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Storia della Psicologia: Dalle origini alla fine del XIX secolo, Schemi e mappe concettuali di Psicologia Generale

Una panoramica storica della psicologia, dalla sua nascita fino alla fine del xix secolo. Viene esplorata l'origine del termine 'fisiologia' per indicare lo studio delle attività psichiche, la concezione dualistica della filosofia e il suo impatto sulla ricerca psicologica, il metodo scientifico e le strategie di ricerca psicologica, le distorsioni sistematiche dei dati nella ricerca psicologica e la misura della validità concorrente. Viene inoltre presentato il lavoro di fechner e la tassonomia delle strategie di ricerca psicologica.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica Storia della Psicologia: Dalle origini alla fine del XIX secolo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! RENZO CANESTRARI – ANTONIO GODINO TRATTATO DI PSICOLOGIA Capitolo 1 1 I MODELLI TEORICI IN PSICOLOGIA La Psicologia scientifica si è costituita come disciplina autonoma intorno alla metà dell’800. La parola Psicologia, la cui etimologia greca significa letteralmente “discorso sull’anima”, designa una disciplina che mira ad una interpretazione empiricamente fondata delle funzioni mentali. L’uso di tale termine suggerisce per essa un compito paradossale: valutare in modo esatto (preciso) le funzioni umane dipendenti da un’entità immateriale quale è l’anima. Prima del secolo 19 per indicare lo studio delle attività psichiche si adoperava il termine fisiologia (che significa etimologicamente “studio della natura umana” (Canestrari – Godino, 1997, 1). Nei primi “laboratori di psicologia” si cercò infatti per la prima volta di studiare sistematicamente, secondo le modalità che caratterizzano l’approccio scientifico ed empirico di definizione e di spiegazione dei problemi, le funzioni mentali e il comportamento umano. Già prima di allora si erano ovviamente formate e considerate delle teorie sullo psichismo come nel caso di Aristotele o di Ippocrate. Tali antiche concezioni, avevano una base di tipo razionalistico o analogico e mancavano quindi di un supporto empirico, come di un metodo che fosse scientificamente valido. Una spiegazione scientifica invece è una teoria che viene controllata in modo empirico e che assai spesso porta a risultati anti-intuitivi, a spiegazioni non desumibili attraverso l’apparenza del fenomeno. Le antiche psicologie non erano quindi realmente scientifiche, in quanto non portavano ad una conoscenza autentica, né producevano delle dimostrazioni valide. Lo stesso si può dire per le teorie mediche di Galeno sulla relazione fra lo stato di alterazione psichica e la circolazione dei “fluidi” o “umori” nel corpo. Anche queste non erano scoperte scientifiche, ma semplicemente delle spiegazioni intuitive. Il primo vero antesignano della Psicologia scientifica ottocentesca è comunque René Descartes (1596-1650). Egli ereditò dai filosofi che lo precedettero la concezione del dualismo ovvero che l’uomo sia costituito da due entità: il corpo (res extensa), visto come una macchina e quindi studiabile come oggetto fisico sottoposto alle leggi naturali e l’anima (res cogitans), che è invece spirituale e opera secondo il libero arbitrio quindi non può essere studiata o compresa con i metodi della scienza. Il punto realmente innovativo della teoria cartesiana consisteva nel fatto che per spiegare una grandissima parte delle condotte umane egli fece ricorso a delle teorie che escludevano l’intervento dell’anima o del libero arbitrio. 2 si fondava sull’auto-osservazione e sulla descrizione minuziosa e sistematica del vissuto del soggetto. Con la tecnica dell’introspezione sistematica lo psichismo venne “oggettivato” e reso analizzabile frazionando nei suoi elementi di base l’insieme del processo mentale. Condizioni della plausibilità di tale metodo erano che: a) Esso costituisce l’unico modo per esplorare direttamente la psiche; b) La sua sistematizzazione codificata e l’addestramento dell’osservatore-scienziato lo rendessero strumento di misura attendibile e intersoggettivamente valido. I difetti radicali del metodo che portarono al suo abbandono dopo alcuni decenni, sono la dimostrata soggettività dei dati ottenuti e l’inapplicabilità per gran parte dei soggetti. In definitiva, il metodo introspettivo era utilizzabile con difficoltà, richiedeva un grande dispendio addestrativi e formativo e forniva dati imprecisi e non ripetibili. L’introspezione sistematica si presentava comunque concettualmente congrua alla posizione teorica di Wundt, una posizione strutturalista che si interessava della interrelazione delle varie parti del sistema nervoso e di come esse operano congiuntamente nella sensazione, nelle percezione e nella costruzione dell’esperienza conscia. Inoltre l’introspezione si presentava come un tentativo di discernere, nel modo più preciso possibile, le componenti elementari di un processo e quindi come tecnica di indagine ottimale per una concezione psicologica associazionista, quale era quella wundtiana, secondo la quale il fenomeno è il frutto della somma e della combinazione di componenti elementari (Canestrari – Godino, 1997, 6-7). La Psicologia della forma o Gestaltpsychologie Questa scuola di Psicologia è di matrice tedesca. 5 La Psicologia della Forma o della Gestalt (la parola “forma” in tedesco) è in posizione antitetica rispetto all’associazionismo di Wundt e indaga il funzionamento della mente attraverso lo studio del fenomeno e del vissuto, non con opera di analisi ma di sintesi della globalità della esperienza. I gestaltisti sostenendo che l’insieme è un qualcosa che va al di la della semplice somma delle sue minute parti, e che lo studio che si limiti alla analisi di queste ultime nulla o molto poco ci può dire sulla architettura dell’edificio psichico. Ogni aspetto dello psichismo si fonde con gli altri a costituire una struttura sovraordinata, una gestalt, che come una composizione musicale ha qualità che non sono rintracciabili nella semplice scomposizione della sequenza di note perché per essere compresa va apprezzata nella sua unità. Le principali ricerche fatte dai gestaltisti sono pertinenti alla percezione, ma vi si trovano anche importanti contributi allo studio della psicologia dei gruppi, della ontogenesi dell’intelligenza, della Psicologia sociale e delle dinamiche relazionali (Canestrari – Godino, 1997, 8). La Gestalt influenza tuttora con il suo metodo ampi settori della ricerca, in particolare uqello che viene etichettato come psicologia Cognitivista. La Psicologia dinamica o del profondo 6 Sigmund Freud ebbe l’intuizione di postulare una unità di base del complesso mente- corpo in senso bidirezionale (la mente agisce sul corpo e viceversa), insieme ad una pluralità di livelli della funzione mentale (un livello inconscio, uno preconscio ed uno conscio) (Canestrari – Godino, 1997, 9). Il modello si chiama psicodinamico perché fa riferimento ad una relazione mobile, dinamica, fra queste istanze psichiche o parti funzionali della mante. In un secondo momento Freud ha riformulato la teoria psicodinamica postulando l’esistenza delle tre istanze psichiche dette Id, Ego e Super Ego. Ciò che rende problematico e discusso il modello freudiano, dal punto di vista epistemologico è il fatto che esso postula l’esistenza di una entità o livello che per definizione non è direttamente osservabile: l’inconscio o l’Id. Le conferme o le smentite al modello non si possono ottenere con ricerche croniche al laboratorio in quanto l’inconscio è individuabile solo indirettamente o per via interpretativa fondandosi sulla presenza o assenza di certi particolari fenomeni (atti mancati, sogni) che sono ritenuti essere l’espressione di tale istanza psichica. Il metodo della ricerca psicoanalitica è quindi quello dell osservazione sistematizzata dei fenomeni psichici e comportamentali, colti quali prodotti di dinamiche profonde, mentre la tecnica di comprensione degli stessi fenomeni è ermeneutica o interpretativa. Presupposto giustificativo dell’interpretazione è il determinismo: l’idea che nessun aspetto, anche il più apparentemente secondario e marginale, della condotta o del vissuto di un individuo è dovuto al caso ma deriva costantemente da una causa o fattore preciso. Il modello psicodinamico ha trovato un preciso riscontro e una conferma nella creazione di nuovi metodi di trattamento e cura dei disturbi psichici: la psicoanalisi e la psicoterapia dinamica (Canestrari – Godino, 1997, 10-11). Comportamentismo o Psicologia oggettiva 7 METODO SPERIMENTALE ED OSSERVAZIONE SISTEMATICA Gli assunti scientifici della psicologia sono del tutto analoghi a quelli delle scienze naturali come la Biologia e la Fisica. L’assunto di base è il determinismo: gli effetti che osserviamo sono non fortuiti ma sempre riconducibili ad una causa; quindi una risposta è sempre l’esito di una catena di rapporti causa- effetto. Dalle relazioni causali circoscritte si può poi risalire a regole di causazione, o leggi generali del funzionamento psichico. Se non si supponesse una determinazione casuale degli eventi, ma un loro susseguirsi fortuito e meramente casuale, la ricerca di spiegazioni o di leggi di carattere generale non avrebbe alcun senso. Il secondo assunto del metodo scientifico è l’empirismo: per comprendere come è fatto il mondo e come funziona, non ci si basa sulla coerenza di un modello esplicativo (come si farebbe in filosofia), ma si ricorre ad una verifica concreta, cioè materiale ed empirica, di una teoria esplicativa (Canestrari – Godino, 1997, 14). La teoria origina anche essa da osservazioni empiriche, e non viene ritenuta accettabile se non è convalidata empiricamente. Il terzo assunto è quello dell’invarianza. Esso presuppone che, a parità di tutte le condizioni di azione dei fattori e di caratteristiche dei soggetti, il risultato finale della combinazione degli stessi fattori deve essere sempre il medesimo evento o fenomeno. Si tratta di una proprietà logica inerente alle catene di fattori causali, proprietà che consente di fare delle induzioni prospettiche e delle previsioni. Un quarto assunto, strettamente dipendente dall’empirismo, va sotto il nome di definizione operativa dei concetti che si intende studiare e verificare, e consiste nella necessaria traduzione di ogni concetto contenuto in una formulazione teorica in un formato misurabile e quantificabile (Canestrari – Godino, 1997, 18). 10 Si può stabilire una tassonomia, o una scala gerarchica di strategie di indagine e di ricerca. Una proposta molto chiara di tassonomia ordina le strategie di ricerca psicologica secondo 3 dimensioni: 1-La prima dimensione è quella del metodo di ricerca che può essere di tipo sperimentale, correlazionale e descrittivo (Canestrari – Godino, 1997, 18). E’ di tipo sperimentale quando si verifica una ipotesi, manipolando direttamente e in modo controllato i fattori che dovrebbero essere la causa di un certo fenomeno. Si chiama variabile indipendente quel fattore che viene manipolato nell’esperimento e che secondo la nostra teoria è la causa di un dato fenomeno. E’ invece detta variabile dipendente l’effetto osservato, effetto che la teoria in questione attribuisce alla causa detta variabile indipendente. Per poter fare un esperimento corretto dobbiamo escludere che il risultato sia dipendente da altri fattori. Il modo più semplice è quello di rendere questo fattori omogenei (Canestrari – Godino, 1997, 19). Il metodo descrittivo è lo strumento basilare per la costruzione di ipotesi, ne costituisce la più elementare premessa logica (Canestrari – Godino, 1997, 22-23). Esso costituisce quindi il metodo di studio elettivo per quei campi di cui non disponiamo ancora di informazioni adeguate per poter compiere uno studio con metodo rigoroso. Esso inoltre costituisce l’unico metodo applicabile per tutte le classi di fenomeni che non sono manipolabili o studiabili in laboratorio, né attraverso il metodo correlazionale (Canestrari – Godino, 1997, 23). In ogni caso la prima regola di uni studio descrittivo è che l’osservazione venga fatta in modo non intrusivo, cioè che l’osservatore non interferisca nell’azione, che non ne interrompa il decorso per poterla esaminare, che sia preferibilmente non visibile e comunque alla periferia del campo. Per rendere ancora meno importante l’interferenza dell’osservatore sulle dinamiche dell’evento osservato si utilizza, specie in psicologia sociale, la tecnica dell’osservazione partecipante. In questo caso l’osservatore si inserisce all’interno del gruppo e della situazione che poi sarà oggetto del suo studio, ne approfondisce in tal modo la conoscenza e si fa “accettare” dai soggetti (Canestrari – Godino, 1997, 24). Un ulteriore modo per ridurre l’interferenza sui fatti osservati consiste nel prendere nota degli eventi a posteriori, con un resoconto o con un diario. Questa è la tecnica del protocollo quotidiano, per cui non si registrano indiscriminatamente tutti gli eventi ma solo un campione di essi ritenuto significativo. 11 La sistematizzazione metodologica del resoconto favorisce sia la precisione che la oggettività dei dati ottenuti con il metodo descrittivo, ma non risolve quello che è il suo limite invalicabile, ossia la distorsione legata al filtro soggettivo dell’osservatore. Un metodo per superare questo problema sembra essere l’utilizzo di sistemi di registrazione automatica. Non si tratta in realtà di una soluzione definitiva, in quanto spetterà allo studioso il compito di selezionare e classificare i dati e sarà comunque guidato non solo da criteri oggettivi, ma anche dalla sua particolare e soggettiva cifra interpretativa. Una particolare variante del metodo osservativo è costituita dall’introspezione sistematica, metodo nel quale l’osservatore utilizza tecniche rigorose per descrivere quello che avviene dentro di se (Canestrari – Godino, 1997, 25). Il metodo correlazionale si colloca in posizione intermedia, fra il metodo descrittivo e quello sperimentale. Nel metodo descrittivo ricaviamo informazioni sulle variabili rilevanti e a partire da tali informazioni costruiamo una teoria ipotetica sulla loro relazione causa-effetto; nel metodo sperimentale, infatti, mettiamo alla prova la probabilità che la nostra teoria sia quella giusta con una manipolazione controllata di una o più variabili. Nel metodo correlazionale le variabili non vengono manipolate ma il ricercatore osserva o misura due o più variabili per cercare se esiste fra esse una relazione. Gli studi correlazionali possono individuare delle relazioni sistematiche fra dei fattori, ma questo non implica che si tratti di relazioni causali (Canestrari – Godino, 1997, 25). 2- La seconda dimensione è quella tecnica di raccolta dei dati, che può essere oggettiva o soggettiva (Canestrari – Godino, 1997,19). 3- La terza dimensione è quella del quadro o ambiente nel quale viene condotto lo studio, in laboratorio o sul campo (Canestrari – Godino, 1997,19). 12 che non siano semplicemente osservative su soggetti che per la loro età non sono in grado di esprimere un consenso. Nel caso di ricerche effettuate con animali, il principale problema etico riguarda non il consenso informato ma il fatto che le procedure sperimentali non comportino per l’animale un patimento inutile (Canestrari – Godino, 1997, 33). 15 Capitolo 3 METODO PSICOMETRICO “Psicometrico” indica che un test è una misura (metro) di un elemento psichico (Canestrari – Godino, 1997, 37). Curva di Gauss. E’ una curva a campana il cui punto centrale vede sovrapporsi la media, la mediana e la moda. Le qualità docimologiche di uno strumento psicodiagnostico sono: 1- L’attendibilità. La misura con il test deve essere ripetibile, cioè il punteggio prodotto deve essere sempre costante quando si ripete la prova sullo stesso soggetto. Fra le varie voci e le misure che sono connesse alle risposte si deve riscontrare una correlazione positiva, una coerenza interna. In pratica ciò vuol dire che le diverse domande o voci del test sono studiate in modo da mettere a fuoco e verificare la presenza di un solo fattore. Per verificare l’attendibilità e misurarla con precisione esistono due metodi fondamentali. Il primo è quello di ripetere il test sui soggetti a distanza di tempo e paragonare i punteggi (Canestrari – Godino, 1997, 39). Il secondo metodo consiste nel dividere il test in due parti uguali. Se il test è attendibile e coerente i punteggi delle due metà saranno identici o molto simili ed il loro andamento o profilo sarà lo stesso, vale a dire che essi aumenteranno o caleranno in parallelo. 2- Il test deve essere inoltre valido. Si definisce validità la capacità di un test di misurare quello che dice di voler misurare e non qualche altra cosa. I fattori che vengono misurati con i test psicologici non possono essere toccati, visti, soppesati materialmente, perché non sono oggetti o cose, ma aspetti funzionali della mente. La prima cosa che rende valido un test è la validità di costrutto, cioè la validità della teoria prescelta per costruire il test. La validità teorica di un test che deriva dal basarsi su una buona teoria, deve però essere sempre verificata empiricamente. Le procedure di verifica empirica sono 2. L’una è la validazione di criterio: applichiamo il test su un gruppo di individui che sappiamo già possedere le 16 caratteristiche misurate dal test e su un gruppo che sappiamo già che non le possiede. La seconda procedura di verifica empirica è la misura della validità concorrente: invece di applicare un unico test, usiamo una batteria di test che mirano a misurare lo stesso fattore (Canestrari – Godino, 1997, 40). La raccolta delle informazioni si ottiene attraverso molteplici procedure. Quello apparentemente più semplice consiste nel fare delle domande al soggetto e formulare diagnosi sulla base di ciò che risponde e sul modo in cui ci risponde. I tipi di intervista sono fondamentalmente due: l’intervista libera o non strutturata e l’intervista strutturata. L’intervista non strutturata presenta alcuni vantaggi, quali il creare un’atmosfera positiva nel rapporto grazie a domande personalizzate, o il permettere di esplorare molte cose in poco tempo dato che si possono modificare le domande in base a ciò che il soggetto dice e cosi via. L’intervista strutturata da invece questa possibilità di confronto oggettivo, perciò è molto appropriata per le ricerche scientifiche o per studi interessati a confronto fra soggetti diversi, oppure al confronto della condizione degli stessi soggetti prima e dopo un dato trattamento (Canestrari – Godino, 1997, 41). Invece che proporre al soggetto le medesime domande, come si fa con l’intervista strutturata, si può, ancora più semplicemente dare al soggetto un questionario da compilare. Dato che ad ogni tipo di risposta può essere attribuito un peso e un punteggio preciso, questi questionari sono semplici da analizzare statisticamente e, se ben standardizzati, costituiscono un ottimo ed economico strumento di ricerca. Se vogliamo avere un quadro meno semplificato dovremmo preferire questionari a risposta aperta. Ancora una volta, come nel caso del colloquio clinico non strutturato, abbiamo molte informazioni raccolte in poco tempo, ma lo strumento diagnostico è meno oggettivo ed attendibile, dato che la diagnosi finale dipende da come vengono interpretate dal clinico tutte queste informazioni. In pratica, quasi tutti i questionari correntemente usati sono a risposta chiusa (Canestrari – Godino, 1997, 42). 17 Si parte sempre da problemi e compiti facilissimi, che solo un idiota profondo non riesce a risolvere, e via via la difficoltà aumenta. Gli ultimi elementi della serie sono molto difficili e risolvibili da una piccola minoranza di persone molto intelligenti (Canestrari – Godino, 1997, 51- 52). La fascia di normalità si colloca fra un QI di 85 e 115, ovvero dentro una deviazione standard dalla media (Canestrari – Godino, 1997, 53). Sia il Wechsler che lo Standoford-Binet misurano lo stesso fattore psicologico. Entrambi i test sono particolarmente adatti a misurare quel tipo di intelligenza generale, sia astratto che concreto, che meglio si presta per un apprendimento di tipo scolastico. Quindi non sono test validi per misurare altre e più specializzate forme di intelligenza (Canestrari – Godino, 1997, 55). Le Matrici Progressive di Raven formano il test PM di Raven 5 serie di 12 matrici da completare. Queste serie sono di difficoltà crescente (le prime tre formano se utilizzate da sole, il test di Raven per fanciulli) e danno una misura dell’intelligenza relativamente non distorta del livello di scolarizzazione. Non presentando compiti verbali, questo test può anche essere proposto ad un soggetto che non parla la stessa lingua di chi applica il test (Canestrari – Godino, 1997, 56). Per misurare l’intelligenza dei bambini più piccoli si usano altri tipi di test. Un peculiare tipo di test sono le prove piagetiane. Sono test complessi e originali, non standardizzati e uguali per tutti, ma adattati alla situazione cognitiva del singolo soggetto. Queste prove ci dicono quale fase dello sviluppo cognitivo (sensomotoria, pre-operatoria ecc.) si trova il bambino nel momento del test. Con esse non si ricava peraltro un QI od un punteggio numerico standardizzato, ma un giudizio di tipo qualitativo, che permette di categorizzare le risposte del soggetto e quindi di decidere sulla velocità (anticipazione o ritardo) dello sviluppo rispetto a una norma media generale di popolazione. Se vogliamo estendere il confronto a età inferiori (sotto i 2 anni) dobbiamo ricorrere alle scale di sviluppo psicomotorio di Gesell. Con queste scale cliniche, che non misurano l’intelligenza in senso stretto e non producono un punteggio paragonabile al QI nei dati analoghi a quelli ricavati con le prove Piagetiane, non si registrano differenze sistematiche e significative in dipendenza dell’ambiente di allevamento. Presentano segni di ritardo psicomotorio evidente i bambini piccoli che sono stati ricoverati per molti mesi in ospedale, e quelli segregati nelle istituzioni come gli orfanotrofi (Canestrari – Godino, 1997, 59). 20 Nella generalità dei casi l’influsso modellatore dell’ambiente può risultare un fattore decisivo. Si può parlare allora di due componenti dell’intelligenza. Una corrisponde fondamentalmente alla capacità adattiva di fronte a stimoli nuovi e alla efficienza nell’apprendimento di autocorrezione. Questa componente viene chiamata intelligenza fluida. L’altra corrisponde all’uso ottimale delle strategie e del patrimonio di esperienze e di conoscenze. Questa componente viene chiamata intelligenza cristallizzata. L’intelligenza fluida cresce rapidamente con la pubertà e fino a poco dopo i tren’anni, e resta relativamente stabile fino ai 60, dopodichè scende con velocità variabile, prima marcata e poi minore, fino al termine della vita. La componente cristallizzata si incrementa decisamente fino ai 20 anni, per poi continuare a crescere lentamente per tutta la vita. Il diverso progresso di queste compoenti dell’intelligenza sembra favorire attività di tipo diverso che richiedono, rispettivamente in maggior grado, la componente cristallizzata o quella fluida per un risultato ottimale, nelle diverse età della vita adulta (Canestrari – Godino, 1997, 60- 61). 21 Capitolo 4 I METODI CLINICI Nella storia della psicologia il metodo clinico è stato introdotto successivamente al metodo sperimentale (Canestrari – Godino, 1997, 63). Il colloquio clinico è una tecnica di osservazione e di studio del funzionamento psichico umano: gli scopi sono “raccogliere informazioni” (colloquio diagnostico) e “motivare” ed “informare” (colloquio terapeutico e di orientamento). Lo psicologo e lo psichiatra utilizzano il colloquio clinico in occasioni diverse. In campo medico-legale, si pone spesso il problema di valutare la motivazione e la dinamica psichica che ha condotto nell’atto antisociale. Ciò consente di pronosticare, con discreta approssimazione, la “pericolosità” sociale” dell’individuo incriminato. Nel campo della selezione e dell’orientamento professionale, l’indagine è diretta oltre che a valutare attitudini specifiche dell’esaminato, a delineare la struttura di base della personalità. Nel campo più strettamente clinico, oltre al rilievo superficiale delle anomalie comportamentali, è necessaria una esplorazione approfondita per rintracciare le forze ed i meccanismi genetici che le sottendono. In ogni caso l’obbiettivo di base del colloquio clinico è quello di delineare la struttura della personalità del soggetto esaminato. Il colloquio, tuttavia, presenta una caratteristica insostituibile: oltre che fornire informazioni permette una conoscenza diretta della dinamica interpersonale. Infatti il colloquio di per se è una dinamica psico-sociale: ha a suo fondamento una struttura sociale elementare, diadica, in cui prendono vita forme di rapporto interpersonale che sono rivelatrici delle due personalità in esso implicate (l’esaminatore e l’esaminato). Nello stesso tempo, la personalità dell’esaminatore entra attivamente in questo rapporto, condizionandolo: i suoi atteggiamenti, le sue ipotesi interpretative, contribuiscono a modellare il rapporto ed influiscono in modo determinante sui risultati (Canestrari – Godino, 1997, 64). L’utilizzazione del colloquio a scopo diagnostico e prognostico si basa su un presupposto fondamentale: che i tratti, le disposizioni, rilevati in una persona in occasione del colloquio, non sono caratteristiche incidentali, ma possono essere trasferiti ad ambiti più vasti e rilevanti del comportamento. L’esaminatore dovrà sempre formulare le proprie ipotesi con riserva, proponendosi di verificare mediante l’assunzione di ulteriori informazioni, la prima impressione riportata. Deve cioè assumere un atteggiamento sperimentale e di ricerca prudente, paragonabile a quello dello storico 22 Esistono infine alcuni gesti non intenzionali che le persone usano sistematicamente, sono i gesti di “adattamento” che rappresentano un modo di controllare e soddisfare bisogni, motivazioni, ed emozioni concernenti le particolari situazioni in cui l’individuo viene a trovarsi. Coi cenni del capo, ci troviamo a fare i conti con i segnali non verbali più veloci. Le espressioni del volto sono rivelatrici di emozioni, sentimenti, atteggiamenti ora occasionali, ora persistenti nel soggetto in esame. Il volto può essere assunto come la sede primaria dell’espressione delle emozioni, per la quale esistono regole di esibizione da cui dipende se un’espressione sarà manifestata apertamente, modificata, oppure interamente repressa. Lo sguardo è parte integrante dell’espressione globale del volto ed è altamente espressivo. Numerose sono infatti le funzioni dell’interazione visiva; lo sguardo svolge un ruolo importante nell’instaurare relazioni e nel comunicare atteggiamenti interpersonali ed è strettamente colleato con la comunicazione verbale (Canestrari – Godino, 1997, 72). Anche tutti gli elementi che costituiscono l’aspetto esteriore sono fonti di trasmissione di informazioni: il volto, la conformazione fisica, l’abbigliamento, il trucco, l’acconciatura dei capelli etc., concorrono complessivamente a fornire un’ampia gamma di informazioni (Canestrari – Godino, 1997, 72-73). Anche lo studio degli aspetti non linguistici del comportamento verbale rappresenta un’area di ricerca particolarmente interessante. Gli aspetti non linguistici del comportamento verbale sono stati definiti, nel loro complesso paralinguistici. Il CNV può essere visto come un linguaggio di relazione basato su sensazioni e mezzo primario per la segnalazione di mutamenti di qualità nello svolgimento della relazione interpersonale. Le comunicazioni non verbali possono sostenere o smentire la comunicazione verbale (Canestrari – Godino, 1997, 73). Un’altra tesi attribuisce al CNV una funzione metacomunicativa: esso cioè fornirebbe elementi dei veri sentimenti di colui che parla (Canestrari – Godino, 1997, 74). 25 Nella fase iniziale del colloquio è possibile legarsi ad una sola ipotesi diagnostica: si realizza in questo caso una cristallizzazione precoce del giudizio. La presunzione di poter giudicare a colpo d’cchio indica di rendere sterile il colloquio, perché l’impostazione iniziale prevenuta porta l’esaminatore a ricercare solo i sintomi che la confermano. Accanto a questa, che si può definire impostazione prevenuta, bisogna poi considerare un’altra fonte di distorsione del giudizio. Questa è costituita da un intervento incontrollato di quel processo di implicazione che opera profondamente nella costruzione del quadro diagnostico (Canestrari – Godino, 1997, 75). Si è detto che l’informazione su cui si basa la diagnosi è spesso più o meno limitata. Pertanto, sulla base di dati parziali, l’esaminatore è costretto a compiere frequenti “estrapolazioni”: rilevato un tratto egli ritiene (a torto o a ragione) che un certo numero di altri tratti debbano necessariamente accompagnarsi ad esso, anche se queste implicazioni hanno un valore solo probabilistico (Canestrari – Godino, 1997, 75-76). Accanto alle “implicazioni ingiustificate”, legate all’esperienza soggettiva, bisogna ricordare quelle infondate, che sono legate all’accettazione acritica di teorie e sistemi psicologici. Lo psicologo che segue un certo indirizzo si crea un particolare sistema di implicazioni. Se nella costruzione teorica che egli fa propria figura il concetto che un tratto è correlato o è causato da un altro tratto, l’esaminatore sarà portato ad ammettere l’esistenza di quest’ultimo, anche se non può verificarlo direttamente, ogni volta che abbia rilevato il primo. Un ulteriore fattore di distorsione si fonda sull’attribuzione di caratteristiche presunte: per esempio si tende ad attribuire caratteristiche positive a persone per cui si prova simpatia. Un’altra fonte di errore è costituita dal meccanismo della proiezione. La proiezione attributiva, altro non è che la somiglianza presunta, la tendenza cioè a presumere che gli altri siano somiglianti a noi. La proiezione classica consiste nell’attribuire le proprie caratteristiche indesiderate, inaccettabili, ad altri. La proiezione razionalizzata è quella secondo cui il giudice è consapevole di attribuire pensieri, sentimenti, caratteristiche varie al soggetto, ma non è consapevole del motivo per cui lo fa. Nella formulazione di un giudizio si può incorrere in errori dovuti all’uso di particolari regole di identificazione definite come stereotipo condiviso. Dopo aver trattato degli elementi distorcenti del giudizio, ci sembra necessario proporre una riflessione sull’atto stesso dell’emissione del giudizio. Un giudizio valutativo si configura come un atto diagnostico. 26 Formulare una diagnosi significa dare una definizione socialmente condivisa dell’identità personale di un soggetto. Il giudizio ha come effetto un etichettamento del soggetto. Molte ricerche hanno dimostrato un grado elevato di discordanza fra operatori diversi nel definire la natura dei disturbi e la terapia più adeguata. Sulla base di precedenti considerazioni ci sembra interessante, ai fini della pratica clinica e della ricerca, l’introduzione, al posto di definizioni statistiche della personalità che portano fatalmente alla costruzione di rigide tipologie, del concetto di stile comportamentale, che consente di individuare più particolari schemi di comportamento che complessivamente vanno a costituire il repertorio espressivo di un individuo. Secondo Canestrari l’adozione di questa prospettiva comporta diversi vantaggi, la nozione di stile, infatti non vuol essere esauriente, ne caratterizzare tutti quegli aspetti della personalità, ne includervi ogni soggetto, ha una sua relativa elasticità, poiché esclude l’identità fra modello e persona e impedisce di cadere in una rigida stereotipia (Canestrari – Godino, 1997, 76). Il metodo psicanalitico: la teoria e la tecnica Lo sviluppo della tecnica di Freud si concretò nel metodo delle libere associazioni, che segnò approssimativamente dal 1892 al 1898 il momento di nascita della psicoanalisi vera e propria. La tecnica delle associazioni libere contiene alcuni presupposti fondamentali: 1- Tutte le linee di pensiero tendono a condurre ciò che è significativo; 2- Le esigenze terapeutiche del paziente porteranno le sue associazioni nella direzione di ciò che è significativo; 3- Le difficoltà nell’osservare la regola fondamentale sono rilevatori, “spie”, dell’emergere di resistenze e difese, e queste sono indici di processi difensivi inconsci. Il più importante è la scoperta dell’inconscio. I contenuti inconsci, secondo Freud, hanno caratteristiche specifiche: a) Spostamento, cioè trasferimento dell’importanza emotiva di un determinato contenuto mentale ad un altro; b) Assenza di contraddizione mutua e condensazione, vale a dire che nell’inconscio possono coesistere al tempo stesso una tendenza mentale (es. amore) e quella opposta (odio). c) Assenza di negazione, nel senso che l’inconscio ignora il possibile “no” all’appagamento di un desiderio; 27 concomitanti, svolgerebbero nella formazione del sogno la stessa funzione dei resti diurni o degli stimoli sensoriali (Canestrari – Godino, 1997, 86). Riguardo alla funzione del sogno Freud afferma che esso è “un custode del sonno”: costituisca, cioè un riuscito compromesso tra il desiderio di dormire e le tendenze rimosse. La concreta interpretazione dei sogni viene condotta mediante la combinazione di due distinte tecniche: l’analisi simbolica e le associazioni libere. L’analisi dei simboli non è sufficiente, in primo luogo perché non sempre un elemento del sogno manifesto “sta per” qualche altro elemento, non sempre cioè figura come simbolo; in secondo luogo perché il valore simbolico di un dato elemento può anche non essere univoco; pertanto è solo il contesto complessivo del sogno che può far decidere per la traduzione più corretta nel caso specifico. A loro volta anche le libere associazioni non bastano da sole a comprendere i sogni. La migliore utilizzazione terapeutica e tecnica del sogno avviene, cioè, quando il suo ricordo emerge spontaneamente, magari in modo inatteso, nel corso di altri pensieri. Di fatto, le associazioni libere sono la regola fondamentale data al paziente, e la loro applicazione ai sogni rappresenta solo un caso particolare, l’analisi dei lapsus, degli atti mancati, dei sogni ad occhi aperti, dei comportamenti più diversi, sono alcuni tra gli altri metodi usati (Canestrari – Godino, 1997, 87). Tra gli elementi di cui quindi occorre tener conto risaltano in modo particolare gli “atti mancati” ossia dei lapsus verbali, di lettura e di scrittura; delle dimenticanze di nome, di parole e di fatti, della dimenticanza di propositi e di progetti; delle comuni sbadataggini; degli errori di linguaggio di memoria e di azione; degli smarrimenti di oggetti ect. Essi vengono considerati comportamenti casuali ma Freud ha mostrato un significato e un’intenzione. Le dimenticanze di nomi, parole, fatti sono forse le più semplici da comprendere: in esse è la rimozione a svolgere il ruolo principale. Nei lapsus possono esprimersi tendenze e pensieri che la coscienza respinge, possono cioè essere pensieri rimossi, nel qual caso si tratta di pensieri propriamente inconsci (Canestrari – Godino, 1997, 88). Nel corso della discussione riguardante i sogni e gli atti mancati si è più volte sottolineato un aspetto che tali fenomeni presentano in comune con il sintomo nevrotico: tutti presentano infatti la caratteristica di essere formazioni di compromesso ossia, manifestazioni attraverso le quali si esprimono contemporaneamente desideri rimossi e istanze difensive (Canestrari – Godino, 1997, 89). 30 Capitolo 5 PSICOFISIOLOGIA DELLE SENSAZIONI Lo stimolo distale è l’energia di stimolazione in partenza dall’ambiente esterno e che perviene al recettore sensoriale, lo stimolo prossimale è la parte di tale energia proveniente dall’ambiente esterno che può essere raccolta attraverso i recettori sensoriali ed è quindi tradotta in risposta bio-elettrica del recettore ed avvertita come stimolo da parte di un organismo (Canestrari – Godino, 1997, 98). Differenza fra sensazioni e percezioni Per sensazioni intendiamo gli effetti immediati ed elementari del contatto dei nostri recettori sensoriali con i segnali provenienti dal mondo esterno in grado di suscitare una risposta. Le percezioni corrispondono invece alla organizzazione compiuta dei dati sensoriali in una esperienza complessa, sono cioè il prodotto finale di un processo di elaborazione interno dell’organismo della informazione sensoriale. Lo studio condotto dagli psicofisiologi sulla relazione fra gli stimoli distali fisici e la sensazione che ne deriva rientra in una disciplina che si chiama psicofisica. Oggi si preferisce parlare di psicofisiologia della sensazione. La prima definizione importante per affrontare la psicofisiologia della sensazione è quella della “soglia assoluta”. Essa corrisponde alla quantità di energia minima capace di produrre una sensazione (Canestrari – Godino, 1997, 99). Un’altra importante definizione è quella di “soglia differenziale”. La soglia differenziale si definisce come la minima differenza fra due stimoli che possa essere colta. La soglia differenziale non corrisponde ad una quantità fissa e assoluta di differenza di energia associata allo stimolo, ma ad una frazione percentuale dello stimolo standard; quindi, la sua grandezza fisica assoluta dipende dalla grandezza fisica dello stimolo standard. La misura della soglia differenziale è difatti una proporzione fissa della misura dello stimolo standard. Questa è la legge di Weber: ∆I=KI oppure K=∆I/I Dove ∆I è la soglia differenziale, K e la costante e I è l’intensità dello stimolo standard (Canestrari – Godino, 1997, 101). 31 La legge dell’energia nervosa specifica Questa legge stabilisce che il tipo di sensazione non dipende dal tipo di energia (calore, pressione, luce) in arrivo, ma dal tipo di recettore che viene stimolato. Ogni segnale che arriva al recettore provoca in esso una variazione localizzata di polarità bio-elettrica. Tale risposta del recettore, che si chiama “potenziale di azione”, viene trasmessa lungo l’assone e raggiunge in una frazione di secondo le aree di proiezione sensoriale della corteccia cerebrale. La trasmissione dell’onda bio-elettrica è molto veloce perché procede per salti attraverso i cosiddetti nodi di Ranvier. Questi sono punti nei quali lo strato isolante di mielina che riveste gli assoni neuronali è più sottile (Canestrari – Godino, 1997, 103). L’architettura generale del sistema è quindi basata su determinate vie nervose che partono dai recettori specializzati (tattile, uditivo, visivo) e che raggiungono, attraverso una o più stazioni o “nodi” intermedi, certe aree specializzate della corteccia. Il segnale tuttavia non arriva solo in quelle tre aree corticali ma, grazie alle connessioni intermedie poste lungo il suo percorso, riesce contemporaneamente a percorrere anche altre strade. Attraverso questi percorsi paralleli associati, il segnale può essere memorizzato, confrontato con altre esperienze già memorizzate in precedenza. La stessa corteccia cerebrale, essendo composta da una decina di strati di cellule collegate fra loro sia verticalmente sia orizzontalmente, si comporta come una rete attraverso la quale i segnali possono essere diffusi nelle più diverse regioni ed associati fra di loro. Dato che il recettore sensoriale agisce come un meccanismo del tipo “tutto o nulla” nasce il problema di capire come possiamo cogliere le sfumature e gli attributi degli stimoli (Canestrari – Godino, 1997, 104). 32 Essa è divisa al suo interno da due membrane elastiche in tre parti longitudinali che sono la scala vestibolare in alto, il dotto cocleare al centro e la scala timpanica in basso. La scala vestibolare e quella timpanica entrano in comunicazione fra loro in coincidenza con l’apice della coclea tramite un piccolo foro. Sopra la membrana basilare sono impiantate le cellule recettoriali uditive. Da queste cellule recettoriali partono le circa trentamile fibre del nervo uditivo in direzione del corpo centrale della coclea ossea al cui interno è collocato in ganglio spirale del nervo uditivo (Canestrari – Godino, 1997, 114). VEDERE FIGURA PAG. 113 La sensazione uditiva neurofisiologica Lo stimolo adeguato per l’orecchio è un’oscillazione, rientrante entro certi limiti di frequenza, propagata attraverso un mezzo (aria, acqua o altro), grazie al quale anche la membrana timpanica prende ad oscillare e trasmette un’onda sonora del tipo a cosiddetto a tono puro. La frequenza si traduce nella percezione della qualità tonale (altezza) e si mantiene stabile, indipendentemente dalla distanza dell’orecchio dalla fonte del suono; l’ampiezza si traduce nella percezione dell’intensità sonora ed è soggetta ad un calo progressivo con la distanza, decremento che è più o meno rapido a seconda delle caratteristiche fisiche del mezzo attraverso il quale si propaga l’onda. La presenza contemporanea di onde sonore di tutte le frequenze udibili è percepita come rumore senza qualità tonale (Canestrari – Godino, 1997, 115). 35 Le sensazioni olfattiva, gustativa e tattile Olfatto I recettori dell’olfatto sono costituiti da cellule pluriciliate impiantate insieme a delle cellule di sostegno in un epitelio. L’annusamento porta ad un movimento dell’aria a contatto con tale regione, è a contatto con dell’area in quiete, dato che il flusso d’aria respiratorio sposta l’aria attraverso la cavità nasale inferiore e media e non interessa quella superiore. Si è comunque notato che, mentre è sufficiente una concentrazione bassissima di sostanza dell’area per provocare una sensazione generica di odore, una concentrazione assai maggiore è indispensabile per poter riconoscere la sostanza odorosa. Quest’ultima più elevata concentrazione è la “soglia specifica dell’odore” mentre la precedente è la “soglia di sensibilità”. Come sappiamo l’uomo privilegia, per l’eplorazione e per la comunicazione, la vista e l’udito, non l’olfatto, differenziandosi nettamente in questo dalla maggior parte dei mammiferi. Le poche ed approssimative etichette verbali che noi possediamo rendono allora difficile “riconoscere” gli odori che possiamo percepire ma non sappiamo qualificare. L’odore confusamente identificato può allora essere scambiato per un altro che gli si avvicini, oppure può bastare apporvi un’etichetta nota perché la sensazione si adegui all’etichetta. La sottovalutazione della componente cognitiva ha portato ad una sottovalutazione spinta dal numero di odori riconosciuti, perché si è presupposto che l’uomo riconoscesse solo 15 odori per i quali possedeva una univoca definizione verbale. Gusto Le cellule recettoriali sono raccolte in gruppi di 40-50 detti “bottoni-gustativi”, collocati sia nelle varie forme di papille gustative della mucosa linguale che, isolatamente, sul velo palatino, sul faringe e sulla mucosa delle guance. Esistono recettori per quattro tipi di gusti fondamentali cosi distribuiti: per il dolce sulla punta della lingua, per il salato sui bordi anteriori della lingua, per l’aspro sui bordi posteriori, per l’amaro sul dorso della lingua. In pratica, il sapore dei cibi viene percepito non solo attraverso la miscela dei gusti fondamentali, ma anche attraverso l’odore, il tatto e la stimolazione dolorifica. Va inoltre ricordata la sensazione di disgusto che può essere condizionata da presenza di particolari sostanze in modo incondizionato. 36 Tatto I recettori del tatto, i corpuscoli Meissenr sono diffusi su tutta la cute, ma sono particolarmente concentrati alle estremità del corpo: sulla punta della lingua, sui polpastrelli, sul viso, sulle labbra, e molto radi sulla cute del dorso. Gli stimoli vicini alla soglia possono causare il solletico, mentre gli stimoli ritmici producono il prurito. Attraverso il tatto si attua una forma di esplorazione e conoscenza della realtà circostante, che ha un carattere semplice e globale, che viene privilegiata, nella prima infanzia, rispetto alla esplorazione visiva. Il tatto consente di sentire gli oggetti esterni in modo immediato, ma anche di regolare la manipolazione e di ottenere, congiuntamente ad altre sensazioni, alcuni dati sulla posizione e situazione del proprio corpo. Di conseguenza l’anestesia cutanea non solo rende difficile l’eplorazione esterna, ma rende imprecisa e scoordinata la motilità e, per converso, è proprio attraverso la rieducazione tattile che si lavora per una riabilitazione motoria (Canestrari – Godino, 1997, 119). 37 La logica della percezione 1- La legge che ci fornisce la chiave per comprendere l’intera logica della percezione è quella “semplicità o della buona forma”. Tale legge implica che gli stimoli vengono organizzati percettivamente nella forma più semplice e coerente possibile (Canestrari – Godino, 1997, 127). 2- La seconda legge è quella del “raggruppamento per somiglianza”. In un insieme di elementi disposti disordinatamente, quelli che si assomigliano tendono ad essere percepiti come una forma e vengono a staccarsi dagli altri, che diventano in tal modo lo sfondo. L’emergere percettivo della forma è naturalmente tanto più forte se alla somiglianza si sommano altri fattori di organizzazione, come la simmetria, la vicinanza, la continuità, l’orientamento, il contrasto cromatico. Cosa succede quando l’ambiente sensoriale è totalmente omogeneo e non esiste alcun punto che si distingua dall’altro? Come quando siamo immersi nella caligine più fitta oppure abbiamo gli occhi schermati da un vetro opalino. In questo caso si ha un cosiddetto “campo vuoto”. Le leggi della percezione sono cosi potenti che dopo qualche secondo il Ganzfeld si organizza, con il soggetto che comincia a percepire la terza dimensione come se fosse inserito all’interno di una sfera con le pareti traslucide (Canestrari – Godino, 1997, 127-130). 3- La terza legge generale che informa la logica della organizzazione percettiva è quella della “buona continuazione”. Si può anche definire tale legge come legge della “continuità di direzione”. A parità di tutte le altre condizioni, si impone come unità percettiva quella il cui margine offre il minor numero di cambiamenti o interruzione. La terza dimensione 40 La percezione di movimento si collega direttamente alla percezione della distanza o/e della profondità di un oggetto visivo. Un oggetto appare muoversi verso di noi, per esempio, se la sua immagine proiettata sulla rètina diventa più grande (Canestrari – Godino, 1997, 130). Oltre a quelli fisiologici esistono anche gli indizi di profondità pittorici e psicologici: 1- La grandezza relativa: a parità di tutte le altre condizioni, l’oggetto più grande viene percepito come più vicino. 2- La luminosità: l’oggetto più luminoso appare come il più vicino. 3- La prospettiva aerea e quella lineare: gli oggetti più nitidi e brillanti sono percepiti come più vicini, mentre gli oggetti che hanno una trama di punti e linee più fitta, ovvero che sono più prossimi alla zona di convergenza delle linee di fuga della prospettiva lineare, appaiono più lontani (Canestrari – Godino, 1997, 132). Gli indizi fisiologici sono assai meno forti di quelli psicologici e, in caso di contrasto, i secondi prevalgono regolarmente sui primi. Dato che queste leggi rispecchiano l’architettura del funzionamento percettivo in modo innato, e non derivano da apprendimenti o esperienze esterne sono anche dette fattori autoctoni. I fenomeni stereocinetici e le illusioni di movimento Le illusioni visive di movimento sono moltissime, pertanti ci limitiamo a descrivere quelle più note e meglio studiate. Una di esse è l’illusione di movimento o movimento stroboscopio. Per percepire il movimento si richiedono alcune condizioni: la cadenza di accensione non deve essere troppo lenta (Canestrari – Godino, 1997, 133). Il fenomeno stroboscopio si ottiene pertanto entro un intervallo ottimale di frequenza delle immagini. Esso si presenta anche se le immagini non sono identiche fra di loro: in tal caso avremo la percezione di movimento di un’immagine che si deforma (come succede ad esempio con le sequenze dei cartoni animati). Talora la percezione di movimento nasce da un movimento reale, ma colto in modo illusorio (Canestrari – Godino, 1997, 134). 41 Le illusioni ottico geometriche Le illusioni ottico-geometriche consistono nella percezione distorta dei rapporti spaziali e geometrici fra gli oggetti (Canestrari – Godino, 1997, 136). E’ importante rammentare che la grandezza percettiva non è data dalla grandezza reale dell’oggetto ne dalla grandezza dell’immagine proiettata sulla retina, ma dalla sua distanza apparente a noi (Canestrari – Godino, 1997, 137). La percezione uditiva e l’ascolto musicale Nel caso della musica, la coscienza e la fenomenologia percettiva seguono le regole di organizzazione del tutto analoghe a quelle che la scuola della Gestalt ha riconosciuto essere alla base della percezione visiva, come le leggi della costanza di forma e di grandezza, la simmetria, la buona forma, la costanza di colore. Sono inoltre presenti discrepanze sistematiche che si configurano come vere e proprie “illusioni uditive” e che sono di rilevante importanza nella armonizzazione della musica sinfonica. (Canestrari – Godino, 1997, 140). Il suono isolato presenta già delle differenze di intensità e di altezza tonale. Ogni singolo strumento modifica la qualità del suono grazie alle armoniche ed agli attacchi. Questo insieme di attributi secondari contribuisce a determinare il timbro musicale. La densità sonora esprime l’impressione prodotta dalla compressione o dispersione dell’onda, il volume esprime l’impressione del suono pieno o stridente, la brillanza l’impressione derivante dalla secchezza e compiutezza di contorno di un suono. Va infine rimarcato che la consonanza si costituisce come processo di fusione, grazie al quale le caratteristiche timbriche ora descritte si mescolano e si ricombinano in modo interattivo. L’integrazione di queste qualità del suono non è altro che la condizione preliminare di una condizione musicale propriamente detta. Il linguaggio verbale permette di tradurre in immagine emozioni e concetti e di rappresentarli e trasmetterli, solo facendo riferimento a una serie limitata di convenzioni espressive e lessicali, mentre il linguaggio musicale (non verbale) costituisce una forma di veicolazione del significato e delle emozioni molto più libera e ricca (Canestrari – Godino, 1997, 141). Un altro importante aspetto della percezione uditiva riguarda l’utilizzo della disparità di scansione temporale del suono, per localizzare la fonte del suono stesso e la sua collocazione nello spazio (Canestrari – Godino, 1997, 142). 42 3- La flessibilità nella manipolazione delle immagini mentali; 4- L’originalità. A partire da questi presupposti generali, Torrance ha definito una serie di 16 modalità per favorire lo sviluppo delle attitudini creative e per strutturare una dinamica della creatività, la quale si fonda in primo luogo sulla introspezione e sullo sviluppo di una attitudine di ascolto e di una osservazione libera e di profondità. La realtà didattica dell’apprendimento scolastico sembra invece fondarsi sulla trasmissione di modelli compiuti e “chiusi”, e questo sembra all’origine di un vantaggio offerto, in termini di buone valutazioni e di avanzamento negli studi, agli allievi che sono meno creativi, che sono sanzionati in quanto elementi di disturbo (Canestrari – Godino, 1997, 151). Per avvantaggiare la manipolazione creativa delle alternative di significato, è allora fondamentale comunicare con chiarezza le dimensioni e le relazioni semantiche. Per una pedagogia dell’invenzione, ma anche per una pedagogia tout-court, la prima regola consiste nel delimitare con precisione e con riferimenti concreti l’oggetto del discorso (Canestrari – Godino, 1997, 151-152). Questo implica talora il catalogare, o sistemare in uno schema comparativo e gerarchico, tutti i concetti. La seconda regola consiste nel canalizzare l’informazione, dotandola di punti di riferimento che si aggancino a quanto già l’allievo possiede nel suo patrimonio cognitivo. La terza regola che è in effetti una derivazione della seconda, consiste nel fare appello alle risorse attive dell’allievo. Proprio attraverso la partecipazione attiva e il piacere della scoperta, la comprensione diviene una sorta di creazione concettuale interiore e la premessa per una ulteriore elaborazione attiva ed una risistemazione creativa delle conoscenze. 45 Il pensiero logico Le leggi logiche che sono fondate su assiomi indimostrabili ed irriducibili, possono tuttavia rientrare in un discorso sull’uomo se vengono utilizzate come criterio di riferimento per valutare le tappe del pensiero umano nel percorso che esso compie, a partire dal dato e dalla sua organizzazione. Ciò è stato studiato empiricamente in tre ambiti distinti: 1- Il ragionamento induttivo e deduttivo; 2- La soluzione di problemi; 3- L’assunzione di decisioni. Nella logica deduttiva abbiamo a che fare con proposizioni che sono concatenate fra loro in modo tale che le conclusioni derivano necessariamente da determinate premesse. Lo schema generale è quello del sillogismo aristotelico. Il sillogismo è un’argomentazione logica che consiste in due premesse e in una conclusione. Le premesse vengono utilizzate per verificare se la conclusione è valida cioè logicamente corretta. Se la conclusione non viene tratta seguendo le regole della logica si tratta di una conclusione non valida (Canestrari – Godino, 1997, 152). Una regola logica particolarmente utile afferma che se noi partiamo dalla premessa che solo A implica B e assumiamo la presenza di A, dobbiamo avere anche B. Una seconda regola logica rilevante spiega che se A implica B e B è falso allora anche A è falso. La forza logica delle conclusioni di un sillogismo, la forza della logica deduttiva, è totale e implica certezza. La conclusione è certa da un punto di vista meramente logico poiché trova l’intera sua giustificazione nelle premesse, anche se le premesse non sono vere da un punto di vista concreto. Esiste quindi una possibile divaricazione fra verità e validità. Un gruppo di ragionamenti sillogistici si definisce come sillogismo condizionato poiché la validità della conclusione è limitata a certe condizioni precisate nelle premesse. Il ragionamento logico induttivo si distingue da quello deduttivo, proprio per dei sillogismi, per il fatto che le conclusioni non sono più logicamente necessarie ma solo presumibilmente corrette: le premesse non sono cosi stringenti da far trarre da esse di necessità e i modo esclusivo le conclusioni, ma sono organizzate in modo tale da sospingere verso certe conclusioni piuttosto che verso altre. La validazione di un ragionamento induttivo procede attraverso l’esame empirico della correttezza della inferenza predittiva e della inesistenza di altre ipotesi connettive e induttive che raggiungono gli stessi risultati (Canestrari – Godino, 1997, 153). 46 Gli errori del pensiero quotidiano Un’altra condotta intelligente consiste nella costruzione e verifica della validità di una ipotesi. Il mettere alla prova una ipotesi non è proprio solo del metodo scientifico, ma è anche un aspetto usuale del ragionamento quotidiano. Mentre però il corretto modo di procedere dal punto di vista logico, quello che viene utilizzato dallo scienziato, è quello della conferma per esclusione attraverso la disconferma o falsificazione delle ipotesi, la tendenza generale e spontanea nel ragionamento quotidiano è piuttosto quella di cercare le conferme all’ipotesi di partenza. Questo errore logico si traduce anche in una fonte di distorsione nell’esame delle esperienze, per cui si tende a prestare più attenzione ai dati positivi e si mostra grande difficoltà a maneggiare dati di tipo negativo (Canestrari – Godino, 1997, 155). Un meccanismo fondamentale degli errori osservabili nel pensiero quotidiano deriva quindi dalla tendenza alla rigidità. Ancor meglio possiamo definire questa tendenza come il frutto dell’economizzazzione degli sforzi nella ricerca della soluzione di un problema. La modalità più economica per affrontare un problema consiste evidentemente nel ricondurlo a schemi e routines già acquisiti e quindi a non trattarlo come un problema interamente nuovo. In altri termini i meccanismi di routine costituiscono una risorsa generalmente valida per affrontare con efficacia delle varianti problematiche quotidiane, ma sono al tempo stesso un ostacolo all’adattamento ed alla ristrutturazione creativa (Canestrari – Godino, 1997, 156). Il problema-solving Il primo fondamentale passo nel percorso verso la soluzione sta nella capacità di generare mentalmente delle alternative. Per poter immaginare delle alternative di azione bisogna capire come “funzionano” le cose nel problema che ci è stato presentato, ovvero prevedere che cosa dovrebbe succedere in seguito ad una particolare “mossa” (Canestrari – Godino, 1997, 158). Una delle maggiori difficoltà che si incontrano nel risolvere i problemi della vita reale consiste proprio nella incapacità di immaginare correttamente lo spazio del problema e di figurarsi la rete delle alternative possibili. I cognitivisti hanno smembrato il percorso che conclude alla individuazione dello spazio del problema in tre parti: 1- La prima parte comprende uno stato iniziale, ovvero, l’informazione incompleta con la quale si affronta il problema, la quale corrisponde alle coordinate generali della situazione di partenza; 47 categoria, ma perché sarebbero state confrontate con il prototipo di una categoria concettuale. Il prototipo servirebbe allora da criterio, e la distanza fenomenica rispetto al prototipo da misura relativa di identificazione semantica. Costruzioni linguistiche Naturalmente, i concetti e le parole non sussistono isolatamente in un linguaggio ma sono combinati in modo tale da formare delle frasi. Nelle frasi il significato non deriva esclusivamente dalle parole che sono state usate, ma anche dalla loro collocazione relativa: “ cane morsica uomo” significa ben altra cosa rispetto a “uomo morsica cane”, anche se i morfemi usati sono gli stessi (Canestrari – Godino, 1997, 169- 170). Le regole che servono a combinare gli elementi linguistici elementari in frasi costituiscono la sintassi. Sulla base di tre soli semplici regole propositive, le parole possono essere combinate in proposizioni e queste stesse proposizioni possono costituire delle frasi. 1- Le frasi consistono in una proposizione nominale più una proposizione verbale; 2- La proposizione nominale consiste in un articolo più un nome ed un aggettivo facoltativo; 3- Le proposizioni verbali consistono in un verbo più una proposizione nominale. La struttura sintattica del linguaggio è chiaramente connessa con le capacità che ha l’uomo di comprendere e di memorizzare, e di generare, conseguentemente a ciò, un messaggio linguistico. Lo studio di come vengono costruite le frasi nelle varie lingue naturali, di che cosa viene memorizzato più facilmente, delle pause nella elocuzione, delle costanti strutturali sintattiche fra le lingue più diverse, etc., è di interesse eminentemente psicologico ( e non solo linguistico), perché ci fornisce delle informazioni preziose sul funzionamento e sulla architettura logica della mente umana. Non a caso la qualità della produzione verbale e le sue anomalie sono anche utilizzate a livello clinico per valutare l’esistenza o meno di lesioni cerebrali come nelle afasie. Afasia significa, perdita della parola, ma sta ad indicare non necessariamente una perdita, quanto un disturbo delle capacità di parlare. Ne esistono due varietà principali: a) L’afasia di Broca si manifesta con la incapacità di emettere parole in modo corretto. Essa è anche detta afasia motoria perché dipendente da un danno alla corteccia cerebrale verbale motoria (Canestrari – Godino, 1997, 170). 50 b) L’afasia di Wernicke fa si che i pazienti parlino in modo scorrevole ma privo di senso, con neologismi, forme alterate, etc. Inoltre comprende anche l’incapacità di intendere correttamente il linguaggio, sia scritto che parlato. La lesione in questo caso è nell’area verbale sensoriale od anteriore, da cui anche il nome di afasia sensoriale (Canestrari – Godino, 1997, 170-171). Esiste quindi una corrispondenza abbastanza esatta fra abilità linguistiche e sviluppo cerebrale e corticale di una determinata specie vivente. Tale corrispondenza non è però ne semplice ne univoca. Il campo del significato di ogni particolare segno è variabile da soggetto a soggetto e si trasforma in rapporto all’uso. Quanto più l’uso di una parola si fa frequente, tanto più si fa sfocato e polivalente il ventaglio dei referenti di significato della parola stessa. (Canestrari – Godino, 1997, 171-172). In generale la comunicazione verbale è ridondante dal punto di vista semantico, nel senso che contiene molti elementi che non innovano il significato ma lo confermano e ribadiscono. Questo fatto è all’origine di due tipi di fenomeni. 1- Il primo è la sovrabbondanza degli indicatori semantici, quindi la possibilità di decifrare il significato di un discorso anche togliendo ad esso molti dei suoi componenti. 2- La modulazione del registro linguistico sulla base della familiarità con l’interlocutore. Nel linguaggio familiare e quotidiano, non in quello accademico le frasi sono molto semplificate ed addirittura frammentarie. Questi meccanismi della ridondanza, della creazione di significati allargati o ristretti, sono all’opera non solo a livello individuale, ma anche a livello collettivo e formano i meccanismi principali delle trasformazioni delle lingue e del costituirsi dei dialetti. Sviluppo del linguaggio: fase pre-linguistica I bambini sviluppano la capacità di parlare secondo una sequenza ordinata di fasi, passando dalle prime emissioni sonore spontanee e dalle lallazioni alla costruzione di frasi complete nell’arco di pochi anni. Parliamo di fasi in quanto l’evoluzione linguistica non è sfumata o di tipo quantitativo, ma discreta e strutturale di tipo qualitativo. La prima fase di apprendimento e sviluppo è detta “pre-linguistica”. Il neonato appare già chiaramente predisposto alla elaborazione ed alla produzione dei suoni contenuti nella voce umana. 51 La prima produzione vocale dei bambini è in forma di lallazioni. Secondo alcune teorie il bambino produrrebbe delle lallazioni identiche, qualunque sia il suo ambiente linguistico e queste lallazioni sarebbero come i precursori delle successive strutture fonetiche proprie di ogni lingua. Questo modello prevede quindi che le lallazioni siano come le radici di ogni possibile variante fonematica successiva. Questa teoria non è del tutto persuasiva, in quanto una certa gamma di suoni, sono del tutto assenti nella gamma delle lallazioni infantili. Le lallazioni sarebbero in realtà un aspetto della messa in opera delle capacità articolatorie più elementari del bambino piccolo, si tratta di una approssimazione progressiva nella esecuzione di un compito che corrisponde a delle risorse di tipo congenito e strutturale. Il modello di riferimento sarebbe in tal caso quello delle fasi motorie che precedono la deambulazione. L’esperienza linguistica non inizia tutta via con la nascita ma, come dimostrato da diversi studi, avrebbe inizio negli ultimi due mesi di vita intrauterina (Canestrari – Godino, 1997, 172). Nelle prime settimane dalla nascita la comunicazione del lattante non è verbale, ma avviene attraverso strilli e gridolini, principalmente per comunicare la fame, la rabbia e il dolore, A partire da 3-5 settimane di vita, si cominciano a produrre suoni vocalici inarticolati e intorno al terzo mese delle associazioni vocali-consonanti, o lallazioni. Queste sono inizialmente formate con la vocale A combinata con la consoante M o Po D. In breve tempo queste combinazioni vengono combinate e ripetute come a formare delle parole bisillabiche. Si è visto che i bambini di tutto il mondo iniziano a “parlare” con queste stesse lallazioni nella stessa epoca della vita, anche se essi sono sordi; quindi questa prima fase pre- linguistica, esprime un processo di tipo maturativo e non è il frutto di un apprendimento. Con il passare dei mesi le lallazioni tendono a coincidere con i fonemi utilizzati dalla lingua dell’ambiente nel quale il bambino viene allevato e verso il 7-8 mese il bambino normalmente sviluppato può reagire a tono a determinate richieste ed usare lui stesso alcune parole monosillabiche come il si e il no. 52 Capitolo 9 LA MEMORIA L’uso della parola memoria può far pensare che esista nel nostro cervello una qualche zona nella quale vengono raccolti e catalogati dei dati importanti. La memoria è costantemente al lavoro nel guidare i nostri pensieri e le nostre azioni (Canestrari – Godino, 1997, 181). Non esiste in definitiva una singola azione o condotta che sia possibile in assenza di memoria. Questo perché lo psichismo si inscrive nella temporalità. Le funzioni della memoria corrispondono alla possibilità psichica di distanziarsi rispetto all’istante presente e di inscrivere l’azione in un piano sovratemporale che collega riferimenti originati nel passato a attese o mete future. Migliore è la memoria e migliore è la pianificazione nell’asse temporale futuro. Esistono delle memorie multiple e che nessuno ha una memoria di eguale efficacia in tutte le sue articolazioni o piano organizzativi. La funzione mnestica non è necessariamente stabile a parità di contenuti o classi di stimoli. La capacità di ricordare si riduce se siamo molto affaticati, se siamo in uno stato di dormiveglia oppure in presenza di una febbre elevata. La nostra memoria dipende inoltre dalla situazione ambientale, dalla motivazione. La memorizzazione è quindi costantemente all’opera ma secondo modalità notevolmente variabili. Il fatto che la memoria sia costantemente all’opera non significa però che essa registri integralmente tutte le nostre sensazioni infatti viene operata una continua selezione attentiva. Da un lato l’attenzione permette di annotare solo una parte del campo delle sensazioni e di collocarle nel registro delle memoria immediata, dall’altro il consolidamento delle informazioni memorizzate in modo labile richiede da parte nostra un processo di tipo attivo (Canestrari – Godino, 1997, 182). 55 I processi mnestici fondamentali 1-Processi di acquisizione e codificazione. Dalla massa di informazioni che arrivano costantemente al sistema nervoso centrale vengono selezionate quelle salienti, che permettono di selezionare la prima esperienza e di registrarla. La codificazione procede a partire da una analisi dei dati in arrivo di tipo specificativo oppure di tipo generalizzante o estrapolativo. Questo processo di codificazione è in genere quasi istantaneo e da sfuggire al campo della coscienza. Un ulteriore processo di codificazione collega il nuovo segnale in arrivo con altre informazioni già incamerate; 2- Processi di ritenzione e immagazzinamento. Sono i processi di stabilizzazione nel tempo delle informazioni acquisite in memoria in quanto codificate ed elaborate. L’informazione tende ad essere persa ed il suo ricorso si fa labile, quando essa non può essere immagazzinata secondo nessi logici od agganci che la connettano ad altre informazioni già in memoria, oppure quando non viene immediatamente recuperata e utilizzata. Il principale meccanismo di stabilizzazione in memoria, che permette di contrastare l’oblio è quello della ripetizione o dell’esercizio. 3-Processi di recupero. Sono quei processi che operano per fare riemerger ed utilizzare l’informazione “archiviata” in memoria. I due metodi più usati sono il “richiamo” che significa riprodurre in modo attivo l’informazione registrata in memoria e il “riconoscimento” che significa rendersi conto di avere già avuto contatto con un dato stimolo, attraverso un confronto fra lo stimolo che ci viene proposto e quelli incamerati in memoria. Sia il richiamo che il riconoscimento sono metodi di ricerca dell’informazione che utilizzano degli indizi, ma nel caso degli indizi forniti sono meno specifici e meno numerosi. Nel riconoscimento tuttavia il compito è molto più facile perché corrisponde ad un confronto fra una percezione attuale ed una memorizzata: entrambi gli schemi sono presenti alla coscienza (Canestrari – Godino, 1997, 183). Un concetto di base nello studio della memoria concerne il concetto di codificazione dello stimolo. La rappresentazione mentale necessaria alla fase di acquisizione, non corrisponde esattamente di necessità al segnale, ma ne costituisce una traduzione in un particolare codice. Codificare vuol dire trasformare e tradurre l’informazione in modo tale che la rappresentazione interna assume un formato diverso. Si può utilizzare un codice visivo, in tal caso la memorizzazione privilegia la disposizione delle parole in paragrafi o gruppi. Si può anche utilizzare un codice acustico verbale leggendo ad alta voce le parole del testo. 56 L’informazione di questo testo può infine essere acquisita secondo un codice semantico in cui è il concetto ad essere veicolato. L’esperienza soggettiva della realtà è sempre una strutturazione singolare anche se esiste un rapporto diretto regolato da leggi di carattere generale, fra le configurazioni degli stimoli che si organizzano nella memorizzazione e le basi oggettive dei segnali che entrano nel sistema (Canestrari – Godino, 1997, 184). Modalità di studio della memoria Il primo approccio di studio che presentiamo è quello associazionistico. Per tale approccio il meccanismo chiave dell’apprendimento e della memorizzazione consiste nella associazione per contiguità temporale. L’associzione è un meccanismo elementare che non necessita di un intervento da parte dell’individuo ne di risose intellettive particolari (Canestrari – Godino, 1997, 184-185). Esiste una interpretazione neurofisiologica della associazione. Ogni segnale registrato delle cellule cerebrali induce la sintesi di alcune proteine e la creazione di nuove connessioni sinaptiche fra cellule nervose. La contiguità di due stimoli creerebbe una strada facilitata per passare dal recepimento del primo segnale alla attesa del secondo. Questa concezione dell’apprendimento e della memoria deriva dalla filosofia empirista. Alla fine del 1800 Ebbinghaus studiò la memoria dal punto di vista associazionista in esperimenti di laboratorio molto rigorosi, basati sulla memorizzazione di sillabe senza senso. Ebbinghaus individuò la curva dell’oblio, una volta memorizzata una serie di stimoli la prima ripetizione non presenta errori. La ripetizione a distanza di alcune ore presenta circa il 20% di errori. La ripetizione a distanza presenta un numero di errori rapidamente crescente e dopo circa un giorno, appena il 30% dei trigrammi di una lista è ricordato correttamente. Del tutto analoga, ma ovviamente speculare, è la curva della ritenzione: alla prima o seconda ripetizione dell’elenco la memorizzazione è molto modesta e quindi aumenta in modo sempre più veloce con le successive ripetizioni (Canestrari – Godino, 1997, 185). Sempre Ebbinghaus studiò l’effetto del numero delle ripetizioni sul tempo richiesto per il ri-apprendimento: quanto più esse sono numerose nella fase di memorizzazione tanto minore è il tempo necessario per riapprendere la lista dopo 24 ore. 57 f) Lo stesso processo elaborativi dell’informazione si applica per qualunque tipo di formato del segnale (Canestrari – Godino, 1997, 188). Uno degli antesignani di questa impostazione dello studio della memoria è stato Ulric Neisser. L’approccio cognitivista è quello dominante nella ricerca psicologica a partire dagli anni 70 in molti campi della psicologia, non solo in quello della memoria. Questo approccio studia la memoria in situazioni naturali e quotidiane. A partire da questa linea di ricerca, dagli anni 50 in poi si è consolidata una teoria della memoria di tipo unitario e universalmente riconosciuta. Questa è la teoria delle tre fasi, che concepisce la memoria come un processo plurimodulare. Tutte le informazioni che congiungono successivamente o simultaneamente nel sistema arrivano a dei “punti di controllo”, ove hanno luogo delle elaborazioni del segnale che lo rendono può o meno atto ad essere memorizzato. Questa concezione generale viene esaminata sotto tre punti di vista: 1- L’aspetto strutturale che deve chiarire l’organizzazione interna delle articolazioni della memoria; 2- L’aspetto quantitativo o di capacità, che considera i limiti di capacità di ogni singolo modulo; 3- L’aspetto funzionale, che esamina l’utilizzazione dei moduli. Il principio generale di organizzazione della memoria contiene tre stoccaggi o moduli menstici (tipi di memoria). Il modulo 1 registra molto, ma trattiene in misura piuttosto limitata. Nelle diverse teorie prende i nomi di memoria sensoriale, tampone recettoriale, memoria eroica ed iconica, paraeccitazione (in Freud) (Canestrari – Godino, 1997, 189). Il modulo 2 trattiene i dati per un periodo maggiore ma la sua capacità è limitata. Memoria primaria, memoria a breve termine e ritenzione immediata. Il modulo 3 trattiene i dati praticamente senza limiti di tempo, ma è riempito di contenuti più difficilmente accessibili. Viene denominato: memoria secondaria, memoria a lungo termine, memoria semantica, stoccaggio permanente. 60 Sviluppo della memoria La capacità mestica non è costante nel corso della vita ma presenta fasi ben precise ed ordinate gerarchicamente. La prima fase che interessa il primo anno di vita, concerne la memoria motoria. La capacità di memorizzare del lattante, abbastanza limitata, è legata alla sua attività motoria e si sviluppa attraverso l’imitazione e la ripetizione ecoica. La memorizzazione sembra limitarsi al riconoscimento di ciò che si percepisce nel presente immediato, senza la capacità di separare ciò che avviene al presente da ciò che avvenuto in precedenza. La seconda fase, durante il secondo e terzo anno di vita concerne la memoria iconica. L’aggettivo iconica indica che la traccia mnestica è costituita da un’immagine mentale. Il processo di imitazione non è più soltanto immediato ma è anche differito. Compare quindi la capacità di memorizzare le cose e di effettuare dei collegamenti e delle manipolazioni grazie alla capacità emersa di formarsi una immagine mentale delle cose percepite, per cui il ricordo non è più legato alla cosa presente nel reale ma anche all’immagine di essa. Alcuni ricordi nati in questa fase della vita possono perciò a differenza di quelli del primo anno di vita lasciare delle tracce permanenti. Questa memorizzazione permanente diretta è tuttavia frammentaria, riservata ad eventi di eccezionale salienza e drammaticità. Un po’ più frequente è invece un processo di memorizzazione “trascinata” o secondaria, ovvero una memorizzazione indiretta conseguente al mantenimento per ripetizione della traccia fino ad una fase ulteriore della vita. In altre parole, l’adulto può avere in memoria alcuni eventi avvenuti nella prima infanzia. Un evento ancora più frequente, seppure ancora episodico, è la pseudomemorizzazione derivata dalla registrazione in memoria e confabulazione di racconti di eventi del secondo e terzo anno di vita fatti da familiari. La terza fase a partire da 4-5 anno è quello della memoria semantica-linguistica in cui la traccia mestica è formata da un concetto di tipo verbale (Canestrari – Godino, 1997, 190). 61 Contenuti e livelli di memoria La memoria non è una funzione omogenea quanto a contenuto e si può quindi parlare di memoria imitativo-adesiva, di memoria iconica e di memoria semantica (Canestrari – Godino, 1997, 190). Oltre che per contenuto la memoria può essere anche suddivisa per profondità o durata nel tempo. I livelli temporali sono quattro e precisamente la memoria sensoriale, la memoria a breve termine, la memoria a lungo termine e la memoria permanente. La memoria sensoriale corrisponde alla capacità di acquisizione e trasmissione del segnale all’ingresso nel sistema. La memoria a breve termine subentra dopo la memoria sensoriale ed è una sorta di meccanismo automatico di ridotta capienza e di breve durata. A questo livello le cose sono raccolte attraverso la percezione per esempio nome di persona o numero telefonico, restano registrate senza alcun particolare sforzo o moto di intenzione ma non durevole. La memoria a lungo termine e la memoria permanente sono il risultato della registrazione stabile di quanto è transitato per la memoria a breve termine. Il meccanismo più usuale che viene messo in opera, affinché una informazione venga trasferita dalla memoria a breve termine a quella a lungo temrina, consiste nella pura e semplice ripetizione mentale (Canestrari – Godino, 1997, 191). La memoria a lungo termine non presenta dei limiti teorici ne alla dimensione del suo contenuto ne alla sua durata del tempo. Da un punto di vista pratico tuttavia esistono dei meccanismi che portano al decadimento della traccia e al graduale oblio delle cose memorizzate. Il principale fra questi meccanismi è l’interferenza: il materiale appreso successivamente può inibire il recupero del materiale appreso per primo e il materiale appreso per primo interferisce con quello appreso dopo. L’interferenza è massima quando i materiali si assomigliano fra di loro, da un punto di vista percettivo o concettuale, mentre ovviamente è minima nel caso opposto. Questo vuol dire che all’interno di una serie di stimoli si ricorda più facilmente quello che si distingue rispetto agli altri. Questo effetto della salienza si chiama effetto von Restoff (Canestrari – Godino, 1997, 193). 62 Capitolo 10 L’APPRENDIMENTO L’apprendimento è la modificazione più o meno stabile nel comportamento concreto o potenziale di un soggetto che risulta da un’esperienza della persona (o animale). Il processo dell’apprendimento implica l’acquisizione di una modalità di risposta nuova e stabilmente diversa rispetto a prima. Questo non significa, tuttavia, che le condotte acquisite, o gli schemi logici incamerati, non siano passibili di ulteriori modificazioni, sia in senso accrescitivo che diminutivo. Anche le cose apprese, specie se non vengono esercitata nella pratica e/o se non vengono consolidate con la ripetizione, possono di fatti perdersi e rendersi indisponibili con il passare del tempo. I meccanismi e le leggi di questa perdita dell’apprendimento sono gli stessi dell’oblio nella memoria a lungo termine come la défailance spontanea per decadimento della traccia, la riproduzione erronea, l’oblio per interferenza, l’oblio traumatico e l’oblio motivato (Canestrari – Godino, 1997, 198). Il secondo caposaldo di questa definizione sta nel fatto che l’apprendimento è il risultato di una esperienza. Non esiste apprendimento, quindi, che non passi per una elaborazione percettiva e cognitiva di uno stimolo. Ciò vuol dire che, da un lato l’apprendimento richiede uno stato di coscienza vigile e tale da consentire il recepimento degli stimoli provenienti dall’ambiente ma che, dall’altro, esso è un processo ben distinto dalla maturazione. Le modificazioni derivanti dalla maturazione hanno carattere di universalità. L’apprendimento al contrario della maturazione, modellando l’espressione delle potenzialità maturative ed introducendo delle innovazioni, tende ad aumentare le differenze fra gli individui. In questa sede ci basti riflettere che il moltiplicarsi delle esperienze inevitabilmente differenziate per contenuti, contesto e significato soggettivo, nel corso degli anni rende gli individuo sempre più diversificati fra loro. La definizione di apprendimento che abbiamo prescelto non richiede necessariamente la comprensione dei nessi fra i fattori e le variabili in gioco: un comportamento può modificarsi semplicemente perché abbiamo appreso dall’esperienza che una certa risposta ad uno stimolo ci evita un danno o ci procura un vantaggio. L’apprendimento di tipo associativo rappresenta la forma più elementare e basilare di apprendimento. Esso costituisce una capacità adattiva primaria presente sia nell’uomo che negli animali di qualunque specie. 65 I prototipi di tale apprendimento sono il “condizionamento rispondente o Pavloviano” e il “condizionamento operante skinneriano” (Canestrari – Godino, 1997, 198). Condizionamento rispondente o Pavloviano Questa forma elementare e primaria di apprendimento per associazione si chiama rispondente perché ad essere appresa non è un’azione volontaria ma una risposta riflessa. Si chiama “condizionamento pavloviano” poiché il fisiologo russo Ivan Pavlov fu colui che casualmente scopri questa elementare forma di apprendimento. Pavlov stava effettuando delle ricerche sui riflessi secretivi dei cani, valutando e misurando la risposta riflessa automatica della salivazione e della secrezione gastrica di fronte alla vista del cibo, quando si accorse che l’animale reagiva con la secrezione salivare e gastrica anche di fronte a stimoli che erano stati associati temporalmente alla comparsa della ciotola. Dato che questi stimoli (come il suono di un campanello), in natura non suscitano alcuna risposta riflessa ipersecretiva, il fatto che dopo un certo numero di associazioni il cane avesse “l’acquolina in bocca” come risposta al solo suono del campanello era la prova che il suo comportamento si era modificato in modo sistematico ed orientato: che aveva appreso la relazione fra suono ed arrivo del cibo e reagiva di conseguenza (Canestrari – Godino, 1997, 199). Lo stimolo che in natura evoca di norma una risposta riflessa (in questo esempio il cibo) si chiama stimolo incondizionato (SI), mentre la risposta riflessa prodotta naturalmente (in questo esempio la salivazione) si chiama risposta incondizionata (RI). Lo stimolo (in questo esempio il suono del campanello) si chiama stimolo condizionato (SC), mentre la risposta della salivazione che viene appresa per associazione ed è prodotta anche di fronte al solo suono del campanello, si chiama risposta condizionata (RC). Il cane di Pavolv venne condizionato a rispondere con la salivazione e l’ipersecrezione gastrica dopo poche decine di associazioni fra squillo del campanello e arrivo del cibo. Si è visto che la curva di apprendimento ha un profilo tipico, cioè che con le prime associazioni l’apprendimento aumenta rapidamente, mentre in seguito il guadagno di apprendimento è sempre minore e l’ulteriore aumento di numero di associazioni non porta alla fine alcun ulteriore progresso (Canestrari – Godino, 1997, 200). La risposta condizionata ha una buona stabilità, ma se cessano per lungo tempo le associazioni fra SC ed SI; si verifica un calo della forza del condizionamento. In altre parole la risposta condizionata sarà sempre meno costante e ad un certo punto sarà solo episodica e quasi scomparsa: questo è il fenomeno della estinzione (Canestrari – Godino, 1997, 200-201). 66 In effetti il meccanismo attivo nel condizionamento appare del tutto analogo a quello che consente, grazie alla ripetizione, il passaggio di un segnale della memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Quello che cambia è tuttavia il canale sensoriale, perché SC non è in genere un segnale verbale ma uno stimolo sia acustico che tattile, olfattivo etc. Se l’associazione non è solo temporale, ma portatrice di un significato, avremo un apprendimento condizionato molto più stabile e duraturo. Se poi associamo allo stimolo condizionato un ulteriore SC, avremo un condizionamento derivato o di secondo ordine. Grazie a questo tipo di condizionamento secondario, abbiamo la possibilità di fare apprendere delle risposte in associazioni a stimoli di complessità maggiore (Canestrari – Godino, 1997, 201). Molto interessante è il fenomeno della “generalizzazione dello stimolo”, grazie al quale la risposta condizionata tende a comparire non solo di fronte allo stimolo condizionato originale ma anche di fronte agli stimoli ad esso analoghi. L’analogia può essere di tipo primario (se la somiglianza fra gli stimoli deriva dalle loro caratteristiche fisiche) oppure secondario. I teorici comportamentisti invocano il meccanismo della generalizzazione per spiegare il crearsi e la fissazione di risposte patologiche che si osservano nelle nevrosi fobico-ossessive. Per quanto riguarda infine le spiegazioni teoriche sul quale il meccanismo di azione del condizionamento rispondente, Pavolv stesso formulò l’ipotesi che esso operi attraverso una sostituzione dello stimolo: a livello cerebrale si creerebbero delle connessioni neuronali associate allo SC che si sostituirebbero, nei loro effetti, a quelle innate associate allo SI. Questa teoria richiederebbe che gli SI e gli SC fossero affini fra loro e, quindi, che attivassero centri neuronali uguali o contigui (Canestrari – Godino, 1997, 201-203). Dato che questo si è dimostrato del tutto falso in molti casi la teoria esplicativa proposta in origine da Pavolv non ha rivevuto delle valide conferme ed è certamente incompleta. Un’altra teoria esplicativa invoca il meccanismo della contiguità temporale. Anche se il rilievo delle difficoltà di ottenere un condizionamento quando l’intervallo temporale fra SC e SI oltrepassa i 5-7 secondi parrebbe costituire una conferma evidente di tale teoria, esistono molti esperimenti che la smentiscono. I dati più recenti infatti dimostrano che il condizionamento (cioè l’acquisizione di una particolare risposta riflessa in relazione ad un SC) non è direttamente proporzionale diretta al numero di associazioni effettuate o alla distanza temporale fra SC ed SI, ma al valore informativo ed anticipatorio dello stimolo condizionato. 67 Naturalmente, è necessario che il condizionamento intervallato sia coerente, cioè che ad essere premiato (o punito) sia sempre lo stesso comportamento. Se al contrario lo stesso comportamento a volte viene premiato e a volte viene punito e a volte accolto con indifferenza, si creano le condizioni per ingenerare nel soggetto un senso dapprima di confusione e poi di vera impotenza nevrotica. La sua condotta sarà in seguito a ciò sempre più incerta e timorosa e potrà in casi particolarmente negativi e gravi, giungere fino ad un quadro di arresto motorio e sviluppare una sindrome psicotica (Canestrari – Godino, 1997, 206). Esiste un limite dell’apprendimento di tipo condizionato: il soggetto può trovare la soluzione giusta, memorizzarla in modo corretto e ripeterla senza che necessariamente l’abbia compresa. Il soggetto agisce senza capire i nessi fra le azioni poste in sequenza fra loro nel piano d’azione appreso ed ogni imprevisto porta all’arresto od alla insistenza meccanica ed interattiva dell’azione (Canestrari – Godino, 1997, 207). Apprendimento concettuale ed imitativo Una domanda alla quale dobbiamo rispondere riguarda a questo punto, la relazione fra il lento procedere dell’apprendimento operante e la subitanea comprensione che l’uomo, ma anche gli animali, mostrano nel corso della soluzione dei problemi. Köhler trovò che questa modalità di comprensione immediata, improvvisa, questa comprensione per insight della logica di un problema, era cosa del tutto indifferente dal lento avvicinamento ad una soluzione per prove ed errori e corrispondeva ad una ristrutturazione concettuale dei dati (Canestrari – Godino, 1997, 208). Detto in altre parole, la capacià di apprendere è nella specie umana sviluppata ad un livello quantitativamente e qualitativamente molto superiore. Un’altra modalità di apprendimento non associativo è l’apprendimento osservativo. Si tratta dell’apprendere a fare qualcosa attraverso l’imitazione e la riproduzione. Questo tipo di apprendimento che è presente anche negli animali si verifica solo a certe condizioni (Canestrari – Godino, 1997, 210): a) L’attenzione dell’osservatore deve essere focalizzata sul comportamento osservato e tale attenzione si mantiene anche senza essere direttamente premiata o rinforzata: 70 b) L’osservatore deve essere capace di cogliere il comportamento osservato come modello valido per sé; c) Deve esistere la capacità di ricordare e richiamare il modello comportamentale a distanza di tempo e quando si verificano le situazioni appropriate. L’apprendimento osservativo segue in definitiva le stesse regole della memorizzazione a lungo termine e risulta particolarmente importante nelle prime fasi dello sviluppo del bambino (congiuntamente all’apprendimento operante), ma anche a sviluppo completato, quando si devono acquisire delle abilità motorie complesse (come nelle attività sportive, e nell’uso di strumenti musicali, nella guida dell’auto) (Canestrari – Godino, 1997, 211). 71 Capitolo 11 LA MOTIVAZIONE Definiamo motivazione la spinta ostato interiore che orienta l’organismo verso un’azione finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo o obbiettivo. La motivazione di un soggetto può essere studiata ed analizzata a vari livelli. La condotta infatti può essere motivata da spinte di tipo elementare come la fame o la sete oppure può essere guidata da certi concetti o schemi mentali come ideologie, valori etico-religiosi, modelli sociali). Evidentemente i meccanismi che spiegano il primo tipo di motivazione (motivazione primaria) sono fondamentalmente fisiologici, mentre i meccanismi implicati nel secondo tipo di motivazione sono posti a livello psicologico-cognitivo (Canestrari – Godino, 1997, 213). L’uomo non è un essere statico che viene spinto ad agire da una causa o fattore motivante, ma semmai da considerare come un essere sempre attivato ed in movimento, il cui procedere comportamentale è regolato da fattori in primo luogo interiori ed in secondo luogo derivanti dall’esterno. Sotto questo punto di vista la motivazione può essere definita come una modificazione temporanea di uno stato costantemente attivato. Studiare la motivazione implica l’andare oltre la semplice descrizione o spiegazione di come un individuo ottiene un risultato o si avvicina ad esso. Lo studio della motivazione è quindi relativo essenzialmente al perché un individuo persegue una meta o un risultato. Teoria pulsionale biologica Alla base di questa teoria è il concetto di bisogno. I bisogni derivano dalle necessità biologiche dell’organismo: quando queste non vengono soddisfatte si avverte un bisogno e viene attivata una pulsione. Corrolario della teoria pulsionale biologica è il concetto di attivazione: la condotta finalizzata dipende dall’innesco di un meccanismo di tipo fisiologico che “scatta solo quando i segnali di bisogno superano uno specifico livello di soglia. Il modello pulsionale è un modello meccanicistico. Se la spinta ad agire consiste nell’impulso generato da un bisogno, tutto ciò che noi dobbiamo fare per spiegare il “perché” del comportamento stesso sta nel solo studio fisiologico dei recettori che hanno segnalato la condizione del bisogno (Canestrari – Godino, 1997, 214). 72 prevalentemente a livello della funzione integratrice dell’Io con una rilevanza accentuata od esclusiva della elaborazione consapevole e razionale dei motivi dell’agire. Questi modelli alternativi a quello freudiano come la Psicologia dell’Io, costituiscono dal punto di vista del lavoro analitico una negazione di validità del modello freudiano. Da taluni autori freudiani queste teorie, che postulano che la motivazione sia ampiamente determinata non dalle pulsioni primarie ma da elaborazioni egoiche e razionali, sono ritenute l’espressione di un meccanismo di difesa contro il modello a-razionale e rivoluzionario della relazione fra pulsioni primitive e stili comportamentali come viene postulato dalla teoria psicodinamica di Freud. In sostanza dal punto di vista freudiano le alternative teoriche al modello pulsionale sarebbero l’esisto di una resistenza attraverso il meccanismo di difesa della razionalizzazione. Teoria pulsionale etologica La teoria pulsionale etologica il cui autore è Konrad Lorenz afferma che le pulsioni sono strutturalmente specie-specifiche (cioè sono degli istinti caratteristici della singola specie) ma, che esse possono, malgrado ciò, essere influenzate in misura variabile dall’esperienza e dall’apprendimento (Canestrari – Godino, 1997, 219). In altri termini questa teoria sostiene che ogni specie animale ( e ovviamente anche l’uomo) possiede un repertorio singolare e determinato di pulsioni istintuali, repertorio pulsionale che è in relazione alla sua struttura genetica. L’ambiente, le esperienze e gli apprendimenti non possono fare emergere degli istinti che siano assenti nel piano genetico, ma agiscono come “modulatori” della espressione degli istinti di base della specie” Gli etologi hanno anche osservato che, quando un certo comportamento motivato (mangiare, bere, pulirsi, accoppiarsi, scodinzolare viene indotto ripetutamente e in sequenza ravvicinata, risulta sempre più difficile sollecitarne la manifestazione (cioè si richiedono degli stimoli scatenanti sempre più “forti” perché esso continui a ripresentarsi). Gli etologi hanno concluso che la messa in atto del comportamento motivato specie- specifcico riduce il livello dell’impulso: diventa sempre più difficile indurre il comportamento perché non esiste più abbastanza energia per “alimentare” la sequenza istintiva (Canestrari – Godino, 1997, 220). 75 Una caratteristica generale delle condotte istintive speci-specifiche, consiste nel fatto che l’individuo è “spinto” a fare delle azioni talora molto complesse senza dimostrare in alcun modo di avere la consapevolezza dello scopo della sua azione. La mancanza di consapevolezza si può dimostrare con semplicità manipolando sperimentalmente gli stimoli. Nell’uomo sono presenti alcuni comportamenti istintivi di questo tipo, ma si tratta nei soggetti clinicamente ed intellettivamente normali di sequenze motorie molto semplici (come la risposta riflessa di orientamento del capo, o il sobbalzo per il rumore improvviso) oppure di spinte istintuali primarie (come quelle di aggredire o di accoppiarsi) che possono tuttavia a differenza degli animali, essere orientate controllate e ritardate a seconda delle circostanze. Imprinting Anche se il comportamento istintivo è specifico ed innato lo stimolo scatenante la sequenza comportamentale specie-specifica non è necessariamente immodificabile e può essere sostituito. In altre parole lo stimolo scatenante “naturale” può essere reso inattivo, ed il comportamento motivato specie-specifico può essere scatenato anche da uno stimolo diverso, in questo caso non più naturale ma appreso. Questa sostituzione è però praticamente possibile solo in determinati periodi iniziali della vita dell’animale (Canestrari – Godino, 1997, 221). E’ nel corso di questi periodi che si forma la prima associazione fra lo stimolo e l’innesco del comportamento istintivo, associazione che poi rimarrà stabile e immodificabile per tutta la vita. Questo speciale apprendimento permanente viene detto Prä-gung o imprinting . Un imprinting si ottiene con una sola esposizione allo stimolo attivo durante la fase sensibile e, se non viene contrastato sistematicamente con un apprendimento in senso contrario, resta attivo molto a lungo, tendenzialmente quanto la vita stessa del soggetto. Per alcune condotte complesse sembra che il periodo dell’imprinting possa essere di circa 18 mesi cioè a partire dalle prime lallazioni fino al terzo anno di vita. Ciò che è importante ricordare dell’imprinting è che se l’individuo non è stato adeguatamente “improntato” nel periodo sensibile della sua vita per quella data funzione e condotta ,egli sarà poi refrattario ad una stimolazione tardiva: in pratica l’espressione del suo repertorio comportamentale resterà monca per tutta la vita (Canestrari – Godino, 1997, 222). 76 Un’altra particolarità dell’uomo è che questi periodi sensibili non sono assoluti (come negli animali) ma costituiscono in pratica il periodo ottimale di acquisizione di determinate classi di stimoli, quello nel quale l’apprendimento è facilitato e lascia delle modificazioni comportamentali permanenti (Canestrari – Godino, 1997, 223). Teoria dell’attivazione o arousal Secondo le diverse teorie pulsionali della motivazione sin qui esposte la pulsione o istinto è sempre un movimento che soggiace ad una dinamica di tipo aversivo: la molla che fa scattare un comportamento motivato nell’animale e nell’uomo sarebbe sempre il cercare di evitare una situazione spiacevole o la risposta innata ad una sensazione di bisogno. Nelle teorie motivazionali dell’attivazione, al contrario. Si dice che la piacevolezza e la spinta ad agire dipendono da livello di stimolazione e dal grado di “attivazione” dell’organismo. La sola ricerca di una stimolazione elevata costituisce un potente meccanismo motivazionale che si traduce tutta in una serie di condotte: le persone amano guidare velocemente, vedere film d’azione per mantenere un determinato stato di attivazione (Canestrari – Godino, 1997, 224). Lo scopo di attivazione può non soltanto “guidare” o “spingere” il comportamento di un soggetto, ma anche finire con il costituire un incentivo o una meta di per sé. Sulla base delle ricerche etologiche condotte sugli animali, è stato osservato che esiste un livello di attivazione ottimale per ottenere la massima efficienza comportamentale. Questo livello ottimale di attivazione è più basso per i compiti complessi e difficili e più alto per i compiti e le condotte più semplici e di routine. La legge si chiama regola di Yerkes. La misura del livello di attivazione è in primo luogo di tipo fisiologico. Un livello molto alto di attivazione coincide con un vissuto soggettivo di tensione e di ansia. Un livello molto basso corrisponde ad uno stato di rallentamento e di sonnolenza. La migliore prestazione per i compiti di complessa esecuzione si registra ad un livello di attivazione non troppo elevato. I compiti di routine e scarsamente impegnativi, viceversa resistono alla destrutturazione anche di fronte ad un grado di attivazione e di ansia o reattività molto alto (Canestrari – Godino, 1997, 225). 77 Capitolo 12 LE EMOZIONI Studiare le motivazioni è un modo per rispondere alla domanda “Perché facciamo o siamo spinti a fare qualcosa?”. Studiare le emozioni può essere un modo per consentire alla domanda “Come ci sentiamo dentro, cosa proviamo nell’agire o nel tendere a fare qualche cosa?” (Canestrari – Godino, 1997, 233). Abbiamo detto che le emozioni sono come la “componente soggettiva, la sensazione affettiva che accompagna la condotta di un individuo”. Nel passato e nella Psicologia pre-scientifica l’emozione veniva considerata come un fattore di perturbazione della condotta razionale dell’uomo. L’interesse per le emozioni era solo descrittivo se le si considera sintomi di un problema. Negli antichi questo concetto si era tramutato nell’idea che dietro la “pressione delle passioni” ci fosse un nume negativo che voleva prendere l’uomo e che si impadroniva della sua anima razionale in modo incontrollato e inspiegabile. Con Darwin le emozioni rappresentano un meccanismo adattivo atto a favorire la sopravvivenza della specie: le emozioni codetermiano il comportamento e la loro comunicazione produce effetti sia sul soggetto che sull’ambiente. Inoltre lo studio comparato delle emozioni nell’uomo e negli animali diventa uno strumento per rilevare e scoprire sa affinità sia importanti differenze fra le specie. Con Freud le emozioni sono state intese non più come contrapposte alla razionalità, ma come una compoente inscindibile del comportamento della mente, la parte in ombra di ogni nostro processo mentale. Studiare le emozioni diviene la chiave per aprire la porta chiusa della razionalità ed interpretare il senso più profondo della condotta di un individuo insieme al livello, articolazione e ricchezza delle sue funzioni cognitive (Canestrari – Godino, 1997, 234). 80 I meccanismi dell’emozione Sul modo in cui si articolano le emozioni, su quale sia il loro esatto meccanismo di produzione sono state proposte numerose teorie. Fra le prime va citata la teoria di James e Lange. Secondo questo modello, detto anche “teoria viscerale o periferica delle emozioni”, il vissuto dell’emozione non è l’origine ma piuttosto la conseguenza delle modificazioni organiche periferiche. Secondo questa teoria, in altre parole non si trema o si ha orripilazione perché si ha paura, ma si prova paura perché si trema. Questa teoria viene detta periferica proprio perché suppone che il punto di partenza della catena di reazioni emotive non sia nel sistema nervoso centrale ma nella usa periferia. Questa teoria può colpire per la sua grande semplicità ma numerosi esperimenti hanno provato che essa è certamente incompleta, se non interamente falsa (Canestrari – Godino, 1997, 236). Un’altra teoria speculare a questa e proposta da Cannon sosteneva che l’origine dell’emozione è da rintracciare dentro il cervello. Secondo questo modello, chiamato “teoria centrale delle emozioni”, la risposta emotiva è l’effetto di una stimolazione di certe zone profonde del cervello, in particolare dei nuclei dell’ipotalamo. Il meccanismo che produce l’emozione parte certo da stimolazioni periferiche e centripete ma “scatta in modo automatico solo quando i segnali raggiungono certe parti profonde del cervello. La mancanza della corteccia cerebrale impedisce ogni controllo su quanto avviene, conferendo al comportamento rabbioso quel suo carattere di meccanicità. La teoria centrale di Cannon è stata sottoposta a molte verifiche stimolando in modo sistematico e controllato le zone più diverse del cervello (Canestrari – Godino, 1997, 237). Si è visto allora che la stimolazione di certe zone innesca le condotte tipiche di certe emozioni (Canestrari – Godino, 1997, 237-238). La condotta emotiva ha quindi sicuramente a che fare con certi “nodi” anatomici cerebrali: solo con l’interessamento di questa area essa si può verificare. Questa condotta emotiva da stimolazione cerebrale diretta ha però una peculiarità: inizia e finisce in coincidenza con l’inizio e la fine della stimolazione nella specifica zona cerebrale. Quindi tutto quello che possiamo dire sulla base delle ricerche psicofisiologiche, è che la sequenza comportamentale tipica delle diverse emozioni si innesca ogni qual volta stimoliamo le zone del cervello individuate da Cannon, ma che il vissuto emotivo ha una sede ed una origine distinta da questa stimolazione. 81 La sede fisiologica della organizzazione delle emozioni è stata collocata grazie alle ricerche di Papez nelle strutture del sistema libico, in particolare nel circuito che porta ora il suo nome (circuito di Papez). Questo sistem alimbico ha ricevuto anche il nome di “cervello viscerale”. Esso ha una struttura abbastanza simile a quella della neo-corteccia e mette quest’ultima in collegamento con l’ipotalamo e con le stimolazioni di provenienza viscerale. Il nome stesso di sistema libico è stato scelto per indicare il suo carattere intermedia e indefinito poiché collega le parti filogenenticamente più arcaiche a quelle più evolute del cervello. Il segnale emotigeno non giunge perciò direttamente alla neo corteccia, ma attraversa vari stadi di trattamento e di elaborazione, prima nelle parti profonde e in seguito in quelle intermedie del cervello. A livello fisiologico, l’emozione coincide con uno stato di attivazione funzionale dei neuroni. Questo stato di attivazione non sembra diversificato da un tipo di emozione all’altro: la gioia, la rabbia, la passione, la paura si correlano con dei tracciati elettroencefalografici del tutto simili fra loro. Su questa base Lindsley ha proposto una teoria generale della psicofisiologia dell’emozione che si chiama “teoria dell’attivazione”. Secondo questa teoria risulta difficile distinguere l’attivazione emotiva dallo stato di attivazione che osserviamo quando opera una motivazione biologico o primaria. In realtà è evidente che anche se le onde registrate con l’elettroencefalograma sono analoghe, deve esistere una grandissima differenza nello stato interiore di chi ha fame o di chi prova una grande golosità per qualcosa (Canestrari – Godino, 1997, 238). In tutti i casi è chiaro che l’emozione non va intesa come uno smarrimento della ragione, ma piuttosto un modo per arricchire ed articolare la nostra comprensione e percezione della realtà. E poi grazie alla dimensione affettiva che il comportamento motivato viene sostenuto nel tempo e che può essere integraro a livello morale. 82 Le emozioni sociali sono quelle che si sviluppano nel contesto delle relazioni interpersonali e di gruppo come l’aggressività, l’altruismo, l’ostilità e l’amore (Canestrari – Godino, 1997, 248). Fra le emozioni cognitive possiamo indicare l’interesse, la speranza, la religiosità, i sentimenti morali. Disturbi emozionali La sensibilità emotiva può condurre a taluni distirubi psichici. Le due polarità sono una “eretistica” e una indifferenziata “atimia”. Per carattere eretistico si intende il carattere iperattivo, sempre critico ed oppositivo, recriminatorio e violento. Questo carattere può costituire un punto di partenza per una evoluzione psicotica sotto forma di paranoia di persecuzione, in cui il soggetto si costruisce una realtà mentale illusoria con idee deliranti di essere perseguitato, ingannato o assediato. Il carattere torpido presenta invece una marcata tendenza alla disforia o stato di malessere emotivo e mostra una elevata suscettibilità a vivere stati di ansia per sollecitazioni modeste in particolare per certi segni o sintomi corporei. E’ questa la tipica situazione della ipocondria. La nevrosi isterica si caratterizza per la labilità o instabilità dello stato emotivo, per la teatralizzazione od esacerbazione delle reazioni affettive (Canestrari – Godino, 1997, 251). Disturbo della personalità sociopatica è caratterizzato dal mancato rispetto degli obblighi sociali, insensibilità di fronte all’altro, e eccessiva aggressività. Le cause di questo disturbo fanno riferimento a fattori biologici, comportamentali e situazionali (Canestrari – Godino, 1997, 252). 85 Capitolo 13 STATI DI COSCIENZA Una funzione della coscienza è la regolazione della propria relazione con l’ambiente. Difatti è grazie alla coscienza che si compie un monitoraggio permanente degli effetti del proprio agire, che si può ordinare la propria attività mentale, attendersi degli eventi dal futuro, progettare e dirigere la propria volontà (Canestrari – Godino, 1997, 255). Oltre alla dimensione conscia e consapevole, la gran parte degli psicologi riconosce l’esistenza anche di una dimensione inconscia della nostra attività mentale. Esistono due modelli alternativi nella concezione di uni spazio conscio ed inconscio, uno cognitivista ed uno psicodinamico. Per i cognitivisti l’inconscio coincide con l’insieme di ricordi, conoscenze, processi noetici che sono stati assimilati e registrati in precedenza ed influenzano la condotta ed il pensare attuali, ma che non sono immediatamente e direttamente accessibili all’esame consapevole del soggetto. Fanno perciò parte dell’inconscio sia le attività automatiche di prima assimilazione del segnale da parte degli organi di senso, che tutte quelle attività a partenza ed indirizzo volontari, ma “automatizzate” attraverso l’apprendimento e l’esercizio. Questa seconda componente dell’inconscio è chiamata conoscenza procedurale. Se noi dirigiamo l’attenzione verso queste attività inconsce ed automatiche una parte di esse può essere portata alla coscienza (Canestrari – Godino, 1997, 256). Questa componente di inconscio che si riesce a fare riemergere con l’auto-osservazione analitica viene detta conoscenza dichiarativa (Canestrari – Godino, 1997, 256-257). Secondo il modello psicodinamico freudiano l’inconscio è costituito in primo luogo dagli impulsi primari, dagli istinti e dai desideri, riferibili soprattutto alla sfera della sessualità. Altri autori come Jung o Adler in particolare, hanno dato un assai minore rilevanza agli impulsi sessuali oppure hanno ipotizzato delle pulsioni inconsce sovra-individuali e derivanti dai modelli archetipici, che interessano l’individuo in quanto appartenente ad un determinato gruppo etnico e culturale. Le pulsioni lasciano tracce di sé ed hanno un effetto sul modo di essere e di agire, ma la consapevolezza della loro presenza è solo parziale e per essere raggiunta richiede un impegno dell’io a esplorare un’area di confine che di norma gli sfugge o viene colta solo confusamente (Canestrari – Godino, 1997, 257-258). La parte conscia costituisce sempre una frazione modesta della globalità dello psichismo. La parte immersa non è direttamente visibile, anche se ne cogliamo con discreta precisione gli effetti e la dimensione sulla base dei movimenti e della forma della parte emersa. 86 Il modello freudiano è quello che potremmo definire un modello affettivo. Le spinte primarie, le pulsioni, gli istinti sono considerate da questa teoria la fonte autentica dei nostri comportamenti volontari e coscienti. Il processo di scoperta dei contenuti inconsci è sempre incompleto, indiretto e soffre di un certo grado di indeterminazione interpretativa. Quando siamo desti e lucidi, la coscienza esercita un controllo rigoroso, e questa investigazione delle pulsioni profonde risulta ardua e quasi impossibile. Tale analisi è invece un po’ più agevole se operiamo una qualche forma di distanziamento emotivo e di distacco, oppure se il controllo della coscienza si allenta, come avviene durante il sonno. Un’altra situazione propizia all’esplorazione delle pulsioni inconscie è quella della regressione, ma la posizione ottimale e privilegiata per osservare l’azione dell’inconscio è quella di un osservatore esterno. Regressione significa letteralmente ritorno all’indietro. Durante il sonno sotto ipnosi, per l’effetto di farmaci e droghe che influenzano le funzioni mentali, oppure ancora nella situazione standard della seduta psicoanalitica, si hanno alcune delle condizioni favorevoli per una regressione e quindi per un accesso relativamente più agevole ai contenuti dell’inconscio (Canestrari – Godino, 1997, 258). Il cervello e la coscienza Esistono svariate tecniche di studio adatte a mostrare la relazione fisiologica fra coscienza ed attività neuronale. Una di queste tecniche consiste nel vedere che cosa avviene, come vissuto, quando si stimolano delle precise aree della corteccia cerebrale in un soggetto sveglio. Un’altra tecnica di indagine psicofisiologica della coscienza consiste nello studio del cosiddetto cervello diviso. L’encefalo si compone in due parti, gli emisferi cerebrali, che sono anatomicamente uguali e simmetriche. Di norma, i due emisferi operano in modo associato perché sono congiunti da certe strutture nervose intermedie, collocate nel setto interemisferico (Canestrari – Godino, 1997, 259). Si è constatato che l’emisfero sinistro (nei soggetti a dominanza destra) è specializzato nel controllo e nella comprensione del linguaggio e della scrittura, oltre che nella esecuzione di ragionamenti astratti e nella risoluzione di problemi aritmetici. L’emisfero non dominante (di norma destro) risulta invece più abile nei compiti di analisi e ricostruzione spaziale, nel confronto globale e sintetico di stimoli visivi, nella ideazione di tipo non verbale e legata ad immagini, nella assimilazione e raffronto di stimoli musicali. 87 facilitata, mentre l’attenzione e la vigilanza si assopiscono con stimoli di bassa intensità e con un ritmo di variazione molto lento. L’attenzione non va perciò intesa come un semplice correlato funzionale dello stato di vigilanza, ma piuttosto come un processo selettivo presente fin dalla nascita e che si perfezione ed incrementa nella sua capacità insieme al progredire delle abilità percettive e cognitive. I ritmi biologici cicardiani Quando un soggetto ha rivolto l’attenzione verso lo stimolo o ha iniziato la prestazione, la qualità della vigilanza e della prestazione dipendono da molti fattori. Fra questi fattori bisogna considerare anche l’ora del giorno in cui il soggetto agisce. Influenzano in modo decisivo la prestazione alcuni ritmi di funzionamento dell’organismo a cadenza quotidiana (Canestrari – Godino, 1997, 263). Si tratta di “ritmi cicardiani”, che interessano numerosi parametri di funzionamento fisiologico del corpo, come la pressione arteriosa, il tono muscolare, la temperatura corporea, la velocità del metabolismo, la resistenza alla fatica etc. (Canestrari – Godino, 1997, 264). Il cosiddetto “orologio” interno non pare che abbia una sola localizzazione ne che parta da un solo tipo di meccanismo. Gli orologi pare che siano due: 1- Collocato nella Formazione reticolare ascendente (una fitta rete di neuroni posta nella zona fra il midollo allungato e la base del cervello); 2- Nucleo soprachiasmatico (Un gruppo di neuroni che si trova nel mezzo dell’encefalo ed al di dietro del setto inter-emisferico). L’attività dei neuroni della formazione reticolare ascendente presenta in effetti due ritmi di oscillazione. Uno di essi è di grande ampiezza, ha una scansione quotidiana e regola lo stato di alternanza sonno/veglia. Quando il soggetto si addormenta la FRA prima riduce e poi blocca quasi completamente l’arrivo al cervello dei messaggi sensoriali. L’addormentamento corrisponde quindi al massimo di attività di tale struttura regolatrice. In mancanza di stimoli dall’esterno il cervello, che continua a essere normalmente attivo, inizia ad elaborarare come stimoli sia i segnali depositati in memoria che gli stimoli provenienti dal corpo. Questo pare essere il meccanismo generale del sogno a livello fisiologico. 90 Un altro ritmo di oscillazione derivato dall’attività della FRA di ampiezza più ridotta ha una frequenza che è sottomultiplo del ritmo cicardiano e genera sia la formazione di fasi del sonno di varia profondità che una periodica oscillazione dello stato di allerta durante la veglia. Lattività del nucleo soprachiasmatico è invece simile a quella di una sorta di “interruttore” che regola sia il ciclo “sonno/veglia” che l’attività motoria o il comportamento alimentare (Canestrari – Godino, 1997, 265). I ritmi cicardiani influenzano anche la reazione del corpo alla somministrazione dei farmaci, inoltre i ritmi cicardiani influenzano la qualità di prestazioni di un individuo comprese quelle cognitive (Canestrari – Godino, 1997, 266). Dormire e sognare Tuttavia sappiamo bene che le persone non passano la vita in uno stato ininterrotto di consapevolezza e di allerta. Noi dormiamo e sogniamo. Questo peculiare stato di coscienza è stato studiato in modo oggettivo e sistematico soltanto a partire dagli anni 50’ grazie alla tecnica dell’elettroencefalogramma (EEG). Questa tecnica consiste nella registrazione delle onde elettriche prodotte dalla attività dei neuroni corticali e sottocorticali. Studiando i tracciati EEG sia nello stato di veglia che in quello di sonno si sono potute osservare diverse e ben riconoscibili fasi di funzionamento: a) FASE 0 (VEGLIA RILASSATA) Nel caso della veglia tranquilla si ottiene in ambiente poco rumoroso e con le palpebre abbassate, si registrano le cosiddette onde alfa, ad alta frequenza, molto irregolari. Questa fase viene detta “fase zero del sonno”. b) FASE 1 (DORMIVEGLIA O FASE IPNAGOGICA) Nella fase di addormentamento iniziale o sonno leggero la frequenza e l’ampiezza delle onde si riduce e cominciano ad apparire alcuni gruppi di onde di diversa frequenza. c) FASE 2 (SONNO MEDIO) Nella fase due del sonno si individuano fra le onde miste ed a bassa intensità, dei treni di onde particolari, i fusi del sonno e delle onde a punta sporadiche (Canestrari – Godino, 1997, 267). d) FASE 3 (SONNO SINCRONIZZATO) Nella terza fase le punte si fanno molto ampie e numerose con un tracciato alquanto irregolare e caratteristico. Il 91 sonno è diventato molto profondo e per destare il soggetto occorre un movimento piuttosto energico. e) FASE 4 (SONNO PROFONDO SINCRONIZZATO, A ONDE LENTE) Nella fase 4 compaiono delle tipiche onde lente ed ampie piuttosto irregolari, chiamate onde delta (Canestrari – Godino, 1997, 268). Qualcuno potrebbe chiedersi cosa distingue mai il sogno dal delirio e dalla allucinazione di un folle? Se allucinazione significa avere un percezione di tipo totalmente illusorio che non ha alcuna relazione con la realtà e con quello che percepiscono gli altri, il vissuto degli altri potrebbe apparire esattamente allucinatorio e le idee od interpretazioni collegate a tale vissuto delle autentiche interpretazioni deliranti. Le distinzioni sono invece nette e molteplici. Innanzitutto il sogno avviene in stato di addormentamento, quindi in uno specifico stato psico-fisiologico ben distinto da quello di veglia. In secondo luogo la memorizzazione è molto labile essi sono quasi per intero dimenticati a pochi minuti dal risveglio. I pensieri deliranti e le percezioni allucinatorie sono invece persistenti, entrano a fare parte integralmente e massicciamente della realtà esperienziale del malato. In terzo luogo persiste, nella gran parte dei sogni, anche se non in tutti, una sottile consapevolezza che ciò che si vede non appartiene alla realtà ma è “solo un sogno”. Qualche sogno specialmente se si tratta di brutti sogno o incubi può restare impresso nella mente a lungo ed essere ricordato in molti particolari quasi come se fosse stata una esperienza reale. Esso resta ad ogni modo, nei soggetti non psicotici, fissato come ricordo vivido e non viene confuso con il ricordo di un’esperienza oggettiva. Ci si può chiedere che scopo abbia sognare. Alcune ricerche hanno appurato che dopo pochi giorni di privazioni di fasi oniriche, compare una grande spossatezza con enormi difficoltà di concentrazione e di applicazione anche in compiti semplici (Canestrari – Godino, 1997, 270). Nel caso dell’uomo adulto, delle 8 ore in media passate a dormire, circa la metà sono di sonno medio o leggero mentre l’altra metà è suddivisa fra sonno profondo e sonno paradossale. La componente che si accorcia maggiormente è quella della fase REM. Nel neonato essa è quasi la metà del totale e quindi supera le 8 ore al giorno, nell’adulto non supera un quarto scarso del totale e quando si aggira intorno alle 2 ore al giorno in media, nell’adulto ultra 70 enne si riduce ad un quinto del totale e ad una sola ora al giorno. Con il progredire dell’età muta notevolmente anche il contenuto dei sogni. I sogni dei bambini piccoli sono di solito semplici realizzazioni dei desideri. Con lo sviluppo cognitivo ulteriore la struttura dei sogni comprende elementi più complessi (Canestrari – Godino, 1997, 272). 92 Capitolo 14 LA FRUSTRAZIONE E IL CONFLITTO Definiamo la frustrazione lo stato in cui si viene a trovare un organismo quando la soddisfazione dei suoi bisogni viene ostacolata. La frustrazione è un aspetto inevitabile dell’esistenza, nel senso ovvio che esiste un limite alla possibilità di soddisfazione degli impulsi e dei bisogno e che il vissuto della frustrazione è un fattore importante per la relazione corretta con la realtà e per la costruzione di una personalità equilibrata. La madre rappresenta nella fase iniziale dell’esistenza la fonte principale da cui proviene sia la soddisfazione che la frustrazione dei bisogni. In certe condizioni (come crescita in orfanotrofio, genitori eccessivamente e severi) la somministrazione di frustrazioni può essere eccessiva, comportando delle reazioni di difesa molto rigide e patogene da parte del bambino, reazioni che tenderanno ad evolvere in disturbi mentali e del carattere forniranno una condotta genitoriale inadeguata ed eccessivamente frustrante verso la prole (Canestrari – Godino, 1997, 285). Un’altra situazione apportatrice di eccessive frustrazioni è, tuttavia, anche quella di una madre ipertesa ed ansiosa. Anche genitori troppo remissivi e acquiescenti sono una fonte importante di frustrazione. Le cause di frustrazioni sono molteplici e le possiamo classificare come aventi origine dall’ambiente sociale, oppure familiare e personale. Fra le cause di frustrazione derivanti dall’ambiente possiamo ricordare la distanza della propria abitazione dai centri urbani, l’eccessiva rumorosità. Queste frustrazioni sono in genere ben tollerate dall’individuo in quanto sono anonime, prive di intenzionalità o di significato personale. Più difficili da accettare sono invece le frustrazioni derivanti dall’ambiente sociale e familiare (Canestrari – Godino, 1997, 286). 95 Le risposte alla frustrazione Una tendenza impedita, continua ad operare per un certo tempo, ovvero l’energia mobilizzata continua a cercare vie di scarico e modi di utilizzazione anche nel caso di bisogni non legati alle esigenze fisiologiche elementari. Possiamo distinguere le reazioni alle frustrazioni a seconda che siano adeguate o inadeguate a superare realmente l’ostacolo e a raggiungere il fine. Reazione adeguata e inadeguata non significano però reazione normale e reazione anormale. La reazione inadeguata assume aspetti anormali e patologici quando si ripete in modo fisso e coercitivo anche di fronte a frustrazioni di per sé lievi. Una reazione alla frustrazione può consistere nell’intensificare lo sforzo per superare l’ostacolo, pur utilizzando gli stessi strumentoùi, ma con un aumento quantitativo dello stesso tipo di azione. C’è però un limite all’adeguatezza di accettare tale intensificazione dello sforzo. Infatti essa è adeguata solo se permette realmente di raggiungere lo scopo, altrimenti rappresenta una reazione inadeguata e diventa “fissazione” o stereotipia. Anche se lo sforzo è notevole, l’ostacolo può non venire superato perché le nozioni, gli strumenti e le capacità di cui si è in possesso sono male impiegati. Quando le precedenti due reazioni, della intensificazione degli sforzi e della riorganizzazione delle strategie, non diano esito favorevole, la reazione più adeguata consiste, per forza di cose, nel modificare il fine, sostituendolo con uno simile (Canestrari – Godino, 1997, 288). Secondo alcune ricerche l’attività sostitutiva ha la capacità di scaricare la tensione in misura tanto maggiore quanto più grande è la somiglianza con l’attività che è stata impedita (Canestrari – Godino, 1997, 288-289). La sostituzione dei fini non ha sempre un valore costruttivo, positivo, come nel caso citato dell’adozione di un figlio o della scelta di una diversa e più congeniale professione. Spesso essa rappresenta solo uno sfogo gratuito, parzialmente compensatorio della tensione accumulata. Il bambino di cui è rigidamente impedito dalle regole della educazione la manifestazione dell’aggressività verso i fratelli o i compagni rivali o verso i genitori, potrà mostrare, accanto alla remissività ed alla docilità nei rapporti interumani, un comportamento violento e distruttivo con oggetti inanimati, nel gioco ed in altre attività. Una sorgente pressoché inesauribile di sostituzione compensatoria è rappresentata dalla fantasia. Ciò che è proibito, limitato e di difficile accesso, può essere posseduto nella fantasia o nel sogno. 96 Le fantasie compensatorie, siano esse a carattere erotico, aggressivo, omicida, non suscitando sanzioni punitive e non impegnando apertamente le responsabilità del soggetto, non sono fonte di ansia altrettanto opprimente quanto sarebbe la trasgressione reale, manifesta, di un divieto. Secondo la terminologia Lewiniana il “campo”, delimitato da rigide barriere in cui si trova confinato il soggetto frustrato, trasportato sul piano dell’irrealtà acquista un carattere di fluidità, di permeabilità, che consente una sia pure fittizia e parziale soddisfazione dei bisogni. L’energia bloccata da un intervento frustrante può trovare un’altra forma di utilizzazione compensatoria nella “sublimazione”. Cosi’ l’aggressività violenta può essere sublimata in spirito di competizione, in agonismo sportivo, o addirittura in forme di militarismo espansionistico, in nazionalismo fanatico (Canestrari – Godino, 1997, 289). L’interpretazione di particolari attività o spinte vocazionali come sublimazione di tendenze ostacolate deve essere sempre prudente e deve essere sempre fondata su una analisi attenta e non preconcetta della biografia e della personalità dei vari individui. Un altro tipo di reazione alla frustrazione, descritto da Freud, consiste nello sviluppo di un comportamento opposto a quello che è inibito, comportamento definito “formazione reattiva”. Ciò può verificarsi soprattutto quando la prima tendenza è bloccata da forti ansie e timori, o da un forte senso di colpa. Alla frustrazione si può reagire anche con l’aggressività. Questa è una reazione inadeguata che tende alla distruzione, all’allontanamento o a mettere comunque in difficoltà la persona o l’oggetto che è avvertito come causa della frustrazione. Ciò costituisce una reazione inadeguata, perché tale aggressione non risolve il problema. L’aggressività è in genere aperta nel bambino (Canestrari – Godino, 1997, 290). Altre volte il soddisfacimento dell’impulso aggressivo può fermarsi a livello immaginativo: il soggetto è portato a rappresentarsi nella mente situazioni in cui l’oggetto dell’aggressività viene maltrattato, umiliato o aggredito. Talora l’individuo non giunge neanche a queste forme attenuate di aggressività e può cercare di reprimere la reazione aggressiva e di ignorarla, e può anche riuscrivi attuando con ciò un’altra reazione detta “rimozione”. Rimuovere l’impuso aggressivo non vuol dire però estinguerlo, ma solo ignorarne le cause sul piano della coscienza, cosicché l’impuso rimosso può trovare altre vie di scarico. Bisogna infine ricordare che l’aggressività può essere anche rivolta verso la persona stessa che è stata vittima della frustrazione (auto-aggressività). Sembra che l’autoaggressione sia favorita quando l’individuo ritiene che la causa della frustrazione sia da ricercarsi non tanto nell’ambiente 97
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