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Regie teatrali, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

riassunto Regie teatrali. Dalle origini a Brecht, Fazio

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 19/01/2015

tottolina02
tottolina02 🇮🇹

4.5

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Scarica Regie teatrali e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! REGIE TEATRALI LA MESSINSCENA PRIMA DEL REGISTA La regia e il regista si affermano in Europa verso il 1870. Il processo che porta alla creazione della regia inizia molto prima nella seconda metà del ‘700 in Francia e Germania; con cui crescono di importanza l’attività rappresentativa, la dimensione scenica dell’arte teatrale, il teatro come avvenimento immediato, esperienza condivisa. Nei grandi teatri di alcuni paesi europei esisteva già la figura del régisseur, attore d’esperienza, il più anziano della compagnia o a riposo, responsabile dello spettacolo che comunicava agli attori e ai tecnici l’inizio dello spettacolo, puniva gli attori se tardavano e provava con loro gli ultimi giorni. Più tardi nel corso dell’800, quando la società è cambiata, il pubblico è diventato borghese e lo spettacolo un’industria, compare il metteur en scène, che ordina il lavoro del régisseur. Prima, verso la fine del ‘500 si formavano in Italia, Inghilterra e Francia le prime compagnie di attori professionisti, che usavano il sistema dei ruoli e del repertorio. Ogni attore recitava un insieme di ruoli di una stessa categoria per il quale erano necessari un fisico, una voce e una gestualità particolari nel quale si specializzava. Il compito degli attori era quello di recitare scene, ricordare le proprie battute ed essere al posto giusto al momento giusto; non tanto interpretare un personaggio. Ognuno si preparava ed esercitava per conto proprio, era un sistema individualistico e basato sull’isolamento, contrario all’idea collettiva di regia fondata sull’interazione e l’armonia di tutti gli elementi. In Francia nel ‘600 i generi teatrali vengono suddivisi. Nei teatri di prosa, importava non lo spettacolo ma il testo; il coordinatore dei diversi attori era il capocomico della compagnia, anche primattore; la messinscena era statica e il compito dell’attore-direttore era solo di amalgamare la recitazione degli altri attori che si preparavano separatamente. La recitazione era solo mise en scène, la composizione del teatro rendeva impossibile qualsiasi illusione teatrale. Nel ‘700 troviamo più spesso la presenza dell’autore alle prove e un’interpretazione più individualistica del testo, meno definita rispetto agli stereotipi classici. Voltaire era un protoregista che si interessava a tutti gli aspetti della messinscena, sia in teatri pubblici che privati. Sceglieva gli attori e le opere e dirigeva le prove. Successivamente con l’esilio in Inghilterra, incrementò l’azione e la dimensione spettacolare nella messinscena della tragedia, riempiendo la scena di figure secondarie e movimenti d’insieme. Grazie al suo intervento gli spettatori non ingombrarono più il palcoscenico. Goethe diresse il Teatro di Corte della cittadina di Weimar. Nel suo teatro tutto dipendeva da lui, la scelta del repertorio, degli attori e il loro modo di recitare. Cercò di reintrodurre l’abitudine di recitare in versi. Curava le prove che consistevano anche in prove di lettura a tavolino. Per lui era importante l’armonia tra le varie parti, il lavoro d’insieme, la recitazione corale. Dirige il Wallenstein Lager di Schiller, rappresentato alla riapertura del nuovo Teatro di Corte di Weimar il 1798, in cui cerca di realizzare l’impressione di masse in movimento, con la quale si sarebbero misurati tutti i registi moderni. Successivamente insegnarono agli attori non più solo a dire, ma a interpretare i versi immedesimandosi nel personaggio. Guilbert de Pixérécourt inventore del mélodrame, genere teatrale che ebbe successo in Francia nei primi 40 anni dell’800; teatro spettacolare, diretto alle masse e a un pubblico illetterato, volutamente ingenuo e poco approfondito sul lato psicologico, cerca di commuovere per la violenza e la stravaganza delle situazioni, l’esagerazione dei sentimenti, le tematiche forti. Nei teatri popolari veniva data grande importanza all’aspetto visivo e alla scenografia, complicata e con frequenti cambi di scena perché il mélodrame sceglieva le situazioni più rare e stravaganti e le complicava. Il pubblico era desideroso di movimento, l’emozione doveva venire preparata, completata dalla scena, l’interesse dello spettatore doveva essere attratto dalla situazione. Egli si occupava bravo nel catturare l’attenzione del pubblico costruendo intrecci ingarbugliati, situazioni inedite e contrasti, non si limitava a scrivere i mélodrames ma si occupava anche della parte materiale dello spettacolo, scenografia, effetti scenici, movimento degli attori, musica. I suoi mélodrames abbondano di descrizioni non solo della scena e dei movimenti fisici e psicologici ma anche di tutto il resto, rivelando una grande immaginazione visiva che trasforma il testo teatrale in una specie di sceneggiatura. Prima di molti altri intuì l’importanza della disciplina, per riuscire a teatro bisognava imprimere ordine, gusto e severità nel lavoro teatrale. La mise en scène si afferma prima nei teatri popolari, commerciali dove contava il parere del pubblico; rispetto ai teatri colti dove valeva il parere degli intellettuali. In Francia la Comédie Francaise, nata per diffondere la conoscenza degli autori classici; screditava la messinscena considerata secondaria. Negli anni ’20 il barone Taylor capì che per salvare il Théatre Francais doveva incrementare la mise en scène, accogliere sulla scena azione, movimento, effetto spettacolare; abbandonare il repertorio classico per quello romantico che trionfava tra il pubblico. Ottiene così i mezzi per rinnovare costumi e scene del teatro con allestimenti scenici architettonici, mossi e complessi ed effetti di luce moderni. Hugo e Dumas sognavano di avere un proprio teatro dove occuparsi della messinscena delle proprie opere. Alla fine del 1837 Dumas dirige personalmente la mise en scène di Caligula alla Comédie Francaise un testo a metà fra tragedia neoclassica e dramma romantico, che voleva rinnovare la pratica della messinscena. Vennero eliminate le quinte laterali, costruite nuove scene complesse; in cui si muoveva una folla di comparse. Il romanticismo in Francia nel teatro di prosa trionfa solo per un breve periodo. La Comédie Francaise per ragioni economiche e ideologiche rinuncia allo spettacolo e rimane fedele ai testi classici. Romanticismo e autori contemporanei emigrano nei teatri secondari, i teatri di boulevard in cui si radica il lavoro di mise en scène. In Francia a partire dal 1870 nella messinscena di pièces à spectacle è corrente l’uso delle scene mobili e dei cambi di scena a vista; lo spettatore vede passare in successione davanti a sé i luoghi che i personaggi attraversano. In Italia, dove mancavano i mezzi per un teatro spettacolare, domina il teatro dei ruoli e del grande attore, che ritarda la nascita del regista. Il grande attore italiano è individualista, non cura la globalità dello spettacolo. Le scene erano dipinte, non realizzate dallo scenografo; gli accessori di scena non coordinati e si ripetevano in ogni spettacolo; le prove, soprattutto di memoria, erano limitate e solo alla fine erano prove d’insieme, per il resto ogni attore provava per sé. Mancava il legame tra le varie parti dello spettacolo. In Inghilterra, Irving primattore e direttore del Lyceum Theatre di Londra, si occupava personalmente della preparazione degli spettacoli curandone tutti i dettagli. Il maggior contributo viene da Wagner che anticipa l’idea di regia, ha l’idea di unità della messinscena, teatro come spettacolo d’arte totale dove il testo non ha superiorità sulla musica, esiste solo nel momento in cui viene prodotto sotto gli occhi dello spettatore e diventa percettibile ai sensi. Nobilita l’aspetto spettacolare, rappresentativo del teatro commerciale. Elimina dal teatro tutto ciò che può distogliere l’attenzione dello spettatore dall’azione e riportarla sull’individualità dell’interprete. Per lui il piacere dello spettatore era legato alla percezione simultanea di tutti gli elementi dello spettacolo. Spegne la luce in sala, nasconde l’orchestra, introduce le scene mobili ma non riesce ad eliminare la pesantezza dei macchinari ne le abitudini teatrali degli interpreti. Egli ha quindi intuito l’esigenza dell’unità dello spettacolo e formula l’idea di opera d’arte totale. Alla fine dell’800 si diffonde l’uso della disposizione scenica che doveva fissare per ciascuna opera un modello dello spettacolo su interpretazione musicale, dimensione gestuale, movimenti, scene, costumi, aderente alla concezione degli autori, che verrà poi ripreso negli altri teatri. L’editore Ricordi forniva la possibilità di riprodurre con esattezza in qualsiasi teatro il progetto drammatico originale in tutti i particolari. Esisteva un’unica messinscena corretta, un allestimento ideale, con cui gli altri dovevano misurarsi. La disposizione era completa di indicazioni su bozzetti delle scene, figurini dei costumi, stile del canto, modalità della dizione unita al gesto, rapporto tra voce e orchestra. Con l’affermazione della regia e l’imporsi di una libera interpretazione dell’opera, le disposizioni diminuiscono. Regia sarà lavoro d’insieme, coordinamento delle varie componenti dello spettacolo, unire attori, strumenti, scene, costumi, luci, musica. Il regista avrà il ruolo di dirigere il tutto; il grande regista sarà un interprete che aiuta a penetrare meglio nel testo. IL DUCA DI MEININGEN: GIULIO CESARE DI SHAKESPEARE Il primo metteur en scène fu Georg duca di Meiningen, che creò la prima compagnia omogenea, re distribuì i poteri all’interno degli elementi rappresentativi e mise in pratica il lavoro corale. Inoltre attraverso le tournée che si estero in molte città, gettò le basi della regia moderna. Questa esperienza è economicamente fallimentare e nel 1914 è costretto a lasciare la direzione e il lavoro di regista per dedicarsi al cinema e poi all’attività giornalistica come critico. Antoine è stato un riformatore, ha tentato di portare il naturalismo a teatro e imporre la regia come arte autonoma. Con lui le opere non sono solo più pratica ma anche coordinamento, sottomissione di tutti i dati dello spettacolo all’unità d’insieme. STANISLAVSKIJ: DAL GABBIANO DI CECHOV AL SISTEMA Stanislavskij è stato attore e coordinatore per 10 anni degli spettacoli del Circolo Alekseev, per altri 10 attore principale e direttore della Società d’arte e letteratura. Così si è fatto un’idea dei compiti del regista in relazione ad autore e attore; ma solo dopo l’incontro con Cechov, attraverso il quale mette a punto la sua idea di regia come arte di narrare, illustrare la vita degli uomini, diventerà il grande regista creativo. Alla fine del 1898 va in scena Il gabbiano di Cechov, che non rappresentava le vicende di un eroe principale ma una famiglia tra casa e giardino adiacente. S mette al centro gli attori, la recitazione e con lui il regista diventa direttore di un lavoro d’insieme. Per l’opera stende un dettagliatissimo quaderno di regia, una sceneggiatura teatrale. Riporta a sinistra il testo di Cechov scena per scena, a destra in corrispondenza didascalie, invenzioni che servono a rendere vivo il testo letterario. S amplifica, rafforza le cose che il teso originale suggerisce. Segna dettagli relativi a: spazio, ambiente, mobili, accessori, oggetti della vita quotidiana, spostamenti degli attori sul palco, movimenti, azioni, gesti. Definisce inoltre le sfumature psicologiche, gli stati d’animo interiori: intonazioni della voce, pause, silenzi, sguardi. Attenzione viene data agli oggetti che invadono la scena, e alla loro manipolazione da parte degli attori. All’epoca in Russia gli attori non vivevano il teso, erano incapaci di relazioni reciproche, S invece crea una trama visiva in perenne movimento, somigliante al vissuto quotidiano. I personaggi antieroici sono volutamente banali, deboli, perdenti, insicuri, nevrotici senza aspettative e dubbiosi sul proprio avvenire, soffrono e si interrogano continuamente su quello che fanno. Fa recitare gli attori in un modo inedito: utilizzando intonazioni, mezzi toni, combinazioni e dissonanze. Gli attori piangono, parlano, ridono ma nel frattempo fanno sempre qualcosa, compiono gesti quotidiani, ripetitivi, apparentemente insignificanti, volutamente slegati rispetto alle battute. A S non piaceva la tendenza degli attori a esagerare, gesticolare, eccedere; diventano così minimalisti, realisti. Elemento importante della sua regia erano i rumori, suoni, che servivano a scandire il tempo e ampliare lo spazio, e a ottenere il silenzio. Egli aspira come Cechov alla sincerità, smascheramento della menzogna teatrale, vuole insegnare agli attori una interiorità, correggere la tendenza a strafare con gesti espressivi discreti ma significativi. Dopo il 1904 con la morte di Cechov si apre una nuova fase; rinuncia a decidere prima il piano dello spettacolo e non scrive più quaderni di regia. Vuole che sia l’attore stesso a creare, riempire il vuoto e si impegna nel cercare di sviluppare la creatività nel lavoro dell’attore. Nel 1906 nasce il sistema: metodo per aiutare l’attore ad arrivare a credere nella verità della scena quanto in quella della vita. Si mette a disposizione degli attori per insegnare loro a dimenticare il mestiere ed apprendere l’arte. Devono partire non dallo stile ma dall’anima, il suo scopo è generare un sentimento e un’immagine vera. L’attore artista non può imporsi un sentimento ma deve imparare a creare delle condizioni perché il sentimento scaturisca spontaneamente. Deve imparare a controllare la tensione, concentrarsi e assorbire il pensiero e i sentimenti del personaggio fino a provarli interiormente. Attraverso la memoria emotiva, l’attore riesce ad individuare nel suo passato una stessa emozione affettiva, vissuta in circostanze simili ed esprimere in modo autentico le emozioni del personaggio. Aumenta il suo interesse per la preparazione degli attori e si dedica all’elaborazione del sistema, al lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio. Fonda tre Studi e si reca in tournée, radicando il sistema negli Stati Uniti. Negli ultimi anni mette a punto un nuovo metodo per la costruzione del personaggio secondo le azioni fisiche, sempre per indurre sentimenti veri. L’attore deve fare un disegno generale del ruolo, individuare le circostanze e scomporre il tutto chiedendosi cosa farebbe al posto dell’attore in circostanze analoghe. Troverà così l’azione che permetterà il ritorno di sentimenti. APPIA: TRISTANO E ISOTTA DI WAGNER Appia e Craig hanno sottolineato l’esigenza dell’unità delle componenti teatrali fino allora separate, con l’aiuto di un coordinatore, il regista. Colpito dalla musica di Wagner, Appia riconosce nel dramma musicale wagneriano lo spettacolo del futuro, credeva fosse riuscito ad estrarre dalla musica la massima espressività. Era affascinato anche dalle innovazioni del teatro di Bayreuth: l’orchestra nascosta, la platea ad anfiteatro, il buio in sala durante la rappresentazione; ma non era convinto delle scene, dei costumi e della luce. Osserva che i problemi alla base della difficile accoglienza del dramma wagneriano dipendevano dall’incompleta realizzazione scenica. Nel 1888 decide di dedicare la sua vita a riformare la messinscena, partendo dal dramma wagneriano. La scena doveva contribuire a creare l’illusione, la visione della realtà rappresentata. Vennero usati effetti sorprendenti per realizzare l’illusione della realtà: come l’uso frequente dei cambi di scena a vista, per non interrompere la melodia infinita, la continuità ed instaurare l’unità temporale, alla base dell’idea di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk). La recitazione degli attori strideva con la musica che raccontava una vicenda mitica, interiore e trasportava lo spettatore in un altro mondo. Le storie raccontate da Wagner non sono reali, appartengono al mito; la sua musica evoca un mondo di emozioni più intenso della vita di tutti i giorni. Consapevole dell’importanza dell’esperienza pratica, nel 1889 Appia va come volontario al Teatro di Corte di Dresda, al Burgtheater e all’Opera di Vienna per studiare sul campo la scenografia, l’illuminazione. Negli anni tra 1890-1900 produce moltissime opere teoriche e disegna numerose scene come L’oro del Reno, La Valchiria, Il crepuscolo degli Dei. Successivamente pubblica La mise en scène du drame wagnerien e La musica e la messinscena. Studiando il progetto di messinscena del Tristano e Isotta del 1899 cerca di superare una contraddizione fondamentale di Wagner: distorsione tra visuale e sonoro. In quest’opera, l’azione drammatica è interiore, interna al testo. I protagonisti, in conflitto con il mondo esteriore, si danno la morte bevendo una pozione che credono mortale ma è in realtà un filtro d’amore che invece di ucciderli li infiamma di desiderio. Il regista deve dare la visione che hanno gli eroi del dramma, per i quali il mondo è un’allucinazione. Ciò avviene riducendo il materiale figurativo e sostituendolo con un uso espressivo della luce. Nel I atto Tristano sta conducendo la principessa Isotta dallo zio, suo futuro marito e re. Su invito di lei i due bevono un filtro magico che li dovrebbe portare alla morte, invece filtro d’amore. Convinti che la morte sia imminente si confessano la passione reciproca; ma quando si risvegliano la nave sta arrivando al porto. Appia abolisce gli elementi descrittivi e riduce le illustrazioni figurative. Per rappresentare anche la vita esteriore, elemento vissuto in modo tragico dagli eroi, si serve della luce: en plein air per il mondo esteriore, in contrasto con la penombra e il chiaroscuro della tenda, simbolo del mondo interiore. Nel II atto Isotta attende Tristano, arriva e si abbracciano appassionatamente, benedendo il filtro che li ha riuniti, quando irrompe Melot che ha condotto con sé il re. Mentre gli amanti si uniscono, lo spazio misterioso diventa più uniforme, tutto si perde nell’oscurità. La luce diminuisce, la forma dei personaggi perde i contorni e la passione cresce. Lo spettatore tramite l’effetto della musica e della luce viene trascinato nel mondo interiore dei due personaggi. Il fondo della scena si illumina, vediamo il re con la sua gente. Il giorno cresce e riaffiora il mondo materiale. Nel III atto Tristano gravemente ferito sogna l’arrivo di Isotta, che arriva realmente. Muore tra le braccia di lei, che morendo a sua volta si ricongiunge a lui nella certezza del loro eterno amore. Appia voleva che le componenti rappresentative della messinscena agissero in modo unitario: gli attori dovevano sacrificare la loro individualità a favore dell’armonia generale, la pittura doveva rinunciare alla sovranità, al posto delle luci di ribalta subentravano le proiezioni e lo spazio scenico praticabile. Scrivendo nel 1895 un capitolo di Musik und Inszenierung intuisce che bisognava trovare una ginnastica musicale che servisse da intermediario tra attore e musica, tra espressione musicale e gestuale. Nel 1906 assiste a una dimostrazione di ginnastica ritmica di Dalcroze, il quale cercando movimenti ritmici del corpo equivalenti al solfeggio l’aveva inventata. Per Appia era la concretizzazione di ciò che aveva annunciato, una ginnastica che dava all’attore una scioltezza anormale, indipendentemente dal temperamento dell’individuo e dalle proporzioni degli esseri umani. Permetteva al corpo di visualizzare e tradurre nello spazio di scena il ritmo e la durata musicale. Dalcroze invitò Appia a seguirlo a Hellerau, da quell’esperienza nacquero le idee della sua opera teorica L’opera d’arte vivente del 1921. Nel 1923 Appia fu invitato da Toscanini a mettere in scena al Teatro della Scala Tristano e Isotta. Felice per la possibilità di realizzare finalmente in maniera concreta un progetto wagneriano, si ritrovò in una situazione molto dura, vista anche la sua personalità riservata e sensibilità. L’impianto tecnico e illuminotecnico del teatro non consentivano grandi possibilità realizzative e lo stesso personale sembrava ostile alle novità della messinscena, erano poco disposti a rispettare le sue esigenze di ordine e controllo meticoloso. La prima fu il 20 dicembre 1923, il pubblico e la critica milanese, abituati a messinscene spettacolari, accolsero con sconcerto la sobria e severa messinscena di Appia, fu complessivamente un insuccesso. Muore nel 1928 in una clinica psichiatrica. La maggior parte delle sue idee si imposero solo dopo la morte. Studiando i problemi di messinscena delle opere di Wagner, ha formulato un modello di regia valido per tutti i drammi non solo quelli wagneriani. La riduzione del materiale figurativo per sostituirlo con un uso espressivo della luce è diventata una caratteristica della nostra concezione moderna. La rivalutazione del corpo umano come strumento espressivo, ha anticipato la nascita e il successo della danza moderna. CRAIG: DIDONE E ENEA DI PURCELL Cresce sul palcoscenico e inizia a recitare fin da bambino, accanto alla madre nella compagnia di Irving, acquisendo così una naturale dimestichezza con la pratica e i problemi di scena. All’epoca il teatro era dominato dalla presenza centrale del primattore e si basava sulla ricerca dell’effetto. La ricerca ossessiva del dettaglio si traduceva nell’accumulazione di diversi elementi: fondali dipinti in prospettiva, luci in ribalta, scena ingombra di mobili e accessori superflui. Nel 1897 alla scadenza del suo contratto con il Lyceum, lascia la carriera d’attore per tornare nel 1900 come scenografo e regista. La sua prima regia è la messinscena di Didone e Enea, non un testo letterario ma opera musicale. Lo spettacolo fu rappresentato in una sala da concerto nel quartiere di Hampstead a Londra, nel maggio 1900. Era una composizione basata su una struttura convenzionale, non contavano l’intrigo e le parole ma la musica. Craig trasformò la sala da concerto in un palcoscenico teatrale, largo più che profondo, senza quinte e limitato ai lati da due tele sospese. Viene abbandonata la solita stanza per creare uno spazio scenico praticabile e concentrare l’azione davanti; dare importanza alla luce elettrica, costituita da un ponte luci che rischiarava il palco dall’alto e due proiettori in fondo alla sala che illuminavano gli attori. Gli interpreti erano volutamente dei dilettanti, per la mancanza di mezzi economici e per la maggiore disponibilità ad accogliere il lavoro del regista, non condizionati da pregiudizi e vizi acquisiti, erano più duttili e aperti alla sperimentazione, adatti a un lavoro in comune. Craig aveva una cura dettagliata per ogni aspetto dello spettacolo; è preciso nel metodo, nella chiarezza delle intenzioni ma non nel particolare, nel tratto. La sua è un’arte della suggestione, dell’evocazione, da libertà all’immaginazione del pubblico. Più che al libretto si ispirava direttamente alla musica, ogni scena dell’opera era tradotta in un quadro che trasferiva in visione l’atmosfera suggerita dalla musica. Immettendo il colore sulla scena, fece grande uso della combinazione chiaroscuro e contrasto. La centralità attribuita all’elemento visivo deriva dalla sua formazione pittorica. Analizzando i suoi appunti di mise en scène si nota che non segnava i movimenti e le indicazioni di regia sul libretto ma sullo spartito. Lo spettacolo non si rivolgeva alle conoscenze o alla memoria dello spettatore ma alla sua sensibilità. Non vi erano indicazioni psicologiche ma disegni, contrasti di colore, definizioni di toni di luce, schizzi su movimenti scenici e costumi, indicazioni su tempi e ritmi scenici. La rappresentazione dei vari atti è molto diversa, il fondale non era più dipinto come nelle scenografie tradizionali ma una era una stoffa, altre scene si svolgevano in penombra o illuminate da una luce giallastra che scendeva dall’alto. Nel 1901 l’opera viene replicata al Coronet Theatre di Londra e vengono apportate alcune modifiche. L’ispirazione di ogni scena era tradotta in un’unità di colori che volevano risvegliare un’emozione visiva in armonia con quella uditiva. Anche se semplicissima, la scena era sempre piena, nessuno degli attori assumeva pose o si accaparrava la luce per mettersi in mostra, fondamentale era il piano generale dell’opera, l’unità. e portare l’azione in mezzo al pubblico, aveva riscoperto il proscenio (parte del palcoscenico teatrale protesa verso la platea, leggermente a curva). Lo spettacolo clou di questa fase fu la messinscena del “Don Giovanni “di Moliére. Dopo l’esperienza fallimentare con Vera, Mejerchol’d era stato invitato da Teljakovskik, direttore dei teatri imperiali, a lavorare come attore e regista con la compagnia stabile del Teatro Alexandrinskij. M. non solo aveva accettato, ma si era adattato alle circostanze. Restò all’Alexandrinskij 11 stagioni. Nel “Don Giovanni”, inaugurò un procedimento che la regia del ‘900 avrebbe ereditato da lui, più che sul teatro si concentrò sull’aria, lo stile, la teatralità. Mostrò al pubblico l’eleganza e il lusso della corte di Luigi XIV, eliminando il sipario la scena era visibile al pubblico, la buca del suggeritore era scomparsa, due suggeritori in parrucca e costumi d’epoca verdi, con due grandi folio sotto il braccio vi prendevano posto alla vista del pubblico, centinaia di candele di cera scintillavano, dei negretti profumavano la scena di essenza inebrianti, i costumi e gli accessori sono tanto più sontuosi e colorati quanto l'architettura del proscenio è semplice. Il ritorno al proscenio aveva significato per M. il ritorno alle 3 dimensioni. Maschere, Clownerie metafisica, travestimento, trucchi da baraccone. Nell'ottobre 1917 allo scoppio della rivoluzione, Mejerchol'd non si limita ad aderirvi, vi si getta a capofitto. Occupa cariche importanti per poter riorganizzare il sistema dei teatri in Russia è a capo del TEO ( sezione teatrale del commissariato dell'Istruzione). La rivoluzione gli permette per un decennio di sperimentare, di dare libero corso alle sue invenzioni. Mejerchol'd lascia l'Alexandrinskij, nell'intento di formare una nuova generazione di attori, inizia a lavorare solo con giovani allievi che lo seguivano nelle sue ricerche, cambiando spesso teatro. Nel novembre 1918, M aveva messo in scena “Mistero buffo” di Majakovskij. Nonostante la differenza d'età, tra i due si era istituito da subito un sodalizio perfetto. Due anni dopo, ripresero insieme lo spettacolo a Mosca in un circo, in occasione del terzo congresso del Komintern. Ma lo spettacolo, con il suo stile da circo e le sue creazioni cubiste, non piacque ai politici sovietici, per i quali il teatro doveva essere uno strumento di formazione culturale improntato a un serio realismo educativo e non un “baraccone da fiera futurista”. Nel “Magnifico cornuto” di Fernand Crommelynck, che mise in scena con un centinaio di giovani allievi, liberatosi della scatola scenica, del soffitto e della scenografia dei teatri all'italiana, Mejerchol'd fece recitare gli attori sullo sfondo di mattoni nudi del teatro, sopra una leggera costruzione stilizzata concepita in modo tale che ogni suo elemento veniva costantemente proiettato nella recitazione degli attori. La scenografia del “Magnifico cornuto” era una specie di macchina che si animava durante la messinscena. Incentrato sul tema della gelosia d'amore, questo spettacolo era un testo lontano dai temi politici cari alla Rivoluzione. L'impatto emotivo sul pubblico di quello spettacolo fu enorme soprattutto a causa della recitazione. Per formare i suoi attori prepararli ai movimenti ritmici, non naturalistici, Mejerchol'd, continuando la strada intrapresa allo Studio di via Borodinskaja. Nella seconda metà degli anni '20 inizia per Mejerchol'd una nuova fase, la fase del grottesco. Il capolavoro di questa fase, ma anche compendio di tutte le altre, è il revisore di Gogol', andato in scena il 9 dicembre 1926 nel teatro che dal 1923 fu autorizzato dal governo a chiamarsi Teatro Mejerchol'd. Il testo di Gogol' era un classico notissimo ai russi (Il protagonista piccolo squattrinato in viaggio verso la proprietà paterna mentre sosta in un alberghetto viene scambiato per l'ispettore generale governativo arrivato in incognito così che viene riempito di attenzioni e lusinghe. Senza ben capire cosa gli sta accadento sta al gioco e vi prende gusto. Nel momento più patetico, un gendarme viene ad annunciare l'arrivo del vero revisore e tutta l'alta società si fissa in una scena muta di sbigottimento che è uno dei capolavori della drammaturgia mondiale). Come nel Don Giovanni Mejerchol'd era arrivato a parlare del regno del Re Sole, con il revisore, dilatando l'azione nella piccola città di provincia, parlava della Russia, di tutta la Russia, di Nicola I. Il revisore era dunque anche da questo punto di vista uno spettacolo di sintesi. Mejerchol'd introdusse anche molti nuovi personaggi supplementari che servivano a spezzare i monologhi in dialoghi. La scena finale del Revisore chiudeva lo spettacolo con un effetto potente. Il palcoscenico era vuoto. Dietro le porte era in corso un banchetto. Passavano persone con tovaglioli, bicchieri di vino, camminavano masticando qualcosa, d'un tratto arrivava il gendarme che annunciava l'arrivo del vero revisore. Tutte le porte si spalancavano simultaneamente. In piedi su delle piccole pedane che formavano un'unica piattaforma a forma di ventaglio stavano raggruppate delle figure nelle pose descritte da Gogol', e guardavano sbigottite, impietrite dal terrore, erano dei manichini, inanimati, bambole di cera, automi. Lo spettacolo rimase in cartellone per 12 anni, fino al 1938, quando il teatro di Mejerchol'd venne chiuso. Più volte definito spettacolo- bilancio, spettacolo-mostro, spettacolo-mito, la messinscena del Revisore non è soltanto un esempio di ciò che Mejerchol'd intendeva per teatro convenzionale, è anche una perfetta realizzazione della concezione musicale che M. aveva del teatro. L'8 gennaio 1938 il teatro Mejrchol'd fu chiuso per decreto. Messo all'indice, M. trovò, tutta Mosca un unico uomo disposto ad aiutarlo: il suo vecchio maestro Stanislavskij, che gli offrì di lavorare come regista d'opera. Ma quello stesso anno S. morì. Giudicato e condannato a morte, M. fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca il 2 febbraio 1940. Oggi Mejerchol'd è considerato il più grande regista del '900. PISCATOR : OPLÀ NOI VIVIAMO DI TOLLER Piscator ha colto il primato della visione rispetto alla parola, ha creato un nuovo tipo di comunicazione spettacolare che dopo un secolo ci è divenuta familiare, ma che all'epoca fece scandalo. Inserendo il cinema nel teatro utilizzando il film per rinnovare la scena, ha dato vita a una nuova drammaturgia, non più incentrata sulla parola recitata. Tramite il film documentario ha allargato lo spazio ristretto della scatola scenica mettendo in contatto la finzione della vicenda teatrale con le vicende reali del mondo, e tramite la tecnica del collage e del montaggio ha impresso alla rappresentazione teatrale un andamento non più naturalistico, logico, ma ritmico, rapido, fatto di alternanze e contrasti. Berlino, 1918-1919, in quegli anni Piscator fa due esperienze fondamentali per la sua vita: fa amicizia con gli inventori del fotomontaggio, George Grosz e John Heartfield, insieme ai quali prende parte alle serate del dada berlinese, e si iscrive al Partito comunista. Sarà proprio l'intreccio di queste due componenti, il marxismo e il dada, la volontà politica e l'esperienza di un linguaggio alternativo, il tratto peculiare della proposta scenica di Erwin Piscator. Dopo il debutto come regista a Konisberg, da '19 al '21 Piscator da vita al Proletarische Theater nei locali dei quartieri operai di Berlino, trasformati in teatri provvisori, con attori professionisti e la collaborazione di John Heartfield come scenografo. L'intento dichiarato era quello di accantonare l'Arte e l'estetica e di mettere il teatro al servizio della propaganda politica, facendone uno strumento della lotta di classe. La Rote Fahne, organo del Partito comunista, ostile ad ogni iniziativa d'avanguardia, attacca inizialmente la sua attività. La Volksbuhne (organizzazione teatrale) affida a Piscator la regia di “Fahnen” di Paquert, il quale aveva drammatizzato lo sciopero degli operai anarchici di Chicago. Piscator fa della lotta degli operai di Chicago il simbolo delle lotte degli operai in generale, con evidente allusione all'attualità, e trasforma la messinscena in un reportage su un pezzo di vita reale. Il titolo della pièce e una breve introduzione storica venivano proiettati su uno schermo che scendeva a mezz'altezza a metà proscenio, i personaggi comparivano in palcoscenico, come aveva previsto l'autore, ma i loro ritratti apparivano uno dopo l'altro su uno schermo, un narratore recitava il prologo in versi, i canti popolari che nelle loro Moritaten raccontavano alla folla delle fiere avvenimenti sensazioni, crimini, assassini, indicando con un bastone le immagini su un telone dipinto. Nel corso della rappresentazione, su due pannelli situati in diagonale sui lati dell'avanscena, venivano proiettati estratti di giornali che legavano gli avvenimenti scenici alle rivendicazioni tedesche del 1924 e fotografie che spiegavano i retroscena della vicenda. La proiezione ripetitiva di slogan e titoli di giornali distoglieva continuamente l'attenzione degli spettatori dalla recitazione degli attori in scena, costringendoli a uno spostamento continuo dello sguardo. I vari episodi erano intercalati dalla proiezione di brevi didascalie che traevano la morale dei fatti. La reazione della stampa fu in generale piuttosto negativa. Il 7 novembre 1924, in occasione delle elezioni del Reichstag e per incarico della KPD, il partito comunista tedesco, andò in scena la “Revue Roter Rummel”, ora Piscator aveva messo in scena una rivista vera e propria. Il testo era stato composto da Piscator in collaborazione con Felix Gasbarra basandosi sulla tecnica del collage. Nel luglio 1925 al Grosses Schauspielhaus, il teatro per le masse, Piscator mise in scena “Trotz alledem”, una rivista storica sulla storia del movimento operaio incentrata sugli anni che andavano dallo scoppio della guerra all'assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, capi del movimento spartachita. Piscator sperimentò un nuovo metodo di lavoro collettivo: la musica di Edmund Meisel,da poco convertito alla musica nera, che eseguiva un frastuono infernale, e la scenografia di John Heartfield si intrecciavano continuamente. Per la prima volta Piscator inserì nella rappresentazione teatrale, che era suddivisa in 23 scene, oltre le proiezioni fisse anche 3 sequenze filmate di materiale documentario proveniente dagli archivi di stato. In seguito a questo processo, Piscator inizia un rapporto continuativo con la Volsbuhne. Modifica ulteriormente il teatro di Bulowplatz. Ma a causa di divergenze politiche con la direzione della Volksbuhne, dopo qualche tempo Piscator viene costretto ad abbandonare il teatro. Nel '27, grazie ad un finanziamento Piscator poteva disporre di un suo teatro, la Piscator-Buhne. Ma si limitò a modificare il Theater am Nollendorfplaz, nel cuore dei quartieri occidentali ed eleganti di Berlino. Piscator fece costruire una cabina tecnica nuova, in modo da poter lavorare dietro la scena contemporaneamente con 4 impianti di proiezione. Lo spettacolo inaugurale ebbe luogo il 3 settembre 1927:”Oplà noi viviamo” tratto dall'omonimo testo di Ernst Toller ( Karl Thomas contannato a morte per aver partecipato alla rivoluzione del '18, graziato e internato in una casa di cura a causa dello choc subito, uscito dalla clinica si ritrovava in una Germania irriconoscibile. I sogni infranti di un ragazzo del '19 venivano messi a confronto con la realtà politica dell'uomo del '27 che alla fine si uccideva). Tramutò il testo teatrale di Toller in una specie di sceneggiatura. In questo spettacolo Piscator sperimento per la prima volta un nuovo metodo di lavoro. Creò un enorme libro di regia, redatto prima di iniziare le prove, in cui ad ogni pagina del testo corrispondeva un grande foglio suddiviso in 6 colonne con tutte le indicazioni relative alle messinscena: una colonna per l'atmosfera, una per gli attori, una per le proiezioni e il film, una per la musica e i rumori e una per le luci. Così se un personaggio diceva “Buongiorno” la colonna delle note conteneva il commento del regista, la colonna della azioni descriveva i movimenti, la colonna dei costumi indicava che vestito indossava e quali cambi eventuali, la colonna delle luci mostrava il fascio di luce che da fuori affluiva. La scenografia di Oplà noi viviamo era un impianto costruttivista. Consisteva in un'impalatura di ferro, in tubi metallici per il gas, divisa verticalmente in tre parti. Il risultato era un dispositivo a scacchiera, che consentiva azioni simultanee e innumerevoli combinazioni. Il primo film, proiettato sullo schermo grande, riproduceva una sommossa, la sua repressione e infine l'interno di una prigione. Nel secondo film, che in sette minuti illustrava gli otto anni di dedizione del protagonista. La presenza dei film lacerava continuamente l'illusione mettendo in risalto l'artificialità della rappresentazione teatrale e metteva in difficoltà gli attori ma che con il tempo impararono a recitare in modo diverso. Erano 3 i tipi di film utilizzati da Piscator nei suoi spettacoli e avevano funzioni diverse: il primo film didattico, comunicava dati obiettivi, attuali e storici, illustrava l'argomento del dramma; il secondo film era drammatico e si inseriva nello sviluppo dell'azione; il terzo era il film di commento che accompagnava l'azione coralmente, si rivolgeva direttamente allo spettatore. Ma se la grande novità che viene riconosciuta a Piscator è l'inserzione del film nel teatro, l'elemento più interessante del suo lavoro è il suo metodo, il modo in cui egli ha attuato questa contaminazione utilizzando il collage. Dai collage dada come dal cinema Piscator apprende a parlare attraverso l'associazione, la comparazione, il confronto. In occasione del 10 anniversario della Rivoluzione d'ottobre, nel novembre 1927, Piscator mise in scena uno spettacolo sulle origini e le forze motrici della rivoluzione Russa. “Rasputin, i Romanov, la guerra e il popolo” , in questo spettacolo P. usò il film di commento come proiezione del dramma nell'avvenire. Mise a confronto, davanti agli occhi dello spettatore, i personaggi scenici e il loro futuro destino. Nel gennaio del 1928 Piscator portò in scena il romanzo incompiuto di Hasek, “Le avventure del buon soldato Svejk”. L'opera consisteva in una gigantesca raccolta di aneddoti e di avventure che ruotavano intorno al protagonista, il quale durante la prima guerra mondiale veniva continuamente sballottato da una parte all'altra del fronte prendendo ogni cosa così sul serio da rendersi ridicolo, e accettando tutto al punto che la sua obbedienza finiva col distruggere la logica stessa della guerra. Piscator trasformò il piano fisso del palcoscenico in una superficie mobile installandovi due tapis roullants che si muovevano in modo contrario. Così senza nessun tipo di adattamento teatrale, la distribuzione dei fatti poteva seguire fedelmente quella del romanzo e le battute del dialogo erano quelle originali di Hasek. Con il tapis roullants, Piscator aveva trovato il mezzo scenico corrispondente alla fluidità epica del romanzo. Nel maggio 1928 Piscator fu costretto per motivi economici a cedere il teatro. Alla fine dell'estate 1929 tentò di aprirne un altro. Il 6 settembre mise in scena “Il mercante di berlino” di Mehring, descrizione critica e satirica dell'inflazione al cui centro agiva un mercante ebreo delle province orientali. Nell'ottobre '29 crollò la borsa di NY, non solo calò radicalmente il numero di spettatori, ma ci furono anche drastiche riduzioni delle sovvenzioni statali. La vita dei teatri privati non divenne meno difficile. Nell'ottobre del '29 anche la seconda Piscator-Buhne ebbe fine, ma il gruppo di Piscator rimase unito e decise di mettere in scena un testo che trattava un problema scabroso, la lette sull'aborto, la cui rigida applicazione durante il duro periodo della depressione aveva causato grandi sofferenze: “donne in pericolo” di Carl Credé. Non avendo più mezzi economici, Piscator riprodusse in scala ridotta e coi modi del teatro povero il principio del montaggio dialettico che aveva realizzato mettendo a contrasto scena e film. Il pubblico fu colpito dal tema dello spettacolo e per la prima volta uno spettacolo si concluse con un'assemblea pubblica. Nel 1931 Piscator fu invitato in Unione Sovietica, dove girò il film “La rivolta dei Pescatori di Santa Barbara” dalla novella di Anna Seghers, e dal '34 al '37 fu presidente della Lega teatrale internazionale rivoluzionaria. Piscator lasciò l'unione sovietica e si trasferì a Parigi. Di lì emigrò come tanti altri intellettuali tedeschi negli USA. Nel 1940 a NY creò il Dramatic Workshop, una scuola di teatro che formò molti attori famosi. Nel 1951, preso di mira dal maccartismo, Piscator rientrò in Germania dove lavorò per più di 10 anni come regista ospite di vari teatri tedeschi, cimentandosi in nuovi interessanti esperimenti sull'uso della
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