugurò una nuova fase. Era il periodo in cui dominavano i costruttivisti che si proponevano di rendere funzionale l’arte, escludendo l’Arte per l’Arte. Il costruttivismo nel teatro si tradusse in fattografia: narrare fatti veri. Nel “magnifico cornuto” di Crommelynck del 1923, messo in scena con cento giovani allievi, fece recitare su uno sfondo di mattoni, su una costruzione stilizzata. La scenografia era come una macchina che si animava nella messinscena. Era un testo lontano dai temi politici della rivoluzione. Affascinato dal testo per la dimostrazione paradossale della logica della gelosia. Era un modo per fisicizzare l’espressione delle emozioni. La messinscena non era realista, aveva un tono di infantile innocenza che azzerava il contenuto eroico del testo. Impatto emotivo sul pubblico: enorme, soprattutto per la recitazione. M aveva escogitato la biomeccanica, una tecnica basata su esercizi muscolari, che consisteva nella trasposizione ginnica dei dati psichici per aiutare a tradurre in gesti i sentimenti dei personaggi. La biomeccanica era la risposta al teatro d’Arte in cui non credeva. Dalla seconda metà degli anni ’20 inizia una nuova fase di M: contrasti, clown, spirito indiavolato, illusionismo e magia. Scartando i dettagli, mischiando gli opposti e accentuando le contraddizioni, il grottesco ricrea la pienezza della vita. Il capolavoro di questa fase è “Il revisore” di Gogol’ nel 1926 nel teatro che porta il nome di M. La messinscena faceva appello a tutte le sue ricerche. Su insegnamento di Hugo e Puskin nulla si avvicina ad una tragedia quanto una commedia, così ha assunto come punto di vista il grottesco, giocando per contrapposizioni, costringendo lo spettatore a sdoppiarsi, già dodici anni prima disse che l’anima del grottesco sarebbe diventata quella della scena. Aveva ristrutturato la piéce, facendo una sintesi completa di Gogol’ ma soprattutto di come l’apparenza della vita nasconde un abisso di vuoto e nulla. Dilatò l’azione a tutta la Russia con l’inevitabilità di una rivoluzione distruttiva. “Il revisore” era uno spettacolo di sintesi, i personaggi alludevano alla capitale. M aggiunse altri personaggi per spezzare i monologhi in dialoghi. Con M la commedia era divisa in 15 episodi che corrispondevano meglio alla percezione del pubblico moderno. La scenografia precisa rimandava ai primi piani del cinema. L’azione era compatta, quindi richiedeva l’agilità dell’attore. L’opera fu una scuola di auto-restrizione per gli attori che dovevano muoversi in un piccolo spazio, con agilità, rimanendo sempre attenti al ritmo. Gli oggetti servivano da supporto all’attore ed avevano una funzione simbolica. Vedendo come costruiva le scene, salta all’occhio il recitare sinfonico degli attori, opposto a quello di pochi anni prima. La messinscena era organizzata secondo un principio musicale: era uno spettacolo concepito sulla sinfonia. La scena finale chiudeva lo spettacolo con una scena potente: il palcoscenico era vuoto, dietro le porte un banchetto. Lo spettacolo rimase in cartellone per dodici anni, fino al 1938, quando il teatro Mejerchol’d venne chiuso. L’attore sacrificava se stesso per l’unità d’insieme. Per M il tempo era fondamentale per il regista che doveva sentirlo senza guardare l’orologio. Alla chiusura per decreto del teatro M trovò solo un uomo disposto ad aiutarlo: S, ma morì. Fu invitato a far nuovamente autocritica pubblicamente, ma continuò a rifiutare. Dopo il suo arresto fu trovata la moglie assassinata nel suo appartamento e fu anche lui ucciso nel 1940. Fino al 1956 il suo nome rimase sconosciuto in Russia. Oggi è considerato il più grande regista del ‘900. Il retaggio lasciato è immenso. Molte caratteristiche del teatro povero, le prove, la tendenza a spostare l’attenzione dall’analisi del testo al mondo dell’autore, la riscoperta della commedia dell’arte, la rivalutazione del teatro giapponese, la capacità di parlare agli occhi e alle orecchie dello spettatore, l’importanza della sperimentazione, l’idea del trattore come anima del teatro sono conquiste di M. Come Craig sapeva che sulla scena bisogna saper far tutto. Piscator e “Oplà noi viviamo!” di Toller: Nel 1929 Erwin Piscator scrisse un libro teorico: “Teatro politico” per difendersi dall’accusa di formalismo. Oggi ci interessa per l’aspetto tecnologico e multimediale che è il mezzo del suo teatro e non tanto per l’aspetto ideologico che ne è il fine. La sua attività si è estesa fino al ’66 in Germania, URSS e USA. Il nucleo interessante è quello degli anni ’20 a Berlino: ha capito che le trasformazioni storiche esigevano un linguaggio artistico basato su una concezione più accelerata del tempo e più ampia dello spazio, sulla centralità del movimento. Ha colto il primato della visione su quello della parola. Inserì il cinema nel teatro per rinnovare la scena dando vita ad un nuovo teatro in cui il centro non era più la parola recitata e il cui autore non era più un letterato ma il regista. È stato il primo ad usare il cinema nel teatro in modo creativo. La sua proposta è basata sull’intreccio tra dada e marxismo e tra volontà politica e l’esperienza di un linguaggio alternativo. Dopo il debutto da regista a Konisberg, dal 1919 al 1921 dà vita al Proletarische Theatre nei quartieri operai di Berlino facendoli diventare teatri provvisori con attori professionisti. L’intento era quello di accantonare l’Arte e l’estetica, mettendo il teatro a servizio della propaganda politica, facendolo divenire uno strumento di lotta di classe. Ma la Rote Fahne, organo del partito comunista, inizialmente attacca l’attività. Dopo il ’23 con il piano Dawes inizia l’americanismo in Germania. Volksbuhne incarica P per la regia di “Fahnen” di Paquet che nel 1926 il teatro epico con l’intento di creare un piacere non passivo, critico con il fine di rinunciare all’immedesimazione. Studia i mezzi per raggiungere il fine: nasce una nuova forma drammatica. Nel 1928 al Theater am Schiffbauerdamm con la regia di Engel e Brecht va in scena la “Dreigroschenoper” (“L’opera da tre soldi”). Lo spettacolo fonde le tendenze del teatro di Weimar: divertimento e politica, divertimento e ammaestramento. Iniziò a provocare: invece che l’immedesimazione, lo straniamento. L’opera ebbe un successo senza precedenti. Sperimentò così la tecnica dello straniamento anche nella messinscena e nella recitazione. Insieme a giovani attori sviluppò un nuovo stile sobrio di recitazione: lo stile epico. La recitazione si basava sul principio gestuale. Gli attori mantenevano un distacco rispetto al personaggio interpretato, dovevano essere presentati in modo freddo e obbiettivo. Non dovevano essere presentati come oggetto di immedesimazione ma come oggetto del pensiero. Spettatori e attori devono allontanarsi, ciascuno si deve allontanare perfino da se stesso. B costruisce dei modelli cui gli attori si potessero ispirare. La scenografia venne totalmente modificata. B allo scenografo non chiede più di ricostruire un luogo, basta solo qualche accenno. B istituisce un nuovo metodo di lavoro: un processo di creazione collettiva che unificava tutte le esperienze. Nessun aspetto della rappresentazione doveva più consentire allo spettatore di abbandonarsi, con l’immedesimazione, a emozioni incontrollate. Il naturale doveva assumere l’importanza del sorprendente. Con l’ascesa del nazismo B sottolineò ancora la razionalizzazione: nacquero così i drammi didattici con un’intonazione sociale e politica marxista. Opere: “Il volo di Lindbergh (L’accordo)”, “Il consenziente e il dissenziente”, “La linea di condotta” e “L’eccezione e la regola”. In questi drammi tutte le pratiche umane venivano mostrate come modificabili da altri uomini. Nel 1930 va in scena “Ascesa e rovina della città di Mahagonny”. Nelle sue note chiariva la contrapposizione tra forma grammatica e forma epica del teatro. Era una proposta di come nel teatro il pensiero dovesse e potesse difendersi da tutto ciò che vuole rapire lo spettatore opponendo a ciò una separazione degli elementi. B si schiera contro il Gesamtkunstwerk chiarendo la distinzione tra opera d’arte collettiva, basata sulla cooperazione tra autore, regista, scenografo, musicista, … e l’opera d’arte totale nella quale le componenti si fondono perdendo la loro individualità, sulla base dello stile wagneriano. La forma epica del teatro non incarna un avvenimento ma ne fa un osservatore. Ogni scena non ne serve un’altra ma fa per sé. Dal ’33, con Hitler al potere, va in esilio, dove inizia a pubblicare i suoi scritti teorici sul teatro: “Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese” (’37), “la scena di strada” (’38), “L’acquisto dell’ottone” (’39-’40), “Tecnica di recitazione che produce l’effetto di straniamento” (’40). Durante gli anni in esilio, in cui si sposta molto, continua a scrive opere, i drammi della maturità: “L’anima buona del Sezuan” (’38-’42), “Vita di Galilei” (’38), “madre Coraggio” (’39), “Il signor Puntila e il suo servo Matti” (’40), “La resistibile ascesa di Arturo Ui” (’41), “Schwwyck nella seconda guerra mondizle” (’41-’44) e “Il cerchio di gesso del Caucaso” (’43-’45). Nel ’47 dopo un processo torna in Europa dagli USA. Nel ’34 torna in Germania. Nel ’49 con Helene Weigel fonda il Berliner Ensemple che dal ’54 ha sede al Theater am Schiffbauerdamm che diventa un centro teatrale che ha attenzione da tutto il mondo. È un teatro modernissimo in cui può collaborare con le eccellenze globali. Si impegna nelle discussioni sul realismo. Nel 1949 mette in scena “Madre Coraggio” con Engel. Aveva scritto il testo nel ’38, in esilio. Il dramma, che chiama “cronaca”, è ambientato nella guerra dei trent’anni e racconta la storia di una donna che gestisce lo spaccio viaggiante tra il 1624 e il 1636. Tre elementi compaiono sempre: la guerra (la vera protagonista), il carro e Madre Coraggio. Fa molti incontri ma alla fine rimane sola. La desolazione delle ultime scene è simbolica: gli unici a trarre vantaggio dalla guerra sono la guerra stessa e i potenti che l’hanno scatenata. Lei simboleggia il destino dei poveri che dà la possibilità ai potenti di muovere le guerre. Lei è l’esempio della cecità del mondo. Viene rappresentato nel 1941 allo Schauspelhaus di Zurigo con Therese Giehse, ma il pubblico e la critica sembrano non aver capito quello che B avrebbe voluto dire: madre Coraggio era stata vista solo come madre. L’obbiettivo di B è far capire il pubblico che può farlo solo non immedesimandosi, tramite lo straniamento. Lo rimette così in scena nel 1949 al Deutsches Theater di Berlino Est con Helene Weigel. È uno spettacolo dimostrativo del teatro epico. I collaboratori di B scrissero un modello per i futuri allestimenti dell’opera, ma va considerato a priori incompiuto, l’importanza maggiore sta nella sua evoluzione. “Madre Coraggio” è suddivisa in 12 scene. Ogni scena ha un titolo che spiega in anticipo l’azione allo spettatore e viene proiettata su un siparietto. Lo scopo era quello di rinunciare agli elementi drammatici della tensione e alla sorpresa, per eccitare la capacità conoscitiva. B raccomandava per l’allestimento materiali realistici. Il carro, nella disposizione scenica, era un punto fisso, nonostante si modificasse. Il palcoscenico era illuminato a giorno, uniforme ed incolore per eliminare l’atmosfera. La musica era stata composta nel ’46 da Dessau, composta da dieci canzoni. La musica non aspirava ad essere orecchiabile, erano degli inserti proprio per mostrare come la musica non nascesse dall’azione. Agli attori consigliava di basarsi sull’osservazione del mondo. Il modo di recitare della Weigel divenne un esempio, recitava con un’intonazione dialettale. Alla mimica sostituiva il comportamento, mai casuale, sempre scelto. Ogni gesto ed ogni oggetto erano scelti con cura. Nel teatro epico tutti i dettagli andavano riprodotti con cura. L’attrice mostrava una madre incorreggibile, che sperava di salvare se stessa e i suoi figli dalla guerra guadagnandoci sopra. Così la cecità della donna nei confronti della guerra veniva smascherata. Non era importante che la donna capisse il suo errore, ma che lo capisse lo spettatore. Il teatro epico non rinuncia alle emozioni: viene condannato solo il sentimento irrazionale. B consigliava di utilizzare l’immedesimazione nelle prove e poi di lasciarla durante la messinscena. Nel 1956 B era a Milano per la rappresentazione de “L’opera da tre soldi” con la regia di Giorgio Strehler. I suoi ultimi mesi di vita li dedicò alle prove della “Vita di Galilei”, morì nel ’56. Capì che se l’800 era stato il secolo dell’illusione e dell’immedesimazione il ‘900 doveva essere il secolo del disincanto, della scienza e dello sguardo dell’ironia. Ha lasciato anche tracce al cinema, come in “Dogville” o nella recitazione di Nanni Moretti. Lo straniamento di B è molto più di una tecnica teatrale: è una filosofia. Anche a noi oggi ha molto da dire: è stato un maestro nello smascherare.
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