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Concetti di differenziale ed integrale e operazioni con vettori, Appunti di Fisica

I concetti di differenziale ed integrale, le operazioni con vettori e i prodotti scalari e vettoriali. Vengono spiegati i concetti di derivata, derivate direzionali e integrale, oltre alle proprietà delle operazioni tra vettori come somma, differenza e prodotto per scalare. Viene inoltre descritto il prodotto scalare e vettoriale, con esempi pratici di applicazione in R3. Il documento può essere utile per studenti di ingegneria e fisica che devono approfondire questi concetti matematici.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 24/10/2023

Antonio_Pilla
Antonio_Pilla 🇮🇹

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Scarica Concetti di differenziale ed integrale e operazioni con vettori e più Appunti in PDF di Fisica solo su Docsity! Carretta Marco 1875 HHH INGGES 1 1 Concetti generali 1.1 Differenziale ed integrale Il differenziale indica la variazione infinitesimale della funzione rispetto ad una variabile indipendente. La derivata di una funzione è la variazione della funzione in un punto. Le derivate direzionali invece indicano la variazione di una funzione lungo un determinato vettore. L’integrale e’ un operatore che associa ad una funzione reale un area, definita su un intervallo [a,b]. 1.2 I vettori e le operazioni con scalari I vettori sono entità aventi un modulo (o intensità), una direzione (linea dove agisce) e un verso (freccia). Un vettore si riferisce ad una grandezza vettoriale. Fare le operazione tra vettori in modo grafico non è sempre agevole, meglio proiettare il vettore nelle componenti assiali ed utilizzare le leggi del triangolo rettangolo. I vettori unitari, detti anche versore, sono vettori di modulo 1 e vengono utilizzati per indicare una direzione di riferimento come le coordinate ortogonali del piano (i,j,k). Sono normalmente associati a dei scalari per definirne la direzione. Somma differenza Si fa con metodo grafico (?̅? = ?̅? + ?̅?). Nella somma l’ordine non è rilevante, abbiamo la proprietà commutativa e proprietà associativa. Possiamo pertanto allo stesso modo sottrarli. Prodotto vettore per scalare ?̅? = ?̅? 𝑆 Il vettore viene moltiplicato per un numero scalare che ne modifica il modulo. Il prodotto vettore per uno scalare è sempre un vettore! Il verso e la direzione restano invariati Prodotto scalare (Max con vettori paralleli) 𝑅 = 𝑉1̅̅̅̅ 𝑉2̅̅̅̅ = 𝑉1 𝑉2 𝑐𝑜𝑠(𝜃) è un prodotto di due vettori che, come risultato, viene uno scalare. Il prodotto viene eseguito moltiplicando il modulo dei due vettori per il coseno dell’angolo θ dei due. L’angolo influenzerà il valore finale del modulo (Cos0=1, Cos90=0). Prodotto vettoriale (Max con vettori perpendicolari) ?̅? = 𝑉1̅̅̅̅ 𝑥 𝑉2̅̅̅̅ = 𝑉1 𝑉2 𝑠𝑖𝑛(𝜃) è il prodotto di due vettori per l’angolo θ tra i due. Il risultato è un vettore dove la sua direzione sarà ortogonale al piano che contiene i vettori V1 e V2 e il suo verso lo si stabilisce con la legge della mano destra (il vettore risultato è sull’indice medio). L’angolo influenzerà il valore finale del modulo (Sin0=0, Sin90=1). 1.2.1 Prodotto scalare tra vettori multidimensionali in R3 Supponiamo di avere due vettori ?̅? = (𝑉1 , 𝑉2, 𝑉3) e il vettore ?̅? = (𝑈1, 𝑈2, 𝑈3) in 𝑅3(tre dimensioni nei numeri reali), il prodotto scalare varrà: 𝑅 = ?̅? ?̅? = (𝑉1 𝑈1) + (𝑉2 𝑈2) + (𝑉3 𝑈3) 1.2.1 Prodotto Vettoriale tra vettori multidimensionali in R3 Supponiamo di avere due vettori ?̅? = (𝑉1 , 𝑉2, 𝑉3) e il vettore ?̅? = (𝑈1, 𝑈2, 𝑈3) in 𝑅3(tre dimensioni nei numeri reali). Chiamiamo (𝑖̂, 𝑗,̂ ?̂?) i tre versori degli assi coordinati. Direttamente possiamo utilizzare la formula: ?̅? = ?̅?𝑥?̅? = (𝑉2𝑈3 − 𝑉3𝑈2)𝑖̂ + (𝑉3𝑈1 − 𝑉1𝑈3)𝑗̂ + (𝑉1𝑈2 − 𝑉2𝑈1)?̂? ma essendo complicata da ricordare possiamo riconrdarci che essa è il determinante di una matrice 3x3 ricavato con la regola di Sarrus: ?̅? = ?̅? 𝑥 ?̅? = 𝑑𝑒𝑡 ( 𝑖̂ 𝑗̂ ?̂? 𝑉1 𝑉2 𝑉3 𝑈1 𝑈2 𝑈3 ) = (𝑉2𝑈3 − 𝑉3𝑈2)𝑖̂ + (𝑉3𝑈1 − 𝑉1𝑈3)𝑗̂ + (𝑉1𝑈2 − 𝑉2𝑈1)?̂? Bisogna specificare che il termine “matrice” qui sarebbe improprio, questo perché’ nella prima riga abbiamo versori mentre nelle altre righe sono contenuti i vettori. Il determinante, inoltre, per definizione è uno scalare. 1.2.1.1 Esempio pratico di prodotto vettoriale in R3 Abbiamo ?̅? = (1, −1, 2) e ?̅? = (1, 2, 3) formiamo la matrice: ?̅? = ?̅? 𝑥 ?̅? = 𝑑𝑒𝑡 ( 𝑖̂ 𝑗̂ ?̂? 1 −1 2 1 2 3 ) Utilizziamo la regola di Sarrus: 𝑖̂ 𝑗̂ ?̂? 1 −1 2 1 2 3 | 𝑖̂ 𝑗̂ ?̂? 1 −1 2 1 2 3 ricaviamo: [𝑖(̂−1)(3) + 𝐽(2)(1) + ?̂?(1)(2)] − [?̂?(−1)(1) + 𝑗(̂2)(1) + 𝑖(̂2)(2)] = −3𝑖̂ + 2𝑗̂ + 2?̂? + ?̂? − 3𝑗̂ − 4𝑖̂ = −7𝑖̂ − 𝑗̂ + 3?̂? = (−𝟕, −𝟏, 𝟑) 1.2.1 Norma o modulo di un vettore Il modulo o norma di un vettore è un numero reale che si calcola facendo la radice quadrata della somma dei quadrati delle componenti del vettore: supponiamo il vettore risultato: ?̅? = (𝑅1 + 𝑅2 + 𝑅3) la sua norma varrà: ‖?̅?‖ = √(𝑅1) 2 + (𝑅2) 2 + (𝑅3) 2 chiamata anche norma indotta dal prodotto scalare euclideo. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 2 1.3 Gradiente di una funzione (vettore) Un gradiente è un vettore (di f nel punto X0) che contiene come componenti le derivate parziali della funzione nel punto e si indica con la lettera nabla: 𝐺𝑟𝑎𝑑 𝑓 = ∇̅𝑓 = 𝑖̂ 𝑑𝑓 𝑑𝑥 + 𝑗̂ 𝑑𝑓 𝑑𝑦 + ?̂? 𝑑𝑓 𝑑𝑧 Il vettore, dunque, ha lo stesso numero di dimensioni dello spazio della funzione. Il gradiente ha valore minimo nel punto di minimo della funzione e aumenta dove la funzione cresce. Geometricamente indica la direzione nella quale la funzione tende a salire più rapidamente. Il gradiente di f è sempre perpendicolare (90°) alle linee di livello (sono linee ad altezza costante). Il gradiente è un vettore ricavato da numeri scalari che indicano la variazione dei singoli elementi. 1.3.1 Calcolo del gradiente Determiniamo il gradiente della funzione f(x, y) = 5𝑥 + 2𝑦 nel punto f(x, y) = (0,0) Come prima cosa calcoliamo le derivate parziali: f𝑥(x, y) = { 𝑑𝑓 𝑑𝑥 = 5 𝑑𝑓 𝑑𝑦 = 2 dunque, ∇̅f𝑦(x, y) = 5𝑖,̂ 2𝑗.̂ La norma del vettore sarà: ‖∇̅f𝑦(x, y)‖ = √52 + 22 = √39 = 5,39. 1.4 Divergenza di una funzione (scalare) La divergenza è uno scalare che misura la tendenza di un campo vettoriale a divergere o a convergere (fuoriuscire o entrare) in un punto dello spazio: 𝐷𝑖𝑣 𝐴 = ∇̅ 𝐴 = (𝑖̂ 𝑑𝑓 𝑑𝑥 + 𝑗̂ 𝑑𝑓 𝑑𝑦 + ?̂? 𝑑𝑓 𝑑𝑧 ) (𝐴𝑥 𝑖̂ + 𝐴𝑦 𝑗̂ + 𝐴𝑧 ?̂?) = 𝑑𝐴𝑥 𝑑𝑥 + 𝑑𝐴𝑦 𝑑𝑦 + 𝑑𝐴𝑧 𝑑𝑧 . È la somma delle derivate parziali delle componenti lungo le direzioni degli assi. La divergenza di un campo vettoriale è pari al flusso del campo (campo elettrico e magnetico). Un campo vettoriale nel quale la divergenza del vettore che lo rappresenta è nulla è detto campo solenoidale: ne è un esempio il campo magnetico B, la cui divergenza è nulla per le equazioni di Maxwell, e ciò esprime il fatto che per il campo magnetico non esistono sorgenti. 1.5 Rotore di una funzione (vettore) Operatore vettoriale che insieme alla divergenza decompone il vettore. Un vettore può essere rappresentato con la sua divergenza e rotore. Il rotore è un vettore e misura la tendenza delle linee di campo a circolare attorno ad un punto (direzione e verso con mano destra). ∇ ̅𝑥 𝐴 = 𝑑𝑒𝑡 [ 𝑖̂ 𝑗̂ ?̂? 𝑑𝑥 𝑑𝑦 𝑑𝑧 𝐴𝑥 𝐴𝑦 𝐴𝑧 ] = ( 𝑑𝐴𝑧 𝑑𝑦 − 𝑑𝐴𝑦 𝑑𝑧 ) 𝑖̂ − ( 𝑑𝐴𝑧 𝑑𝑥 − 𝑑𝐴𝑥 𝑑𝑧 ) 𝑗̂ + ( 𝑑𝐴𝑦 𝑑𝑥 − 𝑑𝐴𝑥 𝑑𝑦 ) ?̂? La sua lunghezza è il valore della circuitazione del campo (la sua integrazione lungo un percorso chiuso). 1.6 Laplaciano di una funzione (scalare) Il laplaciano è un operatore differenziale del secondo ordine definito come la divergenza del gradiente di una funzione. È la somma delle derivate parziali seconde rispetto alle coordinata. ∇̅ ∇̅ 𝑓 = 𝑑2𝑓 𝑑𝑥2 + 𝑑2𝑓 𝑑𝑦2 + 𝑑2𝑓 𝑑𝑧2 1.6.1 Calcolo del laplaciano Determiniamo il gradiente della funzione f(x, y) = 5𝑥2 + 2𝑦2 nel punto f(x, y) = (0,0) Come prima cosa calcoliamo le derivate parziali prime: f𝑥(x, y) = { 𝑑𝑓 𝑑𝑥 = 10𝑥 𝑑𝑓 𝑑𝑦 = 4𝑦 e poi le seconde f𝑥(x, y) = { 𝑑2𝑓 𝑑𝑥2 = 10 𝑑2𝑓 𝑑𝑦2 = 4 , abbiamo che ∇̅ ∇̅ 𝑓(x, y) = 10𝑖,̂ 4𝑗.̂ 1.7 L’ascissa curvilinea e la legge oraria L’ascissa curvilinea è una curva espressa nel grafico cartesiano XY dove Y è il valore associato al tempo riferito all’asse X. La legge oraria serve per ricavare la posizione la velocità e l’accelerazione di un corpo tutti in funzione del tempo. Essendo il nostro percorso una traiettoria, abbiamo una relazione puramente spaziale/geometrica. Tipo di moto Legge oraria Moto rettilineo uniforme (velocità uniforme) 𝑆(𝑡) = 𝑆0 + 𝑉(𝑡2 − 𝑡1) Moto rettilineo uniformemente accelerato 𝑆(𝑡) = 𝑆0 + 𝑉(𝑡2 − 𝑡1) + 1 2 𝑎(𝑡2 − 𝑡1)2 Moto circolare uniforme (velocità angolare 𝜔 uniforme) 𝜃(𝑡) = 𝜃0 + 𝜔(𝑡2 − 𝑡1) Moto circolare uniformemente accelerato 𝜃(𝑡) = 𝜃0 + 𝜔(𝑡2 − 𝑡1) + 1 2 ?̇?(𝑡2 − 𝑡1)2 Carretta Marco 1875 HHH INGGES 5 2.3.4 Forza elastica di una molla (forza conservativa) La forza di una molla quando non è in stato di riposo (espansione massima) è 𝐹𝑚𝑜𝑙𝑙𝑎 = −𝐾 𝑑 [𝑁] ed è orientata nel verso opposto a quello dello spostamento. Una molla si dice ideale quando viene considerata priva di massa in modo da obbedire alla legge di Hook. K è la costante elastica ed è il rapporto tra la forza e l’allungamento per cui si misura in N/m (proporzionale alla durezza della molla). La molla al contrario degli elementi plastici, è elastica, ovvero una volta sollecitata torna nella sua posizione di riposo senza deformazione. Energia potenziale elastica La molla nella condizione di riposo ha energia potenziale nulla, una volta tirata, la sua energia potenziale sarà: ∆𝑈 = ∫ (𝐾 𝑥) 𝑑𝑥 𝑥𝑓 𝑥𝑖 = [ 1 2 𝐾𝑥𝑓 2 − 1 2 𝐾𝑥𝑖 2]. Se consideriamo il punto iniziale quello di riposo avremo solo la componente finale ∆𝑈 = 1 2 𝐾𝑥𝑓 2 Energia cinetica elastica La molla nella condizione di riposo e nella condizione di massima espansione ha energia cinetica nulla (non abbiamo moto), essendo la forza di una molla conservativa, possiamo calcolare l’energia cinetica come: ∆𝐾 = −∆𝑈 = 𝐿 = −∫ 𝑘 𝑥 𝑑𝑥 𝑥𝑓 𝑥𝑖 = 1 2 𝑘(𝑋𝑓2 − 𝑋𝑖2) = [− 1 2 𝑘𝑋𝑓2 + 1 2 𝑘𝑋𝑖2]. Lavoro di una forza elastica Il lavoro svolto da una molla ideale (priva di massa) da una posizione di tiraggio ad una di riposo è: 𝐿𝑚 = 𝐹 𝑆 = (𝑘 𝑥) 𝑑𝑥 = [− 1 2 𝑘𝑋𝑓2 + 1 2 𝑘𝑋𝑖2] Il termine iniziale è positivo se la molla si riavvicina alla posizione di riposo da una posizione di tiraggio Partendo dalla seconda legge di Newton abbiamo 𝐹𝑚𝑜𝑙𝑙𝑎 = − 𝑚 𝑎𝑐 sostituendo i valori abbiamo: −𝐾 𝑥 = − 𝑚 𝜔2 𝑥. Ci ricaviamo dunque che 𝐾 = 𝑚𝜔2 (relazione del moto armonico). Da questa formula ci ricaviamo la pulsazione come: 𝜔 = √ 𝐾 𝑚 , e il periodo come: 𝑇 = 2𝜋 𝜔 = 2𝜋 √ 𝑚 𝑘 . 2.4 O: Centro di massa / Momento di inerzia / Momento Torcente / Puro rotolamento 2.4.1 Il centro di massa È il punto dove l’oggetto si muove come se tutta la massa forse concentrata su quel punto. Se abbiamo una rotazione del centro di massa (moto di un cilindro) per la seconda legge di Newton avremo allora: ?̅?𝑛𝑒𝑡 = 𝑚 𝑎𝑐𝑑𝑚 = [𝐾𝑔 𝑚 𝑠2 ]. Le coordinate del centro di massa di un corpo solido multidimensionale sono calcolate con: 𝑋𝑐𝑑𝑚 = 1 𝑚 ∫𝑥 𝑑𝑚 e questo per ogni asse per ottenere il punto nello spazio. 2.4.2 Il momento di inezia Il momento di inerzia 𝐼 = ∑(𝑀𝑠 𝑟2) non dipende soltanto dalla massa del solido (𝑀𝑠) ma anche dal modo in cui questa è distribuita rispetto all’asse di rotazione. Il suo calcolo prevede l’integrale delle singole particelle di un corpo: 𝐼 = ∫ 𝑟 𝑀𝑠2 𝑀𝑠1 𝑑𝑀 ma senza calcolare l’integrale possiamo utilizzare per figure geometriche simmetriche specifiche tabelle: Cilindro Sfera Sfera cava Asta / Barretta 𝐼 = 1 2 𝑀𝑠 𝑟2 𝐼 = 2 5 𝑀𝑠 𝑟2 𝐼 = 2 3 𝑀𝑠 𝑟2 𝐼 = 1 12 𝑀𝑠 𝑑2 2.4.3 Teorema degli assi paralleli o di Huygens-Steiner Serve per trovare il momento di inerzia di un corpo di massa m (che ha un suo momento di inerzia calcolato rispetto al suo asse centrale) rispetto ad un altro asse dove avviene il moto (si usa per esempio nel caso del punto di puro rotolamento). Se conosciamo il momento d’inerzia del corpo e la distanza tra i due assi possiamo utilizzare il teorema di Huygens-Steiner: 𝐼 = 𝐼𝑐𝑑𝑚 + [𝑀𝑠 𝑟2] dove 𝑟 indica la distanza tra i due assi. 2.4.1 Moto di rotolamento puro in un sistema lineare e rotazionale (misto) Avviene quando il punto P di contatto tra un sistema lineare e rotativo è istantaneamente fermo, ovvero quando non abbiamo uno slittamento. In questo caso abbiamo che la velocità tangenziale sarà 𝑉 = 𝜔 𝑟 = [ 𝑚 𝑠 ] mentre l’accelerazione sarà: 𝑎 = ?̇? 𝑟 = [ 𝑚2 𝑠 ]. Nel moto misto dovremo calcolare l’energia cinetica e dunque quella meccanica sommando la componente cinetica traslazionale con quella rotazionale: 𝐾 = 1 2 𝑚 𝑉𝑐𝑑𝑚 2 + 1 2 𝐼𝑐𝑑𝑚 𝜔2 = [𝐽]. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 6 2.4.2 Momento di una forza o momento torcente (prodotto vettoriale) L’azione di una forza non tangente al raggio (quindi con braccio non nullo) provoca una rotazione del corpo. Preso un punto 0 e una forza applicata, si definisce momento di una forza il prodotto ?̅? = ?̅? 𝑥 ?̅? = 𝑏 𝐹 𝑠𝑖𝑛(𝜃) [𝑁𝑚] = [𝐽] dove F è la forza e b è il braccio o distanza tra la forza e il centro. L’angolo θ è lo sfasamento tra i due. Per analizzare il momento bisogna scomporre la forza nelle componenti: Forza radiale È parallela al raggio e non provoca rotazione (continuerebbe il raggio e dunque non ha un braccio) Forza tangente È perpendicolare al raggio (braccio) e genera il momento torcente. La somma di tutti i momenti torcenti in un sistema è chiamata ?̅?𝑛𝑒𝑡. Per capire l’angolo e vedere il verso di rotazione bisogna prolungare le rette dei vettori. L’angolo si trova tra il vettore F e il prolungamento del raggio (angolo più corto). Quando si calcola il momento complessivo applicato ad un corpo, il segno dipende dalla direzione di rotazione della forza (dita mano destra). Il verso del momento (pollice mano destra) è perpendicolare ai due vettori e creerà un momento positivo se uscente e negativo se entrante. 2.5 O: Quantità di moto / Momento angolare / Equilibrio del sistema / Eq cardinali Quantità di moto Una particella di massa m in un sistema ha in ogni istante una determinata quantità di moto. La quantità di moto è un vettore definito come ?̅? = 𝑚 ?̅? = [𝐾𝑔 𝑚 𝑠 ] che seguirà la direzione e verso della velocità. Prima equazione cardinale La prima equazione cardinale mette in relazione (analogamente alla seconda equazione di newton) la forza e la sua quantità di moto: ?̅?𝑛𝑒𝑡 = 𝑑?̅? 𝑑𝑡 = 𝑚 𝑑𝑉 𝑑𝑡 = 𝑚 ?̅? = [𝐾𝑔 𝑚 𝑠2 ]. Questo ci fa capire che in un sistema isolato dove la somma delle forze esterne sono nulle, la quantità di moto rimane costante (invariata) e dunque si conserva. Abbiamo dunque 𝑃𝑓 = 𝑃𝑖 e questo va verificato in ogni direzione (XY). Momento angolare Una particella di massa m con una determinata quantità di moto ?̅?, avrà analogamente un momento angolare rispetto alla sua origine. Questo vettore viene calcolato come: ?̅? = ?̅? 𝑥 ?̅? = 𝑃 𝑟 𝑠𝑖𝑛(𝜃) [𝐽 𝑠]. Questo avviene perché spostandosi con una direzione non tangenziale al raggio, la particella ruota attorno al suo centro. L’orientamento viene calcolato con la mano destra, e sarà perpendicolare al raggio e alla quantità di moto (prodotto vettoriale). Il momento angolare di una forza in un moto circolare è calcolato come ?̅? = 𝐼 𝜔 ovvero come il prodotto tra l’inerzia e l’accelerazione angolare. Seconda equazione cardinale La seconda equazione cardinale mette in relazione il momento di una forza (momento torcente) e il suo momento angolare: ?̅?𝑛𝑒𝑡 = 𝑑𝐿 𝑑𝑡 = 𝐼 𝜔 𝑑𝑡 = 𝐼 ?̇? = [𝐾𝑔 𝑚 𝑠2 ] ovvero la somma vettoriale di tutti i momenti delle forze è uguale alla derivata rispetto al tempo del momento angolare di tutti i corpi del sistema. Se in un sistema isolato dove la somma delle forze esterne sono nulle, il momento angolare rimane costante (invariato) e dunque si conserva. Abbiamo dunque 𝐿𝑓 = 𝐿𝑖. Nel nostro sistema, per ottenere lo stato di equilibrio e stabilità strutturale dovremo avere quantità di moto e momento angolare delle forze nette nullo. Se l’oggetto non si muove è in equilibrio statico. Conoscendo le forze del sistema e i momento delle forze possiamo scrivere l’equilibrio come un sistema: 2.6 O: Urti ed impulsi e la relazione con la quantità di moto La quantità di moto non può variare se non interviene una forza esterna, esempi tipici sono gli urti e le collisioni. Integrando la quantità di moto troviamo l’impulso definito con 𝐽 = ∆𝑝 = 𝑃𝑓 − 𝑃𝑖 = ?̅? ∆𝑡 = [𝐾𝑔 𝑚 𝑠 ]. L’impulso è la velocità con cui la quantità di moto cambia. Siccome nel sistema isolato la quantità di moto non varia (risultante nulla), questo ci facilita per stabilire il risultato di un urto senza conoscere i dettagli. Urto elastico Nell’urto l’energia cinetica dei due corpi e quindi del sistema non varia (si conserva). Avremo dunque che ∆𝐾𝐼𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 = ∆𝐾𝐹𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 dunque: 𝑃1𝑖 + 𝑃2𝑖 = 𝑃1𝑓 + 𝑃2𝑓 ovvero: (𝑚1 𝑉1)𝑖 + (𝑚2 𝑉2)𝑖 = (𝑚1 𝑉1)𝑓 + (𝑚2 𝑉2)𝑓 . La reazione dipende dalla massa dei due corpi. Urto anelastico Nell’urto i due corpi si attaccano assieme e hanno una velocità uguale. 𝑉1𝑓 = 𝑉2𝑓 Carretta Marco 1875 HHH INGGES 7 2.7 Moto rettilineo Spostamento ∆𝑆𝑥 = 𝑋2 − 𝑋1 = [𝑚] indica lo spostamento lineare che un corpo percorre Velocità media e istantanea ?̅? = ∆𝑆𝑥 ∆𝑡 = 𝑋2−𝑋1 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝑆 𝑑𝑡 = [ 𝑚 𝑠 ] riducendo il ∆t in infinitesimo otteniamo la velocità istantanea. La velocità è la variazione dello spostamento nel tempo, in un piano XYZ generico possiamo definirla come: ?̅? = ∆𝑠 ∆𝑡 = ∆𝑥𝑖+∆𝑦𝑗+∆𝑧𝑘 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝑥 𝑑𝑡 𝑖̂ + 𝑑𝑦 𝑑𝑡 𝑗̂ + 𝑑𝑧 𝑑𝑡 ?̂? = [ 𝑚 𝑠 ]. La direzione della velocità è parallela allo spostamento. Accelerazione media e istantanea ?̅? = ∆𝑉 ∆𝑡 = 𝑉2−𝑉1 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝑉 𝑑𝑡 = [ 𝑚 𝑠 ] riducendo il ∆t in infinitesimo otteniamo l’accelerazione istantanea. L’accelerazione è la variazione della velocità nel tempo, in un piano XYZ possiamo definirla come: ?̅? = ∆𝑉 ∆𝑡 = ∆𝑉𝑥𝑖+∆𝑉𝑦𝑗+∆𝑉𝑧𝑘 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝑉𝑥 𝑑𝑡 𝑖̂ + 𝑑𝑉𝑦 𝑑𝑡 𝑗̂ + 𝑑𝑉𝑧 𝑑𝑡 ?̂? = [ 𝑚 𝑠 ] Energia cinetica lineare L’energia cinetica è calcolabile nel moto traslazionale come: 𝐾 = 1 2 𝑚 𝑉2 = [𝐽] 2.8 Moto circolare Nel moto circolare uniforme abbiamo una velocità di modulo costante (uniforme) ma con direzione che è tangente alla circonferenza dunque sempre differente. La particella si muove su un arco con velocità tangenziale ed accelerazione costante nel caso di moto circolare uniformemente accelerato. Nel moto l’accelerazione ha due componenti: Tangenziale (tachimetro) Misura la variazione del modulo della velocità ed è tangenziale alla velocità 𝑎𝑡 = 𝑟 ?̇? = [ 𝑚 𝑠2 ]. Se la velocità è costante la componente è nulla. Dunque, se la velocità aumenta il verso della componente segue il verso della velocità, altrimenti avrà verso contrario. Normale o centripeta (volante) Misura la variazione di direzione della velocità 𝑎𝑐 = 𝑟 𝜔2 = 𝑉2 𝑟 [ 𝑚 𝑠2 ]. Se la velocità in un moto rettilineo non cambia verso la componente è nulla. Se invece cambia costantemente verso abbiamo un vettore con direzione che punta al centro della curva. Questa componente la si può vedere quando sterziamo con la macchina, la forza di attrito degli pneumatici provoca un’accelerazione che va verso il centro ed è per questo che noi subiamo la spinta contro le pareti. Utilizzata per calcolare reazioni vincolari. La componente accelerazione finale sarà la somma vettoriale delle due accelerazioni, ricordando il triangolo di pitagora, e sapendo che le due forze che sono perpendicolari tra loro, abbiamo: 𝑎 = √𝑎𝑡2 + 𝑎𝑐2 = [ 𝑚 𝑠2 ] (in figura). 1: Acceleriamo, abbiamo dunque componente tangenziale, velocità aumenta. 2: Moto uniformemente accelerato, la velocità e l’accelerazione è costante 3: Deceleriamo, velocità diminuisce. Spostamento angolare ∆𝜃 = 𝜃2 − 𝜃1[𝑟𝑎𝑑] ragioniamo in radianti, lo spostamento è considerato la variazione dell’angolo. Abbiamo che 2π sono 360°. Velocità angolare media e istantanea 𝜔 = ∆𝜃 ∆𝑡 = 𝜃2−𝜃1 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝜃 𝑑𝑡 [ 𝑟𝑎𝑑 𝑠 ] riducendo il ∆t in infinitesimo otteniamo la velocità angolare istantanea. La velocità è la variazione dello spostamento angolare nel tempo. La velocità angolare ha sempre una direzione parallela allo spostamento angolare. Accelerazione angolare media e istantanea ?̇? = ∆𝜔 ∆𝑡 = 𝜔2−𝜔1 𝑡1−𝑡2 = 𝑑𝜔 𝑑𝑡 [ 𝑟𝑎𝑑 𝑠2 ] riducendo il ∆t in infinitesimo otteniamo l’accelerazione angolare istantanea. L’accelerazione è in generale la variazione della velocità angolare nel tempo. Periodo Il periodo è il tempo in cui la particella compie tutto il giro della circonferenza (periodo di rivoluzione). 𝑇 = 2𝜋 𝜔 [𝑠] Energia cinetica rotazionale Causa continuo cambiamento della direzione della velocità, dobbiamo utilizzare la velocità angolare: 𝐾 = 1 2 𝑚 𝑉2 = 1 2 𝑚 (𝑟 𝜔)2 = 1 2 (𝑚 𝑟2) 𝜔2 = [𝐽] dove ovviamente 𝐼 = 𝑚 𝑟2 è il momento di inerzia rotazionale dunque: 𝐾 = 1 2 𝐼 𝜔2 = [𝐽]. 2.8.1 Trasformazione delle variabili angolari in lineari Posizione Velocità Accelerazione Periodo di rivoluzione 𝑆 = 𝑟 𝜃 = [𝑚] 𝑉 = 𝑟 𝜔 = [ 𝑚 𝑠 ] 𝑎𝑡 = 𝑟 ?̇? = [ 𝑚 𝑠2 ] 𝑎𝑐 = 𝑉2 𝑟 = 𝑟 𝜔2 [ 𝑚 𝑠2 ] 𝑇 = 2𝜋 𝑟 𝑉 = 2𝜋 𝜔 [𝑠] Carretta Marco 1875 HHH INGGES 10 3 Astronomia 3.1 O: Forza gravitazionale e legge di gravitazione universale di newton È una forza di attrazione e dunque al contrario della forza di Coulomb per cariche uguali, non è mai di repulsione. Ogni corpo dell’universo attrae a sé altri corpi e dunque tutti i corpi dell’universo hanno una specifica dipendenza. Newton creò la legge studiando la caduta di una mela a terra dovuta all’attrazione terreste: nella forma vettoriale abbiamo ?̅?12 = − 𝐺 𝑚1 𝑚2 𝑟2 ?̅?12 dove G è la costante di gravitazione differente per ogni pianeta e il segno meno esplicita che questa forza è di tipo attrattivo. Il vettore forza segue sempre la direzione del raggio. Questa forza non è schermabile. La forza di gravità viene applicata al centro di ogni oggetto ed è conservativa ovvero il lavoro compiuto non dipende dal percorso ma solo dalle posizioni iniziali e finali. 𝐹 = − 𝐺 𝑚1 𝑚2 𝑟2 3.1.1 O: Gravità terrestre in superficie La terra è una sfera piena imperfetta e non totalmente omogenea, con una massa M, l’intensità della forza di attrazione se lasciamo cadere una particella verso il centro della terra sarà: ?̅? = 𝑚 𝑎 = −𝐺 𝑀 𝑚 𝑟2 ed essa avrà a seconda delle altitudini (montagna o pianura o poli) un’accelerazione 𝑎𝑔̅̅̅̅ = 𝐺 𝑀 𝑟2 ≅ 9,8 [ 𝑚 𝑠2 ]. Essa, dunque, diminuisce all’aumentare del raggio e appunto essendo la terra non perfettamente omogenea abbiamo una sua variazione. Nel moto della particella verso il centro della terra, l’accelerazione diminuirà continuamente fino al punto ideale del centro dove si annullerà. 3.1.2 O: Einstein e la gravitazione Newton associa la gravitazione ad una forza (gravitazionale), nella teoria di Einstein invece, la gravitazione è dovuta a una curvatura dello spazio introdotta dalle masse (curvatura spazio/tempo). Lasciando cadere la mela, essa convoglierà al centro della terra e questo è dovuto alla curvatura. Più un corpo è pesante più si curva lo spazio e la sua gravitazione aumenta. Questo fenomeno è chiamato lente gravitazionale. 3.2 O: Energia potenziale Gravitazionale L’energia potenziale di una particella decresce con l’avvicinarsi alla terra, questo perché la forza sarà minore e dunque avremo minore energia. L’energia potenziale viene calcolata come 𝑈 = −[𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟2 ] 𝑟 = − [𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟 ] (analogia con il potenziale elettrico 𝑈) in un pianeta essa dipende solamente dalla massa dell’oggetto 𝑚2 e dalla distanza dal centro. La forza gravitazionale è una forza conservativa, significa dunque che non dipende dal percorso svolto ma solo dal suo valore iniziale e finale (gita in montagna). Il segno meno dell’energia potenziale viene messo perché noi consideriamo il lavoro della forza gravitazionale positivo. Avendo forze conservative l’energia si conserva anch’essa: 𝐿 = − 𝑈 = [𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟 ] 3.3 O: Velocità di fuga La velocità di fuga è il valore minimo di velocità che necessitiamo per vincere (sottrarsi) alla forza di gravità (terrestre e non) e riuscire a compiere un movimento verticale (lancio di uno shuttle). Considerando un corpo con massa 𝑚2 l’energia cinetica sarà 𝐾 = 1 2 𝑚2𝑉 2 e quella potenziale sarà 𝑈 = −[𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟 ]. Considerando l’energia potenziale iniziale nulla (partiamo da altezza nulla) e l’energia cinetica finale nulla (consideriamo che il corpo si ferma all’infinito) abbiamo dunque: 𝐸𝑚 = 𝐾 + 𝑈 = 0 dunque: 1 2 𝑚2 𝑉 2 − [𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟 ] = 0. Se a noi interessa la velocità iniziale avremo: 𝑉 = √ [𝐺 𝑀 𝑚2 𝑟 ] 1 2 𝑚2 = √ 2𝐺𝑀 𝑟 . Carretta Marco 1875 HHH INGGES 11 3.4 O: Legge di Keplero Keplero scoprì i moti dei pianeti senza telescopio, successivamente newton dimostrò che le sue formule erano corrette. Prima legge: Orbite Tutti i pianeti si muovono su orbite ellittiche, di cui il sole occupa uno dei due fuochi Seconda legge: Aree Il segmento che collega un pianeta al sole descrive aree uguali in tempi uguali, significa che il pianeta si muove più lentamente quando è lontano dal sole e più rapidamente quando ne è vicino. Terza legge: Periodi I quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono direttamente proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle loro orbite: 𝑇2 = 𝐶 𝑅3. Dove 𝐶 è una costante uguale per tutti i pianeti ed 𝑅 è l’asse maggiore diviso due. 3.5 O: Le orbite circolari e i satelliti Cerchiamo il periodo di rivoluzione di un corpo di massa 𝑚2 puntiforme attorno ad un centro di massa 𝑀. Partendo dalla seconda legge di Newton: 𝐹𝑡𝑜𝑡̅̅ ̅̅ ̅̅ = 𝑚 ?̅?𝑐 sostituendo abbiamo: 𝐹𝑡𝑜𝑡̅̅ ̅̅ ̅̅ = − [ 𝐺 𝑀 𝑟2 ] 𝑚2 mentre per il secondo termine abbiamo: (𝑚 ?̅?𝑐) = −𝑚2 (𝜔 2 𝑟) questo perché l’accelerazione normale è 𝑎𝑛 = 𝜔2 𝑟. ricordandoci che 𝜔 = 2𝜋 𝑇 sostituendolo otteniamo: 𝑚 ?̅?𝑐 = −𝑚2 ( 4𝜋2 𝑇2 ) 𝑟 riscriviamo dunque la formula: −[ 𝐺 𝑀 𝑟2 ]𝑚2 = −𝑚2 ( 4𝜋2 𝑇2 ) 𝑟 semplificando otteniamo: 𝑇2 = 4𝜋2 𝐺 𝑀 𝑟3 ed essendo 4𝜋2 𝐺 𝑀 una costante planetaria (costante di proporzionalità), otteniamo nuovamente la legge di Keplero 𝑇2 = 𝐶 𝑟3 Un esempio di orbita circolare sono i satelliti geostazionari. Se il tempo di rivoluzione della terra è 24 ore, con la formula precedente posso calcolare l’altezza dove posizionarli (𝑟). Mantenendoli a quella altezza essi orbiteranno a velocità costante, formando un orbita circolare sopra la zona di interesse. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 12 4 Fluidostatica e Fluidodinamica 4.1 D1A OS: Discutere la legge di Pascal in Idrostatica e Idrodinamica Il principio di Pascal in idrostatica descrive il comportamento dei fluidi e stabilisce che: “La pressione esercitata su un fluido viene trasmessa con la stessa intensità in ogni punto del fluido e sulla superficie del suo contenitore, perciò la pressione si propaga in tutte le direzioni con la medesima intensità”. Non c’è una particolare formula per il principio di Pascal, esso descrive una proprietà intrinseca dei fluidi: 4.1.1 OS: dimostrazione della legge di Pascal in idrostatica Ipotizziamo un corpo immerso in un fluido in equilibrio statico, abbiamo che le forze che agiscono su di esso sono ortogonali, poiché una componente parallela della forza alla superficie generebbe una condizione di moto. Calcoliamo le forze che agiscono su di esso: |𝐹𝑏|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗⃗⃗ = |𝐹𝑐|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗ ⃗ 𝑠𝑖𝑛𝜃 con forza 𝐹 = 𝑃 𝑆 ricaviamo: |𝐹𝑐|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗ ⃗ = 𝑃𝑐 𝑆 = 𝑃𝑐 (𝑐 𝐿) e |𝐹𝑏|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗⃗⃗ = 𝑃𝑏 𝑆 = 𝑃𝑏 (𝑏 𝐿). (L indica la profondità) Ritornando alla formula |𝐹𝑏|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗⃗⃗ = |𝐹𝑐|⃗⃗ ⃗⃗ ⃗⃗ ⃗ 𝑠𝑖𝑛𝜃 abbiamo: 𝑃𝑏 𝑏 𝐿 = 𝑃𝑐 𝑐 𝐿 𝑠𝑖𝑛𝜃 Ma siccome 𝑠𝑖𝑛𝜃 = 𝑏 𝑐 abbiamo 𝑃𝑏 𝑏 𝐿 = 𝑃𝑐 𝑐 𝐿 𝑏 𝑐 semplificando troviamo Pb=Pc Possiamo ottenere il medesimo risultato su ogni punto, abbiamo dunque 𝑃𝑎 = 𝑃𝑏 = 𝑃𝑐 dunque, la pressione è costante indipendentemente dalle dimensioni dell’elementino. 4.1.2 OS: Discutere il teorema di pascal in fluidodinamica/idrodinamica Il principio di pascal stabilisce che la pressione esercitata su un fluido viene trasmessa inalterata in ogni punto del fluido e sulla superficie del suo contenitore. In fluidodinamica studiamo il comportamento di un fluido ideale sottoposto ad una variazione di pressione. Le caratteristiche di un liquido ideale sono: Avere densità omogenea Essere incomprimibili Assenza di attriti interni tra gli elementini Consideriamo un liquido incomprimibile contenuto in un cilindro chiuso superiormente da un pistone. Applichiamo una forza esterna al pistone in modo da esercitare una pressione Pext sul liquido. Dalla formula 𝐹 = 𝑃 𝑆 dobbiamo calcolare la forza esterna e quella del peso del liquido: Forza esterna 𝐹𝑒𝑥𝑡 = 𝑃𝑒𝑥𝑡 𝑆 Forza peso del liquido: 𝐹𝑙𝑖𝑞 = 𝜌ℎ𝑔 𝑆 ricavata dalla legge di Stevino La Forza totale sarà in questo caso la somma delle due forze dunque: [𝑃𝑡𝑜𝑡 𝑆] = [𝑃𝑒𝑥𝑡 𝑆] + [𝜌𝑔ℎ 𝑆] semplificando otteniamo: 𝑃𝑡𝑜𝑡 = 𝑃𝑒𝑥𝑡 + (𝜌ℎ𝑔) ovvero la legge di Stevino. Supponiamo ora di aumentare la pressione esterna di Pext, la differenza di pressione totale sarà: ∆𝑃𝑡𝑜𝑡 = ∆𝑃𝑒𝑥𝑡 + ∆(𝜌ℎ𝑔) Ma essendo il termine ∆(𝜌ℎ𝑔) una costante, la variazione è nulla dunque: ∆𝑃𝑡𝑜𝑡 = ∆𝑃𝑒𝑥𝑡. Abbiamo così dimostrato che se in un qualsiasi punto di un liquido aumenta la pressione esterna, lo stesso aumento lo si potrà rilevare ovunque nel fluido, ciò conferma il principio di Pascal. 4.1.3 OS: Discutere il principio di Pascal e la sua applicazione ai martinetti idraulici Il principio di Pascal afferma che una variazione di pressione esercitata su un fluido viene trasmessa inalterata a ogni punto del fluido e sulle pareti del suo contenitore. Un’importante applicazione di tale principio è quella relativa al Torchio idraulico (per gli amici martinetto idraulico) per sollevare carichi notevoli a piccole altezze. Il torchio idraulico presenta due pistoni mobili come in figura, il sistema viene riempito con un fluido incomprimibile (olio). Se si esercita una forza F1 verso il basso si genera sul secondo pistone una forza F2 maggiore verso l’alto che permette di sollevare il carico. Dalla formula della pressione sappiamo che 𝑃𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝐹 𝑆 = 𝐹𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑆𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 Per il principio di Pascal sappiamo che la pressione 𝑃1 = 𝑃2 pertanto: 𝐹1 𝑆1 = 𝐹2 𝑆2 ma dato che 𝑆1 < 𝑆2 necessariamente avremo che 𝐹2 > 𝐹1. Il principio di Pascal applicato al martinetto idraulico stabilisce che è sufficiente una piccola forza sul pistone 1 per generare una forza maggiore F2 che dipende dal rapporto tra le due superfici dei pistoni mobili. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 15 4.5 D1A OS: Descrivere il funzionamento del tubo di venturi: formule, grafici e leggi Il tubo di venturi è costruito come in figura: abbiamo una conduttura posta nello stesso piano con un liquido ideale di densità 𝜌 che fluttua in due diverse sezioni S1 e S2 in cui sono installati due pressostati p1 e p2 L’effetto venturi in fluidodinamica è una conseguenza del principio di Bernoulli. Il tubo di venturi detto anche paradosso perché erroneamente si potrebbe pensare che nella strozzatura la pressione aumenti (aumenta invece la velocità): 1) Dalla legge di Leonardo ovvero l’equazione di continuità, sappiamo che la portata attraverso un tubo di sezione variabile resta costante. Avremo dunque che dalla portata 𝑄 = 𝑉𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡𝑎′ ∗ 𝑆𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑉 𝑆 dunque 𝑉1 𝑆1 = 𝑉2 𝑆2 possiamo ricavarci la velocità nella strozzatura: 𝑉2 = 𝑉1 𝑆1 𝑆2 , vediamo subito che se S2 è minore di S1 abbiamo una velocità maggiore in uscita. Ma la pressione come cambierà? Per scoprilo prendiamo la legge di Bernoulli. 2) Applichiamo Bernoulli: Essendo S1 e S2 alla medesima quota, non ci sono differenze di energia potenziale U e possiamo scrivere l’equazione di Bernoulli senza la componente costante 𝜌ℎ𝑔. Avremo dunque: 𝑝1 + 1 2 𝑉1 2𝜌 = 𝑝2 + 1 2 𝑉2 2𝜌. Per rimanere constante, vediamo subito che a parità di variabili in ingresso (P1 e V1), se la V2 aumenta perché la sessione S2 si restringe, la pressione P2 diminuirà per mantenere costante l’equazione. Il tubo di Venturi sfrutta l’effetto Venturi per misurare la portata di un condotto (stringendolo si ricava la portata). Sia: { 𝑄 = 𝑉1 𝑆1 = 𝑉2 𝑆2 𝑃1 − 𝑃2 = 1 2 𝑉2 2𝜌 − 1 2 𝑉1 2𝜌 Abbiamo che: { 𝑉1 = 𝑉2 𝑆2 𝑆1 𝑃1 − 𝑃2 = 1 2 𝑉2 2𝜌 − 1 2 ( 𝑉2 𝑆2 𝑆1 ) 2 𝜌 dunque: 𝑉2 = √ 2(𝑝1−𝑝2) 𝜌( 𝑆12 𝑆22 − 1) Ovvero conoscendo le pressione nei punti del tubo (tramite gli strumenti) possiamo ricavare la velocità di uscita. 4.6 Extra: La bilancia idrostatica: calcolo della densità di un corpo Il calcolo del volume di un corpo a forma irregolare può essere complesso e la densità, in questo modo, non è di facile rilevamento: 𝜌 = 𝑀𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑉𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 = 𝐾𝑔 𝑚3. In questo caso possiamo utilizzare la bilancia idrostatica, calcolandoci l’equilibrio delle forze totali che agiscono sul corpo immerso in un liquido di riferimento. Sapendo la densità del fluido e le masse dei due corpi, posso calcolare la densità del corpo senza utilizzare il suo volume: La forza 𝐹𝑎⃗⃗⃗⃗ ⃗ è la forza di Archimede mentre 𝑇 è la tensione del filo. Se calcoliamo la somma delle forze abbiamo 𝑚𝑔 − 𝑇 = 𝑚𝑐 ∗ 𝑔 − 𝑇 − 𝐹𝑎⃗⃗⃗⃗ ⃗ dove 𝐹𝑎⃗⃗⃗⃗ ⃗ = 𝑚𝐴𝑐𝑞𝑢𝑎 ∗ 𝑔 dunque 𝑚 = 𝑚𝑐 – 𝑚𝐴𝑐𝑞𝑢𝑎 dunque 𝑚𝐴𝑐𝑞𝑢𝑎 = 𝑚𝑐 − 𝑚. conoscendo la massa e la densità del corpo da bilanciare possiamo calcolare la densità del corpo immerso: 𝜌𝑐 = 𝜌𝐴𝑐𝑞𝑢𝑎 ∗ 𝑚𝑐 𝑚𝑐−𝑚 . 4.7 Extra: Il serbatoio di Torricelli Abbiamo una cisterna con foro, vogliamo calcolare la velocità V2 con cui fuoriesce il liquido, valutiamo il foro praticato nel serbatoio (P2*V2) e il punto libero in alto del serbatoio (P1*V1): 𝑃1 + 1 2 𝜌𝑉12 + 𝜌𝑔𝑦 = 𝑃2 + 1 2 𝜌𝑉22 + 𝜌𝑔ℎ. Essendo P1=P2=P0 pressione atmosferica e la velocità 𝑉1 = 𝑉2∗𝑆2 𝑆1 riscrivendo abbiamo: 1 2 ( 𝑉2∗𝑆2 𝑆1 ) 2 + 𝑔𝑦 = 1 2 (𝑉2)2 + 𝑔ℎ . ora se la sessione S2 è molto più piccola della sessione S1 si potrà semplificare ulteriormente: 𝑔𝑦 = 1 2 𝑉22 + 𝑔ℎ dunque, 𝑉2 = √2𝑔(𝑦 − ℎ) dove y-h è la quota. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 16 5 Termodinamica 5.1 O: Trasformazione adiabatica In una trasformazione adiabatica non abbiamo scambio di calore. Seguendo la prima legge della termodinamica: 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 --> 𝑑𝑈 = −𝛿𝑊 . Questo significa che non scambiando calore, l’energia interna del nostro sistema dipende solamente dal lavoro svolto dal nostro sistema (a sua volta dipende dal volume e pressione). Svolgendo un lavoro positivo (espansione) andremo a ridurre l’energia interna, se invece svolgiamo un lavoro negativo (compressione) la nostra energia interna aumenterà. Nelle trasformazioni adiabatiche abbiamo che 𝑝(𝑉)𝛾 = 𝑝(𝑉) 𝐶𝑝 𝐶𝑣 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 dove 𝛾 è sempre maggiore di 1, ragione per cui la pendenza delle curve adiabatiche è maggiore di quelle delle isotermiche. Nella relazione è possibile ricavare il valore della pressione 𝑝 grazie alla legge dei gas perfetti: 𝑝𝑉 = 𝑛 𝑅 𝑇 dunque 𝑝 = 𝑛 𝑅 𝑇 𝑉 . Energia interna L’energia interna che è funzione di stato viene calcolata con: ∆𝑈 = 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 Il lavoro Il lavoro viene calcolato come: ∆𝑊 = − ∆𝑈 = − 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 = − 𝑛 𝐶𝑣 (𝑇𝑓 − 𝑇𝑖) L’entropia ∆𝑆 = 𝑆𝑓 − 𝑆𝑖 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 = 0 non avendo variazione del calore variazione dell’entropia sarà nulla. 5.2 O: Trasformazione isocora In una trasformazione isocora non abbiamo variazione di volume. Seguendo la prima legge della termodinamica abbiamo: 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 --> 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄. Questo significa che non variando il volume non svolgiamo alcun tipo di lavoro. L’energia interna equivale dunque al calore scambiato con il sistema. Nelle trasformazioni isocore abbiamo per la legge dei gas perfetti che 𝑉 = 𝑛 𝑅 𝑇 𝑝 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 Ovvero che 𝑇 𝑝 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 e dal grafico notiamo infatti che ad una diminuzione della pressione abbiamo una diminuzione della temperatura. Energia interna L’energia interna (funzione di stato) viene calcolata con: ∆𝑈 = 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 Il lavoro Il lavoro in una trasformazione isocora è nullo L’entropia ∆𝑆 𝑐𝑜𝑛 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑛 𝐶𝑣 𝑑𝑇) 𝑇 = 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ∫ ( 𝑛 𝐶𝑣 𝑇 ) 𝑑𝑇 = 𝑇𝑓 𝑇𝑖 𝑛 𝐶𝑣 𝑙𝑛 ( 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ) l’entropia possiamo ricavarla con la formula dell’energia interna che dipendente dalla temperatura: ∆𝑈 = 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇. 5.3 O: Trasformazione Isoterma In una trasformazione isoterma non abbiamo variazione di temperatura. Durante le fasi di espansione e compressione il sistema è mantenuto a temperatura costante grazie ad una fonte di calore speciale chiamata serbatoio ideale. Seguendo la prima legge della termodinamica abbiamo: 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 --> 𝛿𝑄 = 𝛿𝑊 ovvero, essendo l’energia interna di un gas totalmente dipendente dalla sua temperatura, non potendo variarla non abbiamo variazione di energia interna. Il calore scambiato dunque equivale al lavoro prodotto. Nelle trasformazioni isoterme abbiamo per la legge dei gas perfetti che 𝑃𝑉 𝑛𝑅 = 𝑇 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 ovvero che 𝑃𝑉 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒. Graficamente possiamo osservare che se il volume aumenta la pressione dovrà diminuire (il rapporto deve rimanere costante). Energia interna L’energia interna (funzione di stato) viene calcolata con: ∆𝑈 = 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 ed è nulla! Il lavoro ∆𝑊 = ∫ 𝑝 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = ∫ ( 𝑛 𝑅 𝑇 𝑉 ) 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑇 ∫ 1 𝑉 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑇 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) Il lavoro in una trasformazione isoterma è calcolato come l’integrale tra la pressione e il volume generato dal movimento L’entropia ∆𝑆 𝑐𝑜𝑛 𝛿𝑊 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑝 𝑑𝑉) 𝑇 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = ∫ ( 𝑝 𝑇 )𝑑𝑉 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = ∫ ( 𝑛 𝑅 𝑉 )𝑑𝑉 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) l’entropia possiamo ricavarla con la formula del lavoro e ricavandoci la pressione. 5.4 O: Trasformazione isobara In una trasformazione isobara non abbiamo variazione della pressione. Seguendo la prima legge della termodinamica abbiamo: 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 l’energia interna, dunque, dipende dal calore scambiato e dal lavoro svolto. Nelle trasformazioni isobare abbiamo per la legge dei gas perfetti che 𝑃 = 𝑛𝑅𝑇 𝑉 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 dunque 𝑇 𝑉 = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒. Graficamente possiamo riscontrare che se il volume aumenta anche la temperatura deve diminuire. Energia interna L’energia interna (funzione di stato) viene calcolata con: ∆𝑈 = 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 Il lavoro ∆𝑊 = ∫ 𝑝 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑝∫ 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑝 (𝑉𝑓 − 𝑉𝑖) essendo la pressione costante, nell’integrale resta il volume L’entropia ∆𝑆 = 𝑐𝑜𝑛 𝑑𝑈 𝑒 𝛿𝑊 = ∫ 𝛿𝑈+𝛿𝑊 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑝 𝑑𝑉) 𝑇 𝑉𝑓 𝑉𝑖 + ∫ (𝑛 𝐶𝑣 𝑑𝑇) 𝑇 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) + 𝑛 𝐶𝑣 𝑙𝑛 ( 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ) Carretta Marco 1875 HHH INGGES 17 5.5 D1B S: Discutere la teoria cinetica dei gas perfetti La teoria cinetica dei gas stabilisce la relazione tra comportamento delle variabili macroscopiche (pressione e temperatura) e microscopiche (numero di molecole e velocità delle molecole) dei gas. In dettaglio si vuole spiegare la relazione tra la temperatura e la velocità delle molecole in un gas. La teoria si fonda su quattro ipotesi fondamentali: 1) Tutte le molecole che compongono il gas sono identiche e di massa trascurabile 2) Gli urti tra molecole e quelli con le pareti del contenitore sono considerati elastici (conservazione dell’energia) 3) Il moto delle molecole è continuo e disordinato in tutte le direzioni 4) Il recipiente che contiene il gas è idealmente rigido, senza l’influenza di forze esterne 5.5.1 Dimostrazione lunga Partiamo dalla quantità di moto P che essendo un sistema chiuso rimane costante: ΔP̅̅̅̅ = 𝑚 𝑉𝑓⃗⃗⃗⃗ ⃗ − 𝑚 𝑉𝑖⃗⃗ ⃗ = −𝑚𝑉𝑥 − 𝑚𝑉𝑥 = −2𝑚𝑉𝑥 ricordando che: F = m a = ?̅? 𝑑𝑡 ovvero la forza per ogni singola molecola, dobbiamo dunque calcolarci il numero di molecole N che, sul totale di esse, urtano contro la parete (consideriamo gas monoatomico): 𝑁 = 𝑛 [𝑆 (?̅? 𝑑𝑡)] dove 𝑆 è la superficie e 𝑛 sono il numero di moli, che siccome consideriamo solo quelle che si muovono sull’asse X (1/3) e solo quelle che si muovono verso la parete (1/2) possiamo riscrivere il numero di molecole come: 𝑁 = ( 1 6 𝑛) 𝑆 (?̅? 𝑑𝑡). Riprendendo l’equazione della forza abbiamo: Fx = 𝑁 ?̅? 𝑑𝑡 = [ 1 6 𝑛 𝑆 ?̅? 𝑑𝑡] [ 2𝑚𝑉 𝑑𝑡 ] = 1 3 𝑛 𝑚 𝑆 ?̅?2. Ragionando con la pressione di un gas abbiamo: P = 𝐹 𝑆 = 1 3 𝑛 𝑚 𝑆 𝑉2 𝑆 = 1 3 𝑛 𝑚 ?̅?2 Sostituendo 𝑛 le moli con 𝑁 𝑉𝑜𝑙 numero di molecole per unità di volume otteniamo: P = 1 3 𝑁 𝑉𝑜𝑙 𝑚 ?̅?2 . Ricordando che nei gas perfetti l’energia cinetica delle molecole è K = 1 2 𝑚 ?̅?2, possiamo riscrivere il tutto come: P = 2 3 𝑁 𝑉𝑜𝑙 𝐾 dunque: P Vol = 2 3 𝑁 𝐾 Noi sappiamo che per i gas perfetti, per le molecole, vale la formula P Vol = 𝑁 𝐾𝑏 𝑇 dove Kb è la costante di Boltzmann. Uguagliando le formule troviamo: 2 3 𝑁 𝐾 = 𝑁 𝐾𝑏 𝑇 ovvero: 𝐾 = 3 2 𝐾𝑏 𝑇 5.5.2 Dimostrazione breve L’energia cinetica di una particella in movimento è calcolata come: K = ( 1 2 𝑚) ?̅?𝑞𝑚2 dove la velocità quadratica media espressa in funzione della temperatura, nel caso di un gas perfetto vale: Vqm = √ 3𝑅𝑇 𝑀 , dove 𝑀 è la massa molare. Sostituendo abbiamo: K = ( 1 2 𝑚) [ 3 𝑅𝑇 𝑀 ] dove sappiamo che il numero di Avogadro è dato da: Na = 𝑀 𝑚 = 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑎 𝑚𝑜𝑙 . Sostituendo abbiamo: K = 3 𝑅𝑇 2 𝑁𝑎 dove la costante di Boltzmann sappiamo valere: Kb = 𝑅 𝑁𝑎 dunque: K = 3 2 𝐾𝑏 𝑇 5.5.3 Conclusioni Dalle due dimostrazioni ricaviamo la formula dell’energia cinetica da cui possiamo ricavarci l’energia interna del gas: Energia Cinetica 𝐾 = 3 2 𝐾𝑏 𝑇 Si denota che l’energia di un gas dipende solamente dalla temperatura e dalla quantità e tipo di moli. La formula è utilizzata per gas monoatomici. Nel caso di gas pluriatomici dovremo considerare i gradi di libertà di un gas, possiamo dunque scrivere: 𝐾 = ( 𝐺𝐿 2 )𝐾𝑏 𝑇 e 𝑈 = 𝑛 ( 𝐺𝐿 2 𝑅) 𝑇 = 𝑛 𝐶𝑣 𝑇 Energia Interna 𝑈 = 3 2 𝑛 𝑅 𝑇 La misura della temperatura di un gas non è altro che la misura dell’energia cinetica media del gas stesso. La pressione e la temperatura di un gas sono direttamente proporzionali all’energia cinetica delle sue molecole ovvero alla velocità del loro moto. La pressione di un gas, infatti, è il risultato di un gran numero di urti tra le molecole e le pareti del contenitore. Scaldando un gas si aumenta l’energia cinetica delle molecole e quindi la pressione. Analogamente comprimendo un gas si aumenta la temperatura dello stesso. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 20 5.9 Formulario Esercizi Termodinamica Prima legge della termodinamica: 𝑑𝑈 = δQ − δW Isobara Isoterma Adiabatica Isocora 𝑑𝑈 = δQ − δW 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 --> 𝛿𝑄 = 𝛿𝑊 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝑊 --> 𝑑𝑈 = −𝛿𝑊 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 − 𝛿𝐿 --> 𝑑𝑈 = 𝛿𝑄 Formula dei gas perfetti 𝑝𝑉 = 𝑛 𝑅 𝑇 con 𝑅 = 8,314 costante dei gas Isobara P Costante 𝑝 = 𝑛∗𝑅∗𝑇 𝑉 𝑇𝑖 𝑉𝑖 = 𝑇𝑓 𝑉𝑓 dunque: 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = 𝑉𝑓 𝑉𝑖 Isoterma T costante 𝑇 = 𝑝𝑉 𝑛𝑅 𝑝𝑖 𝑉𝑖 = 𝑝𝑓 𝑉𝑓 Adiabatica Q costante 𝑝(𝑉)𝛾 = 𝑝(𝑉) 𝐶𝑝 𝐶𝑣 𝑝𝑖 (𝑉𝑖) 𝛾 = 𝑝𝑓 (𝑉𝑓) 𝛾 Isocora V costante 𝑉 = 𝑛∗𝑅∗𝑇 𝑝 𝑇𝑖 𝑝𝑖 = 𝑇𝑓 𝑝𝑓 dunque: 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = 𝑝𝑓 𝑝𝑖 ∆𝑈 Variazione dell’energia interna ∆𝑈 = ∫ 𝑛 𝐶𝑣 𝑑𝑇 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = 𝑛 𝐶𝑣 (𝑇𝑓 − 𝑇𝑖) per l’energia interna utilizziamo sempre Cv ∆𝑊 Variazione del lavoro Isoterma ∆𝑊 = ∫ 𝑝 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = ∫ ( 𝑛∗𝑅∗𝑇 𝑉 )𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑇 ∫ 1 𝑉 𝑑𝑣 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑇 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) Adiabatica ∆𝑊 = − ∆𝑈 = − 𝑛 𝐶𝑣 ∆𝑇 = − 𝑛 𝐶𝑣 (𝑇𝑓 − 𝑇𝑖) 𝑃 Potenza 𝑃𝑜𝑡 = 𝑑 𝑑𝑡 (𝑊) = ∆𝑊 ∆𝑇 se non abbiamo dettagli sulla trasformazione tranne il suo momento iniziale e finale allora possiamo approssimare la derivata come un rapporto tra grandezze finite. Entropia ∆𝑆 = 𝑆𝑓 − 𝑆𝑖 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 è il rapporto tra lo scambio di calore del sistema e la temperatura. 𝛿𝑄 ≠ ∆𝑄 perché non è un differenziale esatto. Il calore scambiato dipende dal percorso e non solo dai due estremi. Ricava Q con la I legge della termodinamica. Isoterma T costante ∆𝑆 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑝∗𝑑𝑉) 𝑇 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = ∫ ( 𝑝 𝑇 )𝑑𝑉 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = ∫ ( 𝑛∗𝑅 𝑉 )𝑑𝑉 𝑉𝑓 𝑉𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) Isobara P Costante ∆𝑆 = ∆𝑈 + ∆𝑊 = ∫ 𝛿𝑈+𝛿𝑊 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑝∗𝑑𝑉) 𝑇 𝑉𝑓 𝑉𝑖 + ∫ (𝑛∗𝐶𝑣∗𝑑𝑇) 𝑇 𝑇𝑓 𝑇𝑖 = 𝑛 𝑅 𝑙𝑛 ( 𝑉𝑓 𝑉𝑖 ) + 𝑛 𝐶𝑣 𝑙𝑛 ( 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ) Adiabatica Q costante ∆𝑆 = 0 nel processo adiabatico non abbiamo scambio di calore Isocora V costante ∆𝑆 𝑐𝑜𝑛 𝑒𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 = ∫ 𝛿𝑄 𝑇 𝑓 𝑖 = ∫ (𝑛∗𝐶𝑣∗𝑑𝑇) 𝑇 = 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ∫ ( 𝑛∗𝐶𝑣 𝑇 ) 𝑑𝑇 = 𝑇𝑓 𝑇𝑖 𝑛 𝐶𝑣 𝑙𝑛 ( 𝑇𝑓 𝑇𝑖 ) Tipo di gas Cv Isocora V=Cost Cp Isobara P=Cost Cp/Cv Relazione di Mayer Monoatomico (elio) 3/2 R 5/2 R 5/3 Cp − Cv = R, Dove R è la costante dei gas perfetti R=8,314 Biatomico (ossigeno) 5/2 R 7/2 R 7/5 Poliatomico (Co2) 7/2 R 9/2 R 9/7 Carretta Marco 1875 HHH INGGES 21 6 Elettrostatica 6.1 O: Definire la forza di Coulomb La forza di Coulomb esprime la forza elettrostatica di due o più cariche elettriche. Le cariche elettriche hanno quattro caratteristiche principali: Le cariche non si creano né si distruggono si conservano Possono essere sia positive che negative Le cariche sono quantizzate, ovvero sono multipli di una base Obbediscono alla legge di Coulomb Normalmente i corpi hanno carica neutra, nel caso abbiamo una condizione di squilibrio abbiamo un eccesso di carica positiva o negativa. Cariche con lo stesso segno si respingono, con il segno opposto si attraggono. Due cariche, interagendo tra loro, risentono di una forza (forza di Coulomb) che è proporzionale al valore delle cariche stesse ed inversamente proporzionale al quadrato delle distanze che le separa: 𝐹 = 𝐾 𝑞1 𝑞2 𝑟2 . Assai curiosa la relazione con la legge di gravitazione di Newton, sebbene quella gravitazionale è sempre positiva, la forza di Coulomb può essere anche negativa. 𝐾 = 1 4𝜋∗ 0 è una costante che vale per il vuoto, dove la 0 è la costante dielettrica del vuoto. 𝐹?̅? = 1 4𝜋∗ 0 𝑞1 𝑞2 𝑟2 = E̅ 𝑞0 forza che, come quella gravitazionale, è conservativa! 6.2 O: Definire il Campo elettrico ricavandolo dalla forza di coulomb La forza di Coulomb generata dalle cariche crea un campo elettrico E̅ che possiamo sentire in ogni punto grazie ad una carica test 𝑞0. Definiamo il campo elettrico come: E̅ = 𝐹𝑐̅̅ ̅ 𝑞0 = [ 1 4𝜋 0 𝑞1 𝑞0 𝑟2 ] 1 𝑞0 = [ 1 4𝜋 0 𝑞1 𝑟2 ] = [ 𝑁 𝐶 ]. Questo campo esiste indipendentemente dalla carica di test q e dunque è un campo conservativo e sommabile (vettorialmente) come effetti (nel caso avessimo più cariche sovrapposizione degli effetti). Il campo elettrico è uscente dalla carica positiva ed entrante in quella negativa. Essendo che le cariche si distribuiscono uniformemente sul materiale abbiamo dunque un campo anch’esso uniforme. Le linee di forza del campo elettrico non possono mai intersecarsi. 6.2.1 Extra: Campo elettrico generato da un dipolo elettrico Il dipolo è una coppia di cariche aventi segno opposto. Considerando le due cariche uguali ma opposte, il campo generato sarà dato da: E̅ = E𝑞1 ̅̅ ̅̅̅ − E𝑞2 ̅̅ ̅̅̅ = [ 1 4𝜋 0 𝑞1 𝑟2 ] − [ 1 4𝜋 0 𝑞2 𝑟2 ] = 1 2𝜋 0 ?̅? 𝑧3 dove: 𝑍 è la distanza tra il punto di osservazione e il centro delle cariche e ?̅? è il momento di dipolo elettrico, definito come ?̅? = 𝑞 𝑑 dove 𝑑 è la distanza tra le due cariche. La direzione del vettore ?̅? va dalla carica negativa alla positiva. In un dipolo, se allontaniamo le cariche diminuiamo il campo elettrico molto di più che nelle cariche puntiformi. 6.2.1 Extra: Dipolo elettrico dentro un campo elettrico Mentre il momento di dipolo elettrico era dato da ?̅? = 𝑞 𝑑 ed era un vettore diretto lungo l’asse del polo, Se immergiamo un dipolo elettrico in un campo elettrico otteniamo un momento torcente di dipolo elettrico 𝑀 = ?̅?𝑥E̅. Il vettore momento torcente possiamo scriverlo come: 𝑀 = 𝑃 𝐸 𝑠𝑖𝑛(𝜃) = (𝑞 𝑑) 𝐸 𝑠𝑖𝑛(𝜃). Il movimento è oscillatorio ed ha un valore minimo quando le due cariche sono parallele al campo elettrico. I materiali che hanno dipoli interamente orientabili si chiamano materiali dielettrici o isolanti (esempio carta) questi dipoli si polarizzano aumentando la carica per esempio di un condensatore, e questo perché la distanza tra le cariche diminuisce dunque diminuisce anche il differenza di potenziale ma aumentano la capacità. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 22 6.3 OS: Teorema di Gauss per il campo elettrico La legge di Gauss per il campo elettrico permette di trovare la carica di una superficie chiusa grazie al flusso di campo elettrico (dal campo elettrico troviamo le cariche, non viceversa). Φ𝑠(E̅) = ∮ E̅ ?̂? 𝑑?̅? = ∑𝑄𝑖𝑛𝑡 0 Gauss mette in relazione il flusso di un campo elettrico attraverso una superficie chiusa (gaussiana) con la carica netta 𝑄𝑖𝑛𝑡 racchiusa all’interno. È un po’ come dedurre il regalo dalla scatola. Prima parte della formula: Φ𝑠(E̅) = ∮ E̅ ?̂? 𝑑?̅? = 𝐸 𝑆 𝑐𝑜𝑠𝜃 Il flusso di un campo elettrico è rappresentato dal numero delle linee di forza del campo che attraversano la superficie orientata 𝑆. Il flusso sarà direttamente proporzionale all’intensità di ?̅? (linee di forza), alla grandezza di 𝐴, e dipenderà dall’orientamento tra ?̅? e la superficie ?̅?. La superficie non deve essere parallela alle linee di campo altrimenti abbiamo un flusso nullo Seconda parte della formula: Φ𝑠(E̅) = ∑ 𝑄𝑖𝑛𝑡 0 Una superficie chiusa di forma qualsiasi e orientata nello spazio ha per definizione un orientamento positivo verso l’esterno e negativo verso l’interno. Pertanto, le cariche positive interne alla superficie avendo linee di forza uscenti daranno un contributo positivo al flusso, mentre le cariche negative interne avendo linee di forza entranti daranno un contributo negativo al flusso. Le cariche esterne attraversando la superficie in entrata e in uscita daranno contributo nullo. Proprio per questo per il calcolo del flusso prendiamo solo le cariche interne 6.3.1 OS: Dimostrazione del teorema di Gauss Se consideriamo come superficie chiusa una sfera e poniamo una carica positiva q al centro avremo dunque un campo elettrico ?̅? uguale in ogni punto della superficie. Sapendo che E̅ = [ 1 4 𝜋 0 𝑞 𝑟2 ] e l’area o superfice della sfera è 𝑠 = 4 (𝜋 𝑟2) abbiamo: Φ(E̅) = ∮ E̅ ?̂? 𝑑?̅? = E S cos ∝= ( 1 4𝜋 0 𝑞 𝑟2) (4 𝜋 𝑟2) 1 = 𝑞 0 Da qui notiamo per esempio che il flusso è indipendente dal raggio ma semplicemente dalla carica elettrica netta. Dalla legge di Gauss al campo elettrico: possiamo scrivere: ∮ E̅ 𝑑?̅? = ∑ 𝑄𝑖𝑛𝑡 0 sapendo che il campo elettrico e’ costante in tutta la superficie di un cerchio abbiamo: 0 E̅∮ 𝑑?̅? = ∑𝑄𝑖𝑛𝑡 e sapendo che ∮𝑑?̅? di una sfera (area della sfera) è: 𝑆 = 4 (𝜋 𝑟2): possiamo ricavarci il campo elettrico (costante) E̅ = [ 1 4𝜋 0 𝑞𝑖𝑛𝑡 𝑟2 ]. 6.4 Extra: Potenziale elettrico ed energia potenziale Essendo la forza elettrostatica conservativa, l’energia potenziale U e’: U = −W dove il lavoro è quello compiuto dalla forza elettrica per spostare la carica. Se spostiamo una carica elettrica lungo una circonferenza di raggio r con al centro la carica q, considerando lo spostamento perpendicolare tra E̅ e q il prodotto vettoriale E̅ 𝑥 𝑑?̅? sarebbe nullo (circuitazione campo elettrico), quindi tutti i punti che si trovano a distanza r dalla carica che forma il campo E̅ sono a potenziale nullo. L’energia potenziale è la differenza di potenziale tra due punti: U = ∫ F̅ dl̅ 𝑏 𝑎 = ∫ (q E̅) dl̅ 𝑏 𝑎 = 𝑞0 𝑞1 4𝜋 𝜖0 ∫ dl̅ 𝑏 𝑎 = 𝑞0 𝑞1 4𝜋 𝜖0 [∫ 1 𝑟2 𝑑𝑟 𝑏 𝑎 ] = 𝑞0 𝑞1 4𝜋 𝜖0 [ 1 𝑟𝑎 − 1 𝑟𝑏 ] = [ 1 4𝜋 𝜖0 𝑞0 𝑞1 𝑟𝑎 ] = 𝑈𝑏 − 𝑈𝑎 Definiamo il potenziale elettrico come V = 𝑈 𝑞0 = 1 4𝜋 𝜖0 𝑞1 𝑟𝑎 = [𝑉𝑜𝑙𝑡] ovvero come il potenziale elettrico nel punto in cui si posiziona la carica. L’energia potenziale e il potenziale elettrico non sono dunque la stessa cosa. Definiamo la differenza di potenziale elettrico come ∆V = Vf − Vi ovvero possiamo dire che la differenza di energia potenziale ∆U = Uf − Ui = q (Vf − Vi) notando dunque che muovendosi, la carica acquista o perde energia potenziale. L’energia per questo spostamento, come quella gravitazionale è conservativa, ovvero: ∆U = −∆W = −∆K. In un sistema conservativo la somma delle differenze di potenziale in un percorso chiuso è sempre nulla In una superficie le cariche si distribuiscono in modo uniforme generando una superficie equipotenziale. Il lavoro per spostare una carica è indipendente dal percorso svolto ma solo dal punto iniziale e finale. Il potenziale elettrico di più cariche lo si ricava sommando i contributi positivi (dalle cariche positive) e quelli negativi (dalle cariche negative). Carretta Marco 1875 HHH INGGES 25 6.9 F2A – Formulario Elettrostatica 1) Esercizi con condensatore 𝑊 = 𝑈 = [ 1 2 𝑉2 𝐶] = [ 1 2 𝑄2 𝐶 ] = [ 1 2 𝑉 𝑄] 𝑄 = 𝑉 𝐶 𝐶 = ( 0 𝑟) 𝑆 𝑑 Il lavoro per trasportare cariche viene immagazzinato nel condensatore come energia potenziale. Se il condensatore viene caricato e poi scollegato la carica si conserva Qf=Qi Serie: 𝐶𝑒𝑞 = 1 1 𝐶1 + 1 𝐶2 = 𝐶1 𝐶2 𝐶1+𝐶2 𝑄𝑡𝑜𝑡 = 𝑄1 = 𝑄2 Parallelo: 𝐶𝑒𝑞 = 𝐶1 + 𝐶2 𝑄𝑡𝑜𝑡 = 𝑄1 + 𝑄2 Forza agente sulle piastre del condensatore: F̅ = 1 2 (ε0 ε𝑟) ?̅? 2 𝑆 ?̅? = 𝑉 𝑑 Campo elettrico 2) Legge di Ohm e circuiti elementari 𝑉 = 𝑅 𝐼 𝑃 = 𝑉 𝐼 = 𝑅 𝐼2 𝑅 = 𝜌 𝐿 𝑆 Serie: 𝑅𝑒𝑞 = 𝑅1 + 𝑅2 Parallelo: 𝑅𝑒𝑞 = 1 1 𝑅1 + 1 𝑅2 = 𝑅1 𝑅2 𝑅1+𝑅2 3) Cariche nello spazio 𝑉 = ?̅? 𝑑 𝑉𝐴𝐵 = 𝑈 𝑞 = 𝑉𝐴 − 𝑉𝐵 𝑉𝐴𝐵 = −?̅? 𝑑 Potenziale elettrico, ovvero il lavoro per portare una carica da un punto del campo elettrico all’infinito. La differenza di potenziale è sempre contraria rispetto al campo elettrico E. 𝐹 = ?̅? 𝑞 𝐹 = 1 2 ( 0 𝑟) ?̅? 2 𝑆 Forza di Coulomb che agisce sulle cariche e quella che agisce sulle cariche nel condensatore ?̅? = −∇𝑉 = − 𝑑𝑉 𝑑𝑥 Il campo elettrico di una carica è il gradiente del potenziale elettrico cambiato di segno 𝐸 = 𝑈 Campo elettrico è un campo di forze generato da cariche elettriche Carica Puntiforme: 𝑉 = − 1 4𝜋 0 𝑞 𝑟 𝐸 = ?̂? 4𝜋 0 𝑞 𝑟2 Carica uniforme: 𝐸 = 𝜎 2 0 Potenziale con carica distribuita 𝜎: 𝑉 = 1 4𝜋 0 ∫ 𝑑𝑄 𝑑 = 𝜎 2 0 ∫ 𝑟 √𝑟2+ℎ2 𝑑𝑟 4) Riepilogo delle forze campi e potenziale 𝐹?̅? = 1 4𝜋 0 𝑞1 𝑞2 𝑟2 = [𝑁] E̅ = 𝐹?̅? 𝑞0 = [ 1 4𝜋 0 𝑞1 𝑟2 ] = [ 𝑁 𝑚 ] U = 1 4𝜋 𝜖0 𝑞0 𝑞1 𝑟𝑎 = [𝐽] V = 𝑈 𝑞0 = 1 4𝜋 𝜖0 𝑞1 𝑟𝑎 = [𝑉] Carretta Marco 1875 HHH INGGES 26 7 Elettromagnetismo 7.1 O: Il campo magnetico Come un campo elettrico generato da una carica produce una forza 𝐹𝑐̅̅ ̅ = ?̅? 𝑞0 (ovvero la forza di Coulomb) che attrae o respinge la carica stessa, il campo magnetico generato da una carica in moto produce una forza magnetica: 𝐹?̅? = 𝑞 (?̅?𝑥?̅?) agente sugli elettroni della carica stessa. I campi magnetici si generanno grazie ad un flusso di elettroni dunque dalla corrente elettrica. Ogni singolo elettrone genera nel suo movimento un campo magnetico ?̅? = 𝐹𝑙̅̅ ̅ 𝑞 𝑉 = [𝑇] che, come per quello elettrico, sarà sommabile come effetti. Il campo magnetico ?̅? è anche detto vettore induzione magnetica. In un campo magnetico, le linee di forza escono dal polo nord e convergono al polo sud. Un magnete con due poli viene definito bipolo magnetico (inseparabile) e come per le cariche gli opposti si attraggono. Esempio elementare di un dipolo magnetico è la calamita, essa anche se viene distrutta creerà sempre un dipolo N/S. Se un campo magnetico ?̅? e un campo elettrico ?̅?, perpendicolari tra loro, esercitano una forza 𝐹?̅? ed 𝐹𝑐̅̅ ̅ su una particella, abbiamo un campo incrociato (esempio il tubo catodico) e questo viene chiamato effetto Hall e con valori di campo specifici possiamo pilotare il movimento e posizionamento degli elettroni (monitor della TV catodica). 7.2 O: La forza di Lorenz e teorema di Laplace La forza che il campo magnetico ?̅? esercita sugli elettroni è data da: 𝐹?̅? = 𝑞 (?̅?𝑥?̅?) = 𝑞 (𝑉 𝐵 𝑠𝑖𝑛𝜃) dove l’angolo 𝜃 è quello tra il campo magnetico e il vettore velocità. La direzione di tale forza viene ricavato con la legge della mano destra, l’indice segue il campo magnetico, il pollice segue la velocità, il medio indica la direzione della forza. Il verso dipende poi dall’origine della carica, la carica positiva avrà segno concorde alla direzione, la carica negativa andrà nel verso opposto. Abbiamo dunque che la forza è sempre ortogonale alla direzione della velocità e il campo magnetico. 7.2.1 Teorema di Laplace per il campo magnetico La forza di Lorenz 𝐹?̅? che agisce in un filo perso da corrente è calcolata come: 𝐹?̅? = ∫ 𝐼 (𝑑?̅? 𝑥 ?̅?) = 𝐼 (𝐿 𝑥 𝐵) = 𝐼 (𝐿 𝐵 𝑠𝑖𝑛𝜃) 7.2.2 O: Calcolo forza che agisce sui lati di una spira quadrata immersa in B Una spira percorsa da corrente e immersa in un campo magnetico ?̅? genera due forze magnetiche 𝐹?̅? opposte che generano un momento torcente. Questo è il principio di funzionamento del motori elettrici. Il momento torcente è calcolabile come: 𝑀 = |?̅?| 𝑥 ?̅? dove |?̅?| è il momento di dipolo magnetico |?̅?| = 𝑁 (𝐼 𝑆 ?̂?) ovvero il numero di spire 𝑁 per la corrente 𝐼 per l’area della spira 𝑆 e per la normale alla superficie ?̂? 7.3 O: Definizione di circuitazione di un campo vettoriale La circuitazione è il contributo di un campo vettoriale lungo un percorso chiuso. Un campo vettoriale assegna a ciascun punto (nello spazio) un vettore. Questo vettore può essere sempre uniforme (uguale in modulo, direzione e verso), oppure variare di punto in punto. Il campo elettrico ?̅? è un esempio di campo vettoriale (vedi figura). La circuitazione di un campo vettoriale lungo un percorso chiuso è la somma dei prodotti scalari tra il valore del campo vettoriale e gli infinitesimi del percorso: Γ = ∑ ?̅?𝑖 ∆𝑠?̅?𝑁 𝑖=1 Carretta Marco 1875 HHH INGGES 27 7.4 D2A OS: Discutere la legge di Biot Savart (B in filo indefinito) La legge di Biot-Savart permette di determinare il campo magnetico ?̅? prodotto da un filo rettilineo percorso da corrente elettrica (cariche in movimento) in un punto P dello spazio: 𝑑?̅? = 𝜇0 4𝜋 𝐼 (𝑑𝑙 ̅𝑥 ?̅?) ?̅?3 = 𝜇0 𝐼 4𝜋 (𝑑𝑙 𝑠𝑖𝑛𝜃) 𝑅2 Dove: 𝜇0 è la permeabilità magnetica del vuoto (costante). ?̅? è la distanza tra l’infinitesimo di percorso e il punto P 𝐼 è la corrente che circola nel conduttore 𝑑𝑙 è l’infinitesimo di percorso Il flusso magnetico è dato da: ?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝑠𝑖𝑛𝜃 𝑅2 ∞ 0 𝑑𝑙 dove 𝑠𝑖𝑛𝜃 è ricavabile dal teorema di pitagora come 𝑟 = 𝑅 𝑠𝑖𝑛𝜃 da cui 𝑠𝑖𝑛𝜃 = 𝑟 𝑅 e l’ipotenusa 𝑅 = √𝐿2 + 𝑟2 dunque: ?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝑟 𝑅3 ∞ 0 𝑑𝑙 = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝑟 (𝐿2+𝑟2) 3 2 ∞ 0 𝑑𝑙 = 𝜇0 4𝜋 𝐼 𝑟 Considerando che ad ogni 𝑑𝑙 della metà superiore corrisponde un 𝑑𝑙 della parte inferiore disposto alla stessa distanza da P e che genera lo stesso campo 𝑑?̅? avremo dunque: ?̅? = 2 ( 𝜇0 4𝜋 𝐼 𝑟 ) = [ 𝜇0 2𝜋 𝐼 𝑟 ] La direzione è data dalla retta passante per P e tangente alla circonferenza Il verso è dato dalla regola della mano destra (pollice segue 𝐼 le dita indicano il campo ?̅?) Grazie alle proprietà magnetiche della limatura di ferro, si è visto empiricamente come esse, poste attorno ad un filo elettrico percorso da corrente, formano delle circonferenze concentriche al cavo elettrico. Queste circonferenze concentriche sono le linee del campo magnetico ?̅? perpendicolari al filo che polarizzano i magneti del ferro. Il campo magnetico ?̅? è inversamente proporzionale alla distanza del punto P e direttamente proporzionale alla corrente nel conduttore. La legge di Biot Savart è ricavabile anche dalla legge di Ampere sulla circuitazione del campo magnetico (nel caso di figure simmetriche). 7.4.1 O: Calcolare il campo magnetico al centro di una spira circolare In una spira l’infinitesimo del campo magnetico vale: 𝑑?̅? = 𝜇0 4𝜋 𝐼 (𝑑𝑙̅̅ ̅ 𝑥 ?̅?) ?̅?3 = 𝜇0 4𝜋 𝐼 (𝑑𝑙̅̅ ̅ 𝑠𝑖𝑛𝜃) ?̅?2 calcolando il campo totale abbiamo: ?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝑠𝑖𝑛𝜃 ?̅?2 𝑑?̅? Dove 𝑠𝑖𝑛𝜃 = 𝑠𝑖𝑛(𝜋/2) = 𝑠𝑖𝑛(90°) e 𝑑?̅? = 2𝜋 𝑟 ovvero la circonferenza della spira. Otteniamo dunque: ?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 𝜋 2 2𝜋 𝑟 ?̅?2 = 𝜇0 2 𝐼 𝑟 . 7.4.2 O: Calcolare il campo B in un punto P posto in Z di una spira circolare Partendo da Biot-Savart, il campo magnetico in P varrà: 𝑑𝐵𝑦̅̅ ̅̅ = 𝑑?̅? 𝑐𝑜𝑠𝛼 = [ 𝜇0 4𝜋 𝐼(𝑑𝑙̅̅ ̅ 𝑥 ?̅?) 𝑑3 ] 𝑐𝑜𝑠𝛼 = [ 𝜇0 4𝜋 𝐼(𝑑𝑙̅̅ ̅ 𝑠𝑖𝑛𝜃 𝑑) ?̅?3 ] 𝑐𝑜𝑠𝛼. Sapendo che analogamente al caso precedente: 𝑠𝑖𝑛𝜃 = 𝑠𝑖𝑛(𝜋/2), l’infinitesimo del campo magnetico vale: 𝑑𝐵𝑦̅̅ ̅̅ = [ 𝜇0 4𝜋 𝐼(𝑑𝑙̅̅ ̅) ?̅?2 ] 𝑐𝑜𝑠𝛼. Il campo totale sarà: 𝐵𝑦̅̅̅̅ = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝐶𝑜𝑠𝛼 ?̅?2 𝑑?̅? dove: 𝑐𝑜𝑠𝛼 = 𝑟 𝑑 ed 𝑑 = √ℎ2 + 𝑟2 dunque abbiamo: ?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ∫ 𝑟 √ℎ2+𝑟2 1 (ℎ2+𝑟2) 𝑑?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ?̅? (ℎ2+𝑟2) 3 2 ∫ 𝑑?̅? = 𝜇0 𝐼 4𝜋 ?̅? (2𝜋𝑟) (ℎ2+𝑟2) 3 2 ovvero: ?̅? = [ 𝜇0 𝐼 2 ?̅?2 (ℎ2+𝑟2) 3 2 ] 7.4.3 O: Calcolare il campo magnetico di un solenoide indefinito percorso da corrente Il solenoide è una bobina costituita da tante spire, il campo magnetico ?̅? presente al suo interno è uniforme, mentre al suo esterno è nullo. Il verso del campo magnetico segue la legge della mano destra, il pollice indica il verso della corrente e le dita indicano la direzione del flusso. ?̅? = 𝜇0 ( 𝑁 𝐼 𝐿 ) dove 𝑁 𝐼 indica il momento magnetico. All’interno del solenoide viene inserito materiale ferromagnetico per aumentare l’intensità del campo magnetico. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 30 7.9 D2A OS: Fenomeni di Diamagnetismo, Paramagnetismo e Ferromagnetismo Gli elettroni nelle orbite dei reticoli cristallini, muovendosi e ruotando su sé stessi (spin) generano correnti elettriche microscopiche che a sua volta generano un momento di dipolo magnetico m⃗⃗⃗ = I S n̂ che se immerso in campo magnetico esterno creerà un momento torcente di dipolo magnetico M⃗⃗⃗ = m̅ x B̅ = I (S B sinθ) che orienterà il dipolo. L’orientamento e la rispettiva forza del momento torcente del dipolo magnetico (La polarizzazione magnetica), riesce a rafforzare o indebolire il campo magnetico esterno in cui è stato inserito, a seconda del materiale che utilizziamo abbiamo: 𝐵 = 𝜇0(?̅? + M⃗⃗⃗ ) = 𝜇0(?̅? + 𝑋𝑚 ?̅?) = 𝜇0 𝜇𝑟 ?̅? dove: 𝜇0 è la permeabilità magnetica del vuoto, 𝜇𝑟 è la permeabilità magnetica del materiale, ?̅? è il campo magnetico nella materia, 𝑋 è la suscettività magnetica. Empiricamente, prendendo una serie di spire percorse da corrente, si nota che a seconda del materiale inserto nel mezzo della bobina (con momento di dipolo magnetico) l’intensità del campo magnetico generato da spire varierà. Questo perché escludendo il vuoto, tutti i materiali hanno una certa permeabilità magnetica relativa 𝜇𝑟 definita anche come: 𝜇𝑟 = 𝐵 𝜇0 ?̅? = 𝐵 𝐵0 dove il termine 𝐵0 è il campo magnetico indotto nel vuoto (bobina con dentro vuoto). La permeabilità magnetica relativa 𝜇𝑟 fornisce dunque informazioni su come il materiale contribuisce al campo magnetico. Ci sono tre tipi di materiali: Materiali Diamagnetici Il campo magnetico esterno investe i dipoli magnetici che però si orientano in modo opposto generando un momento magnetico che indebolisce il campo ?̅?. Infatti, nelle sostanze diamagnetiche la permeabilità magnetica 𝜇𝑟 < 1 dunque (𝐵 < 𝐵0) ?̅? esterno nel mezzo è minore del 𝐵0 esterno nel vuoto. Materiali Paramagnetici Sono materiali con caratteristiche atomiche asimmetriche, pertanto, hanno dipoli magnetici orientati promiscuamente, che investiti dal campo ?̅? esterno si orientano nel medesimo verso, aumentando leggermente il campo, infatti la permeabilità magnetica dei materiali paramagnetici è 𝜇𝑟 ≥ 1. (𝐵 > 𝐵0) Materiali ferromagnetici il materiale presenta dipoli magnetici già pre-orientati che in presenza di un campo magnetico ?̅? esterno si magnetizzano fortemente aumentando di molto il campo magnetico complessivo e manifestano inoltre un campo magnetico residuo una volta cessato il campo esterno. La permeabilità magnetica dei materiali ferromagnetici è 𝜇𝑟 >> 1. (𝐵 >> 𝐵0) Ovviamente a livello ingegneristico per amplificare un campo magnetico ?̅? (esempio il trasformatore) si usano materiali ferromagnetici. Applicando un campo magnetico ?̅? che è variabile di modulo e di direzione avremo un continuo orientamento dei dipoli. Questo continuo orientamento crea una isteresi magnetica nel materiale con conseguente aumento della temperatura del materiale dovuta allo sfregamento delle particelle. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 31 7.10 D2A OS: Discutere le equazioni di Maxwell in Elettrostatica ed Elettromagnetismo Le equazioni di Maxwell descrivono completamente la teoria dell’elettromagnetismo specificando come campo elettrico e magnetico siano legati alle loro sorgenti e come interagiscono tra loro e con la materia. Queste equazioni determinano completamente i campi vettoriali ?̅? e ?̅? specificandone il flusso Φ che descrive come il campo varia nell’intorno di un punto (quante linee di campo passano in una superficie) e la circuitazione vettoriale Γ che descrive come il campo si avvolge attorno ad un punto (prodotto scalare tra il campo vettoriale e gli infinitesimi di un percorso). Egli si rifa’ ad esperimenti precedenti: 7.10.1 Prima eq. di Maxwell: Teorema di Gauss per il campo elettrico La 1° equazione di Maxwell riprende il teorema di Gauss che stabilisce che il flusso di un campo elettrico Φ𝑠(E̅) generato da n cariche, attraverso una superficie chiusa 𝑆, è uguale alla somma delle cariche stesse, interne alla superficie, diviso 0 la costante dielettrica del vuoto. Φ𝑠(E̅) = ∮ E̅ ?̂? 𝑑?̅? = ∑𝑄𝑖𝑛𝑡 0 . Questa formula ha validità sia nel caso stazionario che nel caso generale. Forma integrale: Φ𝑠(E̅) = ∮ E̅ ?̂? 𝑑?̅? = ∑ 𝑄𝑖𝑛𝑡 0 Forma differenziale: Φ𝑠(E̅) = 𝑑𝑖𝑣E̅ = ∇E̅ = − 𝜌 0 7.10.2 Seconda eq. di Maxwell: Teorema di Gauss per il campo magnetico La 2° equazione di Maxwell riprende il teorema di Gauss per il campo magnetico e stabilisce che il flusso totale del campo magnetico Φ𝑠(?̅?) attraverso una superficie chiusa 𝑆 è nullo, in quanto le linee di forza del campo magnetico essendo chiuse attraversano tutte la superficie entrando e uscendo. Il campo magnetico ?̅? infatti è generato da dipoli magnetico (indivisibili N/S) e non dalle cariche scindibili come nel caso del campo elettrico. Valida sia nel caso stazionario che nel caso generale. Forma integrale: Φ𝑠(?̅?) = ∮ B̅ 𝑑?̅? =0 Forma differenziale: Φ𝑠(E̅) = 𝑑𝑖𝑣B̅ = ∇B̅ = 0 7.10.3 Terza eq. di Maxwell: Legge di Ampere-Maxwell, circuitazione campo magnetico La 3° equazione di Maxwell riprende il teorema di Ampere sulla circuitazione del campo magnetico ?̅? (calcolo del campo magnetico attorno ad una linea Amperiana) dando una nuova definizione nel caso in cui non ci fosse una corrente concatenata 𝐼𝑐ℎ nel nostro circuito ma un campo elettrico variabile E̅ (contradizione di Ampere 𝛤(?̅?) = ∮ ?̅? 𝑑𝑙 ̅ = 𝜇0 ∗ 0 = 0) Maxwell studiando il caso di un campo elettrico variabile tra le armature di un condensatore dedusse che: così come un campo magnetico variabile è sorgente di campo elettrico (Faraday), anche un campo elettrico variabile è sorgente di campo magnetico. La circuitazione del campo magnetico ?̅? variabile lungo una linea chiusa 𝑙 sarà: Forma integrale: Γ(?̅?) = ∮ ?̅? 𝑑𝑙 ̅ = [𝜇0 𝐼𝑐ℎ] + [𝜇0 𝐼𝑠] = [𝜇0 𝐼𝑐ℎ] + [𝜇0 0 d 𝑑𝑡 [Φ𝑠(E̅)]] Forma differenziale: Γ(?̅?) = ∇ x B̅ = 𝜇0 𝑗̅ + 𝜇0 0 𝑑?̅? 𝑑𝑡 Nel caso, dunque, non avessimo una corrente di circolazione, per il calcolo del campo B vale quindi il teorema di Ampere- Maxwell (legge di induzione di Maxwell) in cui viene considerata anche la corrente di spostamento tra le armature di un condensatore (dovuta al movimento delle cariche). 7.10.4 Quarta eq. di Maxwell: Legge di Faraday-Henry-Lenz, circuitazione campo elettrico La 4° equazione di Maxwell riprede il teorema di Faraday-Lenz sulla circuitazione del campo elettrico variabile ?̅?(𝑡) lungo una linea chiusa: Forma integrale: Γ(?̅?) = ∮ E̅ 𝑑𝑙 ̅ = − 𝑑 𝑑𝑡 [Φ𝑠(?̅?)] = Fem𝑖 Forma differenziale: Γ(?̅?) = ∇ x B̅ = − 𝑑?̅? 𝑑𝑡 La circuitazione attraverso una linea chiusa del campo elettrico ?̅? è uguale alla derivata del flusso del campo magnetico ?̅? rispetto al tempo. L’uso della derivata implica che se non c’è la variazione del campo magnetico non si crea alcun campo elettrico perché la derivata di una costante è nulla. Nel caso stazionario Γ(?̅?) = ∮ E̅ 𝑑𝑙 ̅ = 0 ovvero non avendo una variazione del flusso magnetico Φ𝑠(?̅?) Nel caso in cui il campo elettrico è costante, La circuitazione del campo sarà nulla, infatti, essendo la forza elettrica conservativa, il lavoro compiuto per spostare una carica lungo un percorso chiuso (equipotenziale) è zero! Nel caso generale − 𝑑 𝑑𝑡 [Φ𝑠(?̅?)] = Fem𝑖 ovvero la formula di Faraday-Lenz Nel caso in cui il flusso magnetico Φ𝑠(?̅?) sia variabile, la quarta equazione di Maxwell riprende la legge di Faraday- Neumann-Lenz la quale stabilisce che quando il flusso varia nel tempo, vedremo nascere un campo elettrico indotto non conservativo. Il campo elettrico indotto non conservativo generato da ?̅? crea a sua volta un secondo campo magnetico (attraverso la forza elettromotrice che fa circolare la corrente) che si oppone alla variazione del flusso del primo campo ?̅? in una sorta di compensazione (questo è il motivo del segno meno della formula di Lenz). Carretta Marco 1875 HHH INGGES 32 7.11 F2A – Formulario Elettromagnetismo 1) Spira immersa in campo magnetico B Φ𝐵 = ∫𝐵 ?̂? 𝑑𝑠 1a) Caso del flusso B variabile con superficie costante 𝐹𝑒𝑚 = − 𝑑 𝑑𝑡 (Φ𝐵) Φ𝐵(𝑡) = 𝐵 𝑠𝑖𝑛(𝜔𝑡) 𝑆 𝐹𝑒𝑚 = −𝐵 𝑆 𝜔 𝑐𝑜𝑠(𝜔𝑡) 𝑖 = − 𝐵 𝑆 𝜔 𝑐𝑜𝑠(𝜔𝑡) 𝑅 𝑄 = 𝑖 (𝑡2 − 𝑡1) 𝑖 = 𝐹𝑒𝑚 𝑅 = 𝑑 𝑑𝑡 (𝑄) 1b) Flusso costante e superficie si estende con velocità (T1 e T2 dentro il flusso) 𝑄 = ∫ 𝐹𝑒𝑚 𝑅 𝑇2 𝑇1 𝑑𝑡 Φ𝐵(𝑡) = 𝐵 𝐿 (𝑋) 𝐹𝑒𝑚 = −𝐵 𝐿 𝑉 𝑖 = − 𝐵 𝐿 𝑉 𝑅 𝑄 = − 1 𝑅 (Φ𝐵2 − Φ𝐵1) 1c) Superficie costante si muove a velocità V con flusso costante (T1 fuori e T2 dentro flusso) Φ𝐵(𝑡) = 𝐵 𝐿 (𝑋2) 𝐹𝑒𝑚 = −𝐵 𝐿 𝑉 𝑖 = − 𝐵 𝐿 𝑉 𝑅 𝑄 = − 1 𝑅 (Φ𝐵2 − Φ𝐵1) 1d) Superficie c. si muove a velocità indefinita con flusso costante (T1 fuori e T2 dentro flusso) Φ𝐵(𝑡) = −𝐵 𝑆 𝐹𝑒𝑚 = ∆Φ𝐵 ∆𝑇 𝑖 = ∆Φ𝐵 ∆𝑇∗𝑅 𝑄 = 𝑖 (𝑇2 − 𝑇1) Rapporto dell’angolo tra campo magnetico B e normale della superficie ?̂? α = 0 Φ𝐵 = 𝑀𝑎𝑥 α = 90 Φ𝐵 = 0 α = 0 Φ𝐵 = 𝑐𝑜𝑠𝛽 = 𝑠𝑖𝑛𝛼 a = c sin(α) = c cos(β) b = c cos(α) = c sin(β) c = √𝑎2 + 𝑏2 2) Momento e campo magnetico |m̅| = i S n μ0 Momento magnetico, dove μ0 = 12,56 ∗ 10−7 H̅ = |B|̅̅ ̅̅ μ0 = 𝑖 𝑁 μ0 𝐿 [μ0] = 𝑖 𝑁 𝐿 Campo magnetico 3) Campo magnetico su filo e spire, legge di Biot Savart 𝐵𝐹𝐼𝐿𝑂 = μ0 𝑖 2𝜋 𝑟 𝐻𝐹𝐼𝐿𝑂 = 𝑖 2𝜋 𝑟 Nel caso il raggio cambi con una certa velocità: 𝐵𝐹𝐼𝐿𝑂 = μ0 𝑖 2𝜋 𝑥(𝑡) di conseguenza Φ𝐵cambia 𝐵𝑆𝑃𝐼𝑅𝐴 = μ0 𝑖 2𝑟 𝐻𝑆𝑃𝐼𝑅𝐴 = 𝑖 2𝑟 4) Forza di un elettrone in moto 𝐹𝐿 = Q (V̅xB̅) = 𝑄 𝑉 𝐵 𝑆𝑖𝑛(𝛼) La forza di Lorenz, nel prodotto vettoriale la forza è perpendicolare alla velocità e al campo magnetico. Se la carica è negativa il segno va invertito La forza che riceve una carica dal campo magnetico B. In una circonferenza deve essere eguagliata alla forza centripeta diretta verso il centro: |𝐹𝐿| = |𝐹𝐶| dunque: |𝑄 𝑉 𝐵 𝑆𝑖𝑛(𝛼)| = |𝜔2 𝑟| il periodo è calcolato come: 𝑇 = 2𝜋 𝜔 Carretta Marco 1875 HHH INGGES 35 8.5 D2B OS: Discutere il fenomeno della riflessione e rifrazione con la legge di Snell Quando un raggio di luce che viaggia in un materiale trasparente (esempio aria) incontra una superficie di separazione con un altro mezzo trasparente (esempio acqua), il raggio si divide in due raggi: uno è il riflesso e l’altro il rifratto: Riflesso Il raggio non penetra il secondo mezzo e viene specchiato con lo stesso angolo di incidenza. Se la superficie è perfettamente riflettente, abbiamo solo la riflessione (esempio lo specchio). Rifratto Il raggio penetra il secondo mezzo variando la sua direzione di propagazione ovvero l’angolo di rifrazione è differente dall’angolo di incidenza. La rifrazione è la deviazione che un raggio incidente subisce nel passare da un mezzo trasparente ad un altro dovuto alla differenza della velocità di propagazione dei due mezzi, dovuta all’indice di rifrazione: Indice di rifrazione del mezzo 𝑛 = √∈𝑟 𝜇𝑟 Dove ∈𝑟 è la costante dielettrica relativa, 𝜇𝑟 permeabilità magnetica relativa, 𝐶 è la velocità della luce nel vuoto Velocità di propagazione del mezzo 𝑉 = 𝐶 𝑛 = 𝑐 √∈𝑟 𝜇𝑟 Nell’ottica, la legge di Snell, descrive le modalità di rifrazione di un raggio luminoso incidente che attraversa due mezzi con indice di rifrazione 𝑛 differente. La legge di Snell permette dunque di individuare la direzione del raggio rifratto conoscendo la direzione del raggio incidente (angolo di incidenza) ed i rispettivi indici di rifrazione dei due mezzi. Nella Riflessione abbiamo: 𝜃1 = 𝜃2 Nella Rifrazione per la legge di Snell abbiamo: 𝑛1 𝑆𝑖𝑛(𝜃1) = 𝑛2 𝑆𝑖𝑛(𝜃3) Per la legge di Snell L’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione. La legge di Snell permette di individuare la direzione del raggio rifratto conoscendo la direzione del raggio incidente ed i relativi indici di rifrazione dei due mezzi. La luce si propaga nel vuoto più velocemente. La formula 𝑛1 𝑆𝑖𝑛(𝜃1) = 𝑛2 𝑆𝑖𝑛(𝜃3) ci svela che se un raggio entra perpendicolarmente alla superficie di separazione, esso non verrà mai deviato. La riflessione totale la si ottiene analogamente avendo un raggio parallelo alla superficie di separazione. La simmetria della legge di Snell mostra che gli stessi percorsi luminosi sono validi anche nel verso opposto. La legge di Snell è valida solo nei mezzi isotropi. Nei mezzi anisotropi (le caratteristiche fisiche dipendono dalla direzione lungo la quale vengono considerate, esempio la radiazione cosmica di fondo) i raggi rifratti sono due: uno ordinario che segue la legge di Snell e uno straordinario che non la segue. 8.6 D2B OS: Discutere la diffusione La diffusione o dispersione ottica (in inglese scattering) avviene quando un raggio luminoso incide su un mezzo opaco: questo viene riflesso e trasmesso in tutte le direzioni indipendentemente dall’angolo di incidenza. Sono fenomeni di interazione tra materia ed onda in cui l’onda viene deflessa a causa della collisione con le particelle della materia. La deflessione del raggio avviene in maniera casuale e caotica e per questo la diffusione si distingue dalla rifrazione e riflessione la cui traiettoria del raggio è ben definita. La diffusione che ci è di gran lunga più familiare è la riflessione diffusa che viene dalla superficie dei solidi. Tutte gli oggetti "opachi" mandano al nostro occhio quasi solo luce diffusa a seconda se sulla loro superficie la luce incidente è stata solo dispersa o anche assorbita. Il fenomeno della diffusione avviene anche quando il raggio luminoso incontra degli ostacoli microscopici. Anche in questo caso abbiamo una deviazione del raggio luminoso indipendentemente dall’angolo d’incidenza. Considerando oggetti microscopici di dimensioni 𝑑 e una radiazione luminosa di lunghezza d’onda λ avremo che: Se λ < d Il fenomeno della diffusione non dipende dalla lunghezza d’onda λ della radiazione incidente Se λ > d Il fenomeno della diffusione dipende alla lunghezza d’onda λ. Proprio per questo, la luce blu che ha una lunghezza minore si diffonde maggiormente rispetto a quella rossa e alle altre (effetto simile allo scattering die Rayleigh). Questo fenomeno è chiamato effetto Tyndall Un esempio molto comune di diffusione della luce (scattering di Rayleigh) è dato dal colore blu del cielo: la luce del sole (bianca) incide sull'atmosfera terrestre, le cui molecole (dell’atmosfera) diffondono con più facilità le frequenze più alte, ovvero i colori più vicini al blu e al violetto. Un altro esempio tipico è il colore bianco del latte o delle nuvole: in questo caso le particelle del latte o le goccioline d'acqua delle nuvole, diffondono uniformemente tutte le frequenze e, siccome il processo si ripete moltissime volte all'interno del mezzo, la direzione di provenienza della luce non è più riconoscibile e il mezzo assume un colore bianco. Carretta Marco 1875 HHH INGGES 36 8.7 D2B OS: Discutere l’interferenza tra le onde Quando più onde attraversano la stessa regione (si incontrano durante la loro propagazione), esse si sovrappongono generando, solo nel caso di onde con la stessa frequenza, fenomeni di interferenza. Ricordando la funzione di un’onda: 𝑌 = 𝑌𝑚 𝑠𝑖𝑛(𝐾𝑥 − 𝜔𝑡 + 𝜑) con una lunghezza d’onda λ = 2𝜋 e dunque un numero d’onda 𝐾 = 2𝜋 λ = 1 studiamo l’interferenza nei suoi due casi limite: Onde in fase 𝜑 = 0 (stessa frequenza e fase) Abbiamo un interferenza totalmente costruttiva. L’intensità finale è uguale alla somma dell’intensità delle due onde. Ampiezza Massima per angolo di sfasamento: 𝜑 = K λ Onde sfalsate 𝜑 = λ 2 =(π) (stessa freq e sfasata 180°) Abbiamo un interferenza totalmente distruttiva. L’intensità finale è uguale alla differenza dell’intensità delle due onde (nulla). Ampiezza Minima per angolo di sfasamento: 𝜑 = K λ + λ 2 8.8 D2B OS: Discutere la diffrazione con esperimento di Huygens-Fresnel e Young Abbiamo il fenomeno della diffrazione quando la luce incontra un ostacolo e riesce ad aggirarlo. Come visto precedentemente nei vari effetti, un raggio di luce può essere: Riflesso L’onda viene rimbalzata dall’oggetto Rifratto L’onda viene deviata dall’oggetto Diffranto L’onda riesce ad aggirate l’oggetto Nella diffrazione l’onda entrando in una fenditura non si propaga più in linea retta (modello onde) e invade ciò che dovrebbe essere una zona d’ombra. La diffrazione è molto marcata quando λ > d ovvero quando la fenditura da cui passa la luce ha dimensioni simili o inferiori a quelle della lunghezza d’onda. Il principio di Huygens-Fresnel dice che ogni punto della fenditura diventa a sua volta una sorgente di onde secondarie sferiche (non più lineari) che si propagano in tutte le direzioni dello spazio. Queste onde secondarie interagiscono tra di loro producendo frange di interferenza. Nell’esperimento di Young possiamo empiricamente verificare se onde secondarie generate dalle fenditure generano un’interferenza costruttiva o distruttiva. Ponendo L>>D in modo che R1 ed R2 possono considerarsi paralleli abbiamo: |𝑅2 − 𝑅1| = 𝐷 𝑆𝑖𝑛𝜃 = 𝐿 = { Kλ abbiamo interferenza costruttiva Kλ + λ 2 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎 Dunque, se L è pari alla lunghezza d’onda o ad un suo multiplo allora le onde sferiche pervengono nel punto P ancora in fase e producono un’interferenza totalmente costruttiva. Nel caso opposto, se le due onde sono completamente sfasate, abbiamo un’interferenza totalmente distruttiva. Sapendo che per una fenditura sufficientemente piccola l’interferenza di un’onda piana che l’attraversa si comporta come nel caso della doppia fenditura, verificando le condizioni d’interferenza riesco ad individuare sullo schermo il disco di AIRY (cioè i punti di massima e minima intensità della luce). Affinché sullo schermo appaia una figura d’interferenza le onde luminose dovranno avere un angolo di fase che non varia nel tempo, ovvero devono rimanere coerenti! 8.8.1 D2B OS: Differenze e analogie tra interferenza e diffrazione Il fenomeno della diffrazione è strettamente legato e dipendente dal fenomeno dell’interferenza. La diffrazione avviene grazie all’interferenza tra le onde sferiche generate da una onda piana (la quale nasce da una singola sorgente) che attraversa una fenditura sufficientemente piccola. Il fenomeno dell’interferenza invece può avvenire in maniera isolata o anche da onde generate da due diverse sorgenti purché abbiano la stessa frequenza (la fase può essere differente).
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