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Reti migratorie ed etniche: funzioni e problematiche, Appunti di Antropologia Culturale

Una discussione sulle reti migratorie ed etniche, le loro funzioni e problematiche. Si analizzano le specializzazioni etniche, le catene di conoscenze e contatti che portano a colonizzare determinate nicchie occupazionali, e l'azione delle reti sociali costruite dai migranti come forma di costruzione sociale di processi economici. Si evidenzia come le reti riducano l'efficienza del mercato nel realizzare l'incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma allo stesso tempo riducano i costi della raccolta di informazioni e permettano scambi di favore che torneranno utili in futuro.

Tipologia: Appunti

2015/2016

In vendita dal 13/01/2022

MatteoMalavasi87
MatteoMalavasi87 🇮🇹

4.3

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Scarica Reti migratorie ed etniche: funzioni e problematiche e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! APPUNTI ANTROPOLOGIA DELLE MIGRAZIONI SUL VERSANTE DEI MIGRANTI LE FUNZIONI DELLE RETI SOCIALI Discussione sui tratti distintivi delle reti migratorie (o reti etniche), le varie funzioni che svolgono, le dimensioni che le differenziano e gli effetti positivi o problematici della loro azione di sostegno. LE “SPECIALIZZAZIONI ETNICHE” Capita spesso di osservare che gli immigrati di una certa nazionalità si concentrino in un determinato settore o svolgano la medesima occupazione. In Italia troviamo facilmente cinesi impegnati nella ristorazione, donne filippine impegnate come collaboratrici famigliari, ecc. È poi frequente associare queste destinazioni occupazionali a presunte attitudini culturali: se numerosi lavoratori di un determinato paese si ritrovano in uno specifico ambito occupazionale, si tende a pensare che questo corrisponda a loro scelte, mentalità, forme di socializzazione. Le ricerche sul campo tuttavia problematizzano questo presupposto: non capita spesso che un immigrato svolgesse la medesima attività nel paese di origine. In realtà è l'incidenza dei legami interpersonali e conoscenze sono il canale privilegiato per la ricerca di un lavoro e di un miglioramento della situazione occupazionale, specialmente in un mercato del lavoro frammentato come quello attuale. Per gli immigrati i fattori relazionali sono ancora più importanti, giacché essi non hanno per esempio la possibilità di partecipare a concorsi pubblici e solo in alcuni contesti (non in Italia) riescono a far valere senza troppi ostacoli i titoli conseguiti in patria. Quasi sempre quindi gli ambienti in cui gli immigrati già insediati sono in grado di introdurre i nuovi arrivati sono gli ambienti in cui essi stessi lavorano. Si formano catene di conoscenze e contatti che portano a “colonizzare” determinate nicchie occupazionali, abbandonate dai lavoratori nazionali. Il fatto poi che certi lavori si associno alla presenza di immigrati tende a svalorizzarli e accelera l'esodo della popolazione autoctona. Ritroviamo quindi il concetto di “rete migratoria”, intese come complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e non di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine. Nella letteratura internazionale e segnatamente in quella anglosassone, si parla di frequente di “reti etniche”, per intendere le reti di persone che condividono una comune origine nazionale, come sinonimo quindi di “reti migratorie”; si parla poi di “specializzazioni etniche”, quando le reti di connazionali si insediano in maniera definitiva in una specifica nicchia del mercato del lavoro, determinando quella associazione tra provenienza e lavoro svolto da cui abbiamo preso le mosse. Nell’ambito americano ha avuto una certa diffusione un altro concetto, quello di “enclave etnica”, che indica una peculiare concentrazione residenziale di una popolazione immigrata, capace di dar vita a imprese e istituzioni proprie, che spaziano dalle scuole, alle chiese, dai giornali alle banche (es. l'insediamento cubano a Miami). Sebbene l'istituzione di enclave sia un caso estremo e raro la formazione di quartieri connotati etnicamente è un fatto nuovo e abbastanza diffuso, soprattutto in paesi con storie di immigrazione più antiche. UN CASO DI COSTRUZIONE SOCIALE DEI PROCESSI ECONOMICI Fenomeni migratori di alto grado di informalità e autopropulsione si saldano in questo modo con un mercato del lavoro deregolato e insieme bisognoso di manodopera, in certi casi facendo emergere una domanda ad hoc. Questi processi dimostrano quanto il funzionamento del mercato del lavoro sia tributario di fenomeni sociali, che spaziano dai rapporti di parentela, amicizia e mutuo aiuto, al significato delle appartenenze ascritte, a forme premoderne di patrocinio e scambio di favori, chiamando in causa anche il significato economico di norme morali come quelle che promuovono reciprocità e fiducia. Lo studio delle reti dei migranti è quindi un modo per comprendere come le relazioni sociali intervengono per strutturare l'azione economica e come la società moderna e una sua tipica istituzione come il mercato del lavoro, siano intrise di elementi che rimandano al passato, specialmente in determinate nicchie del mercato occupazionale. Le assunzioni operate attraverso le reti di contatti sociali riducono l’efficienza del mercato nel realizzare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, si abbassa infatti la probabilità che le imprese trovino i lavoratori più adatti e che i lavoratori trovino l'occupazione che meglio corrisponde alle loro capacità e aspirazioni. Ma allo stesso tempo, le reti riducono i costi della raccolta di informazioni da ambo i lati, accelerando la circolazione di notizie, espandendo la conoscenza tacita condivisa dai compagni di lavoro permettono scambi di favore che torneranno utili in futuro. Ogni mercato del lavoro reale è quindi radicalmente segmentato e ogni impresa ha un effettivo accesso soltanto a una frazione dei lavoratori che in astratto potrebbero occupare i posti di lavoro offerti. L'azione delle reti sociali costruite dai migranti è stata studiata in proposito come una delle più notevoli forme di costruzione sociale di processi economici. Lo studio delle reti dei migranti permette di avere una approccio interattivo e dinamico, sensibile nei confronti della autonomia degli attori sociali e dell'incidenza delle istituzioni. Possiamo al riguardo avanzare 3 ipotesi: a) L'azione delle reti migratorie e di altre istituzioni sociali volte a favorire l'inserimento al alvoro e l'insediamento sul territorio degli immigrati è tanto più importante quanto meno incide la regolazione pubblica e specialmente statuale; b) Allargando lo sguardo alla prospettiva storica e alla comparazione internazionale, l'intervento di questi fattori sociali segue una specie di curva a U: di grande rilievo nelle migrazioni di inizio ‘900 si era poi appannata all’epoca delle migrazioni postbelliche intraeuropee, per poi riemergere negli ultimi decenni; c) Un processo di inclusione degli immigrati affidato alla azione delle forze di mercato da un lato e dalle risorse delle reti dall’altro, ha aspetti positivi giacchè la solidarietà fra parenti e connazionali permette un rapido inserimento anche di soggetti arrivati da poco, ma presenta anche rischi di ghettizzazione e di confinamento di immigrati in nicchie occupazionali anguste e poco quali In Italia, le reti di relazione tra persone che condividono la medesima origine nazionale rappresentano la principale agenzia di supporto nei percorsi di inserimento e il punto di riferimento più prossimo nei mille problemi della vita quotidiana. cate. Vanno poi distinte reti che restano debolmente strutturate ed essenzialmente informali, e reti che evolvono verso configurazioni istituzionali più formalizzate, o danno vita a istituzioni che diventano punti di riferimento per la socializzazione e l'interscambio. Un'altra distinzione che si è affermata nel dibattito dell'ultimo anno è quella relativa al “genere delle reti” : i lavori sulle migrazioni femminili hanno posto in rilievo la formazione e il funzionamento di network in cui le donne, legate da vincoli di parentela, di amicizia o anche di interesse, si organizzano per favorire l'ingresso e l'inserimento lavorativo di altre donne, provvedono alla sostituzione di chi lascia il posto di lavoro, sviluppano forme di socialità e animazione del tempo libero, ecc. un'altra importante questione concerne poi il grado di organizzazione interna e di capacità di sostegno. Possiamo distinguere a questo proposito reti disorganizzate e poco efficaci nel sostenere l'inserimento sociale dei connazionali; reti dotati di buona coesione interna e di un certo grado di organizzazione comunitaria; reti coese fino all’isolamento e capaci di dar vita ad attività indipendenti molto basate sul lavoro dei connazionali, i quali trovano a loro volta con facilità una occupazione. Nelle reti migratorie si possono poi individuare alcune figure e funzioni tipiche: Lo scout, ossia il pioniere, coloro che hanno aperto una nuova rotta migratoria e diventano il punto di riferimento per gli arrivi successivi, di familiari, congiunti, compaesani. Il broker, che si specializza nell'intermediazione fra la domanda di lavoro e l'offerta dei connazionali, fungendo da collettore di informazioni nei due sensi. Leader comunitario, che assume compiti di rappresentanza nei confronti della società ospitante, può avere un ruolo formalizzato oppure essere un leader religioso, custode dell'identità nazionale. Il provider di alcuni servizi come il posto letto, il lavoro, l'assistenza nel disbrigo di pratiche burocratiche o nel reperimento di documenti, traendo lucro dalla propria attività, agendo in una “zona grigia”, talvolta proprio illegale. Il correre, che fornisce un ruolo di connessione con le società di origine, attraverso il correre passano non solo quantità ingenti di risorse economiche ma anche molti beni carichi di valenze simboliche. LE VARIABILI INFLUENTI Dall’itinerario di analisi effettuato si possono individuare alcune variabili attraverso le quali si struttura l’azione delle reti migratorie: 1) 2) 3) La prima variabile concerne la numerosità: secondo alcune interpretazioni, gruppi troppo piccoli, o viceversa troppo numerosi, sembrano incontrare maggiore difficoltà nel formare reti etniche funzionanti. Una seconda dimensione variabile, che si intreccia con la numerosità consiste nella concentrazione, ossia nell'addensamento territoriale, oppure occupazionale, che condiziona la frequenza e l'intensità dei rapporti sociali tra i partecipanti. Una terza dimensione riguarda la composizione, che influenza la dotazione di risorse e quindi il capitale sociale che la rete può mettere a disposizione dei membri. Una rete formata da parsone scarsamente istruite e neo arrivate, collocate in posizioni marginali del mercato del lavoro, ha una capacità di sostegno ben diversa da una rete in cui sono attivi soggetti istruiti, da tempo insediati, 4) 5) collocati in posizioni vantaggiose nel sistema economico, in grado di esercitare un'influenza politica. Una quarta variabile può essere identificata con la coesione interna, ossia la forza dei legami che tengono insieme i partecipanti e li vincolano al sostegno reciproco, generando fiducia, scambio di informazioni, circolazione di risorse di vario genere, difesa contro la discriminazione o la concorrenza di altri gruppi nazionali. Una quinta variabile si riferisce alla capacità di controllo sociale, che in parte dipende dagli elementi precedentemente richiamati ma che può essere identificata come un requisito specifico: quando le reti fanno capo a istituzioni dotate di autorevolezza morale e hanno leader riconosciuti hanno una maggiore capacità di influenzare i comportamenti dei membri, di sanzionare i casi di devianza, di richiamare il valore della tutela della buona reputazione del gruppo. La frequenza di incontri comunitari con elevato valore simbolico, ribadisce il ruolo delle guide morali e innalza la capacità di controllo. Con il tempo e con la penetrazione in occupazioni normali, come quelle operaie, l'organizzazione comunitaria tende tuttavia ad indebolirsi. Alcuni fattori incidono sulle variabili che abbiamo individuato: 1) 2) 3) La coesione interna e la disponibilità al mutuo aiuto sembrano essere influenzate da un fattore come la distanza geografica. Possiamo poi ricordare l'influenza del fattore tempo: i gruppi arrivati prima tendono a occupare gli spazi disponibili nel mercato del lavoro e ad attivare catene di richiamo a vantaggio dei connazionali, attuando strategie di chiusura nei confronti di altri gruppi di immigrati. Occorre richiamare infine la variabile della ricezione societale, ossia l’azione della società ricevente, che si traduce in gradi diversi di accettazione sociale e di apertura, derivante dalle rappresentazioni delle collettività a base etnico-nazionale. | fenomeni di etichettatura sono pervasivi e tendono a produrre immagini collettivizzanti, che si applicano a tutti coloro che provengono da un determinato paese, hanno certi tratti somatici o professano una determinata religione. | gruppi più colpiti dagli stereotipi negativi sono anche oggetto di più rigide discriminazioni. Gruppi più accettati ma associati con occupazioni modeste, rischiano di essere avviluppati nei meccanismi dell’integrazione subalterna. LIMITI E RISORSE DELLE RETI MIGRATORIE Le reti migratorie non hanno soltanto valenze positive. In primo luogo le reti tendono a rafforzare la segregazione occupazionale , la sponsorizzazione di parenti e amici si riferisce alle nicchie di mercato in cui un gruppo è riuscito a insediarsi. Le reti (soprattutto quelle coese) producono forme di controllo sociale che tengono a freno comportamenti devianti o socialmente disapprovati, ma cercano anche una pressione di conformità che può condizionare la libertà individuale, per esempio nella scelta delle amicizie, dei legami affettivi, nelle pratiche religiose, nella aderenza a codici culturali considerati normati Inoltre l’aiuto verso i connazionali non è sempre disinteressato o remunerato soltanto in termini simbolici. In alcune reti praticamente ogni azione di sostegno si paga. Caso più grave è quello della formazione di reti devianti, che reclutano connazionali come manovalanza per traffici illeciti o altri reati a scopo di lucro. Detto questo occorre però domandarsi quale sarebbe il destino dei migranti se non potesse contare sulle reti dei connazionali. Se gli immigrati non potessero contare nemmeno sulle reti etniche sarebbero ancora più deboli, marginali e sfruttati. L'etnicizzazione non coincide poi necessariamente con la dequalificazione e l'assenza di prospettive. La letteratura americana ci illustra il caso di nicchie “etniche” di alto livello professionale, in cui il problema diventa semmai quello di riaprire ragionevoli possibilità di accesso ai membri della maggioranza. Non tutte le attività connotate etnicamente sono quindi ugualmente povere di prospettive. La vera sfida non consiste allora nel superare le reti migratorie, bensì nel poterle considerare risorse flessibili e non esclusive, capaci di offrire sostegno ma non costruttive, in grado di assecondare i processi di integrazione senza vincolare i percorsi soggettivi, efficaci nel contribuire alla costruzione dell'identità personale senza produrre chiusure e segregazioni. IL PASSAGGIO AL LAVORO INDIPENDENTE (Cap 5) Gli immigrati non sono soltanto soggetti passivi di forze e pressioni che li sovrastano. L'ambito forse più significativo in cui hanno espresso un peculiare protagonismo negli ultimi tre decenni è quello dell'avvio di attività indipendenti. IL VERSANTE DELL'OFFERTA DI LAVORO AUTONOMO Nelle società contemporanee gruppi minoritari, socialmente marginali, esclusi da molte opportunità di vita migliore nel contesto delle società che li ospitano, spinti dal bisogno e dalla aspirazione alla mobilità sociale, sviluppano una propensione al lavoro in proprio e alla microimprenditorialità, che si inserisce negli interstizi dei sistemi economici dominanti. Il tasso di lavoro autonomo degli immigrati è cresciuto più di quello degli autoctoni in molti paesi, specialmente nei grandi agglomerati urbani, si è avvicinato e talvolta superato il livello dei lavoratori nazionali, come avviene nel Regno Unito e in Canada. Nell’Europa centrale e settentrionale, l'incidenza dei lavoratori indipendenti supera o si approssima al 10%. | paesi dell'Europa meridionale formano un caso a parte: contraddistinti da elevati tassi di lavoro indipendente autoctono ed entrati solo di recente nel novero dei paesi che ricevono migrazioni internazionali, presentano un'incidenza percentuale ancora bassa degli immigrati fra i lavoratori autonomi. Negli Stati Uniti il tasso di lavoro autonomo tra i nati all’estero è del 9,7% e supera quello dei nativi del paese (9,3%). Ancora più interessante è poi il fatto che mentre fino agli inizi degli anni ottanta la scelta del lavoro autonomo per un immigrato tendeva a coincidere con l'integrazione nella società ospitante, ossia con la naturalizzazione, nell'ultimo decennio questo legame non si rivela più così stringente. Prendiamo ora in esame le principali ipotesi esplicative sviluppate dagli studi socioeconomici in questo campo, cominciando da quelle che hanno caratterizzato il versante dell'offerta di iniziativa imprenditoriale, cercando le ragioni delle diversità nelle caratteristiche interne delle popolazioni immigrate. decennio e i cambiamenti dell'economia urbana incoraggino la proliferazione di piccole imprese. Come abbiamo visto, nelle metropoli rigenerate dalla globalizzazione economica, il lavoro ricco degli strati professionali privilegiati genera una diffusa domanda di lavoro povero, sia nei servizi alle imprese, sia nelle attività di manutenzione, sia nei servizi alle persone e alle unità familiari. In luogo delle visioni dualistiche delle metropoli globalizzate, basate sulla polarizzazione tra fasce professionali vincenti e torme di umili lavoratori salariati dei servizi, è stata quindi avanzata per il caso americano l'ipotesi di una tripartizione delle economie metropolitane: - Un'area centrale, composta di industrie ad alta intensità di capitale e servizi professionali basati sulla conoscenza, in cui proprietari e lavoratori sono per lo più di razza bianca; - Una semiperiferia di economie etniche promosse da gruppi specifici di immigrati, nei settori produttivi lasciati dai bianchi; - Una periferia in cui altri gruppi etnici, i più deboli o i nuovi arrivati, competono alla ricerca di occupazioni dipendenti. Il dato interessante consiste nell'individuazione di uno strato sociale a sé stante di operatori economici immigrati che svolgono vitali compiti di connessione e di fornitura di servizi essenziali per la vita quotidiana delle metropoli. Se questi contributi pongono in rilievo l’importanza della domanda, già anni fa l’analisi di Boissevain si è soffermata sul ruolo della regolamentazione dell'attività economica esercitata dai poteri pubblici per comprendere le direttrici dello sviluppo delle attività indipendenti degli immigrati. Non solo infatti questi ultimi si indirizzano verso settori che presentano basse soglie all'ingresso in termini di capitali e di qualificazione tecnico-professionale, ma tendono anche ad addensarsi in ambiti in cui la regolamentazione è meno rigida. In altri casi, il neoimprenditore si deve ingegnare a scoprire le possibili scappatoie per sfuggire alla richiesta di licenze e autorizzazioni. L'azione dei poteri pubblici ha quindi un ruolo nella strutturazione dell'offerta di attività indipendenti da parte delle popolazioni immigrate. “più alto è il grado di de mercificazione di una economia, più piccolo è il numero dei mercati disponibili, più i mercati disponibili saranno di alto livello, alta remunerazione, alta soglia di ingresso. Pertanto in generale le chances di penetrazione saranno più alte nelle economie mercificate e più basse in quelle de mercificate”. In questo scenario, in cui il fenomeno del lavoro indipendente degli immigrati è inserito all'interno delle trasformazioni delle economie e delle società ospitanti, meritano un approfondimento particolare alcuni contributi che si sono prefissi di collegare in modo organico i tre aspetti dell'offerta di imprenditoria etnica, delle esigenze dei sistemi economici avanzati e della regolazione normativa. L'approccio interattivo di Waldinger: questo approccio enfatizza la “struttura delle opportunità”. L'attività economica degli immigrati viene studiata come “la conseguenza interattiva del perseguimento di opportunità attraverso una mobilitazione di risorse mediate dai reticoli etnici in condizioni storiche uniche”, può essere vista anche come “ un modo con cui gli immigrati e le minoranze etniche possono rispondere all'attuale ristrutturazione delle economie occidentali”. Le analisi di Waldinger insistono sugli spazi di mercato in cui le imprese etniche si inseriscono. Tipicamente, il primo mercato si svilupperebbe all’interno della comunità immigrata, con le sue necessità, i suoi gusti, suoi richiami alla terra d'origine. Ma il mercato interno è ristretto sovraffollato . Di qui la spinta a muovere verso mercati più aperti. Oltre all'offerta di prodotti esotici, le imprese immigrate appaiono specializzate nell'inserimento in settori caratterizzati da scarsa presenza di grandi imprese. Secondo Waldinger, l’accesso alla proprietà di impresa in questi ambiti è reso possibile dalla diminuzione di offerta imprenditoriale da parte dei nativi. Ma un accento particolare viene posto sulla mobilità bloccata, che incanala verso il lavoro autonomo le speranze di ascesa sociale. Restano da discutere alcuni altri punti deboli del rilevante contributo di Weldinger: - Anzitutto l’insistenza sulla dimensione “etnica” e comunitaria dell’imprenditorialità. In realtà, solo una parte delle attività indipendenti scaturite dall’immigrazione sono di questo tipo. La categorizzazione a priori delle componenti nazionali dell'immigrazione come gruppi “etnici” e l'idea che gli immigrati come “imprenditori etnici” agiscano in maniera diversa dagli operatori economici nazionali sono state pure sottoposte a critica. - Unsecondo rilievo riguarda l'enfasi sul concetto di “strategie etniche” che farebbe pensare a una pianificazione rigorosa dell'occupazione di spazi economici, della creazione di reticoli di piccole imprese, dell’attivazione programmata di catene migratorie. Proprio l’alto tasso di fallimenti dimostra proprio il contrario, ossia l'incidenza di un grado elevato di improvvisazione, di scommessa coraggiosa ma poco mediata. - Unaterzacritica si è appuntata sulla scarsa attenzione alla dimensione della regolazione politica dei mercati, ridotta a una breve lista li leggi e regolamentazioni che si applicano specificatamente agli immigrati. Un altro tentativo di integrare le spiegazioni basate sull’offerta con un'analisi accurata è stato compiuto da due studiosi olandesi : Kloosterman e Rath. Questi due studiosi hanno proposto una teoria della “mixed embeddedness” (incorporazione mista). Questi due autori intendono andare oltre lo studio dell’incorporazione dell'iniziativa economica in reti di relazioni interpersonali mediate dalla comune origine etnica, per considerare i processi più astratti e generali di incardina mento delle attività economiche in sistemi sociali più vasti. 1) Un primo aspetto dell’incorporazione è costituito dall'offerta imprenditoriale immigrata, sotto il profilo della composizione e delle risorse, che la differenziano dai concorrenti nativi. Come abbiamo già rilevato sta emergendo nelle economie avanzate e specialmente negli Stati Uniti, un nuovo tipo di imprenditore immigrato, che pur provenendo da paesi meno sviluppati dispone di un'elevata qualificazione. Tende quindi a differenziarsi la composizione dell'offerta imprenditoriale immigrata. 2) Unsecondo punto riguarda la natura delle relazioni tra gli operatori immigrati e la struttura delle opportunità. Sono pochi gli imprenditori, nativi e immigrati, in grado di introdurre innovazioni sostanziali e di creare opportunità prima inesistenti. Molti aprono nuovi orizzonti in maniera molto più modesta, per esempio introducendo cibi esotici in una città occidentale che non li conosce. 3) due studiosi olandesi approfondiscono poi il concetto di “struttura delle opportunità” . il primo aspetto di tale struttura sono inevitabilmente i mercati, nei quali i processi di frammentazione, la specificità crescente delle domande dei consumatori, tendono in vari settori a espandere gli spazi per nuove atti crescita dei mercati sono le pietre di paragone con cui misurare le diverse strutture di opportunità. ità di piccole dimensione. Le due dimensioni dell’accessibilità e del potenziale di Kloosterman e Rath distinguono poi tre livelli della struttura delle opportunità : a) un livello nazionale, in cui le istituzioni politiche modellano le traiettorie postindustriali del lavoro indipendente, delimitando i confini fra i beni che possono essere prodotti e venduti sui mercati e quelli forniti invece dall’apparato pubblico, dalle famiglie, dalle imprese, o da altri soggetti. B) un livello regionale/urbano, che determina l'emergere di un mosaico di economie regionali, in cui si verificano addensamenti locali di certe attività economiche e la formazione di specializzazioni territoriali. Le città globali, rinnovamento urbano, generano una propria struttura di opportunità. C) il livello del vicinato, ove la concentrazione di specifici gruppi nazionali di immigrati costituisce mercati “naturali” o anche “vincolanti” per operatori coetnici in grado di offrire alla clientela prodotti non disponibili presso gli imprenditori autoctoni. Un tentativo di applicare il modello all'analisi empirica dell’imprenditoria immigrata è stato compiuto da Rath in una ricerca sull'industria di abbigliamento in 7 grandi città occidentali. Questo lavoro semplifica il complesso discorso della mixed embeddedness, riducendola alla interazione fra tre variabili: 1) Le reti sociali: che forniscono un capitale sociale distribuito in maniera differenziata tra i diversi gruppi; gli operatori acquisiscono conoscenze, informazioni, lavoratori, relazioni solide con clienti e fornitori. 2) mercati: in cui possono essere distinti gli oggetti dello scambio; i soggetti autorizzati a parteciparvi; la struttura del mercato; l’istituzionalizzazione, ossia i modelli standardizzati di comportamento e le idee che hanno un valore normativo nel contesto di riferimento; la localizzazione. 3) La regolazione politica: l'insieme dei fattori normativi che in vario modo vincolano o favoriscono l’attività economica, alzano barriere o le abbassano, reprimono gli abusi, formando “regimi regolativi” diversi, soggetti a pressioni politiche. I COSTI DELL’INTRAPRENDENZA Un aspetto che molta letteratura tende a trascurare sull'argomento è quello dei costi umani dell’eccezionale impegno lavorativo solitamente richiesto dallo sviluppo di attività indipendenti da parte di stranieri obbligati a muovere da una condizione svantaggiata, all'interno di contesti generalmente sfavorevoli. Si tratta in parte di una questione di prospettive: il passaggio al lavoro autonomo è visto con maggior favore da osservatori di orientamento liberale, mentre incontra più facilmente obiezioni e riserve dal versante strutturalista. Diverse analisi hanno comunque approfondito gli aspetti critici del fenomeno. Anzitutto, dalla prospettiva degli studi di genere, è stato rilevato che mentre l'avvio di attività microimprenditoriali nelle società riceventi resta largamente un affare maschile, la manodopera familiare non retribuita o sottopagata, del tutto flessibile e sottoposta a ritmi e condizioni di lavoro sacrificale, è molto spesso femminile. Il discorso si allarga con le analisi del funzionamento di settori labour intensive come l'abbigliamento, basato sul decentramento e lavorazione per conto terzi, lavoro a domicilio illegale, impiego di immigrati DONNE MIGRANTI E FAMIGLIE TRASNAZIONALI L’APPROCCIO DI GENERE NELLO STUDIO DELLE MIGRAZIONI Soprattutto negli ultimi anni l’attenzione verso le migrazioni femminili è molto cresciuta. Il cambiamento è avvenuto nei fatti, donne che danno vita a catene migratorie al femminile, come pure a ricongiungimenti familiari rovesciati, in cui sono i mariti a raggiungerle all’estero. Donne impegnate in lavori che, sebbene modesti e svalutati, si inseriscono in processi determinanti per la vita quotidiana e il funzionamento delle società riceventi. La femminilizzazione è oggi riconosciuta come un tratto saliente dei fenomeni migratori contemporanei, e la diversificazione interna delle migrazioni di donne ha aperto nuove prospettive di ricerca. Nella prospettiva di genere, l'aspetto che ha maggiormente catalizzato l’attenzione degli studiosi stato quello dei processi discriminatori di cui le donne migranti sono vittime. Si parla al riguardo di una doppia, o tripla discriminazione. Si vuole intendere che le donne migranti sono discriminate in quanto donne, e in quanto immigrate. A queste due forme di discriminazione spesso se ne aggiunge una terza, quella di classe. L'incrocio fra condizione immigrata e genere appare particolarmente significativo. Alle donne immigrate si applicano stereotipi che ne restringono severamente le possibilità di impiego e di espressione di sé: in Italia, come negli altri paesi mediterranei, gli ambiti occupazionali di fatto accessibili faticano a fuoriuscire dal lavoro domestico-assistenziale, con qualche estensione verso imprese di pulizia, settore alberghiero e simili. Tra le “attività femminili”, si possono far rientrare anche l’intrattenimento e la prostituzione, dove però la partecipazione delle donne straniere non di rado è tutt'altro che volontaria. Esiste una gerarchizzazione delle donne immigrate nelle società riceventi, influenzata dall’apparenza fisica, tale per cui le famiglie autoctone preferiscono come collaboratrici familiari donne originarie di determinati paesi, mentre rifiutano di assumerne altre per via del colore della pelle o di una nazionalità sgradita. Se si vuole parlare di razza min senso stretto, il discorso va articolato. Al vertice della gerarchia non troviamo donne bianche, bensì normalmente asiatiche (come le filippine). Si tratta comunque di stratificazioni abbastanza mobili e fluide, variabili non solo da un paese all'altro, ma anche modificabili da una città all'altra e nel corso del tempo. Qualche distinguo va fatto anche in merito alla classe sociale. La classe e il genere indicano caratteristiche non modificabili, che sono all'origine dei processi di etichettatura e quelle delle esperienze dirette o indirette di discriminazione. La collocazione di classe è invece una caratteristica acquisita, e appare piuttosto come la conseguenza delle prime due. È l'esperienza migratoria che schiaccia verso il basso il loro capitale umano, categorizzandole, su basi collettive e aprioristiche come adatte a svolgere determinate occupazioni e non altre. Con il termine “classe” spesso si intende, in senso lato, l'inserimento in occupazioni che comportano una marcata subalternità sociale, come quella di collaboratrice familiare, connotata in termini di isolamento e scarso riconoscimento nella società. Le analisi centrate sui processi di discriminazione si collocano in genere, sotto il profilo tecnico, nella prospettiva strutturalista, in quanto condividono l'orientamento a far discendere i comportamenti individuali da cause macrosociali e a vedere le persone come soggette a pressioni che le sovrastano. IL LAVORO DI CURA : PROFILI PROFESSIONALI E COMPITI RICHIESTI L'impiego di donne immigrate in attività domestiche è sempre più comune nel mondo sviluppato, e in Europa questo settore rappresenta il più importante serbatoio di opportunità occupazionali per le nuove arrivate, in condizione giuridica regolare o irregolare. Il fenomeno ha dunque dimensione mondiali e rispecchia una tendenza “all'importazione di accudimento e amore dai paesi poveri verso quelli ricchi”. La tradizionale divisione di ruoli tra uomini e donne tende a trasferirsi su scala globale: i paesi ricchi del Primo mondo assumono la posizione di privilegio che spettava un tempo agli uomini, accuditi e serviti dalle donne nella sfera domestica, essendo impegnati nel lavoro nel mercato esterno. Seguendo un clichè paradossale, che potremmo definire iperfunzionalistico, le donne immigrate appaiono come la parte più accettata dell'universo dei migranti. Una domanda di lavoro femminile così caratterizzata in campo domestico-assistenziale si rivela del resto molto congruente con il modello “familistico” di welfare, tipico del nostro come degli altri paesi mediterranei. Ma una simile architettura del welfare riflette un assetto sociale tradizionale, in cui gli uomini lavorano fuori casa, assumendo il ruolo di breadwinner, mentre le donne si occupano dei compiti afferenti alla sfera domestica o, come dicono ricorrendo a categorie marxiste, “riproduttiva”. Sul versante dell'assistenza agli anziani i limiti del modello italiano sono particolarmente evidenti, giacchè assistenza domiciliare pubblica e assegni di cura non bastano a fronteggiare i fabbisogni e il ricovero in strutture protette comporta rilevanti costi economici e sensi di colpa. Più precisamente il ruolo di moglie o madre viene segmentato in diverse incombenze, di cui quelle più pesanti o sgradevoli, o tali da richiedere una presenza continuativa, vengono attribuite ad altre donne, le collaboratrici familiari, sempre più spesso straniere, mentre le datrici di lavoro italiane, si specializzano in compiti di regia, coordinamento, relazione con l'esterno. Diventare una “persona di famiglia” è la richiesta esplicita o latente dei datori di lavoro, specialmente nel caso di rapporti di impiego che implicano la convivenza, e ancor più quando comportano carichi assistenziali. Viene spesso richiesto di simulare emozioni che non necessariamente si provano. Queste nell’ambito domestico diventano più incombenti per 2 motivi: 1) la marcata asimmetria di potere tra datori di lavoro e lavoratrici e la convivenza a stretto contatto, non di rado notte e giorno. Dobbiamo però a questo punto distinguere 3 figure professionali: 1) Il primo, generalmente il più faticoso ed esigente, anche in termini psicologici, è quello di assistente a domicilio di anziani con problemi di autosufficienza. Cruciale è poi la domanda di copresidenza, e quindi l'impegno ad accudire le persone anche di notte e possibilmente nei giorni festivi. 2) Il secondo profilo è quello della collaboratrice familiare fissa, coresidente, un'occupazione che sembrava destinata a un declino irreversibile per carenza di candidati disponibili. Un simbolo di status delle famiglie abbienti e un sostegno non più soltanto a stili di vita agiati, ma al difficile compito di conciliare occupazioni professionalmente impegnative, gestione della casa e cure familiari, in un paese in cui gli standard di qualità della vita domestica si sono relativamente elevati. 3) Il terso profilo è quello della colf a ore. Rappresenta spesso una evoluzione dei primi due. Il vantaggio di questa occupazione è quello di svincolarsi dalla convivenza con i datori di lavoro, di acquisire autonomia personale, di poter organizzare una propria abitazione, oppure di potersi ricongiungere alla propria famiglia. Per le immigrate che sono passate attraverso l’impiego fisso, il lavoro a ore rappresenta una sorta di “promozione orizzontale” : essendo preclusi sbocchi più qualificati, rappresenta un passo in avanti sotto il profilo dell'equilibrio tra lavoro e vita privata, con il superamento degli aspetti più costrittivi ed emotivamente stressanti della convivenza. In una ricerca sull'argomento abbiamo pertanto individuato i seguenti profili: - Unprofilo esplorativo, riferito a donne molto giovani, senza carichi familiari, arrivate in Italia e occupate nel settore in modo abbastanza casuale, interessate a sondare le opportunità che il contesto può offrire, a riprendere gli studi, a partecipare per quanto possibile alle forme di socialità dei coetanei italiani; - Unpprofilo utilitarista, relativo a donne di solito piuttosto avanti con gli anni, che provengono specialmente dall'Europa orientale e hanno lasciato in patria figli già grandi, dipendenti dalle loro rimesse ma non intenzionati a raggiungerle, tornano abbastanza spesso al loro paese , sono inclini a lavorare e a lavorare e a risparmiare il più possibile. - Unprofilo familista, più vicino all'immagine delle madri transazionali di cui parleremo in seguito: donne giovani-adulte, provenienti soprattutto dall'America Latina, con figli in età minorile lasciati in patria, che aspirano a ricongiungerli con loro in Italia e hanno come prospettiva quella di mettersi in regola. - Unprofilo promozionale che riguarda donne della stessa fascia di età e di varia provenienza, dotate di alti livelli di istruzione, di esperienze professionali significative in patria, di aspirazioni a migliorare il proprio status, che sperimentano sentimenti di frustrazione per l’attuale collocazione occupazionale. CARATTERI E PROBLEMI DEL LAVORO NELL'AMBITO DOMESTICO Le prestazioni che la società ricevente richiede a queste donne derivano semplicemente dalla loro identità femminile “tradizionale”, che si presume le predisponga positivamente a prendersi cura della casa e di persone che si trovano in una condizione di debolezza. Tutto ciò che sanno fare al di là delle normali incombenze “femminili” non ha importanza. PESO DEGLI STEREOTIPI: - la prima è una saldatura fra uno stereotipo etnico e uno stereotipo di genere. endogamici restano normalmente elevati, anche nelle seconde generazioni e attraverso di essi le famiglie immigrate tendono a preservare identità religiose e culturali distintive. Tre osservazioni pongono tuttavia in discussione le visioni convenzionali delle migrazioni familiari: 1) La prima consiste nel notare che il concetto di famiglia che viene applicato agli immigrati è definito dai paesi riceventi. In altre parole l'oggetto “famiglia immigrata” di cui discutiamo, è quello definito, inquadrato e selezionato dalle nostre visioni e architetture istituzionali. 2) La seconda osservazione riguarda una maggiore cautela nell’associare la famiglia immigrata con assetti sociali e valori tradizionali, rispetto ai quali le società riceventi rappresentano il polo della modernità. 3) Interzo luogo è stata posta in discussione l’idea che le donne siano costantemente sacrificate nelle migrazioni familiari e registrino un regresso generalizzato nelle condizioni di vita, nell'autonomia e nelle opportunità di lavoro. Ancora una volta gli immigrati non si caratterizzano come soggetti passivi ma svolgono un ruolo attivo nel ridefinire la vita familiare. All’interno delle famiglie, i diversi soggetti possono tentare di plasmare gli assetti familiari cercando di modellarli in senso più favorevole ai propri scopi e interessi. Lo stesso riferimento ai valori tradizionali risponde a forme di reinvenzione delle tradizioni. Si delinea così un processo che passa dalle famiglie tradizionali, nel paese di origine, alle famiglie sradicate e spezzate, alla famiglie ricostruite nella società ricevente. LE FAMIGLIE TRASNAZIONALI : LA CENTRALITA' DEL CARING Un aspetto emergente delle dinamiche familiari, è quello delle cosiddette “famiglie transnazionali”, in cui i membri dell'unità famigliare, e in modo particolare gli adulti, vivono in paesi diversi rispetto ai figli. In particolare l’attenzione va posta alle madri migranti che, a differenza del passato, si spostano di più rispetto ai componenti maschili delle famiglie. Sono soprattutto esse che hanno indotto gli studiosi a introdurre la categoria delle “famiglie transazionali”, prestando attenzione ai loro sforzi per mantenere i contatti e l'affetto dei figli. I figli ricevono poi dalle madri regali costosi e denaro, in luogo di presenza fisica, cura diretta e affetto tangibile. La “dislocazione” delle relazioni affettive, diventa un elemento costitutivo dell'identità delle donne migranti. La separazione fisica produce ferite emotive, tensioni e distacchi, “il dolore della genitorialità transazionale” fatto di ansietà, sensi di colpa e solitudine: queste madri vorrebbero essere vicine ai figli ma non possono, perché la sussistenza materiale dei loro salari dipende dai salari che percepiscono lavorando all'estero, lontano da loro. All’altro polo della relazione, i figli vivono a loro volta sentimenti di solitudine, insicurezza e vulnerabilità: contestano l’idea che i beni materiali siano sufficienti dimostrazioni d'amore, rimproverano la scarsa frequenza dei ritorni, non reputano sufficienti gli sforzi delle madri per mantenere legami di cura e di affetto. A queste pratiche di cura familiare a distanza si aggiunge il flusso di risorse economiche garantito dalle rimesse, che assicurano la sopravvivenza ed eventualmente gli studi o le possibilità di iniziativa economica dei congiunti rimasti in patria. Sono aspetti salienti di quel “transnazionalismo dal basso” che è stato posto in rilievo come un tratto saliente delle migrazioni contemporanee. Il mantenimento dei rapporti familiari in condizioni di lontananza fisica è analizzato anche da un contributo europeo. La prima è denominata frontiering (gestione delle frontiere) e denota i mezzi usati dai membri delle famiglie transnazionali per creare spazi familiari e legami relazionali in situazioni in cui i rapporti di parentela sono dispersi dall’emigrazione all'estero. La seconda strategia è definita relativising (gestione delle parentele) e si riferisce ai vari modi in cui gli individui si stabiliscono, mantengono o troncano i rapporti con altri membri della famiglia. | FIGLI DELL'IMMIGRAZIONE La formazione di una nuova generazione scaturita dall’immaginazione rappresenta non solo un nodo cruciale dei fenomeni migratori, ma anche una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione delle società riceventi. Un importanti problema è quello del passaggio da immigrazione tempore a insediamenti durevoli con la trasformazione delle immigrazioni per lavoro in immigrazioni di popolamento. Dunque, nel bene e nel male, la nascita e la socializzazione dei figli dei migranti, anche indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono uno sviluppo delle intenzioni, degli scambi, a volte fra conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante: un punto di svolta dei rapporti interetnici. “una bomba sociale a scoppio ritardato”, l'interrogativo va allargato all'insieme delle condizioni e delle opportunità di integrazione che ai figli di immigrati vengono offerte nelle società sviluppate. Gli alfieri della costruzione di nuove identità sociali, fluide, ibride, sincretiche e dunque i promotori di processi d'innovazione culturale nel segno del cosmopolitismo e del multiculturalismo quotidiano. Le seconde generazioni di immigrati negoziano i loro processi di identificazione con i genitori e con l'ambiente esterno attraverso scelte e comportamenti che attingono alla cultura di provenienza così come in quella di arrivo, ma anche a culture altre, immaginate, importate, meticciate, mescolando globale e locale, in un processo di ibridazione e indigenizzazione. Nell'ambito delle collettività immigrate proprio la nascita e la socializzazione di una nuova generazione rappresenta un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai insediate in un contesto diverso da quello della quello della società d'origine. Definire le seconde generazioni è però meno scontato di quanto non appaia. Confluiscono in questa categoria concettuale casi assai diversi, che spaziano dai bambini nati e cresciuti nella società riceventi, agli adolescenti ricongiunti dopo aver compito un e lungo processo di socializzazione del paese di origine. Alcuni preferiscono parlare di “minori immigrati”, ma il corrispettivo “minori immigrati” appare ancora meno soddisfacente, giacchè classifica come immigrati bambini e ragazzi nati in Italia e che legittimamente potrebbero presentarsi come “italiani” o “italiani col trattino”. Semmai, si può parlare di minori o di giovani o di persone “di origine immigrata”, ma prevale ampiamente nella letteratura internazionale, nonostante le obiezione, il concetto di “seconda generazione”. Tuttavia per parlare di loro, per conferire visibilità sociale e riconoscimento pubblico alla loro presenza, abbiamo bisogno di identificarli con un concetto sintetico, capace di rilevare ciò che li accomuna e di distinguerli dai loro coetanei. CONCEZIONE DECIMALE DI RUMBAUT Ha colto questa difficoltà di inquadramento del tema, introducendo una visione graduata, “decimale” della seconda generazione. Ha proposto pertanto il concetto di “generazione 1,5” e aggiungendo poi la generazione 1,25 e quella 1,75. La generazione 1,5 è quella che ha iniziato il processo di socializzazione e la scuola primaria nel paese di origine, ma ha completato l'educazione scolastica all'estero, la generazione 1,25 è quella che emigra tra i 13 e i 17 anni, la generazione 1,75 si trasferisce all’estero in età prescolare. Con riferimento al caso italiano potremmo distinguere: - Minori natiin Italia; - Minori ricongiunti; - Minori giunti soli (e presi in carico da progetti educativi realizzati in Italia); - Minori rifugiati (bambini della guerra); - Minori arrivati per adozione internazionale; - Figlie di coppie miste. SECONDE GENERAZIONI, COESIONE SOCIALE E PROCESSI DI INTEGRAZIONE Il rapporto tra destino delle seconde generazioni immigrate e riproduzione della società traspare anche dal fatto che si proietta su di esse un classico amore della società traspare anche dal fatto che si proietta su di esse un classico timore della società adulta nei confronti dei giovani: che non accettino di introiettare e riprodurre l'ordine sociale esistente. L'essere giovani, già di per sé “osservati speciali” per i sospetti dinon conformismo che suscitano, di collocazione sociale modesta e quindi supposti come meno inclini ad accettare lo “status quo” e poi di origine straniera, non accettati pienamente come membri della società, formano una costellazione di fattori che attirano attenzione e preoccupazione nei paesi riceventi. Il caso delle seconde generazioni immigrate rimanda inoltre alla tensione tra l'immagine sociale marginale e collegata a occupazioni umili dei loro genitori, e l’acculturazione agli stili di vita e alle rappresentazioni delle gerarchie occupazionali acquisite attraverso la socializzazione nel contesto delle società riceventi. Da questo punto di vista, il problema delle seconde generazioni si pone non perché i giovani di seconda generazione siano poco integrati, ma al contrario perché sono cresciuti in occidente e hanno assimilato gusti, aspirazioni, modelli di consumo propri e dei loro coetanei. - Altre impostazioni si situano in una posizione intermedia fra il polo assimilazioni sta e quello strutturalista, Portes e colla volatori (1995) parlano di “assimilazione segmentata”. Nel contesto delle grandi città americane si verificano processi definiti come downward assimilation, ossia l'assimilazione dei giovani nell’ambito di comunità marginali, nei ghetti urbani in cui si trovano a crescere insieme alle minoranze interne più svantaggiate, introiettando la convinzione di una discriminazione insuperabile da parte della maggioranza autoctona e l’idea dell’inutilità di ogni sforzo di miglioramento. Isolamento sociale e deprivazione alimentano una cultura oppositiva, che comporta il rifiuto dinorme e valori della società maggioritaria. L'impegno negli studi viene giudicato inutile ai fini della mobilità sociale, e chi riesce o mostra di crederci è considerato un venduto a un potere oppressivo. Si realizza così una socializzazione che preclude al fallimento e all'esclusione sociale. Ma il ragionamento va oltre: il concetto di “ assimilazione segmentata” intende cogliere la diversità dei traguardi raggiunti dalle varie minoranze immigrate e sottolineare che la rapida integrazione e accentazione nella realtà americana rappresenta soltanto una delle possibili alternative, così come il fallimento e l’invischiamento nella marginalizzazione. Questi autori parlano anche di “acculturazione selettiva” le minoranze interessate assorbono dalla cultura maggioritaria gli aspetti che considerano positivi, come il valore dell'istruzione e l’idea della promozione sociale come risultato dell'impegno individuale; mentre tendono a difendersi da altri influssi che reputano minacciosi. Zhou nella medesima prospettiva pone in rilievo l’importanza dell’etnicità come base per forme di cooperazione capaci di superare gli svantaggi strutturali. Il gruppo etnico che attornia la famiglia rinforza il sostegno familiare e svolge un ruolo di mediazione nei confronti della società esterna, realizzando una zona cuscinetto. Nello schema dell’acculturazione selettiva, le reti sono una forma di capitale sociale che influenza l'integrazione dei figli nella società ricevente con azioni tanto di sostegno quanto di controllo. La coltivazione dei legami etnici all’interno di comunità integrate può favorire lo sviluppo di attitudini e comportamenti in grado di rompere il circolo vizioso dello svantaggio e di agevolare la mobilità sociale. | genitori immigrati di oggi non desiderano più che i figli adottino acriticamente stili di vita dei coetanei americani. Molte minoranze incoraggiano invece l’’acculturazione selettiva”, che si esprime nell'apprendere un inglese americano corretto e fluente, nonché altri elementi positivi della cultura americana, pur mantenendo dimestichezza con la lingua dei genitori e continuando a rispettare norme, valori e legami derivanti dai contesti familiari di provenienza. Questa forma di acculturazione non conduce alla frammentazione culturale, bensì a una integrazione più efficace. L'acculturazione selettiva è vista come una strategia idonea a proteggere la seconda generazione dalla discriminazione esterna e dalla minaccia della downward assimilation. I tipi di acculturazione identificabili sono così definiti: - Acculturazione consonante: è il percorso classico dei migranti che si assimilano, abbandonano lingua e abitudini del paese di origine per abbracciare quelli della società ricevente, con esiti più avanzati per i figli. - Resistenza consonante: è il caso opposto di chiusura nella cerchia dei connazionali e nelle pratiche linguistiche e culturali importate dal paese di origine, senza apprezzabili passi nell'integrazione nella società ricevente. - Acculturazione dissonante (1): è il caso tipico del conflitto intergenerazionale nell’emigrazione, determinato dalla rapida acculturazione dei figli e dal loro rifiuto di mantenere legami e retaggi culturali che richiamano le origini dei genitori. - Acculturazione dissonante (II): si distinguono dal tipo precedente per il fatto che i genitori perdono i legami e il sostegno della cerchia dei connazionali; rimanendo però indietro rispetto ai figli nel processo di assimilazione - Accumulazione selettiva: è la situazione in cui l'apprendimento delle abilità necessarie per inserirsi nel nuovo contesto non entra in contrasto con il mantenimento di legami e riferimenti identitari. LE ISTITUZIONI MEDIATRICI: LA FAMIGLIA Il declino delle seconde generazioni è mediato dalle concrete istituzioni sociali che incontrano nei processi di socializzazione. La prima è evidentemente la famiglia, in cui i processi educativi sono intrisi dall’ambivalenza tra il mantenimento di codici culturali tradizionali e desiderio di integrazione e ascesa sociale nel contesto della società ospitante. La mancanza o la frammentarietà della rete parentale e di vicinato rappresentano un ostacolo che indebolisce la capacità educativa delle famiglie, tranne laddove si formano aggregazioni etniche coese. Sorge quindi il problema di definire e tramandare una propria identità culturale. L'appartenenza religiosa, con le pratiche e gli obblighi che ne derivano, è il campo in cui più tipicamente si dispiegano questi interrogativi. Possiamo ricordare in sintesi i seguenti aspetti: - Il fenomeno del rovesciamento dei ruoli. - Il precoce fenomeno di perdita di autorevolezza e capacità educativa da parte dei genitori. - Le tendenze già richiamate dei figli a fuoriuscire dalle forme di integrazione subalterna accettate dai padri. - La tensione nei confronti della trasmissione di modelli culturali ispirati alle società di origine. - Il conflitto può esplodere anche per ragioni diverse, come la ribellione contro le aspettative di mobilità sociale dei genitori, a causa delle pressioni livellatrici e oppositive dell'ambiente di vita e in particolare del gruppo dei pari, nei quartieri poveri in cui molte minoranze rimangono intrappolate. Si parla di “dissonanza generazionale”. - Le problematiche di genere e di equilibri interni alle famiglie, giacchè le pressioni conformistiche sono normalmente più forti nei confronti delle figlie, mentre i maggiori problemi sociali riguardano i figli maschi. - Le questioni culturali che si intrecciano con problemi strutturali: precarietà economica, sistemazioni abitative provvisorie, talvolta sovraffollate, in genere di cattiva qualità. - Periragazzi ricongiunti non piccolissimi, secondo alcune ricerche l’arrivo nella società ricevente si in patria potevano frequentare buone scuole e permettersi uno stile di vita all'altezza di quello dei coetanei. tradurrebbe in un arretramento delle possibilità di consumo e dello status social Una volta ricongiunti scoprirebbero di far parte delle classi popolari e di doversi adattare a uno stile di consumo inevitabilmente più sobrio. La medesima ricerca ha scandagliato le forme di identificazione degli adolescenti di origine immigrata: Gli adolescenti : i giovani che rientrano in questo profilo sono perlopiù di sesso femminile di età compresa tra i 14 e i 16 anni, sono prevalentemente nati in Italia. Il conflitto si basa su questioni generazionali. Gli integrati: il secondo tipo di identificazione è diffuso in particolare tra gli intervistati più grandi, quasi adulti, senza rilevanti differenze fra maschi e femmine, tra nati in Italia o all’estero. I ribelli: giovani che esprimono una identificazione etnica di tipo conflittuale, sono perlopiù maschi e nati all’estero, senza differenze di età. | conservatori: si orientano verso questo tipo di identificazione due gruppi di soggetti: da una parte giovani nati in Italia da genitori di origine straniera, che hanno interiorizzato il modello educativo dei genitori e che si fanno “ambasciatori” della cultura di origine. LE ISTITUZIONI MEDIATRICI : LA SCUOLA La seconda istituzione influente è la scuola, che è stata particolarmente studiata come il crogiolo dell’assimilazione, il possibile trampolino della promozione sociale, oppure come l'istituzione sociale in cui si determinano le premesse per il confinamento dei figli degli immigrati ai margini della buona occupazione e delle opportunità di effettiva integrazione nelle società ospitanti. Il rapporto con il sistema educativo si mostra più articolato e anche inatteso rispetto a quanto lasciassero supporre le visioni consolidate: 1) 2) 3) Il polo della questione è rappresentato dalle risorse e strategie delle famiglie, dalla loro capacità e determinazione nel favorire la carriera scolastica dei figli. Sulla base delle ricerche disponibili, si può affermare che il livello di istruzione dei genitori, nonostante le difficoltà dovute alle differenze linguistiche e alla diffusa svalorizzazione delle credenziali educative nei contesti di immigrazione, anche per i figli di immigrati rappresenta il più importante predittore del successo scolastico. Il secondo polo è identificabile invece nel funzionamento dei sistemi scolastici delle società riceveti, dal loro grado di apertura nei confronti di alunni con un background linguistico e culturale diverso. Un terzo fattore influente sulle traiettorie di inclusione delle seconde generazioni e sulle stesse prestazioni scolastiche è il contesto di ricezione dell’immigrazione. | ragazzi di origine straniera vengono bocciati e abbandonano gli studi molto più spesso dei coetanei con genitori italiani, ricevono voti più bassi, dopo la scuola media si iscrivono massicciamente a corsi di studio brevi e professionalizzanti. L'inserimento in classi inferiori all'età anagrafica e le ripetenze provocano una diffusa situazione di ritardo scolastico crescente in relazione ai livelli di istruzione. L'altra ricerca approfondisce l'aspetto del successo scolastico, si tratta di una indagine sul successo scolastico dei giovani ecuadoriani inseriti nella scuola secondaria superiore nel contesto genovese. Ne scaturisce un quadro in cui la diseguaglianza tra i due gruppi non si verifica tanto a livello di risultati scolastici, quanto piuttosto nella scelta preventiva degli indirizzi di studio, attraverso una concentrazione abnorme dei ragazzi di origine straniera nell'istruzione professionale. SOCIALITA' E PROCESSI DI IDENTIFICAZIONE: IL CASO DELLE BANDE Il passaggio alla giovinezza e poi all’età adulta dei giovani di origine immigrata è un terreno cruciale per lo studio dei processi di costruzione dell'identità personale e di integrazione sociale, in cui i soggetti si trovano a comporre riferimenti e stimoli diversi. 2) Il secondo periodo (1914-1945) si è contraddistinto per l'introduzione di regolazione e restrizione dei movimenti migratori, legati non solo agli eventi bellici, ma anche alla depressione economica, che generava domande protezionistiche. 3) Il terzo periodo inizia con il 1945, dopo la seconda guerra mondiale e vede nuovamente la prevalenza di una regolazione politica relativamente liberale. 4) Il quarto periodo, iniziato con il blocco dell'immigrazione per lavoro nei primi anni settanta, ripropone una severa regolamentazione dell’immigrazione, rafforzata nei decenni successivi. Il ricorso all'immigrazione è stato visto a lungo come una soluzione a un problema economico, quello di approvvigionamento di manodopera, attivabile o disattivabile a seconda delle esigenze dei paesi riceventi. Non va perso di vista il fatto che concetti come quelli di immigrato regolare o irregolare, non sono dati per così dire “naturali”, ma derivano dall'attività di regolazione condotta dai paesi verso cui si dirigono i migranti. Non sono neppure attributi rigidi e immodificabili del migrante, giacchè possono essere trasformati e persino rovesciati da nuovi interventi normativi: basti pensare alle sanatorie che legalizzano il soggiorno di immigrati in precedenza perseguiti come irregolari. L'immigrazione irregolare non è un dato obiettivo, bensì un effetto dell'incontro tra gli spostamenti delle persone attraverso le frontiere e le norme e le procedure stabilite dai paesi riceventi, volte a circoscrivere e contingentare le possibilità di ingresso legale. La stessa definizione della condizione di immigrato come “irregolare” presenta ambiguità, zone d'ombra. La condizione di irregolarità può rifarsi a 4 diversi aspetti legalmente nel paese); -il soggiorno (se possiede un documento che lo autorizzi a risiedere nel paese); - l'autorizzazione al lavoro (se il permesso autorizza a lavorare o meno); - la natura dell'occupazione (se è ingresso (se il cittadino straniero è entrato formale e comporta il pagamento di tasse e contributi, oppure ricade nell'economia sommersa).un'altra dimensione, che incrocia le precedenti, concerne la documentazione. Diversi sono anche i percorsi e i processi che possono condurre l’immigrato ad una condizione di surrogato irregolare, i fattori principali sono: 1) L'ingresso regolare e la permanenza oltre la scadenza del visto. 2) Larichiesta di asilo rifiutata, ma non seguita dalla partenza o riferita a persone di fatto non deportabi 3) Il ritiro o la perdita del permesso di soggiorno per varie ragioni. 4) L'ingresso clandestino. Questi percorsi possono fra l'altro intrecciarsi e sovrapporsi. LE SPIEGAZIONI TEORICHE: ATTORI E INTERESSI IN GIOCO Negli ultimi anni si è verificato il noto paradosso per cui sono stati liberalizzati molti tipi di scambi e flussi attraverso le frontiere, mentre i movimenti di persone sono stati sottoposti a regimi restrittivi sempre più stringenti; o meglio sono stati liberalizzati a senso unico, sicchè i trasferimenti di persone dai paesi ricchi a quelli meno sviluppati avvengono con crescente fluidità, mentre i viaggi in direzione opposta sono drasticamente contrastati. Le politiche migratorie, dei paesi avanzati, hanno 2 principali tendenze: 1) La prima è “l'ipotesi di convergenza”, secondo cui si verifica una crescente similarità tra i paesi sviluppati, sotto quattro aspetti: - gli strumenti politici per controllare l'immigrazione, specialmente l'immigrazione non autorizzata e i crescenti flussi di rifugiati provenienti da paesi meno sviluppati; risultati o l'efficacia delle misure di controllo dell’immigrazione, ritenute in generale inadeguate; - le politiche di integrazione sociale, che tendono ad arricchire la dotazione di diritti degli immigrati regolari; - le reazioni dell'opinione pubblica nei confronti dei movimenti migratori e le valutazioni degli sforzi dei governi per controllare l'immigrazione, entrambe improntate a un diffuso malcontento. 2) La seconda è definibile come “ipotesi di divario” e consiste nell’idea che in tutti i maggiori paesi industrializzati si stia allargando la forbice tra gli scopi delle politiche migratorie e i risultati ottenuti, provocando una crescente ostilità pubblica nei confronti della generalità degli immigrati e un'intensa pressione nei confronti delle forze politiche e dei governi affinchè adottino misure più restrittive. Per queste ragioni, la regolazione politica delle migrazioni rappresenta oggi una questione prioritaria e di difficile gestione in Europa e nella maggior parte dei paesi sviluppati. Appare dunque un obiettivo di grande risonanza simbolica, per i governi, comunicare la certezza di tenere sotto controllo i confini dello stato, per evitare di incorrere in crisi di fiducia da parte dei cittadini, che chiedono di essere protetti efficacemente contro flussi paventati come incontrollabili. | governi quindi hanno accentuato la sorveglianza sugli attraversamenti delle frontiere da parte di stranieri indesiderati. Quali sono quindi gli approcci che si sono proposti di interpretare motivazioni e obiettivi delle politiche di controllo? - Il primo situa le politiche migratorie attuate dagli stati nel contesto del sistema politico internazionale, in relazione alla loro collocazione nella mappa geopolitica del sistema-mondo. Le politiche di controllo delle migrazioni sono considerate, in questa prospettiva come il luogo di mediazione fra forze di mercato, che spingono nel senso di apertura delle frontiere, e logiche politiche, che tendono invece a chiudere i confini e a limitare la distribuzione di servizi e diritti di protezione sociale ai soli cittadini. - Il secondo filone studia invece le differenze tra i paesi nel mediare tra queste spinte divergenti, giacchè le politiche di controllo assumono profili ed equilibri diversi tra una nazione e l’altra. In proposito si possono distinguere vari modelli interpretativi: 1) Un primo approccio è quello marxista e neomarxista, secondo il quale i fattori economici e i processi poli di “esercito industriale di riserva”. Il capitalismo influenzando le politiche dei governi richiama, ici determinano le politiche migratorie. Agli immigrati si applica la categoria marxiana ridimensiona e espelle gli immigrati in relazione agli andamenti economici. L'immigrazione inserendosi ai livelli più bassi del sistema occupazionale, innalza lo status dei lavoratori autoctoni, che si vengono a trovare un gradino più in alto, con l’effetto di diminuire l'intensità del conflitto di interesse. 2) Unsecondo approccio è definibile in termini di identità nazionale, in quanto sostiene che la storia nazionale di ciascun paese, la sua concezione della cittadinanza della nazionalità, così come i dibattiti sull'identità della nazione e i conflitti sociali interni, plasmano le politiche migratorie, mentre un minor rilievo viene attribuito ai fattori esterni. Contano però anche i problemi della coesione della società: l'inquietudine sociale alimenta il timore di perdere l'identità nazionale. Soprattutto i paesi europei tendono a respingere la diversità etnica e a vedere quindi l'immigrazione come una minaccia per l’unità nazionale e per il bene comune. 3) Unterzo approccio è interpretabile come centrato sulla società o sulla politica interna, lo stato le scelte politiche sono serve come arena neutrale per il confronto tra gruppi di interesse e parti quindi il risultato di negoziazioni e compromessi tra questi interessi. 4) Una prospettiva che invece considera lo Stato come attore è quella istituzionale, in cui si pone in rilievo il ruolo dell'amministrazione, intesa come apparato burocratico, nell’elaborazione delle politiche nei confronti di immigrati e rifugiati. 5) Un quinto approccio è classificabile come realistico ed è tipico degli studi sulle relazioni internazionali. “Realismo classico” e “neorealismo”, vede lo Stato come attore principale e lo considera come un attore unitario e razionale, preoccupato prima di tutto della sicurezza nazionale. Viene privilegiato il fatto che i conflitti internazionali, inclusi quelli militari, hanno storicamente influito sulle politiche migratorie, sia in direzione restrittiva, sia in senso liberalizzante. Il pensiero realista ha influenzato in modo particolare lo studio delle relazioni tra politica estera e migrazioni internazinali. 6) Il sesto approccio può essere definito liberale o neoliberale. In contrasto con i realisti, ha una visione più ottimistica della crescente interdipendenza internazionale e dello sviluppo di istituzioni sovranazionali, che vede come veicoli per la diffusione della democrazia e della cooperazione economica. Nell’approccio neoliberale rientra anche la teoria della globalizzazione, secondo la quale la sovranità degli stati e la loro autonomia stanno indebolendosi. Un'altra classificazione utile è basata sulla organizzazione dei controlli applicati ai migranti. Vengono così distinti controlli intemi e controlli esterni: - Controlli esterni espliciti : sono rappresentati dai sistemi dei visti, dei permessi di soggiorno, delle regole per l'ingresso e la permanenza, messi in campo dagli stati nazionali per governare l’accesso al proprio territorio. - Controlli interni espliciti : si sviluppano in parte come conseguenza delle imperfezioni dei controlli esterni. - Controlli esterni impliciti: hanno a che fare con forme di regolazione non dichiarata o indiretta in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri. - Controlli interni impliciti: si riferiscono ai processi di chiusura sociale che assumono la forma di barriere non dichiarate nei confronti dell'accesso degli immigrati a determinati ambiti, oppure ai dispositivi che li rendono indipendenti dai sistemi di welfare, ponendoli così ai margini della società ricevente. GLI SFORZI DI CHIUSURA DELLE FRONTIERE E | LORO LIMITI Il passaggio “dall’ortodossia restrittiva a una politica migratoria realistica, capace di implementare una politica attiva degli ingressi” non si è quindi realizzato. Anzi, le scelte istituzionali continuano a seguire una direzione opposta, con il rafforzamento delle misure di controllo. Il nostro paese è particolarmente generoso nei confronti degli immigrati irregolari, secondo un’esperta (Zincone,2003), e ne attribuisce la ragione alla pressione della lobby pro immigrati formata da sindacati, organizzazioni religiose, associazionismo volontario, esperti: una coalizione informale, ma decisamente attiva nella tutela degli interessi della parte più emarginata della popolazione immigrata. Ne consegue che il passaggio attraverso una fase di soggiorno illegale e lavoro sommerso è un tratto quasi normale del percorso biografico dei migranti oggi residenti in Italia, eccettuati i minori e i congiunti ricongiunti attraverso le procedure formali. In questo scenario possono essere individuati alcuni tratti rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia. - Il carattere collettivo e di massa: a differenza di altri paesi, in cui le regolamentazioni sono provvedimenti individuali, nel nostro paese la strada adottata è stata quella di provvedimenti con termini rigidi. - La ricorrenza periodica, a scadenze abbastanza ravvicinate: è difficile non pensare agli effetti distorsivi che questo dato comporta sulle aspettative e sulle strategie di chi punta a emigrare per cercare lavoro in un paese europeo. - Le grandi dimensioni raggiunte: L'Italia è già, per dimensioni demografiche, il maggior paese dell'Europa meridionale, ed è il più interessato dalle migrazioni internazionali. - Glielevati livelli di discrezionalità lasciati di fatto alla macchina burocratica e ai funzionari che concretamente esaminano le istanze. Per concludere, un insegnamento che deriva dall'analisi di questi processi concerne l'offuscamento dei confini rigidi tra immigrazione regolare e irregolare. La visione del senso comune sull'argomento, secondo cui l'immigrato regolare è per definizione, se non proprio buono, utile, o almeno accettabile, mentre quello irregolare è pericoloso, nocivo e da respingere con ogni mezzo si stempera: in realtà i confini sono porosi, i passaggi dall'una all'altra condizione avvengono con una certa frequenza, e dipendono sostanzialmente da scelte regolative delle società di accoglienza, che alterna periodicamente scelte di apertura dei cancelli a una politica “normale” di chiusura. LE POLITICHE PER GLI IMMIGRATI TRE MODELLI DI INCLUSIONE La letteratura sull'argomento ha individuato storicamente, seppure con diverse sfumature, tre principali modelli di inclusione delle popolazioni immigrate: temporaneo, assimilativo, pluralista o multiculturale. - Il primo modello (temporaneo) è quello dell'immigrazione temporanea, esemplificato dal caso tedesco. Qui l'immigrazione è stata vista come un fenomeno contingente, di lavoratori che venivano che venivano chiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma non dovevano mettere le radici. Si è tentato di imporre forme di rotazione della manodopera immigrata, negando il rinnovo del permesso di soggiorno dopo un certo numero di anni di permanenza e richiamando nuovi immigrati. Anzi, i paesi che adottavano questo modello rifiutavano di definirsi come paesi di immigrazione e parlavano, come nel caso tedesco di “lavoratori ospiti”. Un modello di questo genere risponde a una concezione funzionalista dell’immigrazione, strettamente subordinata alle convenienze del paese ricevente e nella quale l'integrazione dei lavoratori ospiti è limitata al minimo: eguaglianza salariale e nelle condizioni di lavoro, anche per evitare una concorrenza distruttiva con i lavoratori nazionali. Nello stesso tempo non è ammesso oppure viene severamente ostacolato il ricongiungimento famigliare. Castles parla di esclusione differenziale, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società, soprattutto il mercato del lavoro, ma si vedono negato l’accesso ad altre. Tipica di questo modello è una concezione chiusa, “etnica” della cittadinanza, attribuita in base al principio dello ius sanguinis, ossia della discendenza da cittadini del paese. Nel linguaggio edulcorato delle istituzioni europee, si parla oggi come già sappiamo di “migrazioni circolari”. Se usciamo dal contesto occidentale, il modello temporaneo è tuttora dominante in aree per noi lontane e poco note. - Il secondo modello può essere definito assimilativo e ha avuto come principale espressione storica il caso americano del passato, e sul suolo europeo ha trovato in Francia la manifestazione più convinta. In questo caso l'orientamento delle politiche è verso una rapida omologazione anche culturale dei nuovi arrivati. È un modello che punta all'integrazione degli individui, intesi come soggetti sprovvisti di radici e autonomi rispetto a comunità di provenienza e retaggi tradizionali. Le istituzioni devono accompagnarli in questo processo trattandoli secondo il principio di eguaglianza. La naturalizzazione è relativamente agevole, non comporta tempi lunghissimi e richiede condizioni minimali. Le seconde generazioni accedono alla cittadinanza automaticamente, in base al principio dello ius soli: chi nasce sul territorio del paese, ne acquisisce la nazionalità. La pretesa di uguaglianza sul piano del diritto ha inoltre ritardato la presa di coscienza delle discriminazioni di fatto subite dagli immigrati nel lavoro, nel sistema educativo, nei rapporti sociali. Benché oggi il modello assimilativo nella sua versione normativa ed esplicita sia difficilmente proponibile come tale, alcune sue istanze ed elementi costitutivi rimangono vivi e si intrecciano con elementi degli altri approcci qui considerati. In generale possiamo osservare nelle politiche degli stati europei nell'ultimo decenni, un ritorno verso istanze più assimilazioniste. Il terzo modello è quello pluralista o multiculturale, in cui convergono esperienze storiche, culturali, orientamenti politici differenti. Può essere distinto in 2 varianti: - La prima è quella liberale o del lassez faire, tipica degli Stati Uniti degli ultimi decenni, in cui le differenze culturali sono tollerate, ma non favorite da un impegno diretto dello stato. - La seconda variante è certamente la più influente dal punto di vista culturale da almeno vent'anni. Castles e Miller associano il modello a una concezione multiculturale della cittadinanza: la nazione non solo viene definita come comunità politica aperta a nuovi membri, come nel modello repubblicano, ma si accetta la differenziazione culturale e la formazione di comunità etniche, sia pure all’interno delle regole democratiche. Reagendo all’'etnocentrismo del modello assimilativo, alla svalutazione degli immigrati e delle loro identità culturali, alle forme di discriminazione di cui sono oggetto, punta a costruire un'organizzazione sociale di tipo pluralistico, valorizzando e sostenendo la formazione di comunità e di associazioni di immigrati. Nell'ambito del modello pluralistico si ritrovano esperienze diverse, più o meno organiche, avanzate e incisive. Non è neppure raro che il multiculturalismo rappresenti una sorta di manifesto, o di catalogo di buone intenzioni, rispetto al quale non sempre seguono iniziative coerenti, soprattutto quando si tratta di andare al di là del livello simbolico per toccare interessi concreti delle società riceventi o di porzioni di esse. Contro molti fraintendimenti e polemiche, nessun approccio pluralista, neppure quelli ispirati al multiculturalismo più spinto, è arrivato a introdurre, per le minoranze etniche, norme “speciali”: il primato dei diritti dell'individuo, così come sono definiti dalla tradizione giuridica occidentale non è in discussione. Il modello però, soprattutto nelle sue versioni più spinte, comporta però anche effetti contraddittori. Saldandosi con gli stereotipi delle società riceventi, può favorire rappresentazioni collettivizzate, omogenee e statiche degli immigrati di una determinata provenienza. Nel dibattito attuale, si arriva anzi a imputare al multiculturalismo la formazione di comunità separate e non comunicanti con la società più ampia. Possiamo parlare dunque di una tendenza neoassimilazionista nelle politiche pubbliche degli ultimi anni, con particolare riferimento agli Stati europei. Va osservata un'accentuazione degli sforzi di monitoraggio della sfera cognitiva: oltre alla lingua, la conoscenza della storia, delle costituzioni, delle istituzioni dei paesi riceventi. Gli stati riceventi tendono a chiedere di più ai nuovi arrivati, in termini di requisiti e di prove di integrazione, ricodificando la cittadinanza come una relazione contrattuale. Rispetto alla posizione liberale, che vede la cittadinanza come un veicolo di integrazione, si torna almeno parzialmente verso una concezione più conservatrice e restrittiva, della cittadinanza come premio all'integrazione. Ogni paese devia nei fatti dal modello di integrazione proclamato a livello ideologico, cosicchè, analizzando il fenomeno in maniera empirica anziché normativa, l’idea stessa di un “modello” viene relativizzata. I modelli riescono sempre meno, in effetti, a cogliere la congerie, spesso farraginosa, delle politiche e degli interventi concreti, stratificati nel tempo e legati a preoccupazioni e obiettivi diversi; i casi nazionali con il passare degli anni si sono in vario modo evoluti, uscendo dalle coordinate dei modelli originali. Queste considerazioni stemperano la gravità di un problema spesso sollevato: la difficoltà di inserire il caso italiano in uno dei grandi modelli di inclusione degli immigrati. La mancanza di un modello di riferimento, almeno sul piano ufficiale. Il modello italiano, se così si può definire, si è formato in maniera opaca e inintenzionale, che solo a posteriori può essere letto come una costellazione relativamente coerente di caratteri identificabili: - Unarrivo e un insediamento spontaneistico, non derivante da politiche di reclutamento di manodopera. - Una scarsa regolazione istituzionale, in cui le misure legislative hanno piuttosto ricorso il fenomeno con ricorrenti sanatorie, anziché precederlo e governarlo. tutela da una potenziale competizione al ribasso sul costo del lavoro; nella sfera extralavorativa, dei servizi alle persone e delle politiche abitative, i nuovi arrivati sono invece più direttamente avvertiti come concorrenti. Un'altra tendenza riscontrata da diversi osservatori per la maggior parte dei paesi europei, così come per i paesi sviluppati extraeuropei, va verso una maggiore tolleranza nei confronti della doppia cittadinanza. Secondo questa prospettiva, i migranti stanno gradualmente acquisendo una facoltà formalmente riconosciuta di esercitare diritti di cittadinanza in più di uno Stato sovrano. La doppia cittadinanza incrocia il mondo organizzato in Stati nazionali, istituzionalizzando l’attraversamento dei confini e la coesistenza di diversi tipi di legami sociali e simbolici tra i cittadini e tra i cittadini e gli stati. Tipicamente europeo è un altro allargamento, in direzione di una cittadinanza sovrapposta che non rinnega la cittadinanza nazionale, ma vi aggiunge una cittadinanza sovranazionale nell’ambito dell’Unione Europea, che conferisce alcuni diritti esercitabili al di fuori dei confini del proprio paese. Ne deriva una “stratificazione civile” con la formazione di una gerarchia che vede al livello più basso gli immigrati irregolari, poi nell'ordine quanti dispongono di un permesso di soggiorno limitato nel tempo, i lungo residenti con uno statuto stabile, i migranti interni all'Unione Europea; infine, sul gradino più alto, i cittadini a pieno titolo. Nash (2009) distingue a sua volta i super-cittadini (elitè cosmopolite), i cittadini marginali (in quanto deprivati economicamente dalla povertà, o socialmente dal razzismo), i quasi-cittadini (ossia gli immigrati lungo residenti), i sub-cittadini (immigrati senza occupazione o senza titoli); i non-cittadini (gli immigrati non autorizzati e soggetti a deportazione). La cittadinanza appare così un concetto politico più fluido e mobile, il cui significato convenzionale è soggetto a continui conflitti e rinegoziazioni. In questa prospettiva si parla di “cittadinanza flessibile’ rifugiati tendono incessantemente di riformulare e reinquadrare i propri valori e interessi all’interno dello spazio istituzionale loro concesso. Si collega a questo filone il dibattito sulla possibilità di “denazionalizzare la cittadinanza”, introducendo idee come quella di “cittadinanza transazionale” o “cittadinanza globale”. Bosniak distingue in proposito 4 significati della cittadinanza: - Il primo è quello di tipo legale, status formale di una comunità politica: su questo piano la denazionalizzazione è poco plausibile, giacchè lo status formale di cittadino rimane largamente legato allo stato nazionale. - Il secondo significato è quello che collega la cittadinanza al godimento di determinati diritti, nella tradizione di Marshall. - Ancora più convincenti appaiono le istanze di superamento della visione convenzionale della cittadinanza quando questa viene definita, nel terzo significato, come partecipazione attiva alla vita politica. - Nel quarto significato, il termine “cittadinanza” si riferisce a un'esperienza di identificazione e di solidarietà che una persona manifesta nella vita collettiva o pubblica, con un più evidente svincolamento dai confini nazionali. L'immigrazione mostra che di fatto le persone possono mantenere appartenenza e legami che trascendono i confini nazionali. Una forma di cittadinanza transazionale ormai codificata in molte legislazioni nazionali è la possibilità di votare all’estero per le elezioni delle istituzioni politiche della madrepatria. Prescindendo dalle peculiarità del caso italiano, queste politiche rispondono a tre aspettative: 1) Alimentare il senso di appartenenza alla patria, in vista di un possibile ritorno vantaggioso sotto il profilo del capitale umano ed eventualmente del rientro di capitali; 2) Mantenere vivo, grazie alla risorsa simbolica del voto, l'impegno nell'invio di rimesse, coltivando un “mito de ritorno”; 3) Poter contare sulla mobilitazione dei connazionali nei paesi riceventi come strumento di politica estera, per sostenere interessi nazionali oltre i confini. La costatazione dell’esclusione dai diritti politici ha altresì indotto a individuare e valorizzare alcune possibili forme di partecipazione politica indiretta, attuate per il tramite di associazioni e delle organizzazioni sindacali. Gli immigrati, pur privi di rappresentanza politica elettiva, possono incidere sulle scelte politiche delle società riceventi. In molti paesi l’associazionismo immigrato ha assunto con gli anni crescente importanza e svariate funzioni, che spaziano dalla rappresentazione politica, all'animazione culturale, alla fornitura di servizi. Benchè sottorappresentati, gli immigrati cominciano però a ricoprire posizioni di rappresentanti sindacali, svolgendo, oltre ai normali compiti sindacali, una duplice funzione, di mediazione culturale nei rapporti tra lavoratori stranieri e sindacato, e di sollecitazione, all’interno del sindacato, di una maggiore attenzione verso le tematiche connesse all'immigrazione. L'esperienza sindacale “fornisce un contesto di valorizzazione e di autostima che permette di dare senso al proprio operato quotidiano” nonché “un linguaggio per pensare criticamente la propria esperienza lavorativa e migratoria”, rivelandosi capace di dispensare “un senso di dignità troppo spesso negato o visto negare nei contesti lavorativi”. Sintesi dell'argomento riprendendo da Zincone (2003), i principali significati contenuti nel termine “cittadinanza” e i loro rapporti con i fenomeni migratori. - Unprimo significato riguarda l'appartenenza a uno stato e alla sua giurisdizione, che comporta il diritto a risiedere liberamente sul territorio e a uscire e rientrare dai suoi confini. Qui “cittadino” si contrappone a “straniero”. - In secondo luogo, per cittadinanza si intende l'emancipazione, la condizione di persona adulta che decide di se stessa e partecipa alle decisioni pubbliche. - Cometerzo aspetto, si intende per cittadinanza una dotazione comune, un insieme di protezioni e benefici garantiti dai poteri pubblici. - Una quarta accezione della cittadinanza riguarda la standardizzazione, ossia la condizione di uguaglianza tra i cittadini, superando differenze e particolarismi locali, religiosi, etnici, linguistici. In realtà i fenomeni migratori pongono in discussione alcuni assunti centrali della convivenza in una determinata società, generalmente dati per scontati e non fatti oggetto di un'adeguata riflessione, come i contenuti delle identità collettive in cui ci riconosciamo, i confini di appartenenza e l'estensione della solidarietà reciproca. LA DIMENSIONE LOCALE Le politiche nazionali forniscono un inquadramento imprescindibile per i processi di incorporazione degli immigrati, ma molte misure e interventi specifici vanno poi sviluppati a livello locale. Si riscontra dunque una crescente consapevolezza della dimensione locale dell’appartenenza sociale della cittadinanza. “per loro stessa natura, le politiche migratorie nazionali, in particolare quelle per gli immigrati, trovano una loro traduzione nelle scelte operate dai e all’interno dei governi locali, scelte che non necessariamente corrispondono alle intenzioni del legislatore nazionale. Studiare le politiche locali significa quindi analizzare e valutare come nei fatti e nella quotidianità gli assetti istituzionali nazionali trovino una corrispondenza nei processi di costruzione degli interventi sul territorio.” Le politiche locali non seguono tuttavia in modo meccanico le impostazioni nazionali, ma sovente se ne discostano, dovendo fronteggiare a livello periferico i fallimenti delle politiche nazionali. L'aspetto più interessante dell'analisi è proprio lo scostamento tra il modello nazionale e il modello di intervento effettivo locale. Alexander distingue inoltre 4 ambiti di azione politica, in ognuno dei quali si riscontrano approcci e misure diverse a seconda dei modelli di riferimento: 1) Giuridico-politico, in cui trovano luogo istituzioni come i comitati consultivi degli immigrati e le relazioni con le associazioni rappresentative; 2) Socioeconomico, dove si collocano le misure relative all’inclusione nel mercato del lavoro, nei servizi scolastici ed educativi, nei servizi sociali, nonché la gestione dell'immigrazione; 3) Culturale-religioso, riferito ai rapporti con le istituzioni religiose delle minoranze e alla consapevolezza pubblica della diversità etnica; 4) Spaziale, relativo alle politiche abitative, al trattamento delle enclave etniche, all'uso simbolico dello spazio. In Italia le ricerche su approcci, modelli, tipi di politiche locali per gli immigrati sono ancora scarse, e raramente superano un livello descrittivo. L'invisibilità sembra essere il criterio fondamentale di decisione delle politiche specifiche e di erogazione dei servizi. La preoccupazione fondamentale è quella di tenere basso il profilo, limitandosi allo stretto necessario e a far fronte all'emergenza. Non si possono concepire valide politiche per l'integrazione degli immigrati senza disporre di una visione pertinente dell'immigrazione, del suo significato, del suo ruolo nell'economia e nella società locale, dei suoi problemi. Emerge il ruolo delle “burocrazie di strada”, ossia degli operatori dei servizi che interagiscono direttamente con i beneficiari dei servizi, e dispongono di margini di potere discrezionali, nel considerare ammissibile o meno una richiesta, nell’aiutare o meno a compilare una domanda, nel facilitare o meno l’accesso a un servizio. Questi processi producono uno scarto tra la dimensione delle politiche dichiarate, con il loro apparato retorico, e quella delle politiche in uso, che si riferisce ai comportamenti effettivi. IL RUOLO DELLE INIZIATIVE SOLIDARISTICHE Ancora più grave appare il caso della situazione carceraria: al 31 luglio 2010 risultavano detenuti nelle carceri italiane quasi 25000 cittadini stranieri. Denunce e incarcerazioni degli immigrati sono inoltre nettamente più frequenti nell'Italia centrosettentrionale che nelle regioni del Mezzogiorno. Ci si attenderebbe una maggiore incidenza del comportamento deviante degli stranieri laddove è più difficile l'inserimento economico lavorativo. AI contrario dai dati sembra emergere che gli stranieri presentano nel Mezzogiorno, area molto disagiata dal punto di vista occupazionale, una propensione al comportamento criminale relativamente contenuta. Questo divario è stato variamente interpretato come effetto di una maggiore tolleranza nel Mezzogiorno, da parte di autorità e popolazione, nei confronti di alcuni comportamenti devianti, oppure come conseguenza di un diverso grado di radicamento della criminalità locale. Alcune altre caratteristiche del fenomeno risaltano ad un'analisi più dettagliata: - Sirealizza una concentrazione prevalente degli immigrati in alcune categorie di reati: furti in abitazione, furti in esercizi commerciali, reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione. - Gliimmigrati rappresentano un target specifico per l'azione penale quando sono individuati come soggiornanti irregolari sul territorio. - Fattori ambientali legati alla specificità delle regioni di inserimento, e in generale al grado di integrazione nella società, influenzano notevolmente l'incidenza nelle statistiche giudiziarie. - Gliimmigrati commettono in molti casi reati ad alta visibilità, a differenza dei reati da colletti bianchi in cui sono maggiormente coinvolti gli italiani. - Spesso si constatano forme di specializzazione di alcune nazionalità nella realizzazione di certe forme di illecito: produzione e spaccio di stupefacenti per marocchini, tunisini e algerini; furti per rumeni, serbi e croati; reati connessi allo sfruttamento della prostituzione per nigeriani e albanesi. Si riscontrano infatti profonde differenze nel grado di coinvolgimento delle diverse attività nelle attività illegali. Se combiniamo la frequenza quantitativa con la specializzazione in alcune fattispecie di reati, in parte piuttosto stabile nel corso degli anni, in altri casi variata nel tempo, possiamo disporre di elementi per immaginare che le reti migratorie talvolta concorrano a produrre un inserimento dei à dei connazionali in attività devianti, anziché in occupazioni lecite, quand’anche siano irregolari. Come conseguenza della formazione di reti di immigrati coinvolti in determinati reati, diverse componenti nazionali presentano un'incidenza sul complesso dei denunciati più che proporzionale in confronto al rispettivo peso sul totale degli immigrati soggiornanti. Non va dimenticato però che si manifestano fenomeni di segno contrario: gruppi nazionali come quello ucraino, filippino o indiano, collocati rispettivamente al quinto, sesto e settimo posto nella graduatoria dei soggiornanti, non figurano mai tra le prime nazionalità nelle graduatorie dei denunciati per i diversi reati. Molto influente appare poi la variabile relativa al genere, le componenti femminili hanno un basso grado di coinvolgimento in attività devianti. Tra le nigeriane, da anni si osserva un elevato coinvolgimento di donne nello sfruttamento della prostituzione. Anche in questi casi, si può notare l'incidenza di alcune “specializzazioni” derivanti dai legami con reti a base etnica dedite ad attività illegali. Si può però affermare che complessivamente le donne immigrate sono vittime di reati, piuttosto che soggetti attivi di reati. Un problema che rientra nella questione più generale della vittimizzazione degli immigrati: in quanto componenti socialmente più deboli, sono sistematicamente più esposti della popolazione nativa ad abusi e sfruttamento. Come abbiamo già sottolineato, una parte dei reati ascritti agli immigrati dipende dalla loro condizione di stranieri dallo status incerto. Si tratta dei cosidetti “reati di immigrazione”, per i quali la denuncia non si riferisce a un delitto, ma al semplice fatto di trovarsi su un territorio senza essere in regola. Reati connessi all'esercizio abusivo di attività commerciali, alla vendita di prodotti con marchi contraffatti e simili, sono a loro volta legati all'incertezza dei diritti e delle opportunità di lavoro a cui gli immigrati possono avere successo. IMMIGRATI E DEVIANZA: LE INTERPRETAZIONI La riflessione sociologica propone interpretazioni diverse, l'alta sensibilità politica e sociale del tema influisce anche sul dibattito scientifico. Le ricerche sociologiche riflettono preoccupazioni, interessi, dibattiti dell'ambiente in cui vengono concepite. Possiamo dunque distinguere, a proposito della devianza degli immigrati, due scuole di pensiero. La prima definibile come scuola “classica” assume i dati statistici sul fenomeno come un punto di riferimento sostanzialmente obbiettivo e quindi veritiero. Gli immigrati restano un gruppo sociale più coinvolto della media in varie attività illegali. Per di più i tassi di devianza degli immigrati variano a seconda dello spazio e del tempo: in certi periodi e paesi, gli immigrati sono più ligi alle leggi della popolazione nativa, in altri accade il contrario. In Europa e in America negli anni sessanta, le ricerche criminologiche avevano dimostrato che gli immigrati stranieri non commettevano più reati autoctoni; dalla fine degli anni settanta è avvenuta una inversione di tendenza. L'aumento della devianza rifletterebbe un contesto migratorio in cui sarebbero diventati prevalenti i fattori di spinta, rispetto a quelli di attrazione, e sarebbero peggiorate le condizioni e le prospettive degli stessi immigrati irregolari e dei loro figli. Nel caso dell’Italia contemporanea, il fattore che sembra maggiormente incidere sulla devianza è individuato nel soggiorno irregolare e nella conseguente precarietà delle condizioni di vita, giacchè una % di reati molto più elevata è attribuita a immigrati privi di permesso di soggiorno. L'influenza esercitata dall’emigrazione sulla criminalità dipende innanzi tutto dalle condizioni nelle quali essa avviene. Ogni processo migratorio è di per se fortemente selettivo e le condizioni in cui si verifica possono favorire o ostacolare il passaggio di persone con determinate caratteristiche. L'immigrazione irregolare tende a selezionare persone con una propensione al rischio e una disponibilità a violare le leggi maggiore di quella regolare (Barbagli, noto esponente di questa linea interpretativa). La seconda prospettiva può essere definita “critica” e considera la devianza degli immigrati come l’effetto di una costruzione sociale della realtà che assume le caratteristiche di una profezia che si auto adempie: se gli immigrati sono soggetti di chiusure e pregiudizi, le società riceventi sbarrano la strada di un'integrazione paritaria e rafforzano i controlli repressivi nei loro confronti. La caduta nella devianza è la conseguenza dell’emarginazione dalla società “normale”; ne deriva, a chiudere il circolo vizioso, un inasprimento dei controlli di polizia e delle sanzioni, giacchè gli immigrati sono catalogati a priori come potenziali devianti. La produzione e la riproduzione di comportamenti devianti tra gli immigrati, di conseguenza, si correla con tre fattori macrosociali: a) Il degrado della società di origine e la diffusione di modelli devianti; b) Politiche migratorie proibizioniste, che hanno reso di fatto quasi impossibile immigrare regolarmente; c) L'affermazione di un modello sociale, nelle società riceventi, che produce esclusione sociale e criminalizzazione, anziché la possibilità di inserirsi stabilmente. Alcune componenti dell'universo migratorio sono poi avvertite come particolarmente minacciose. Qui pesano i processi di etichettatura, per i quali l’immigrato che commette un reato è più facilmente riconoscibile di un autoctono. Si parla in proposito di una “produzione istituzionale” della devianza. La responsabilità di questa condizione, anziché essere attribuita agli immigrati, viene addossata alle società riceventi e alle loro politiche migratorie. Tutto il funzionamento della macchina giudiziaria fa si poi che gli immigrati provenienti da paesi meno sviluppati siano più soggetti alla carcerazione preventiva. Anche il funzionamento delle procedure di espulsione incide sul rapporto fra irregolarità e devianza. Ne deriva una selettività implicita degli stessi controlli di polizia. Secondo Melossi, la rappresentazione della criminalità che emerge dalle denunce è distorta e non in modo casuale: “in un modo che è fortemente penalizzante, nei confronti di coloro che commettono i reati più semplici. Più facilmente sotto l'occhio del pubblico e della polizia, i reati commessi da poveracci, fra i quali primeggiano gli immigrati. Le critiche a quella che viene chiamata “criminalizzazione” degli immigrati sono talvolta ancora più radicali. Secondo alcuni studiosi particolarmente attenti alla “costruzione sociale”, la stessa raccolta di dati sugli immigrati è un processo di stigmatizzazione attuato dalla società ricevente. Tra gli stessi immigrati irregolari, esposti alle medesime condizioni di deprivazione e marginalità, il coinvolgimento in attività illegali mostra andamenti diversi: tra i gruppi nazionali a bassa devianza non sono di certo rari gli immigrati irregolari, eppure non scatta la relazione irregolarità-marginalità-reati. Per spiegare le differenze, questi autori ricorrono al concetto di “struttura di opportunità differenziale”. La struttura di opportunità degli immigrati irregolari può essere suddivisa in tre assi istituzionali: - Il grado di accessibilità delle istituzioni formali del welfare state. - Il grado di accessibilità delle istituzioni informali, 3 delle quali sono particolarmente importanti: la rete famigliare, amici, conoscenti, che possono facilitare l'insediamento degli immigrati irregolari; l'economia sommersa, che può offrire comunque lavoro. Se è ingenuo pensare che le donne straniere che si prostituiscono in Italia o in altri paesi siano tutte vittime ione opposta, secondo la ignare o rapite con la forza, sarebbe altrettanto sbagliato acconsentire alla vi quale sarebbero tutte persone consapevoli che hanno deciso liberamente. Occorre dunque porre in luce i processi che concorrono alla costruzione sociale dell'offerta di prostituzione straniera, esplorando i territori intermedi tra i due poli. Un efficace spunto in proposito è offerto da una ricerca del Cespi, che classifica 4 fattori che garantiscono la collaborazione delle persone oggetto del traffico con le organizzazioni che lo gestiscono: gli elementi cooperativi, il ricorso alla violenza, l’uso del ricatto, l’uso dell'inganno. Si può aggiungere che tanto le situazioni di partenza, quanto le pressioni psicologiche, le minacce, la paura dell'autorità, la mancanza di conoscenze della società ricevente e delle possibili alternative, rendono l'apparente cooperazione in vario modo condizionata da fattori che sovrastano e limitano l’espressione di scelte soggettive consapevoli e libere. È necessario domandarsi come sia stato costruito il consenso: 1) In primo luogo, lo squilibrio tra le possibilità di ingresso nei paesi avanzati e l'aspirazione a partire genera un grande mercato per coloro che sono pronti a soddisfare la speranza di imprimere una svolta alla propria vita emigrando. 2) Alla costruzione del consenso contribuiscono poi dispositivi di pressione psicologica che spaziano dalle minacce alle promesse e servono a piegare la capacità di autodeterminazione delle donne immesse nel mercato del sesso. 3) Ma questo non basterebbe se dovessimo fare i conti anche con forme più sottili e ambigue di condizionamento della libertà personale, definibili in termini di manipolazione effettiva. La manipolazione effettiva probabilmente è ancora più agevole e diffusa quando sono donne che sfruttano altre donne, come nel caso della rete nigeriana che abbiamo considerato. 4) Nel processo di costruzione della cooperazione delle vittime del traffico va richiamato infine il problema dell’asimmetria informativa. Tra gli elementi che concorrono a istituire legami collaborativi e l'apparente collaborazione consensuale, un aspetto determinante deriva dal fatto che le uniche informazioni che arrivano alle donne vengono forniti dai loro sfruttatori. PREGIUDIZIO, DISCRIMINAZIONE E RAZZISMO Alla base del pregiudizio stanno meccanismi operativi tipici dei processi cognitivi della mente umana: la conoscenza richiede classificazione, ossia distinzione e ordinamento degli “oggetti” in categorie in una certa misura precostituite. Noi riconosciamo un certo pezzo di arredamento come “tavolo”, perché ci appare simile ad altri oggetti, che abbiamo imparato a classificare entro la categoria definita come “tavolo”. Tendiamo quindi a conoscere generalizzando, ossia costruendo categorie collettive e riconducendo ad esse casi individuali. Il problema nasce quando i processi di categorizzazione danno luogo a forme di generalizzazione indebita, che consentono nell'attribuire a tutti i membri di un determinato gruppo sociale alcuni comportamenti o caratteristiche rilevate o sperimentate, o soltanto attribuite a uno o alcuni individui di quel gruppo. Dai pregiudizi nascono infatti gli stereotipi, ossia rappresentazioni rigide, standardizzate, per lo più intrise di valutazioni stigmatizzanti, che si applicano a gruppi sociali considerati collettivamente, appiattendo le differenze fra i casi individuali e semplificando la definizione della realtà. Per il fatto di presentare certi caratteri somatici, o di appartenere a una popolazione straniera o minoritaria, ai singoli individui vengono attribuite determinate caratteristiche e attitudini, positive o più spesso negative. Questi processi di categorizzazione si incontrano con un’altra dinamica, l’etnocentrismo, ossia la tendenza a distinguere il proprio gruppo (in-group) dagli altri gruppi (out-group), e a conferire una preferenza sistematica agli “interni” nei confronti degli “esterni”, a ritenere se stessi e il proprio gruppo umano migliore degli “altri”, e a giudicare questi ultimi secondo criteri e norme morali: un atteggiamento che secondo levi è universalmente diffuso. Il pregiudizio etnocentrico rischia però di innescare derive xenofobe: erige un “noi” identificato come umano, in opposizione con un “non noi”. L'etnocentrismo tende a disumanizzare l’altro. Una deriva del giudizio etnocentrico è la xenofobia, ossia l'atteggiamento di rifiuto o di paura nei confronti degli stranieri. LE DERIVE RAZZISTE: PRATICHE E IDEOLOGIE Questo complesso di atteggiamenti si traduce in quello che si definisce come “pensiero razzista ordinario”, ossia il razzismo diffuso, vago, non tematizzato, che consiste nell’interpretare la distinzione tra noi e loro come una distinzione fra specie umane, la prima delle quali è più umana della seconda. Il desiderio di marcare le distanze sociale, ribadendo così una superiorità giustificata da null'altro che dall’appartenenza etnica, fonda le forme popolari di razzismo. L'insediamento degli immigrati attiva innanzitutto la rievocazione nostalgica del passato, della comunità coesa e solidale dei bei tempi andati. Prevale allora un sentimento di invasione, degli spazi pubblici e degli spazi commerciali, da cui discende la percezione di un abuso e una crescente insofferenza verso l'utilizzo ritenuto improprio degli spazi: parchi, strade, parti comuni delle abitazioni. La complessità del fenomeno ha dato luogo a diversi tentativi di spiegare le ragioni per cui si sviluppano le diverse manifestazioni di xenofobia e razzismo. Possiamo distinguere 4 approcci. - Teorie della scelta razionale: xenofobia e razzismo deriverebbero dalla rivalità competitiva tra immigrati e popolazione autoctona per l’accesso a risorse scarse, come i posti di lavoro e l'edilizia sociale. - Teorie funzionaliste: sono quelle che riconducono la xenofobia alla differenza culturale e all’incapacità di assimilarsi degli immigrati, in quanto provenienti da società arretrate. - Teorie della comunicazione discorsiva: secondo cui, la distanza culturale o l'incapacità di assimilarsi |” sono elementi di una costruzione sociale del discorsive categorizzanti e stigmatizzanti. alterità” degli immigrati, basate su pratiche - Teorie fenomenologiche, che legano i fenomeni xenofobi a una trasformazione sociale in cui certe promesse poli diffondono tensioni in ampi strati della società. che, come quella del welfare state, non possono più essere mantenute e si Il razzismo conosce poi una variabilità nel tempo, quanto a bersagli dell'ostilità e può spostarsi su altri gruppi etnici o nazionali, di solito neo arrivati, mentre gli immigrati delle precedenti ondate possono migliorare il proprio status. Le ricerche storiche hanno mostrato che persino la percezione delle differenze fisiche, “razziali”, dipende dall’accettazione sociale. Come spiega Ignatiev, in un libro molto emblematico “Come gli irlandesi divennero bianchi”, gli immigrati irlandesi al loro arrivo in America, non erano considerati di razza bianca. Solo quando irlandesi, polacchi e italiani in America e i meridionali nel Nord Italia, hanno conosciuto una sufficiente mobilità sociale, la percezione della differenza razziale si è modificata : in questo senso, si può dire che la razza ha rappresentato uno status acquisito e non ascritto. Le società riceventi costruiscono quindi la figura dell’ immigrato, inquadrandolo in modo da produrre nella sua collocazione sociale una “perdita di status”, identificando come svalutativi gli elementi che più immediatamente lo identificano come estraneo rispetto al contesto di riferimenti. Un altro ordine di considerazioni riguarda l'evoluzione del razzismo intellettualmente elaborato, talvolta definito come razzismo in senso proprio. A differenza del razzismo ordinario e popolare, questo pensiero razzista è il frutto di una costruzione intellettuale che ambisce a una dignità scientifica. Può essere definito, secondo l'Unesco, come “ qualsiasi teoria che stabilisca una superiorità o un’inferiorità intrinseca di gruppi razziali, in base alla quale si riconosce agli uni il diritto di dominare o di eliminare gli altri. Il pensiero razzista come fenomeno occidentale moderno presenta infatti una costante: la messa in questione dell'unità del genere umano e la tendenza a concepire le varietà della specie umana come “razze”, ossia come “specie” distinte e differenti. Dopo la seconda guerra mondiale e la presa di coscienza degli orrori del nazismo, questa concezione è divenuta insostenibile ma il razzismo elaborato ha assunto una nuova veste. Diventa centrale l’idea della differenza culturale, e allo screditato termine “razza” si sostituisce quello di “etnia” o anche di “cultura”. Il bersaglio è ora rappresentato dalle popolazioni immigrate insediate nelle società occidentali, considerate una minaccia. Il razzismo differenzialista prende allora la forma di un’esaltazione delle differenze e di una preoccupazione per la loro preservazione. Memorie, tradizioni, modi di vita peculiari possono essere salvaguardati solo al prezzo della separazione da altri gruppi umani, concepiti come portatori di culture diverse. Le identità culturali vengono concepite come rigide, non modificabili, mentre le possibilità di ibridazione e meticciato vengono respinte come inaccettabili. La cultura viene in un certo senso naturalizzata e serve a rinchiudere gli individui in identità immutabili. I PROCESSI DISCRIMINATORI La discriminazione può essere definita come “trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a causa delle loro origini, delle loro appartenenze, delle loro apparenze (fisiche o sociali) o delle loro opinioni reali o immaginarie. Il che comporta l'esclusione di certi individui dalla condivisione di determinati beni sociali. C'è discriminazione quando comportamenti o norme di orientamento etnocentrico non appaiono adeguatamente motivati e razioè rappresentanalmente giustificati. Un altro problema deriva dal fatto che non sempre gli interessati sono consapevoli di subire delle discriminazioni. Si possono poi distinguere negli studi sull'argomento diverse forme di discriminazione “razziale”. - Gliimmigrati incontrano anzitutto forme esplicite o dirette di discriminazione. Un'altra questione spinosa riguarda le situazioni di rifugio protratte. Parecchi rifugiati sperimentano molti anni di esilio, spesso confinati in campi, senza speranza di ritorno o di integrazione nel paese ospitante. È stata introdotta questa nuova categoria per identificare le persone sradicate da 5 o 6 anni, mentre altri parlano di “rifugiati dimenticati”: persone che si trovano prigioniere di uno stato insopportabile di limbo, impossibilitate a liberarsi dalla dipendenza dall'assistenza loro fornita. Possiamo dunque affermare, per concludere su questo punto, che il concetto di “rifugiati” si è articolato e differenziato: per certi aspetti è diventato più flessibile e inclusivo, comprendendo gruppi e casi individuali che vanno oltre la definizione fissata dalla Convenzione di Ginevra nell'ormai lontano 1951. Non va dimenticato che la maggior parte di quelle che nel complesso vengono oggi definite migrazioni forzate avvengono fra paesi confinanti, generalmente nell’ambito di quello che chiamiamo “terzo mondo” e solo una minoranza raggiunge i paesi sviluppati . E' dimostrato che i rifugiati si dirigono di preferenza verso i paesi dove sono già insediati parenti e connazionali, nella speranza di trovare appoggio e aiuto all'insediamento. LE POLITICHE DI ACCOGLIENZA E DI GESTIONE DEI RIFUGIATI | paesi riceventi più interessati dai flussi a loro volta hanno reagito all'incremento delle domande di asilo inasprendo i controlli all'ingresso, varando norme più restrittive e tagliano le misure d'accoglienza : queste erano state pensate per un'epoca in cui i rifugiati appartenevano a delle èlite culturali e sociali e potevano avere una funzione nel contesto della politica dei blocchi. Le democrazie occidentali hanno allestito un ampio armamentario di misure di contenimento della mobilità dei rifugiati, cercando talvolta di camuffarlo con motivazioni umanitarie, oppure di ricomprenderlo nella lotta contro la cosiddetta immigrazione clandestina. Vi rientrano diverse strategie, riconducibili a 3 assi centrali: - Una progressiva precarietà della protezione offerta a chi approda sul territorio Europeo; - Il ricorso sempre più spesso a forme di internamento, anche per periodi molto lunghi; - tentativi di esternalizzare le procedure di accoglienza e di esame delle domande di asilo al di fuori dei confini dell’Unione Europea. Anche quando i richiedenti asilo riescono a raggiungere i paesi avanzati, e segnatamente quelli europei, misure come il confinamento nei compi li separano dalle società ospitanti, li trasformano in una condizione protratta di sospensione di progettualità e incertezza rispetto al futuro. Possiamo distinguere 3 modalità prevalenti delle politiche volte a fronteggiare l'ingombrante questione dei migranti forzati: 1) La chiusura senza alternative: ossia una sorta di opzione zero in materia di rifugiati, che non solo è la bandiera di vari movimenti xenofobi europei, ma rischia di rappresentare anche la deriva verso cui stanno scivolando i sistemi di protezione dei paesi più sviluppati; 2) L'accoglienza senza integrazione: che si sta profilando come la scelta che risulta più praticabile, misure di accoglienza temporanea, puramente umanitaria, in cui gli sforzi si concentrano sulla salvaguardia della vita, ma non vengono contemplati investimenti che produrrebbero una stabilizzazione dei rifugiati accolti, esplicitamente esclusa dai governi dei paesi riceventi. 3) L'integrazione senza accoglienza: che ha costituito per anni il percorso di fatto riservato ai migranti forzati che approdavano nel nostro paese, così come in altri che non avevano strutturato un sistema di accoglienza per questa componente della popolazione in movimento attraverso i confini. 4) Possiamo individuare però una quarta possibilità, quella di una saldatura tra accoglienza umanitaria e percorsi di integrazione nella società ricevente. In questo modo, in tempi ragionevoli, i rifugiati arrivati come richiedenti protezione diventano soggetti in grado di provvedere alle proprie esigenze, di contribuire con il loro lavoro allo sviluppo dei contesti che li accolgono, di arricchire la vita culturale delle società locali con la loro storia e il loro sguardo sul mondo. Il successo di percorsi di questo tipo si gioca su due presupposti. Il primo consiste nell’attivazione delle energie positive del territorio, sia sul versante pubblico-istituzionale, sia nell'ambito delle società civili locali, con le loro multiformi espressioni associative e volontaristiche, sia in riferimento alle imprese, alle loro organizzazioni, al mercato del lavoro. Il secondo presupposto riguarda il rapporto con i beneficiari del progetto, cioè l'equilibrio da conseguire tra accompagnamento e promozione dell'autonomia delle persone accolte.
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