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Riassunti "Arte nel Tempo" Volume 2 tomi 1 e 2, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunti dettagliati del libro "Arte nel Tempo". La sintesi del Volume 2 tomo 1 è completa, mentre il tomo 2, all'interno dello stesso documento, arriva fino a Francesco Borromini (pag. 644).

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 11/12/2021

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Scarica Riassunti "Arte nel Tempo" Volume 2 tomi 1 e 2 e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! ARTE NEL TEMPO ® Il Quattrocento internazionale. Uno dei caratteri più affascinanti del secolo è la convivenza e l’incontro tra linguaggi profondamente diversi, i quali si pongono tutti come innovatori rispetto alle tradizioni precedenti. - Tardo gotico > sottolinea i caratteri di continuità, ma anche di esasperazione, dei tratti più tipici del gotico. - Stile dolce + termine puramente descrittivo che evidenzia l’importanza della linea morbida e modulata che si accompagna a una stesura sfumata delle tinte. - Gotico cortese > fa riferimento all'ambiente sociale in cui lo stile avrebbe avuto la sua elaborazione e fama maggiore: di fronte all’avanzare della borghesia, l'aristocrazia afferma la propria distinzione attraverso un'impeccabile perfezione formale. > Queste definizioni però caratterizzano solo alcuni aspetti del fenomeno, tanto che sembra preferibile l'appellativo “internazionale” perché ne mette in rilievo l'ampiezza di diffusione e la comunanza di stilemi. Frequenti diventano gli spostamenti degli artisti, la circolazione delle opere (tramite commercio o diplomazia), la ricerca di taccuini e schizzi. A questo insieme di fattori si aggiunge anche un gusto diverso: realismo minuto ed epidermico, amore per il lusso, convivenza naturalismo-idealizzazione lirica, storie della Passione. Dal punto di vista formale domina, invece, sempre la linea (morbida o fluida), cui si associa una cromia raffinata, e l'indipendenza del drappeggio, che arriva ad assorbire l'anatomia della figura. > L'Europa delle corti: 1. Avignone > grazie a un ambiente omogeneo e libero dai condizionamenti di una forte tradizione locale, aveva dato un contributo importantissimo alla fondazione dei modi internazionali già dalla metà del ‘300. A fine secolo, il trasferimento del papato e le vicende connesse al Grande Scisma, comportarono una produzione meno ricca: le pitture rimaste sono scarse, mentre abbonda la scultura funeraria. 2. La Boemia > al tempo di Venceslao IV raggiunge l’apice del suo “stile dolce”, tanto in pittura quanto in scultura: esso è caratterizzato da squisitezze lineari, dal movimento ritmico di panni e figure e da una idealizzazione fisionomica che intende purificare e spiritualizzare la bellezza sensibile. Ex: il genere delle cosiddette “belle Madonne” come “la Madonna della Cattedrale di Saint Guy” - 1400 e tutta la statuaria lignea (come l’Apostolo San Bartolomeo - XV secolo). 3. Parigi > centro della nascita di Ateliers e oreficerie importanti e luogo in cui lavorano artisti dalle più diverse provenienze e culture (spiccano i fiamminghi e italiani). Si tratta di un ambiente variegato, che elabora una gamma amplissima di soluzioni (Ex: l’opera minatoria di Jacques Coene che, legata alla tradizione parigina, compie comunque un decisivo passo in avanti verso la resa spaziale degli interni). 4. Cortedi Borgogna > stile diverso rispetto a quello elaborato in altre corti. Tale diversità si deve soprattutto al periodo di Filippo l’Ardito, sotto il cui governo giungono molti artisti di tradizione fiamminga (Ex: Claus Sluter o i Fratelli Limbourg). > Unruoloa parte l’ha giocato la pittura sorta a cavallo tra ‘300 e ‘400 nelle floride aree tedesche, i cui centri più attivi erano libere città dalla vivace attività mercantile. In queste zone di frontiera si tenta un aggiornamento delle forme tradizionali in chiave fiamminga/franco-fiamminga (Ex: Lucas Moser). > L'Italia settentrionale: 3. La Lombardia + interlocutore alla pari con le più attive corti europee è la Lombardia di Gian Galeazzo Visconti, il duca che sognava di fare dei suoi possedimenti il più potente Stato italiano. Gli ateliers di miniatori al suo servizio si erano precocemente impegnati in una rilettura lussuosa dell'adesione al quotidiano tipica lombarda: tale convivenza amorosa tra realtà e decorativismo conobbe un successo enorme, tanto che venne coniata la cosiddetta “esecuzione alla maniera lombarda”. Tuttavia, l'avvento che proiettò Milano su di un orizzonte veramente internazionale fu l'avvio del Duomo, il cui via vai di architetti (stranieri e non) che esso causò fu uno strumento di aggiornamento ad ampio raggio > in questo ambiente, Michelino da Besozzo apprende l'interpretazione più libera e fantasiosa: la decorazione dell’Offiziolo Bodmer presenta i suoi tratti più caratteristici. Le figure sono definite da una linea cedevole e fluida, i cui colori sono tenui e preziosi e vi domina un’indifferenza nei confronti della resa spaziale (altro esempio: la tavola con lo “sposalizio mistico di Santa Caterina”). Di tutt'altro tono gli affreschi con “Giudizio universale” eseguiti dai fratelli De Veris, in cui la sapiente tecnica lombarda ad affresco si unisce a moti violenti e a fisionomie caricate di derivazione nordica, secondo una miscela presente anche nelle miniature di Belbello da Pavia. Venezia > la capitale del Veneto internazionale è Verona, ma il centro che favorì gli incontri più stimolanti e gravidi di conseguenze fu Venezia che riunì fianco a fianco personaggi forestieri di importanza capitale: sono anni cruciali per la città perché segnano il progressivo distacco dalla cultura bizantina e un più deciso allineamento con quella occidentale. Tale fenomeno accomuna pittura, scultura e architettura, come si evince dal “Polittico di Sant'Agostino” di uno dei massimi esponenti del gotico veneziano, Jacobello del Fiore: la rigidezza delle figure si attenua grazie al modellato morbido e alla qualità più decorativa dei contorni. In seguito, nel “Polittico con Storie di Santa Lucia”, gli sfondi di paese evocano quelli di Gentile da Fabriano. Gentile da Fabriano incarna la tipica figura dell'artista “internazionale” che preferisce, alla bottega, le più svariate occasioni di lavoro presso corti e città prestigiose. Accenti della tradizione lombarda, per esempio, sono già manifesti nella sua opera giovanile “Madonna con il Bambino e Santi” e, ancor di più, nel “Polittico di Valle Romita” > la morbidezza luminosa con cui Gentile intenerisce il colore stimola infatti il definitivo distacco dalla campitura di marca bizantina e predispone il gusto veneziano ad accogliere le future novità. Verona > la città, per quanto sottomessa politicamente, mantiene a lungo, nei confronti di Venezia, una propria fisionomia artistica più vicina alle esperienze lombarde. Stefano da Verona presenta una fisionomia culturale assai composta e che si inserisce perfettamente in questo circuito internazionale: il linguaggio artistico maturo è sicuramente maggiormente identificabile nell’ Adorazione dei Magi”, firmata e datata 1435 > in essa, accanto alla ritmica lineare che governa distribuzione e collegamento dei gruppi, emerge il desiderio di conferire una precisa verità agli oggetti e alle fisionomie, parallelo a l'indagine di Pisanello. Antonio Pisano, detto Pisanello, compì in territorio veneto incontri fondamentali, portando la sua opera ad esser ritenuta anche il culmine della tradizione naturalistica lombarda. Ciò si evidenzia confrontando le due opere rimaste in territorio veronese: 1) L'affresco dell’Annunciazione > terminato nel 1426. I colori morbidi e luminosi delle carni, la plasticità e l'atmosfera raffinata concordano con l'esempio di Gentile, mentre i contorni sinuosi risalgono al Da Verona. L’accurata descrizione ambientale deriva, invece, da esempi d'oltralpe. In questo clima matura Masolino da Panicale, che avrà un peso enorme nei decenni successivi: la sua indipendenza si dichiara già nelle prime opere come “La Madonna col bambino” (1423), in cui la fluenza ritmica dei contorni, le proporzioni allungate e le ricercate armonie cromatiche si sposano a decisi accenti plastici (Ex: ginocchio, mano). N.B. su tutti questi artisti eserciterà la sua influenza Gentile, inaugurando la seconda ondata innovatrice con ‘Adorazione dei Magi” (1423) > il campo della tavola tricuspidata non è diviso a trittico, come era solito essere, ma il corteo dei magi si dispiega su tutta la superficie. Il tratto di quest'opera è basato, infatti, sulla narrazione del racconto figurato per accostamento di episodi e fitti, sui quali lo spettatore è invitato a fermarsi partitamente: in primo piano si situa la scena dell’adorazione, divisa in due gruppi (astanti e Sacra famiglia coi magi) separati, ma collegati allo stesso tempo dalla figura del giovane re > questa scansione facilita l'osservazione dei mille particolari che arricchiscono la narrazione, senza subordinarli a un principio unitario. > Alcuni aspetti del naturalismo tardogotico si incontrano con modelli antichi, valorizzandosi reciprocamente e non mancano influenze tipiche fiorentine come schemi compositivi tipici di Ghiberti. C'è da dire, però, che Fabriano non restò insensibile alle innovazioni nate intorno al Brunelleschi: del 1425 è il “Polittico Quaratesi”, dipinto popolato da figure monumentali e pacate che testimoniano una conoscenza meditata delle opere di Ghiberti e Masolino. Il punto di arrivo cui giunge Gentile dopo il suo arricchimento culturale fiorentino può essere considerata la “Madonna di Orvieto” (1425) + in questo affresco le eleganze decorative sono ridotte al minimo e i volti, precisamente individuati, hanno espressioni umanissime. ® IlQuattrocentoa Firenze. Mentre, come si è visto nel capitolo precedente, Europa e Italia erano investite del rinnovamento “internazionale”, a Firenze prese slancio un'alternativa radicalmente diversa: essa traeva alimento non solo dall'effimera fioritura economica e dei recenti successi politici delle città, ma soprattutto dallo stringersi del legame con le origini romane > da tale legame ne trasse il nome di “Rinascimento”, termine che implica un risveglio tanto dello spirito romano quanto delle forme dell’età classica. Si possono evidenziare tre tratti che con la loro compresenza qualificano lo “stile rinascimentale”: - Sistemazione delle molteplici ricerche riguardanti la rappresentazione dello spazio e formulazione di una soluzione unitaria + uso della prospettiva lineare centrica. - Attenzione all'uomo come individuo, nella sua componente sia fisica che emotiva. - Ripudio degli elementi esornativi, sintesi ed essenzialità. Lo studio dell’antico e quello della natura saranno le due stelle polari di questo cammino, ma il fattore più importante è il problema prospettico. > La prospettiva: in modo estremamente generico si può indicare come “prospettiva” ogni sistema atto a rappresentare su di un piano la tridimensionalità dello spazio e la posizione reciproca degli oggetti in esso contenuti. Ai primi del ‘400, Brunelleschi mette a punto un metodo che consenta di restituire in modo misurabile tanto la profondità quanto le dimensioni proporzionali delle figure partendo dalle nozioni dell'ottica medievale e da un nuovo concetto di spazio. I risultati di tali meditazioni furono affidati a due tavolette, ora perdute, raffiguranti il Battistero di Firenze visto dalla porta centrale e piazza della Signoria > la tavola raffigurante il Battistero di Santa Maria del Fiore è eseguita su di una superficie d’argento brunito nella quale si rispecchiava il “cielo vero”: essa non doveva essere guardata direttamente, ma si doveva accostare l'occhio a un foro sul retro della tavola. > Questo sistema era basato sul concorrere delle rette ortogonali, tra loro parallele, in un unico punto di fuga stabilito dall'artista. N.B. tutto ciò era traducibile in schemi grafici di rapida applicazione che non richiedevano conoscenze geometriche particolarmente raffinate, e questo fu certo uno dei fattori che ne facilitò la diffusione nelle botteghe degli artisti. Brunelleschi vs. Donatello: sono coloro che posero con maggior chiarezza il problema del rapporto tra ideali umanistici e una nuova forma espressiva. Essi si diressero a Roma insieme, probabilmente per studiare i resti antichi e collaborarono più volte. Esemplare è l’interpretazione che essi danno al tema tradizionale della “Crocifissione”: - Brunelleschi - 1420-25: traduce la divinità e perfezione morale di Cristo in perfezione di forme non intaccate dal dolore, in equilibrio di proporzioni. Le braccia allargate di Cristo equivalgono esattamente all'altezza della figura e inventa una leggera torsione di tutto il corpo verso sinistra (tramite la rielaborazione del “Crocifisso” giottesco), che induce lo spettatore a un percorso semicircolare. - Donatello - 1425: secondo un tratto tipico della sua personalità, Donatello polemizza tanto contro le squisitezze ellenistiche del maestro Ghiberti (Ex: La “Crocifissione” del 1415) quanto con le armonie matematiche del compagno Filippo. Qui, egli drammatizza l'elemento umano, scardinando la “convenienza espressiva” > il suo Cristo è colto nel momento dell’agonia, con i lineamenti contratti e la bocca dischiusa, dando forma ad un corpo sgraziato. Il primo ambito in cui vennero recepiti fermenti innovativi legati alla cultura umanistica fu quello della scultura, concentrata, all’inizio del secolo, nei due grandi cantieri di Orsanmichele e di Santa Maria del Fiore. All'interno di questa cultura moderatamente aperta alle innovazioni/sperimentazioni emersero i più decisi assertori di un rinnovamento della plastica: Donatello e Nanni di Banco. San Giovanni di Donatello (1412-15) vs. San Luca di di Banco (1411-14): comune è la reazione ai manierismi tardogotici dominanti nel cantiere e il tentativo di collocare le figure nello spazio con maggiore libertà e vivacità plastica/fisionomica. MA Nanni rispetta il piano della nicchia e segue con maggiore ossequio il modello ideale classico. Donatello, invece, è convinto che l’esperienza della statuaria classica antica è uno stimolo per la ricerca di una maggiore aderenza alla realtà 3 San Giovanni, in una posizione leggermente ruotata, è un individuo corrucciato e fremente , percorso da una carica vitale nei contorni e da un chiaro-scuro spezzato che anima i panneggi. Tali differenze si approfondiscono nelle opere che entrambi eseguono, pochi anni dopo, per Orsanmichele. Il Gruppo dei SS. Quattro Coronati (1411-14) di Nanni accentua il proposito di esprimere la ritrovata dignità umana attraverso la lezione dell’antico, in particolare quella dei ritratti imperiali. Statici e solenni, i santi accompagnano col loro disporsi lo spazio cilindrico della nicchia, e concretano con gesti austeri il severo ideale civile che è proprio dell’umanesimo fiorentino di stampo trecentesco. Energia e vitalità, trattenute ma visibili, sono invece il segno che contraddistingue il “San Giorgio” (1415-17) di Donatello + la forma è compatta e delineata da una serie di ovali (volto, profilo del manto, andamento delle spalle, scudo). Il lieve scatto laterale della testa in direzione opposta al corpo acquista per contrasto la massima evidenza, sottolineato anche dal concentrarsi del chiaro-scuro negli occhi profondi e nelle sopracciglia. Anche il rilievo sulla base che narra l'episodio di “San Giorgio che libera la principessa” ribadisce quest’attenzione al dramma, tramite la ripresa della tecnica dello “stiacciato”, cioè un rilievo molto basso che si presta a rendere con mezzi quasi pittorici la dilatazione spaziale, e tramite l'applicazione di uno dei primi saggi di costruzione prospettica a punto di fuga unico, che focalizza l’attenzione sul gruppo cavaliere-drago. Gli anni successivi furono per Donatello fitti di opere eseguite nelle tecniche più diverse, come, per esempio, la ricerca di forte individuazione fisionomica nel “San Rossore”, opera che diverrà il prototipo del busto-ritratto 400esco. Significativo, invece, sotto l'aspetto della sintesi tra forma classica e forma drammatica sono gli ultimi due profeti eseguiti per il Campanile di Giotto tra il 1425 e il 1436, Geremia e Abacuc + in queste figure spietatamente vere, i ricordi della ritrattistica romana sono superati da una forte tensione espressionistica. Nel corso degli anni '30 un punto di arrivo/svolta è da individuare nella “Cantoria” del Duomo fiorentino, maturo confronto con una tradizione culturale rivissuta nella sua interezza e nuovo modo di interpretare il rapporto spazio- figurazione. La Cantoria fu commissionata a Donatello dagli Operai di Santa Maria del Fiore nel 1433, dopo che ne era stata affidata un’altra di egual misura a Luca della Robbia: - Luca della Robbia (1431-38) > illustra punto per punto il salmo 150, il cui testo è riportato lungo le comici, con dieci rilievi: 6 sono posti sul parapetto e 4 tra le mensole. Inquadrati da una nitida architettura brunelleschiana, i rilievi sono popolati da figure di compista e olimpica bellezza. N.B. in essi l'autore afferma la sua moderna classicità, che unisce a naturalezza ed efficacia espressiva un senso vivo per i sentimenti umani nella loro gamma più pacata e serena. - Donatello (1433-38) + pochi anni prima era stato a Roma per la seconda volta e il fascino provato per le rovine imperiali e i monumenti romanici si fondono con estrema libertà all'interno della sua Cantoria. La struttura è molto rigorosa: il parallelepipedo della vasca ha altezza uguale ai mensoloni che lo sorreggono, generando così un ideale rettangolo esattamente bipartito 3 ad ogni mensola corrisponde sul corpo della vasca una coppia di colonne che sostengono un architrave. Questa architettura è però staccata dal pian odi fondo, così da creare una specie di stretto palcoscenico, nel quale ha vita una danza sfrenata di putti. N.B. il senso di movimento è accresciuto dal balenìo della paste vitree, a foglia d'oro o colorate, che incrostano tanto il fondo quanto gli elementi architettonici 3 anche lui si riferì, probabilmente, a un salmo (148 o 149). Dopo gli esordi come scultore, Filippo Brunelleschi inizia già nel primo decennio del secolo le sue meditazioni sui problemi architettonici, che troveranno una prima applicazione grazie agli incarichi di ingegneria militare realizzati per la regione. Tutto quanto Brunelleschi ha progettato, e in parte costruito, è racchiudibile nell'arco di un 30ennio ed è contenuto entro le mura fiorentine > il tratto distintivo del suo linguaggio è la chiarezza che nasce dalla linearità geometrica degli elementi costitutivi, valorizzata dall'uso di membrature in pietra serena grigia risaltanti sullOintonaco chiaro delle pareti (Ex: ospedale degli innocenti, la sacrestia vecchia in San Lorenzo, la Cappella Pazzi). Nel 1418 gli operai del cantiere del Duomo bandirono un concorso per il modello della cupola e vinsero, a parimerito Ghiberti e Brunelleschi. Quest'ultimo stavolta non si ritirò e divenne l’unico vero responsabile della costruzione, iniziata il 1° agosto 1429. Il primo problema da affrontare era di ordine tecnico: l'enorme copertura, seguendo i sistemi tradizionali, avrebbe richiesto ponteggi partenti da terra e centine lignee per reggere la cupola in costruzione fino alla sistemazione della chiave di volta. In secondo luogo, si trattava di trovare una forma, rispondente alle nuove esigenze estetiche. Infine, era necessario sottolineare il valore simbolico della cattedrale; la cupola doveva, cioè, avere proporzioni in altezza tali da imporsi sullo spazio urbano e sui dintorni. In pratica, allora, Brunelleschi idea una doppia cupola a sesto acuto costituita da un'ossatura di 8 costoloni interni tra i quali si tendono vele a sezione orizzontale rettilinea in grado da assorbire le fortissime spinte orizzontali dei costoloni. Alla cupola interna, più piccola e robusta, è affidato il compito di reggere quella esterna. Il problema delle centine è invece risolto con murature a spina di pesce + i costoloni vengono così costruiti insieme alle vele, che svolgono una funzione di sostegno nei loro confronti e che si reggono autonomamente grazie alla particolare posa dei mattoni. A conclusione di tutto, la lanterna consolida ulteriormente costoloni e vele. “La Madonna dell’umiltà” (1430-32) di Filippo Lippi presenta un evidente impronta masaccesca nel tipo della Vergine, nella dilatazione delle forme e dal forte risalto plastico, accompagnandosi a uno scoperto interessante per la scultura più attuale. > Saranno gli ulteriori sviluppi di questi due artisti (Beato e Lippi - senza dimenticare Masolino) a segnare il futuro della cultura pittorica dopo Masaccio. A partire dalla metà degli anni '30 si crearono le premesse per una sistemazione teorica delle precedenti sperimentazioni 3 da questo punto di vista la personalità chiave è Leon Battista Alberti che, coltissimo e versato in diverse discipline, poté valutare i diversi risultati dei suoi vari studi e integrarli in una visione d'insieme che attutiva le differenze in favore del denominatore comune della Rinascita. N.B. rispetto a Brunelleschi egli cerca di stabilire, ripercorrendo filologicamente le esperienze del passato, i fondamenti oggettivi di un linguaggio capace di tradurre in unità le differenti esperienze maturate > perciò, l'Alberti teorizza su tutte e tre le arti magistrali, affrontando problematiche non solo tecniche ma anche estetiche. ® IlQuattrocento fiammingo: La scoperta del reale attuata a Firenze da Masaccio ha un parallelo nelle Fiandre. | paesi fiamminghi godono, all’inizio del XV secolo, di una rinnovata prosperità, grazie soprattutto ad artisti come Jan van Eyck e alla posizione geografica assai favorevole > si giunge alla nascita di una società cosmopolita, agiata e culturalmente aperta, in cui, forse pe rla prima volta, la committenza borghese eguaglia quella aristocratica. N.B. già alla fine del ‘300 si era diffusa nei paesi nordici la necessità di un più stretto e personale rapporto tra l'uomo e Dio, comportando l’intima partecipazione del fedele nei confronti di alcuni temi come la Passione di Cristo e la figura di Maria. Indiscusso artefice del rinnovamento fu Jan van Eyck, la cui opera è cronologicamente parallela a quella di Masaccio: come a Firenze, anche in area fiamminga la cultura figurativa tardogotica era vivace e godeva di prestigio presso le più varie classi di committenti, ma nell’ambito pittorico si assiste comunque a un rinnovamento, pur senza superare totalmente il mondo gotico (Ex: le miniature di Van Eyck lo confermano - “La nascita del Battista”; 1417-24: completa integrazione di figure e paesaggio, grazie alla luce unificatrice dello spazio). Anche Van Eyck, come Masaccio, si pone il problema della realtà: Masaccio opera una sintesi, cogliendo la struttura e l'essenza delle cose in una visione prospettica unitaria, mentre Van Eyck procede per analisi. Anche le tecniche utilizzate sono diverse: Masaccio modella potentemente col chiaroscuro, mentre Van Eyck, tramite la tecnica a olio, opera attraverso successive velature di colore-luce, traslucide e trasparenti. N.B. lo spazio è l'elemento che permette di misurare in tutta la sua ampiezza il divario tra le due “scuole”, italiana e fiamminga, soprattutto se prestiamo attenzione al confronto di due opere: - “ILritratto dei coniugi Arnolfini” (1434): compaiono 4 punti di fuga > la stanza in cui i due protagonisti sono ritratti è tagliata in modo da dare l'illusione di uno spazio che include anche lo spettatore, sottolineato anche dalla scelta, molto comune tra i fiamminghi, dell'orizzonte alto. Lo spazio si apre all’esterno verso il paesaggio che si intravede dalla finestra e, all'interno viene raddoppiato dallo specchio che riflette sullo sfondo. - Lo scomparto della predella della “Pala di San Marco” (1438-40) di Beato Angelico: anche se egli è uno degli artisti più sensibili ai problemi della luce, il vano da lui dipinto è costruito servendosi di un unico punto di fuga. Alla stessa generazione di Jan appartiene Robert Campin: tramite “L'annunciazione del trittico di Mèrode”(1430), è possibile rilevare le peculiarità che lo distinguono da Van Eyck e i motivi che ne fanno l’altro punto di riferimento del primo ‘400 fiammingo. L'episodio sacro è interpretato come avvenimento quotidiano e ambientato in un interno borghese che si apre su una veduta urbana: gli atteggiamenti dei personaggi sono più familiari e lontani dall’immobilità di Jan > monumentalità e plasticismo caratterizzano le figure, definite da una linea incisa e valorizzate da una luce tagliente. Il preciso chiaroscuro che ne risulta e le ombre che si stampano nette contro le pareti isolano le figure l'una dall'altra. Lo spazio non è sottoposto ad alcuna unificazione luminosa. Rogier van der Weyden è invece debitore di entrambi i maestri: i protagonisti delle sue opere sono legati da catene di gesti e sguardi, percorsi da correnti di sentimento che vitalizzano anche lo spazio. Da Van Eyck, Rogier mutua la qualità luminosa degli ambienti e dei particolari, subordinati peraltro al predominio delle figure umane. Escludendo gli sfondi paesistici, egli concentra l’attenzione soprattutto sull'uomo e sui suoi sentimenti > a tale preferenza si accordano le tinte fredde, intonate in accostamenti insoliti ma raffinati. “La Deposizione” (1435) presenta il gruppo delle figure, quasi un bassorilievo costretto in uno spazio esiguo, legato da gesti contratti e linee spezzate: il perno è il corpo esangue di Cristo, la cui posizione obliqua è ripresa dalla Vergine svenuta. La semplicità del fondo oro e la mancanza di specifiche cronologiche e spaziali danno risalto al dramma, indagato in tutte le sue pieghe. N.B. Rogier nelle sue opere sa sempre variare con sottigliezza le iconografie. In Italia l'interesse verso la nuova pittura fiamminga si era esplicato già intorno al 1440 a diversi livelli: - La committenza + banchieri e commercianti residenti al nord commissionavano pale d'altare e ritratti, talvolta destinandoli alla madrepatria e facendosi così intermediari del nuovo linguaggio in terra italiana (Ex: il “Trittico del Giudizio Universale” di Hans Hemling - 1466-73). - Lariflessione critica 3 se la teorizzazione sull’arte era assente nelle Fiandre, in Italia invece la cultura classica fornì schemi e termini per una valutazione non generica delle qualità di un'opera. La presenza di artisti fiamminghi in Italia pone a costoro anche il problema di come assimilare le novità rinascimentali: la nuova concezione prospettica dello spazio non poteva essere assunta senza scompaginare fin nel profondo l’ambiente fiammingo > è pertanto comprensibile la prudenza con cui Rogier filtra, nella sua seconda “Deposizione” (1450) la “Deposizione” (1438-40) del Beato Angelico per la sua predella della “Pala di San Marco”: di fatto, il legame si risolve in un semplice ricordo iconografico (l'apertura rettangolare del sepolcro). "> La composizione pausata e solenne dell’Angelico, ordinata rigorosamente in piani successivi, diviene nel dipinto del fiammingo più affollata e complessa. Alla sintesi angelichiana, si oppone la perspicuità con cui Rogier riproduce i singoli elementi + al ritorno in patria, nei quadri di Rogier resterà ancor meno dell'esperienza italiana (N.B. solo con la diffusione del linguaggio rinascimentale maturo la cultura fiamminga sarà toccata in profondità da quella italiana). >» Lapittura a olio: la pittura a olio, di cui un tempo si riteneva suo inventore Jan van Eick, era probabilmente già conosciuta nell'antichità, anche se anziché della tela come supporto, veniva usata probabilmente la tavola > la preparazione del supporto si attuava con un imprimitura a gesso e colla, che veniva stesa in sottilissimi strati successivi. Su questa preparazione bianca si procedeva alla stesura dei colori, che erano ottenuti da terre, vegetali etc. in modo omogeneo + i colori così preparati consentivano di comporre e sfumare con più morbidezza le tinte, di ampliare la gamma cromatica e di ottenere maggiori contrasti di luminosità. Ex: “Strada con cipressi e stelle” (1890) - Van Gogh; “Madonna del cancelliere Rolin” (1432) - Jan Van Eyck; particolari “Adorazione dei magi” - Gentile da Fabriano e “Vergine delle rocce” - Leonardo da Vinci > superficie increspata segnata dal pennello o dalla spatola per dare alla consistenza materica della superficie pittorica una precisa valenza espressiva. “Il polittico dell'agnello mistico” (1432) - Fratelli Van Eyck (Hubert e Jan): si tratta di un polittico composto da 12 tavole, a loro volta suddivise in riquadri, 4 delle quali fungono da sportelli e sono dipinte da ambo i lati. Nella parte centrale, divisa orizzontalmente in due, compaiono la vergine e il battista ai lati del trono di Dio nel registro superiore; in quello inferiore si ha l'adorazione dell'agnello, da parte di Santi e beati convenuti dai 4 angoli della Terra. > Tutto ruota intorno all’idea della Redenzione, con il suo prologo terreno e con il “lieto fine”, cioè la beatitudine dei santi in paradiso. Le tavole interne, soprattutto quella con l'Adorazione, sono probabilmente ispirate alla liturgia di Ognissanti, le cui letture erano tratte dall’Apocalisse. All'esterno, nel registro inferiore sono i ritratti dei donatori, ai lati dei 2 Santi Giovanni (Battista ed evangelista): le nicchie in cui essi sono collocati fungono quasi da base architettonica per la sala in cui si svolge l'Annunciazione, sovrastata a sua volta da profeti e sibille che annunciarono l'incarnazione e la futura gloria di Maria. > La mimesi del reale è accentuata dall’unificazione spaziale del registro superiore, ottenuta attraverso la convergenza delle ortogonali e la conformità della luce. Continuamente, comunque, viene portato avanti lo scambio tra finzione pittorica e oggetto reale, abolendo ogni diaframma tra spazio fittizio e spazio in cui si colloca lo spettatore. N.B. dal punto di vista concettuale, l'anello di congiunzione tra interno ed esterno sono le figure di Adamo ed Eva, cioè i responsabili della venuta nel mondo del Redentore (meno chiaro è l'accostamento delle altre figure). ® Leculture di mediazione: Uno dei caratteri indubbiamente più affascinanti dell'intera vicenda 400esca è la sua straordinaria varietà di articolazioni formali ed espressive, la cui diffusione è dovuta ai cosiddetti “mediatori”. “La porta del paradiso” (1425-50) di Lorenzo Ghiberti illustra compiutamente la sapienza dell'artista nel fondere grazia ellenizzante ed eleganze tardogotiche: tale opera viene rivestita, quasi al pari della cupola del duomo di significati civili tramite 10 formelle suddivise in 5 scomparti quadrati per lato e racchiuse da una incorniciatura doppia. Formelle: nelle “Storie di San Giuseppe” e nell'”Incontro di Salomone e la regina di Saba” sono ravvisabili collegamenti con l’attualità fiorentina 3 Giuseppe, tradito dai fratelli, ma in seguito loro salvatore e portatore di benessere per tutta la comunità, è una discreta proiezione di Cosimo | de’ Medici, cacciato dagli esponenti dell’oligarchia, ma tornato per volere di Dio. La seconda formella illustra invece uno degli ideali politico-ecclesiastici più sentiti del 400, cioè la riunificazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa. L'unità plastica complessiva che caratterizza la porta vista nel suo insieme è alla base anche dei singoli pannelli: nel riquadro de “Le storie di Isacco”, l'occhio, catturato dalle figure quasi a tutto tondo, è condotto verso il fondo tramite trapassi di piani quasi insensibili (ottenuti sfruttando al massimo le possibilità illusive offerte dal rilievo schiacciato). N.B. Nicola di Guardiagrele, tra il 1433 e il 1448, riprende con precisione le figurazioni della porta Nord, come mostra il confronto tra le due formelle con la “Flagellazione” (1403-24 Ghiberti; 1433-48 Guardiagrele). In campo pittorico Masolino Da Panicale occupa una posizione per molti versi analoga: la fedeltà sostanziale alla tenera episodicità gotico internazionale ne fa il tramite privilegiato delle novità prospettiche a Siena o al Settentrione, dove le “Storie del Battista” (1435) segnano un momento importante per gli artisti settentrionali. N.B. Antonio Vivarini testimonia l'inserimento senza scosse della solidità volumetrica e spaziale di Masolino su di una pittura internazionale (Ex: “Polittico di Praglia” - 1448). Michelozzo, scultore e architetto, è considerato soprattutto profondo conoscitore dell’opera di Brunelleschi e della pura tradizione gotica fiorentina: egli si serve della prima come elemento per aggiornare, depurare e arricchire la seconda. Ex: La chiesa di San Francesco al Bosco (1420-27) o “La rotonda dell’Annunciata”. La stilizzazione volumetrica accentuata dall’uso di una luce tersa, propria della cultura figurativa provenzale, raggiunge i suoi esiti più alti nell'opera di Enguerrand Quarton. Negli anni ’40 si trasferì ad Avignone, dove si avvicinò tramite la colonia fiorentina a opere del Rinascimento toscano + nell’”Incoronazione della Vergine" (1453-54), la sua personale sintesi appare compiutamente realizzata: la composizione, a fasce orizzontali e sovrapposte, è popolata da immagini di dimensioni molto diverse , ma trova unità nel predominio del gruppo centrale. Le grandi figure, avvolte in panneggi taglienti, sono costruite secondo le semplificazioni geometriche proprie al pittore. L'illuminazione altissima sintetizza le forme con risultati avvicinabili tanto al Beato Angelico quanto a Piero della Francesca, pur non impedendo, però, la presenza di infiniti dettagli. Analoga sintesi di compattezza monumentale e sensibilità al dettaglio informa la più tarda “Pietà” (1455) dominata anch'essa da una triade centrale di intensa drammaticità e da un'atmosfera limpida e immobile, che doveva trovare rispondenza nei colori freddi. Che la zona alpina fosse in realtà una zona osmotica lo conferma anche l’opera di Konrad Witz: “L'altare di San Pietro” (1444) è una delle sue opere certe, in cui il realismo e il gusto dei particolari, propri del gotico tedesco, e la ferma volumetria borgognona convivono con la solidità spaziale. La luce chiara e violenta crea netti contrasti chiaroscurali, sottolineando la tridimensionalità dei corpi. Il tirolese Micheal Pacher lavora sul gusto per la materia qualificata dalla luce con ancora maggior decisione: per lui l'influenza italiana si identifica con la cultura padovana, come mostra “L'altare di Sankt Wolfgang” (1480) > forme monumentali e taglienti finalizzati, tramite scorci prospettici, all'esaltazione dell’espressività e del drammatico. Tra il 1440 e il 1469, a Firenze, si assiste a un'attenta elaborazione dell'eredità delle generazioni precedenti: al ritorno di Cosimo I de’ Medici in città, le opere pubbliche vennero pervase da una forte sobrietà, ma quelle di destinazione privata assunsero invece un altro gusto. Un esempio è il “David-mercurio bronzeo” (1443) commissionato a Donatello > sia che si tratti dell'eroe in cui tradizionalmente si incarnavano gli ideali civili, sia del dio protettore dei commerci, Donatello ne dà un'interpretazione intellettualistica e raffinata, adatta a soddisfare le aspettative di un ambiente colto e aristocratico come il Cortile di Palazzo Medici. La testa, ombreggiata dal curioso copricapo (pètaso) rielabora il tipo classico di Antinoo, mentre il corpo riprende, nella posa e nelle proporzioni, opere di gusto prassitelico. Un vero omaggio ai committenti è poi il fregio con putti che orna l'elmo di Golia. > L'acuto senso del reale proprio dello scultore evita la caduta nel puro compiacimento estetico: il modellato sensibilissimo e le lievi asimmetrie della posa trasformano i riferimenti culturali in sostanza di un'immagine vitalissima. N.B. anche gli scultori, la cui opera spesso fu di stimolo ai pittori, si uniformano ai principi di “copia” e “varietas” teorizzati dall’Alberti che soddisfacevano il nuovo gusto “variopinto” della committenza > se si confronta la tomba di Leonardo Bruni ad opera di Bernardo Rossellino (1450) e quella di Carlo Marsuppini di Desiderio da Settignano (1453-55), entrambe in Santa Croce, si può notare un virtuosismo che trova applicazione nei molteplici elementi decorativi e si accompagna a complesse simbologie. Restando sul tema della tomba, importante è il sepolcro di Piero e Giovanni de’ Medici eseguito dal Verrocchio nel 1472: eliminate le figure umane, l'insieme si affida soprattutto alla preziosità dei materiali e al magistero esecutivo > la vasca di porfido, con un medaglione centrale di serpentino verde, poggia su zampe bronzee arricchite da foglie acantiformi. Non è addossata a una parete, ma è inquadrata da un arco, finemente scolpito con motivi vegetali e araldici, che separa due locali attigui della chiesa. Il vuoto è schermato da una grata bronzea che finge una corda intrecciata, sulle cui fibre vibra la luce. Anche la voga e il precoce collezionismo di opere fiamminghe, apprezzate per il loro virtuosismo, rispondono a questo gusto per la varietà: nelle raccolte medicee, per esempio, erano presenti un San Gerolamo di Van Eyck e, probabilmente, il “Ritratto di Giovane Donna” (1460-70) di Peter Christus. Ancora più precocemente si deve registrare, però, l’attività di Giovanni di Consalvo che, negli affreschi con “Storie Benedettine” (1436-39) illustra le possibilità di una sintesi tra i due linguaggi unendo la spazialità con l’uso fiammingo della luce. Uno dei primi a recepire tali riferimenti fu Filippo Lippi che, dopo gli esordi masacceschi, eseguì la “Madonna di Tarquinia” (1437): in essa il risalto plastico di origine masaccesca e il gusto donatelliano per lo scorcio si uniscono a una precisa attenzione per l'ambiente e per gli effetti luminosi > lo spazio costruito a grandangolo, con le stanze e i corridoi che si sprofondano alle spalle della Vergine, la presenza del paesaggio che intravede dalla finestra, la resa delle stoffe e dei gioielli provengono dalle fiandre. Tale componente è ancora più forte e profonda in Domenico Veneziano: eleganza e sontuosità tardogotiche, lucidità di visione, senso concreto dello spazio e del volume si intrecciano nel tondo con l’” Adorazione dei magi” (1439-41). La pittura del veneziano è caratterizzata soprattutto da colori chiarissimi, che paiono impregnati di luce. Nella “Pala di Santa Lucia de’ Magnoli” (1445-47), la Sacra Conversazione centrale, ambientata in una loggia aperta, è impostata secondo un complesso scema prospettico a 3 punti di fuga, dimostrando così come Domenico seguisse con interesse anche le sperimentazioni spaziali più avanzate. L'elemento che però definisce i volumi dell’architettura e dei personaggi è la luce. > Questa armonia luce-colore segnerà una delle strade maestre di sviluppo della pittura nella seconda metà del secolo, soprattutto per gli artisti umbro-marchigiani. Ritornando però all'influenza fiamminga, a essa è da collegare l'interesse per il paesaggio, manifesto tanto nelle opere del Pollaiolo quanto in quelle di Alessio Baldovinetti: - Apollo e Dafne (1460-1470) - Pollaiolo. - La Natività (1462) - Baldovinetti. "> Entrambe presentano un'impaginazione tipicamente nordica: figure in primo piano su di un rialzo di terreno, stagliate contro fondali profondi; paesi solcati da corsi d'acqua e punteggiati di alberi; ambientazione naturale interpretata con nuova sensibilità. Tale sensibilità anche le diverse redazioni dell’ Adorazione del bambino” di Filippo Lippi, spesso collocate in radure ombrose, ricche di suggestioni e di palpiti che sottolineano il tono elegiaco dell'immagine: per esempio, la “La Pala Barbadori” (1438) presenta una composizione apparentemente dispersiva che si fonda, in realtà, su di una rigorosa simmetria che fa perno sulla Madonna e che trova unità nell'ordine ritmico creato dall'andamento dei contorni. Anche la luce vi partecipa, ma il Lippi attribuisce nelle sue opere una crescente importanza alla linea > la luce avvolge le forme e i loro colori e restituisce il rilievo seguendo la linea. Nel percorso del Lippi costituisce un nodo cruciale il ciclo di affreschi per il Duomo di Prato con “Storie dei Santi Stefano e Giovanni”: l'episodio della “Nascita di Santo Stefano” (1452-64) è dominato dalle figure umane e dal loro dinamismo + il senso di moto è accentuato dagli scorci profondi delle architetture e dal mobile nesso chiaroscurale che avvolge le forme. Inoltre, l'intera storia è pervasa da un senso scorrevole del racconto e da una partecipe attenzione alla verità umana dei personaggi, due elementi cioè che si ritrovano facilmente nelle sue “Madonne”. Masaccio e Donatello sono gli artisti che pesano di più anche nella formazione di Andrea del Castagno: la sua pittura rigorosa si distingue dal gusto corrente e sviluppa su basi prospettiche proprio quanto fino ad allora era stato più trascurato + il chiaroscuro plastico., reso più drammatico da forti contrasti sulle tinte fonde. Dal 1447 esegue un ciclo ad affresco sulla parete di fondo del refettorio di Sant'Apollonia (Firenze): la parete è divisa in due registri: - Il più basso è interamente occupato dalla raffigurazione dell’” Ultima cena” (1447): l’ambiente ricco e solenne, dalle decorazioni di evidente gusto antico, è scorciato con violenza. In questo spazio contratto campeggiano figure intensamente caratterizzate e isolate dal robusto contorno lineare. - Il registro superiore accoglie invece “scene esterne” (come “la deposizione”, “la resurrezione” o la “crocefissione”) in una luce cristallina che evidenzia corpi e paesaggi. Anche nelle opere successive, come nella “Trinità e Santi” (1455) o nel ciclo con “Uomini e Donne illustri” (1449-50) per Villa Carducci (su libro Farinata degli Uberti e sibilla cumana) ricorre l’accentuazione dei valori espressivi, ottenute con prospettive e scorci spettacolari, ed esasperazione realistica: caratteri che faranno di Andrea un punto di riferimento per la scuola ferrarese. Tra i continuatori di Masaccio, Beato Angelico occupa un posto particolare perché si sforza di saldare le conquiste rinascimentali con valori risalenti all'estetica medievale. La consapevole adesione a Masaccio, vista già nelle prime opere, si approfondisce ulteriormente nel corso del quarto decennio > lo testimonia il rigore spaziale, accentuato dall’uso razionale della luce proveniente da sx, con cui è costruita la “Pala dell’incoronazione della Vergine” (1434- 35): le cadenze gotiche sono abolite e lo sprofondare dello spazio è scandito dai gradini e dallo scaglionarsi simmetrico delle figure. > Ora la luce non solo unifica e sostanzia le figure, ma indaga oggetti e materiali con acutezza degna dei fiamminghi. : la cosiddetta “Madonna delle ombre” (1439) è dipinta sulla parete di un corridoio stretto, illuminato da sx dalla luce radente di una finestrella e ottiene uno stupefacente effetto di verità, grazie all'attenzione con cui il pittore ricrea le condizioni reali della parete su cui dipinge. Le componenti fiamminghe si accentuano all’epoca della decorazione del Convento di San Marc: La luce, anche nell’affresco, proviene da sx e segna le ruvidezze dell’intonaco. N.B. l’esperienza fiamminga viene dall’angelico piegata alla destinazione monastica del ciclo, alla creazione di immagini semplificate e dai ritmi larghi e chiari. L'antico convento di San Marco venne totalmente ristrutturato e la decorazione pittorica fu affidata all’Angelico, che progettò in ogni cella un affresco con un episodio delle Sacre Scritture, come il “Cristo deriso” (1438): la scena principale è collocata alle spalle della Vergine e di San Domenico, quasi fosse una proiezione delle loro riflessioni. La composizione, impostata su di uno schema triangolare è di estrema semplicità, anche cromatica. La straordinaria attenzione dell’Angelico alla ricettività dei destinatari è confermata dalla decorazione dell’ Armadio degli Argenti con l'Ultima cena” (1450) > la necessità di illustrare efficacemente ai profani l’attuarsi delle profezie bibliche induce l'artista a dispiegare una grande vivacità narrativa. Il Beato fu anche Roma, dove realizzò, per esempio, il “San Lorenzo ordinato diacono” (1447-49) per i palazzi Vaticani: nella scena si muovono figure solide, dai gesti pacati e solenni, che traducono in cadenze più auliche l'abituale linguaggio figurativo. > Pala d'altare: nel 400 i dipinti su tavola, polittici o pale, godono di grande favore, poiché più degli affreschi possono arricchire le nitide superfici delle chiese rinascimentali senza turbarne l’euritmia. Nel corso del secolo è soprattutto la pala unitaria ad affermarsi attraverso un'evoluzione graduale che si compie a Firenze prima che altrove. Il primo passo di distacco dal polittico tradizionale fu l'abolizione delle colonnette divisorie tra le tavole, mantenendo tuttavia una ripartizione del campo pittorico tramite le cuspidi (destinate a scomparire solo successivamente > Ex: “Incoronazione della Vergine” di Lorenzo Monaco - 1413 e la “Pala di Santa Trinità con deposizione” di Beato Angelico - 1440). Il punto di arrivo può essere esemplificato dall’ Annunciazione di Filippo Lippi (1437-41), contenuta in un campo quadrangolare e circondato da una cornice priva di ornelli decorativi + essa si inserisce perfettamente nello spazio compreso tra finestra e altare e tanto la cornice quanto l'architettura dipinta riprendono le sobrie membrature brunelleschiane. Il “Polittico della Misericordia” (1488) di Piero della Francesca mantenne, per volere dei committenti, non solo l'arcaico fondo oro, ma anche la divisione in più ordini di pannelli, con grandezze differenti. ® Urbinoel’Italia centrale: > Perugia: uno dei primi centri ad accogliere fermenti urbinati fu Perugia, la cui vivace cultura pittorica registrò una svolta capitale. in città, nel 1438, era attivo Domenico Veneziano e, nello stesso anno, vi giunse un trittico di Beato Angelico > sulla loro scia, gli artisti locali erano stati sollecitati con naturalezza a una pittura luminosa e ornata, dai ritmi narrativi scorrevoli e agevolati da rappresentazioni prospettiche (mentre la vicina Urbino proponeva modi ancora differenti). L'interazione di questi vari influssi si palesa nel complesso di 8 tavolette con “Miracoli di San Bernardino” (1473), dovute ad autori diversi sotto la regia del Perugino, artista formatosi prima presso Piero della Francesca e poi a Firenze dal Verrocchio. Il denominatore comune del gruppo è l'assoluta prevalenza delle architetture che determinano lo scaglionarsi degli spazi, in forte contrasto dimensionale con le figure che lo popolano. I colori chiari, le ombre attenuate da una luce nitidissima, solare, sono derivati direttamente da Piero, mentre le esuberanti decorazioni policrome che rivestono le forme albertiane delle parti architettoniche sono eredità locali. Esempi di tavole: “Guarigione della fanciulla” (1473) > figure solide e composte, disposte in gruppi simmetrici che trovano rispondenza compositiva nel paesaggio di fondo. “Adorazione dei magi” (1476) > costituirà la base essenziale per Raffaello. Il clima rarefatto e raffinatissimo orchestrato da Federico da Montefeltro resta chiuso all'interno del palazzo ducale (Ex: “Presentazione di Maria al Tempio” - 1475; tavoletta) non favorendo lo sviluppo di una scuola locale. Le sintesi tentate nell'ultima parte del secolo si compiranno sulla base dell'esperienza pierfrancescana, e i problemi quali il rapporto tra ambiente reale e architettura dipinta, centrali a Urbino, conosceranno feconde elaborazioni 3 è il caso di Melozzo da Forlì che, durante la propria formazione, si era legato all'esempio del Mantegna, dalla monumentalità pierfrancescana e dalla visione atmosferica fiamminga. Esempio: la oggi smembrata abside dei Santi Apostoli - 1478-80. Sempre sotto il segno di Piero si colloca Luca Signorelli, ma la sua pittura, nella quale è assoluta protagonista la figura umana, è ancora più debitrici nei confronti del pollaiolo e della sua visione dinamica. L'incontro tra monumentalità e dinamismo si legge nella “Flagellazione” (1470-80), ambientata in un'architettura classicheggiante dove le figure si collocano ritmicamente in un’accorta alternanza di gesti > le figure sono elastiche, racchiuse da contorni che ne esaltano le anatomie, ma mantengono una solidità massiva e una monumentalità che resterà sempre tipica dell'artista (e di cui ne farà propria ispirazione Michelangelo). >» Rimi esclusivamente dalle iniziative del suo signore, Sigismondo Pandolfo Malatesta, la cui esperienza ha caratteri autocelebrativi molto più accentuati che non quella urbinate. A causa della sua brevità, però, non diede luogo a una cultura dotata di precisa e personale fisionomia. l'effimera stagione rinascimentale di Rimini, accostabile a quella urbinate per più versi, dipende Opera importante in tale contesto è la risistemazione dell'antica chiesa di San Francesco dove erano conservate le spoglie dei suoi avi. Malatesta, a partire dal 1477 affidò a Matteo de’ Pasti la costruzione di una cappella funeraria e l'interno che, lascio ad aula unica (aprì solo alcune cappelle nei fianchi). | pilastri di ingresso delle singole cappelle sono divisi in settori, dove si collocano rilievi allegorici o narrativi: ad essi attese con alcun aiuti Agostino di Duccio, che vi tradusse lo stiacciato donatelliano in ritmi fluenti di grazia. | temi, per lo più profani, ruotano intorno alla figura del sovrano Sigismondo e alla sua glorificazione, che tocca il vertice nell’affresco di Piero della Francesca “Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo” (1451) > in esso il motivo devozionale si intreccia a quello politico dinastico, infatti il Santo ha le fattezze dell'imperatore Sigismondo di Lussemburgo (legittimò la successione di Sigismondo, figlio illegittimo). L'esterno fu invece affidato ad Alberti che, contrario all'opera di de’ Pasti, creò un vero e proprio involucro marmoreo che ingloba, senza toccarlo, l’edificio preesistente. L’opera è incompiuta. ® L’Italia settentrionale: > Padova:il 1443 è una data capitale per lo sviluppo artistico dell’Italia settentrionale + Donatello giunge a Padova per restarvi 10 anni, con l’obiettivo di eseguire il monumento commemorativo al Gattamelata. Nella città, l'artista trovò un ambiente aperto, fervido e pronto ad accogliere le novità da lui proposte fondendole con una cultura già ben caratterizzata. Da questo punto di vista, più che del Gattamelata, è più fecondo l’altare eseguito per la chiesa di Sant'Antonio (1446-48) > esso doveva apparire come una Sacra Conversazione tridimensionale situata in fondo al coro, quasi a ridosso degli archi del deambulatorio (non all'inizio del presbiterio come è ora): le statue della Vergine e di 6 Santi erano collocate sotto un baldacchino poco profondo, posto a sua volta su di un basamento, ornato sul fronte e sul retro da rilievi. 3 L'altare, nel suo insieme, doveva dare l'impressione del propagarsi successivo di onde di moto sempre più intenso, a partire dalla Vergine al centro: costruita da volumi bloccati e lucenti, è colta nell'atto di alzarsi dal trono per mostrare il bambino ai fedeli. È il fulcro attorno al quale ruota la rete di sguardi e di atti dei Santi. Le scene sono ambientate su fondali imponenti, che raggruppano la folla in modo vario e articolato, pur riuscendo a ricondurre SEMPRE l'occhio dello spettatore al cuore dell'episodio (= il miracolo). Come si vede nel “Miracolo del cuore dell’avaro” (1446-48), sempre sull'altare della chiesa di Sant'Antonio, la folla è protagonista. Il rilievo è basso, le forme sono definite da linee profonde e animate da lumi veementi e improvvisi, che creano una atmosfera mobile e vibrante esaltata dalla doratura e dall'argentatura. Linea dinamica e policroma si intrecciano anche nella “Deposizione in pietra” (1446-48), dove lo spazio è annullato dalle figure contenute a fatica nella cornice. I gesti dolenti acquistano nuova intensità grazie al tormento della linea che scava i dettagli nella massa > in quest'opera Donatello rinnega i principi di razionalità e fiducia nell'individuo che avevano retto le formulazioni umanistiche e che egli stesso stava nei medesimi anni affermando nel Gattamelata (1443-53). Tra gli aiuti locali di Donatello spicca Bartolomeo Bellano che svolge spunti del maestro in un linguaggio personale, ancora legato in superficie a retaggi gotici. In opere eseguite per Sant'Antonio come “L'armadio delle Reliquie” (1469-72) o le formelle in bronzo (“Giona gettata in mare” - 1484-88) per la recinzione del coro, l’essenzialità compositiva delle singole figure si unisce a una decorazione ridondante, mentre nelle scene narrative viene evidenziato al massimo il nucleo emozionale dell'episodio attraverso la linea, il baluginare delle luci e la contrazione dello spazio. N.B. a Padova, perciò, la disciplina intellettuale che governa anche le più furibonde opere di Donatello viene in parte sopraffatta dall’altro esponente, quello espressionistico, che agisce in particolare sulla pittura. Il confronto tra le diverse correnti figurative che si agitavano in città si attuò nella Chiesa degli Eremitani, dove, a partire dal 1447, si trovò riunito per decorare la Cappella Ovetari un gruppo eterogeneo di artisti tra cui Andrea Mantegna: egli unisce l'applicazione strenua della prospettiva a una ricerca antiquaria che era tuttavia condotta con un altro rigore. Nelle “Storie di San Giacomo” (distrutte nel 1943), il pezzo antico non era semplice dettaglio decorativo, ma veniva utilizzato per fornire una ricostruzione storica degli eventi, ricostruzione che coinvolgeva il dato stilistico allo scopo di recuperare la monumentalità propria del mondo romano. Questo rigido filologismo verrà superato nell’episodio del “Martirio di San Cristoforo” (1455), dove le architetture acquistano una potenza illusiva che sarà tratto distintivo di tutta la produzione mantegnesca. Grazie all’illusione prospettica, la parete diventa loggia. Inoltre, la composizione più ariosa, la presenza di personaggi tratti dalla vita contemporanea e psicologicamente individuati e gli edifici solo in parte esemplati su modello antico testimoniano un mutamento di indirizzo, probabilmente frutto di contatti con l’arte veneziana e, in particolare, con Giovanni Bellini, di cui Mantegna sposò la sorella. Esempio: “Il polittico di San Luca” (1453-54). Questo mutamento si matura ancora di più nella pala commissionategli nel 1456 per la chiesa di San Zeno a Verona: terminata nel 1459, si presenta come una Sacra Conversazione ambientata in un portico quadrangolare aperto, delimitato da colonne e analogo a quello che in origine circondava l’altare di Donatello, cui palesemente si ispira. La cornice reale, in legno dorato, si qualifica come introduzione fisicamente concreta allo spazio illusorio del dipinto. > La pala dunque accentua l’effetto illusionistico e si orienta verso una più attenta fusione di luce e colore. > Mantova: il decollo in senso rinascimentale di Mantova dipende in toto dalla dinastia dei Gonzaga e dal loro felice momento di prestigio politico. All’interno del Palazzo Ducale domina incontrastato Andrea Mantegna: tra i suoi primi lavori mantovani si annovera la decorazione della Cappella del Castello, cui apparteneva la tavola con “La morte della Vergine” (1461) > in essa l'ammorbidirsi dei colori e delle forme, già notato nella pala di San Zeno, è sottolineato dalla particolare interpretazione del tema. Mantegna raffigura l’officiatura funebre all'interno di una semplice stanza, che si apre sul panorama, colto dal vero, della laguna mantovana > tale naturalezza nobilitata dal respiro monumentale della composizione, non sarà più abbandonata dal pittore. Egli l’applicherà con cadenze diverse nelle successive opere, tra cui “La camera degli sposi” (1474): si tratta di un locale piuttosto piccolo, con funzioni di rappresentanza, affrescato sulla volta e sulle pareti, due delle quali coperte da finti tendaggi, simili a quelli che l'artista raffigura scostati per permettere allo spettatore di ammirare la corte riunita e l’incontro del marchese col figlio Francesco nelle pareti restanti. "> Proseguendo con coerenza la via imboccata a Padova, le paraste decorate segnano i limiti di uno spazio che si apre oltre le pareti reali: gli stessi elementi architettonici minori vengono coinvolti in questo gioco illusivo tra spazio reale e spazio dipinto, che trova l'apice nell’oculo in scorcio della volta (1465-74): l’obiettivo è quello di trasformare la sala in un'aula antica, nella quale la vita di corte e la storia contemporanea rivendicano la stessa nobiltà del passato classico. Sono però i “Trionfi di Cesare” (1484-96) l'esempio più calzante dell'adesione di Mantegna a quell’intreccio tra ricostruzione antiquaria, eredità medievale e ostentazione di prestigio che caratterizza le corti settentrionali. Si tratta di un insieme grandioso costituito da 9 tele quadrate che raffigurano i vari protagonisti del corteo trionfale. Molta produzione di Mantegna si rivolge però a un uso privato e alla devozione domestica 3 si pensi per esempio all’incisione e al dipinto raffiguranti il tema della “Madonna con Bambino” (entrambe 1480) o “i vizi di Minerva” (1502): esse testimoniano delle capacità tecniche e stilistiche straordinarie, eppure a queste date il linguaggio di Mantegna appare ormai arcaico. > Ferrara:|a corte estense di Ferrara, una tra le più vitali dell’Italia settentrionale, manteneva spiccate connotazioni cortesi e vi godevano grande favore il mondo favoloso dell’epopea gotica e le scienze astrologiche. Qui era molto stimato Pisanello, come vediamo dal ritratto di Lionello d'Este (1441) e le miniature di Taddeo Crivelli (Ex: “Scena di ballo” - 1455-61). Sarà comunque all’epoca di Borso che le sollecitazioni formali provenienti da artisti esterni verranno tradotte in un idioma tutto ferrarese, fatto di tensione lineare, esasperazione espressiva e realismo illusivo, anche nella resa di soggetti fantastici e innaturali. Il progressivo delinearsi di tale linguaggio può essere colto attraverso la decorazione dello Studiolo di Belfiore: essa comprendeva una serie di tavole raffiguranti le Muse > tra le sopravvissute, “Thalia” (1456) di Michele Pannonio, legata a moduli cortesi per la figura sottile, avvitata in posa elegante, ma di gusto comunque padovano per la plasticità tagliente delle pieghe e per il repertorio decorativo anticheggiante. - Butinone: nella piccola “Madonna in trono” (1480-85), un fasto ornamentale favoloso e un espressionismo grafico (tipici di Mantegna) si sposano a un impianto monumentale che ha come modello Bramante. Nelle opere successive, come “Le storie della passione”, si vede una pittura ormai lontana dalle misure di Foppa > davanti a sfondi monumentali si agitano piccoli mostri sfrenati, estranei a qualunque canone estetico umanistico, che dominano la scena insieme a notazioni quotidiane e balenanti frammenti del “lume lombardo”. - Insieme a Butinone, Zenale realizza la grande ancona per la Chiesa di San Martino a Treviglio (1481-85). Zenale muove da una matrice padovana e foppesca, ma, nelle opere personali (Ex: “Madonna e Santi” - 1490) è evidente il desiderio di definire i volumi tesi e intatti dei corpi e di chiarire i rapporti spaziali tra le figure, di aspetto quotidiano ma costruite con monumentalità. ® Versoil Cinquecento: Napoli, Venezia, Firenze: > Napoli - il regno aragonese: Alfonso d’Aragona entrò vincitore a Napoli nel 1443 con un corteo trionfale ispirato a quelli romani, atto che è spia del fascino che esercitava in lui la cultura umanistica > in un simile contesto, la cultura umanistica non promuove una vera e propria innovazione (N.B. si interessò alla costruzione di una Biblioteca, ma non di una Università, vera fonte di innovazione e diffusione), ma assume un ruolo elitario e conservatore: un esempio è il fatto che il re scelse i suoi emblemi dal ciclo medievale arturiano, chiamano a corte come medaglista il tardogotico Pisanello. Per quanto riguarda l'architettura, egli chiama invece artisti spagnoli creando, di conseguenza, una città appartenente artisticamente ai più diversi indirizzi (N.B. solo alla fine del secolo si avrà una più omogenea adozione delle formule rinascimentali, in seguito all'alleanza col Magnifico). La disorganicità dell'insieme architettonico è accentuata dalla compresenza di differenti scultori: le personalità di maggiore spicco sono Gaggini e Laurana > quest’ultimo sviluppa soluzioni sintetiche in ritratti di levigata bellezza come quello di “Eleonora d'Aragona” (1468 - marmo). In pittura, invece, si ha un parallelo percorso di accostamento tra tematiche rinascimentali e fiamminghi, come mostra il “Polittico di San Vincenzo Ferrer” (1456-65) di Colantonio + il solido Santo centrale e le architetture gotico- mediterranee rispondono allo sforzo di una costruzione spaziale calcolata e convincente, entro cui disciplinare il gusto narrativo e la ricchezza del particolare. L'esito più alto di questo incontro si manifesta però in Antonello da Messina, uno dei pochi a intendere fino in fondo il rinnovamento fiammingo e in grado di assimilarlo coniugandolo a un'uguale padronanza della sintesi prospettica italiana > il dominio e la fusione di queste due radici culturali non va intesa come conversione italiana degli esiti fiamminghi, come dimostrano il “Salvator mundi” (1465) o “La crocifissione” (1475). La cultura iniziale di Antonello da Messina è squisitamente meridionale, ma sarà superata e approfondita in direzione tanto fiamminga quanto italiana, grazie allo studio delle opere presenti a corte: si confrontino, per esempio l’”Annunciata di Como” e la “Madonna Salting” (1460) > la prima è inseribile per iconografia e stile nell'ambito mediterraneo di gusto fiammingo, mentre nella seconda, l'iconografia nordica e la gamma bruciata dei colori sono invece sottomesse a un supremo sforzo di sintesi, visibile soprattutto nel volume fermo e liscio della testa. La ritrattistica illustra in modo esemplare il raggiungimento di un nuovo equilibrio: Antonello adotta la posizione di tre quarti, introdotto da Jan van Eyck, che permetteva una più minuta analisi fisica e psicologica del modello. Tuttavia, Antonello, rispetto ai fiamminghi, è meno dettagliatamente analitico e più attento, invece, all'umanità del personaggio. Il confronto con “Ritratto d'uomo” (1475) di Petrus Christus consente di misurarne la distanza: nel “Ritratto d'uomo” (1473) di Antonello, l’analisi del tessuto luminoso si sposa a una salda impostazione geometrica e alla capacità di trasfigurare, con una semplificazione radicale della forma, il dato fisionomico individuale fino a farlo diventare un “tipo”, un carattere. Molti ritratti appartengono a un folto gruppo di opere eseguite in Sicilia (Ex: “Annunciazione” - 1474), nelle quali gli apporti fiamminghi e italiani sono ormai fusi con grande originalità. Il “San Gerolamo nello studio” (1474), ad esempio, traduce in maniera “italiana” elementi fiamminghi quali la ricchezza di dettagli e il moltiplicarsi delle fonti di luce. L'analisi della costruzione spaziale, soprattutto se confrontata con la tavola di Colantonio ispirata allo stesso tema (1445) è ancora più significativa: la scena è respinta all'indietro dall'arco che la incornicia, così da oggettivare lo spazio nel momento stesso in cui lo allontana e lo distingue dallo spettatore + il gioco luminoso, di qualità fiamminga, contribuisce all'effetto unitario poiché i raggi di luce coincidono con quelli prospettici. Questa matura sintesi prospettico-luminosa sarà introdotta da Antonello a Venezia, viaggio che tutte le sue opere del periodo in questione risentiranno, come il “San Sebastiano di Dresda” (1476), in cui le varie componenti culturali sono assorbite con sicurezza + la figura tornita del Santo, levigata come il tronco al quale è legato, il suo lento ruotare nello spazio, il virtuosismo degli scorci , la quotidianità dei particolari concretizzano un'ideale sintesi tra natura e geometria (N.B. questa apparirà ancora più serrata nelle ultime opere eseguite in Sicilia, come L” Annunciata” del 1475). InSicilia il pittore non ebbe un vero e proprio seguito, dimostrando che sia la cultura siciliana sia quelle delle zone periferiche del regno aragonese tardarono a svilupparsi. > Venezia: l'isolamento della cultura veneziana, ancora legata a quella tardogotica e greco-bizantina, comincia ad attenuarsi intorno alla metà del secolo, in seguito all'espansione verso la terraferma. La città rimase ancora a lungo un emporio attivissimo, dove convergevano traffici dal Nord all’Oriente, con conseguenti incontri e scambi a tutti i livelli. Contemporaneamente, l'espansione verso l'entroterra diversifica le strutture economiche e i tipi di investimenti, mentre inserisce la città nello scacchiere italiano, favorendo più stretti e continui rapporti con culture diverse. N.B. in questo processo il peso di Firenze fu scarso o nullo: il carattere speculativo o teorico dell'’Umanesimo fiorentino è estraneo alla concretezza che impronta quello veneziano > la cultura artistica rinascimentale coinvolge Venezia soprattutto attraverso la mediazione della Lombardia, per quanto riguarda architettura e scultura e, per la pittura, Padova. | primi veneziani interessati alle novità padovane furono Jacopo Bellini e i Vivarini: più dei discontinui tentativi compiuti da Antonio Vivarini, è rilevante la svolta mantegnesca del più giovane fratello Bartolomeo, che fu a Padova e ne assimilò le novità con entusiasmo. Il “Polittico di Ca’ Morosini” (1464) ne è un chiaro esempio: la solidità dei corpi e delle architetture dipinte, l'attenzione alle anatomie e ai panneggi taglienti non si accompagnano a una chiara logica compositiva, come è evidente nella differenza di scala dei personaggi e nella mancata unificazione spaziale > il Battista, ad esempio, unico tra tutti i santi campeggia contro uno sfondo roccioso che ha valore non tanto spaziale quanto di attributo specifico dell’asceta. Alvise Vivarini seppe invece tenersi al passo coi tempi, addolcendo i linearismi padovani sull'esempio di Antonello da Messina, di cui non colse però la magia luministica. Ne risultano opere come la “Sacra Conversazione” del 1480, dove i volumi geometrizzanti e delineati da un contorno secco sono esaltati e isolati da una luce fredda e da colori lucidi come smalti. La committenza più raffinata si rivolse invece alla bottega di Jacopo Bellini, i cui figli, Gentile e Giovanni Belli assimileranno molto più a fondo il linguaggio rinascimentale. - Gentile Bellini fu impegnato soprattutto nell'esecuzione di “teleri” che si diffonderanno come sostituti dei cicli ad affresco per la decorazione di scuole e di edifici pubblici > in essi emergevano brillantemente i caratteri peculiari della sua pittura, ancora legata al gusto della narrazione un po' fiabesca tipica del tardogotico. Come mostra la “Processione in piazza San Marco” (1496-1501), egli non creava una spazialità organica e unitaria, ma utilizzava la prospettiva per singoli frammenti: manca nell’opera un centro chiaramente definito, così che lo sguardo vaga tra i diversi gruppi. 3 Nei suoi teleri Giovanni intende fornire una cronaca puntuale e riconoscibile più che una azione drammatica. La sua capacità di analisi e, quasi, di cristallizzazione della realtà ne farà la fortuna come ritrattista, tanto che sarà inviato nel 1479 a ritrarre “Maometto Il”. Tuttavia, in opere tardo come “La predica di San Marco ad Alessandria” (1504-07), la composizione è più pausata e grandiosa, i contorni si allentano, mentre i colori assumono un aspetto più luminoso e morbido, forse per influenza di Giovanni, che intervenne in quest'opera per completarla. Giovanni Gentile fu formato presso la bottega del padre Jacopo, ma seppe uscire dal trito descrittivismo tardogotico grazie all'esempio di Andrea Mantegna. Uno dei caratteri più affascinanti dell’opera di Giovanni è l’inesausta capacità di rinnovarsi senza rinnegare i valori più radicati nella civiltà artistica veneziana, quali il colore orientale e la spiritualità bizantina. Del suo esordio strettamente legato a Mantegna offre un buon esempio la “Trasfigurazione” (1455) > in essa la linea asciutta e incisiva, che sostanzia le forme segnandone piani e risalti, l'enfasi posta sugli scorci e l’accentuato sottinsù del gruppo divino sono debitori dei modi padovani. Il tratto più originale dell’opera è l’importanza conferita al colore e alla luce, che intenerisce con toni vespertini il paesaggio, inserendo l'evento miracoloso in un'atmosfera naturale. Il personale approfondimento di tale ricorso fiammingo crescerà nelle opere seguenti, tra cui la “Pietà” (1460) 3 i grafismi mantegneschi sono ancora presenti ma sono come disciolti da una particolare stesura della tempera a minuscoli tocchi ravvicinati. L’umana interpretazione del dolore di Maria e Giovanni, profondo ma composto, è sottolineata dai toni del paesaggio. L'incontro con l'opera di Piero avvenne probabilmente nei primi anni '70, in occasione di un viaggio nell'Italia centrale, il cui risultato è la rivoluzionaria pala con l’” Incoronazione della Vergine” (1471-74), rivoluzionaria perché in essa il fondo oro della tradizione è sostituito da un paesaggio aperto. L'invenzione della spalliera traforata evidenzia i volti dei protagonisti e proietta la natura, una natura vera, al centro dell’azione. All’effetto corale di armonia tra architetture, figure e paesaggio concorrono la sapienza prospettica correlata alla salda corporeità delle figure. N.B. anche se l'affinità degli esiti è frutto di ricerche parallele, ma indipendenti, Antonello da Messina sembra aver guidato il veneziano nella resa dei fenomeni luminosi: nella “Pala di San Cassiano” (1475-76), Antonella si rifà allo schema compositivo di una Sacra Conversazione belliniana, ora perduta + da quanto resta dell’opera antonellesca si intuisce come il pittore siciliano, spaziando ritmicamente i Santi e disponendoli a semicerchio intorno all'alto seggio della Vergine, avesse dato maggior respiro e naturalezza a una composizione troppo serrata. Tuttavia, la novità più stupefacente della pala è il superamento del rapporto puramente metrico tra spazio e figure, in favore di un connettivo atmosferico dato dal lume dorato: Bellini seguì Antonello in questa adesione alla vitalità luminosa, piegandola però al suo personale senso panico della natura. Negli anni successivi all'incontro con Antonello nascono infatti quadri come le “Stimmate di San Francesco” (1480-85): la figura umana è immersa nella natura, avvolta da una luce chiara che abbraccia e definisce ogni cosa. Il paesaggio dolce e quotidiano sono probabilmente frutto di studi dal vero: i raggi che causano le stimmate non provengono da un crocifisso alto apparso al Santo, ma vi è solo un fiotto di luce, a sx, che investe le fronde di un che trapassa nei singoli nuclei figurativi: l’unità è recuperata mediante l'impostazione modulare e geometrica dell'insieme (elementi principali del legame tra Botticelli e la tradizione fiorentina del disegno). Analoghi rilievi possono esser suggeriti dalla “Nascita di Venere” (1485): eseguita a tempera magra per suggerire l'intonazione limpida e opaca di un affresco, in essa si accentuano gli elementi di stilizzazione > si allude senza rigore alla profondità spaziale, si attenuano al massimo i chiaro-scuri e si enfatizza la fluida continuità lineare che riassume e sintetizza figure e moto. In qualche modo è come se l'equilibrio che governava le opere precedenti cominciasse a spezzarsi, a partire dal piano stilistico, dove iniziano ad apparire arcaismi e disarmonie: si tratta delle prime avvisaglie della crisi che investirà a pieno Botticelli alla morte di Lorenzo e al successivo avvento di Savonarola. N.B. Tale svolta, però, non fu improvvisa e imprevedibile, tanto che i sintomi si possono già riconoscere in opere di altri artisti come, per esempio, l’”Apparizione della Vergine a San Bernardo” (1486) di Filippino Lippi, dove figure instabili e irrazionalmente allungate vivono in uno scenario di rocce e tronchi fantasmagorico e quasi antropomorfo (forme inconfrontabili con la limpidezza e concretezza umana espresse dal padre Filippo). ® Verso la “Maniera Moderna alle radici dello sviluppo della “Maniera Moderna” stanno le esperienze fiorentine e veneziane degli ultimi decenni del ‘400. Fondamentale risulta, però, soprattutto il processo di sintesi di molteplici esperienze che si attuano a Milano grazie alla compresenza di alla corte degli Sforza di artisti come Leonardo e Bramante. Il progressivo affermarsi della “Maniera Moderna” segna poi il decisivo declino del policentrismo che aveva caratterizzato gran parte del XV secolo > le varianti di linguaggio figurativo che avevano distinto situazioni e scuole regionali passano, ma aumenta la forza di attrazione di pochi grandi modelli che finiranno per imporsi. Alla discesa di Carlo VIII di Francia, fanno seguito, con ritmo incalzante, le sommosse fiorentine, la caduta del ducato milanese e la gravissima crisi che colpisce Venezia nel primo decennio del ‘500. L'esplosione dei conflitti e il terribile turbamento delle coscienze incrinano definitivamente le certezze e la concezione dell’uomo e dei suoi destini nel mondo e nella storia dell’arte del Rinascimento, proprio mentre le corti europee si appropriano delle più splendide conquiste della cultura figurativa della penisola. > Firenze: intorno al 1472, risultano in attività a Firenze sulle 200 botteghe di genere diverso: in tale situazione, molte di queste accentuano la propria specializzazione, mentre altre diventano polivalenti, con opere di pittura e scultura e lavori di oreficeria e decorazione > In particolare, quella del Verrocchio offre una produzione molto differenziata tanto per tecniche quanto per rilevanza di opere. Agli inizi del penultimo decennio del secolo, le commissioni più prestigiose per gli artisti fiorentini giungono da fuori: da Roma per il Pollaiolo e per i pittori chiamati a dipingere la Cappella Sistina; da Venezia per il Verrocchio, incaricato di erigere un monumento equestre in onore di Bartolomeo Colleoni (muore nel 1488 senza portarla a termine). Nella bottega del Verrocchio, Leonardo entra intorno al 1469: la sua iniziale adesione allo stile “finito” , minuzioso nella resa dei particolari e morbido nella stesura pittorica, aperto a influssi fiamminghi, caratteristico dell'ambiente del Verrocchio, si riconosce in opere autonome come “L'annunciazione” (1472-75) e “La madonna del garofano” (1478-80). In quest’ultima, in particolare, si allenta la definizione grafica dei volumi caratteristica del Verrocchio e la figura della Vergine affiora dalla penombra della stanza, in contrasto col lontano, fantastico e luminoso paesaggio che appare sullo sfondo attraverso due bifore. Altrettanto evidenti sono tuttavia le innovazioni, in direzione di una maggior fusione in superficie e in profondità delle varie parti dell'immagine, grazie a una resa più sensibile dei trapassi luministico-chiaroscurali. Fin dalle prime prove, il linguaggio figurativo del giovane artista risulta tanto rapido da aver indotto alcuni studiosi ad attribuirgli opere di scultura che spettano invece al Verrocchio, come il cosiddetto “Putto col delfino” (1470-80) e la “Dama col mazzolino” (1475-80), che testimoniano piuttosto un fecondo scambio di idee e di invenzioni tra i due artisti: - Il putto bronzeo sembra proiettarsi nello spazio con una grazia e una scioltezza di movimento che richiama certi schizzi leonardeschi, ma risponde d'altra parte perfettamente anche alle ricerche del più anziano maestro. - Ancora più serrato appare il dialogo tra i due artisti accostando la Dama col mazzolino del Verrocchio, che evoca quasi magicamente nel marmo morbidi e delicatissimi effetti di avvolgimento atmosferico, al “Ritratto di Ginevra Benci” (1475) di Leonardo (N.B. la tela è stata tagliata, ma prima erano presente anche le mani, che possiamo osservato in uno studio di disegno). Le due opere risultano, in parallelo, fortemente innovative rispetto ai precedenti schemi ritrattistici. Nel 1481 Leonardo inizia a dipingere una “Adorazione dei Magi”, di cui diversi disegni ne documentano la complessa elaborazione, rimasta incompiuta a causa della partenza dell'artista per Milano nel 1482. Il tema dell’'adorazione dei Magi è tra quelli più frequentemente rappresentati dai pittori fiorentini o attivi a Firenze nel corso del XV secolo, anche per la simbolica identificazione dei Medici con i tre re/saggi guidati dalla stella alla capanna della natività di Gesù. > Tali rappresentazioni si ricollegavano all'interpretazione tardogotica e cortese del tema, come i magi visti come i potenti della Terra che giungono a rendere omaggio al re dei re + da tale tradizione iconografica si distacca in gran parte l’’Adorazione” (1475) del Botticelli, per esempio, dove, tuttavia, per esplicita volontà del committente, nei volti dei Magi sono riconoscibili le sembianze di Cosimo il vecchio e dei suoi figli, mentre Lorenzo e altri membri della famiglia sono ritratti tra gli astanti. Tale dipinto costituisce tuttavia un importante precedente per quello di Leonardo, presentando le figure della Vergine con il bambino e San Giuseppe sopra un rialzo di terreno, entro un edificio diroccato e al centro, anziché di lato 3 mentre il più anziano dei Magi si inginocchia in adorazione del Bambino, gli astanti si dispongono ai lati come a formare due quinte aperte verso lo spettatore, ma accennando alla figura del semicerchio mediante le figure degli altri due re magi. Nell’Adorazione di Leonardo, la Madonna col Bambino appare invece isolata al centro di una folla di personaggi, di cui fanno parte gli stessi magi, che manifestano impetuosamente il senso di un terribile sconvolgimento interiore di fronte al repentino manifestarsi della divinità di Cristo incarnato > il significato profondo del tema, l’epifania, è così ricondotto in primo piano ed espresso attraverso la rappresentazione degli effetti psicologici della rivelazione e della folgorante illuminazione sulla folla dei devoti. Guidato in profondità dall'asse diagonale che si forma grazie alla successione dei due alberi, lo sguardo dello spettatore si inoltra poi verso lo sfondo, verso la raffigurazione di altri due elementi di valore simbolico: - L'edificio in rovina che allude al crollo del Tempio di Gerusalemme. - La furiosa zuffa di cavalieri che intende evocare la confusione e la follia di coloro che non hanno ancora ricevuto l'illuminazione. Tra i pittori fiorentini chiamati da Sisto IV a eseguire la decorazione a fresco della nuova cappella Palatina da lui eretta (vasto ambiente coperto da una volta a botte ribassata, collegata da vele e pennacchi ai muri e illuminato da 6 grandi finestre che si aprono su ciascuna delle pareti laterali: è stata decorata a fresco in 3 fasi: pag. 271-273), Domenico Ghirlandaio in particolare vede consolidata la sua fama grazie alla partecipazione all'impresa > la sua vasta cultura figurativa, che spazia dal naturalismo dei fiamminghi ai modelli classici del primo ‘400, e il suo talento da narratore lo rendono artista prediletto delle grandi famiglie fiorentine vicine a quella dei Medici, che egli celebra con numerosi ritratti inseriti accanto ai personaggi delle storie sacre affrescate in chiese della città. Così, nella cappella Sassetti, alla “Conferma dell'ordine Francescano” assistono come spettatori, ritratti a figura intera, il committente con il fratello e i figli, accompagnati, in posizione d'onore, da Lorenzo de’ Medici. Ugualmente, personaggi della cerchia medicea compaiono nelle “Storie sacre” del ciclo di Santa Maria Novella entro ambientazioni ora più quotidiane e familiari e di tono più solenne e anticheggiante. 2 Fino all’ultimo l’arte del Ghirlandaio rimane estranea alle inquietudini di altri maestri contemporanei come il Botticelli o Filippino Lippi. Nel corso del decennio del secolo la città è intanto proiettata verso una gravissima crisi politica e religiosa. Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), la calata in Italia dell'esercito di Carlo VIII travolge il debole sistema di equilibri tra i maggiori Stati della Penisola. A Firenze instaura una Repubblica alla cui guida si pone il frate domenicano Girolamo Savonarola che, chiamato in città fin dal 1489, aveva incontrato anche le simpatie degli ambienti intellettuali e umanistici fiorentini. In campo artistico la rivolta del 1494 non interrompe in un primo tempo le commissioni né l’attività delle botteghe, ma favorisce semmai il successo di un certo tipo di “Pittura devota”. Dal 1496 però la situazione precipita: le esortazioni a una rigorosa e ascetica riforma dei costumi e della religiosità si accompagnano all’esplicita condanna delle dottrine neoplatoniche, dell’esaltazione dell’uomo e della bellezza. Questi tragici avvenimenti dell'ultimo decennio del secolo trovano vasta eco nell'attività di numerosi artisti fiorentini, in particolare in quella del Botticelli: già un dipinto allegorico come la “Calunnia di Apelle” (1490-95) manifesta una svolta decisiva nei confronti delle opere precedenti > il soggetto risale alla descrizione di Luciano di un’opera di Apelle che alludeva alla falsa accusa di aver cospirato contro Tolomeo Filopatore, rivoltagli da un rivale. "> Entro una monumentale loggia, la Calunnia, guidata dall’Invidia e aiutata da Tradimento e Inganno, trascina un innocente davanti a un giudice consigliato da un Ignoranza e Sospetto. All'estremità opposta il Rimorso indica l'innocente volgendosi verso l'ignuda Verità, che alza lo sguardo e un braccio in direzione del Cielo. Una tonalità più austeramente patetica nei gesti e nelle espressioni, ma sempre giocata su strappi e dissonanze ritmiche/cromatiche caratterizza il “Compianto su Cristo Morto” (1490-95), mentre nella più tarda “Nati mistica” (15011), l'artista sembra operare una consapevole regressione nei confronti delle convenzioni di rappresentazione elaborate nel corso del ‘400: vien meno ogni definizione dello spazio e le dimensioni dei personaggi variano in rapporto al loro significato devozionale. L'arcaismo della composizione è accentuato dalle attitudini sforzate e innaturali delle figure, definite da contorni nitidamente incisi. Gli eventi del 1494 turbarono profondamente anche il giovane Michelangelo Buonarroti che, abbandonata Firenze, raggiunge prima Venezia e poi Bologna: manifestando precoci e straordinarie attitudini per l’attività artistica era tuttavia riuscito a vincere l'opposizione del padre ed era entrato 13enne nella bottega del Ghirlandaio con un contratto triennale. Tra i primi disegni di Michelangelo, risalenti al breve periodo di apprendistato presso il Ghirlandaio, sono copie di figure degli affreschi di Masaccio al Carmine e di Giotto nella Cappella Peruzzi a Santa Croce > in essi colpisce la capacità di individuare e assimilare con straordinaria sicurezza gli elementi stilistici fondamentali, insistendo sugli aspetti plastici e monumentali dell'immagine. Quando, in seguito, ha la possibilità di accedere alle collezioni medicee e studiarvi i marmi antichi, Michelangelo segue il medesimo cammino, ma con una consapevolezza culturale che lo conduce a guardare all'antico NON semplicemente come a un repertorio di motivi da imitare, ma riconoscendo l’indissolubile unità tra immagini antiche, miti e passioni che attraverso di esse trovavano espressione. > Intale consapevolezza che gli consentiva tra l’altro di “rifare l'antico” con stupefacente virtuosismo, va riconosciuto forse il frutto più immediato della familiarità dell'artista con la cerchia degli umanisti fiorentini. Tra le prime opera di scultura, i rilievi raffiguranti la “Madonna della Scala” (1490-92) e la “Battaglia dei Centauri” (1492) rivelano l'intento di raggiungere perfetta concordanza tra soggetto e scelte formali: - Nella Madonna della Scala la tecnica donatelliana dello stiacciato è impiegata nella definizione di una immagine di tale severità e monumentalità da far pensare alla suggestione di steli classiche. Bloccato, ma nello stesso tempo dinamico, appare il rapporto tra le figure della Vergine che, seduta su un masso di pietra squadrato col busto eretto, fissa lo sguardo lontano, come in attitudine profetica, e quella del bambino assopito nel suo grembo. Accanto ai capolavori del maestro si diffondono repliche e varianti dei suoi prototipi, ma gli aspetti più alti e innovatori della sua opera trovano un interprete sensibilissimo e originale in Giovan Battista Cima da Conegliano, autore di pale d'altare come la “Madonna in trona col bambino, San Giacomo apostolo e San Gerolamo” (1489): la chiara impaginazione spaziale e la limpida definizione dei volumi delle architetture e delle figure in una luce cristallina accentuano il senso di pace agreste dell’ambientazione paesistica. Il panorama della cultura veneta viene intanto gradualmente arricchendosi e complicandosi grazie ad apporti esterni: al flusso di opere fiamminghe e in genere nordiche verso le collezioni venete, si aggiungono i viaggi del Perugino, che importa sulle lagune lo “stile dolce”. In terraferma l'apporto più innovatore è dovuto a due pittori vicentini: - Il solenne e drammatico Bartolomeo Montagna, che coniuga motivi belliniani e mantegneschi con suggestioni tipiche di Antonello da Messina. - Giovanni Buonsignori, allievo di Montagna, la cui giovanile “Deposizione” è opera di alta intensità tragica: nell’accentuato scorcio in diagonale del corpo di Cristo morto rivela l’attenzione dell'artista per la cultura bramantesca lombarda. Agli artisti veneziani del tardo ‘400 spetta il merito di aver sviluppato un tipo di pittura narrativa che si differenzia da quella elaborata in altri centri italiani, sia per il particolare tono ricco di elementi descrittivi/elaborativi del racconto sia per la destinazione agli ambienti delle “Scuole” con vaste tele disposte come un fregio, anziché con affreschi dipinti su registri sovrapposti. Il momento di maggior diffusione e di più originale elaborazione di schemi narrativi si verifica nei “Nove Miracoli della reliquia della vera Croce” (1496 circa), dipinti da vari artisti per la decorazione del nuovo “albergo” della Scuola Grande di San Marco > nel “Miracolo al ponte San Lorenzo” (1496) di Gentile Bellini, vengono ritratti con precisione topografica ambienti della Venezia del tempo, animati da una folla di figure individuate con la medesima cura documentaria nelle fisionomie come nei costumi. La “veduta” prevale decisamente sul racconto, ma la resa minuziosa dei particolari è intensa. Analoga negli intenti, ma più vivace e ricca di punti narrativi appare la rappresentazione del “Miracolo a Rialto” (1494) di Vittore Carpaccio > l'artista conferisce qui straordinaria immediatezza al dinamico taglio asimmetrico della scena, con la loggia in primo piano e la serrata sequenza delle facciate in scorcio a sx, mentre dalla parte opposta la veduta si allarga seguendo il corso del canale. Vittore Carpaccio, tra il 1490-98, dipinge i nove teleri per la Scuola Grande di Sant'Orsola, illustrando le vicende della Santa: in diverse scene, l'artista introduce nella rappresentazione elementi propri degli spettacoli del tempo > così, nel “Congedo degli ambasciatori inglesi dalla corte di Bretagna” (1496-98), i tre momenti dell’azione si susseguono da dx a sx e verso il fondo, come su un palcoscenico. Sulla destra la vecchia nutrice attende che sia terminato il colloquio tra padre e figlia per “entrare in scena”, salendo la scaletta che conduce al palco, mentre a sx un personaggio abbagliato con una sontuosa toga rossa introduce la figura del “festaiolo”/narratore. Tra gli spettatori compaiono personaggi con le insegne delle Compagnie della Calza, le brigate di patrizi veneziani incaricate di allestire feste e spettacoli nella città. "> La rappresentazione, articolata in diversi episodi e gremita di personaggi, sullo sfondo di una città che è nello stesso tempo immaginaria e reale, alludendo a Venezia nell'atmosfera e in edifici, appare unificata da una rigorosissima intelaiatura prospettica e da una limpida metrica spaziale. Tale chiarezza compositiva di natura prospettica si rinnova in tutti i teleri, compreso quello raffigurante L'” Incontro e la partenza dei fidanzati” (1495), con la contrapposizione dell’aspra e rupestre costa d'Inghilterra. Le due vedute e i due momenti dell'episodio sono separati dall’alto pennone, spostato rispetto all'asse di simmetria del dipinto, accanto al quale si siede, indossando le insegne della compagnia della Calza, un personaggio identificato con Antonio Loredan, principale finanziatore dell’opera. Nel più tardo ciclo per la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Carpaccio semplifica la struttura narrativa delle sue rappresentazioni, concentrandosi di volta in volta su di un solo episodio delle Leggende dei Santi Giorgio, Trifone e Gerolamo: - “ILcombattimento di San Giorgio e il drago” (1502-07) è il più spettacolare, ambientato su un terreno cosparso dei macabri resti delle vittime della belva. Dietro l'arco teso delle due figure che si affrontano, la sequenza dei palmizi che fiancheggiano le mura turrite di una fiabesca città orientale conduce l'occhio dello spettatore verso l’estrema lontananza, mentre a dx, oltre alla principessa che assiste trepidante alla lotta, si apre, attraverso l'arco naturale di un roccione, una veduta di mare con veliero. - Ditono più intimo sono “Le storie di San Gerolamo”: nel “San Gerolamo e il leone nel convento” (1502-07) e nei “Funerali di San Gerolamo” (1502-07), troviamo toni più ironici e divertiti anziché drammatici. - Il “Sant'Agostino nello Studio” (1502-07) è straordinariamente gremito di preziosi oggetti evocati dal pacato diffondersi della luce, dove Sant'Agostino solleva la penna dalla missiva che sta scrivendo e volge lo sguardo verso la finestra, colpita dalla premonizione della morte di Gerolamo. Negli anni seguenti, l'artista che non riesce a conquistarsi l'appoggio delle cerchie più colte e raffinate di committenti, continua a lavorare per le scuole minori veneziane. Tra le sue opere più suggestive rimangono tuttavia la “ Meditazione sulla passione di Cristo” (1510) e “Il compianto su Cristo morto” (1510) > si tratta di dolenti e desolate raffigurazioni che sembrano riproporre, probabilmente in consapevole polemica con le tendenze affermatesi nell'ultimo decennio del ‘400, “asprezze mantegnesche” e una incredibile densità di motivi simbolici e allusivi, negli elementi del paesaggio, negli animali, nelle lapidi e nei frammenti architettonici. >» Milano: fin dalla sua prima opera milanese Bramante si misura con il problema dello spazio centralizzato dominato da una cupola. Intorno al 1479 è chiamato a intervenire nella ricostruzione della chiesa di Santa Maria presso San Satiro + il suo progetto prevede un corpo longitudinale a tre navate, di cui quella centrale e i bracci del transetto sono coperti da poderose volte a botte. Lo spazio della crociera è sormontato dalla grande volta emisferica, ma poiché l’area a disposizione per l’edificio non consentiva in alcun modo di estendere in profondità nel coro il 4° braccio, Bramante rappresenta “illusionisticamente” il coro stesso, costruendo prospetticamente in stucco una finta volta a botte cassettonata su pilastri e arcate. Lo sviluppo delle possibilità illusionistiche della prospettiva affonda le sue radici nelle origini urbinati dell'artista, come si vede anche nella tavola raffigurante “Cristo alla Colonna” (1480-90), tanto per l'impaginazione dell'immagine, che spinge in primo piano la dolorosa figura del redentore sofferente, quanto per la delicata e sensibile modellazione del corpo. In architettura l'interesse per l'impianto centralizzato è alla base delle nicchie della Sagrestia di San Satiro, ma anche della ricostruzione della tribuna di Santa Maria delle Grazie + Ludovico il Moro intendeva fare di questo edificio il mausoleo della propria famiglia. Bramante innesta sul corpo longitudinale delle navate la monumentale e luminosa tribuna coperta da una cupola emisferica: il potente e grandioso coordinamento degli spazi interni si riflette all'esterno nel limpido incastro dei volumi, dominati dal tiburio e coronati da una loggetta, che maschera la cupola. Come Bramante, anche Leonardo è probabilmente attirato in Lombardia dalla prospettiva delle opportunità di lavoro: benché le grandi speranze dell'artista non trovino, almeno in un primo tempo, adeguata risposta, l’ambiente milanese stimola in lui interessi tecnici e scientifici che danno origine all’imponente corpo di annotazioni e disegni dei manoscritti. In particolare, Leonardo elabora per Ludovico il Moro proposte di trasformazione urbanistica che si allontanano radicalmente dall'idea 400esca di “città ideale”, ma proponendo grandi soluzioni come un doppio sistema di comunicazione viarie. La prima importante commissione, tuttavia, non proviene dalla corte sforzesca, ma dai confratelli dell’Immacolata Concezione che, nel 1483, incaricano Leonardo e i fratelli De Predis di dipingere le tavole per l’ancona destinata alla Cappella della confraternita in San Francesco Grande > a Leonardo spetta l'esecuzione della tavola centrale con la “Vergine delle Rocce” (1483-86), raffigurante la leggenda dell'incontro tra Gesù bambino e il Battista, alla presenza della Vergine e di un angelo, nel deserto roccioso del Sinai. Il gruppo delle figure, lievemente arretrato rispetto al primo piano, è immerso nella penombra della grotta, tenuemente illuminato di fronte e dalla luce che filtra attraverso le rocce > l'impianto piramidale che conferisce inedita monumentalità all'immagine, appare articolato e animato dalla circolarità degli sguardi e dei gesti, che sembrano esplorare lo spazio rendendolo più concretamente sensibile allo spettatore. N.B. il motivo della grotta e del paesaggio geologico può essere ricondotto al significato generale dell’ancona. L'acuto interesse di Leonardo per i significati “profondi” dei soggetti che era chiamato a raffigurare lo conduceva sistematicamente, fin dall’adorazione dei Magi, a rinnovarne l'iconografia, accentuandone nello stesso tempo l'impatto diretto e coinvolgente sugli spettatori. La sua opera più significativa in tal senso è L'"Ultima Cena”, realizzata per volere di Ludovico il Moro tra il 1495-97, su una delle pareti minori del refettorio nel convento domenicano di Santa Maria delle Grazie > distaccandosi dall’iconografia tradizionale, Leonardo sceglie di rappresentare non l'atto della consacrazione del pane e del vino, ma il momento che segue immediatamente alle parole pronunciate da Cristo “In verità vi dico, uno di voi mi tradirà”, scatenando il profondo turbamento degli apostoli. La violenta emozione che si diffonde da un capo all’altro della composizione travolge il tradizionale allineamento simmetrico delle figure: gesti e attitudini dei personaggi, collegati a gruppi di tre, appaiono ritmicamente concatenati in un movimento ondeggiante che si propaga verso l'esterno, rifluendo quindi verso la figura centrale di Cristo. Lo studio attentissimo delle fisionomie e dei gesti, intensi non solo a rappresentare i moti fisici, ma anche i sentimenti/passioni dell'animo, è documentato da una serie di disegni. Il profondo coinvolgimento dello spettatore è raggiunto tuttavia mediante il diretto collegamento “percettivo” tra spazio reale e spazio dipinto, con procedimenti analoghi a quelli posti in atto da Bramante. Il perfetto illusionismo prospettico, accentuato dall’effetto di luce proveniente da sx nell'ambiente dipinto come nel refettorio, salda in assoluta continuità i due spazi, sì che la scena evangelica sembri svolgersi direttamente alla presenza dei riguardanti. N.B. l’opera che apparve già ai contemporanei aprire un nuovo corso della pittura risultava però già deteriorata nel 1517: la particolare tecnica sperimentata da Leonardo (olio su una preparazione a gesso) è la ragione principale dell’attuale rovina. A commissioni della corte milanese, o di ambienti a essa vicina, risalgono anche la cosiddetta “Dama con l’ermellino” (1485-90), vivace ritratto di Cecilia Gallerani, la cui figura, colpita dalla luce, emerge dal fondo d'ombra con un effetto di moto a spirale che ne esalta insieme la volumetria e la grazia. L'altra opera è, invece, la decorazione del soffitto della Sala delle Asse nel Castello di Porta Giovia, concepita come un intreccio di motivi arborei che sembrano annullare le reali strutture architettoniche (1498). L'impresa più prestigiosa affidata da Ludovico all'artista è tuttavia quella del grande “monumento equestre a Francesco Sforza”: tale impresa lo occupa per oltre 16 anni + inizialmente studia un gruppo a grandezza naturale del tutto rivoluzionario rispetto a ogni precedente per l'adozione del motivo del cavallo impennato, come vediamo in uno dei suoi disegni preparatori, conferendo così all'immagine impeto straordinario e proiezione nello spazio. Tale soluzione, documentata anche da un modello in bronzo, viene abbandonata quando il Moro richiede che il monumento assuma dimensioni colossali. Nel 1491 ne appronta un colossale modello in creta, dopo aver dovuto ricominciare da capo l'anno precedente > i problemi dell'artista si spostano qui sulla fusione in bronzo di tale opera, con una serie di progetti, anch'essi documentati in uno dei due codici di Madrid. però, rispetto alla redazione finale, conducono a riconoscervi con sicurezza, almeno in una prima visione, la raffigurazione dei Magi. Di fronte alla caverna (N.B. Caverna del Mons Victorianus, cioè dove Adamo ed Eva deposero i loro tesori una volta essere stati cacciati e dove, ancora, avviene la rivelazione dell'incarnazione di Cristo, nuovo Adamo), accanto alla quale si individuano un fico e un tralcio d'edera e sgorga una sorgente, i Magi, secondo una leggenda medievale, scrutano gli astri per scoprire un indizio della venuta del Messia. > La scelta di un episodio della leggenda dei Magi raramente rappresentato e la raffigurazione dei Magi stessi come astrologi già dichiara l'intento di “velare” il significato dell'immagine rendendone ardua l’interpretazione. N.B. nel caso di questo dipinto (e come vedremo anche nella Tempesta o nella Venere), esso sembra prender vita nel contesto di uno strettissimo rapporto tra artista e committente, partecipi di una medesima cultura e con il risultato di una forte personalizzazione dell’immagine. Un analogo, anche se meno intrinseco rapporto, legava la “Venere dormiente” (1508) al committente Girolamo Marcello > la Venere è abbandonata al sonno e come se immersa entro il sereno paesaggio, in un sottile accordo ritmico tra il corpo ignudo disteso e le apparenze natural non è soltanto un dipinto mitologico, ma un'allusione alla pretesa discendenza della famiglia veneziana. A partire dal secolo scorso, la “Tempesta” (1506-08) è divenuta oggetto di interminabili dispute circa l'interpretazione, fornendo inoltre argomenti ai sostenitori della precoce nascita di “immagini senza soggetto”, secondo i quali Giorgione avrebbe creato la sua opera indipendentemente da qualsiasi suggerimento esterno come espressione di un personale stato d'animo > tale punto di vista sembrò trovare sostegno nei risultati di una radiografia del 1939, che mostrava una notevole variante: l'originaria presenza di una bagnante al posto di un soldato, presenza che portò all'affrettata conclusione che le figure fossero “irrilevanti”, MA dalla corrispondenza del restauratore Pelliccioli (colui che ha fatto eseguire la radiografia), risulta tuttavia che Giorgione, dopo aver abbozzato la figura di donna a sx, decise invece di raffigurarla sulla dx, ricoprendo la figura della bagnante con quella dell’uomo appoggiato ad un'asta. Tra le innumerevoli interpretazioni via via proposte alcune privilegiano significati di natura simbolica e allegorica: - L'eredità del dolore che colpisce una famiglia umana. - quattro elementi - L'unione del cielo con la terra. Altre suggeriscono invece di vedere nel dipinto l'illustrazione di una istoria derivata dalla mitologia, dalla Bibbia o da fonti letterarie: - Deucalione e Pirra dopo il diluvio. - Il ritrovamento di Paride. - La nascita di Bacco. - Il ritrovamento di Mosè. - S. Settisha identificato un importante “precedente” in un rilievo dell’Amadeo sulla Facciata della Cappella Colleoni a Bergamo (1472-73): si tratta di una parte di sequenza di Storie di Adamo ed Eva, raffigurante la Condanna divina e il destino dei progenitori dopo il peccato > sullo sfondo di alberi e casamenti, Eva è seduta a terra, a dx con in braccio il piccolo Caino, mentre Adamo è ritto a sx, appoggiato a una vanga. N.B. la figura dell’Eterno è sostituita dal fulmine, mentre le colonne spezzate alludono al destino di morte dell’uomo. 3 La molteplicità di tali interpretazioni conferma il carattere sfuggente ed elusivo dell’iconografia del dipinto, ma anche la necessità di ancorarlo a una “serie iconografica” e a una particolare situazione di rapporti artista- committente, al fine di giungere a una lettura corretta. Il riconoscimento del soggetto non sminuisce, anzi intensifica la misteriosa suggestione del dipinto, che traduce in termini di rappresentazione fortemente naturalistica il tema della meditazione di Adamo sul peccato e sull'esistenza degli uomini, ormai segnata dalla fatica del lavoro e da un destino di dolore e morte. Evocata nella sua concretezza di fenomeno naturale, la Tempesta diviene così metafora della condizione umana dopo il peccato, alla luce della dottrina cristiana, in un'immagine destinata alla contemplazione e alla meditazione di una ristretta cerchia di spettatori, a cui apparteneva il probabile committente Gabriele Vendramin, che voleva l'opera nel suo studio. Anche le figure affrescate sulla facciata del Fondaco dei Tedeschi nel 1508, di cui non rimane che un frammento con una giovane ignuda, risultavano di difficile interpretazione e la distruzione quasi totale rende ormai vano ogni possibile tentativo di ricostruzione iconografica del ciclo, che i contemporanei ammiravano soprattutto per l'intenso naturalismo, che si ritrova però anche in un'altra opera: il “Ritratto di vecchia” (1508-10), opera che sembra aver colpito lo stesso Michelangelo al tempo della prima fase dei lavori della cappella sistina. L'opera di Giorgione accelera un processo di conquista della profondità dello spazio naturale pervaso dall'aria e dalla luce come ambiente unitario, nel quale le figure si immergono con pacata naturalezza. Tra i protagonisti della trasformazione continua ad essere, all’inizio del ‘500, il vecchio Giovanni Bellini come, per esempio, nella: - “Madonna del prato” (1505). - “Pala di San Zaccaria” (1505): la grandiosa edicola che accoglie il gruppo dei santi assorti in meditazione e l'angelo musico intorno al trono della Vergine, si apre lateralmente su limpide vedute di campagna lasciando penetrare la luce meridiana che avvolge con morbidi effetti atmosferici le figure e ne mette in risalto l'intensa concentrazione interiore. - Un passo ulteriore, in direzione della fusione di elementi architettonici e paesistici, verrà compito nel 1513 con la “Pala con San Gerolamo tra i Santi Cristoforo e Agostino”. Dalla fantasia dell'artista nascono, inoltre, capolavori come “Il festino degli dei” (1514): destinato al camerino d’alabastro di Alfonso d'Este e modificato in seguito nel paesaggio da Tiziano, l’opera presenta un tono di pacata e arcaica favola mitologica. AI 1515 risale, invece, “L’Ignuda che si pettina” > riprendendo il motivo fiammingo del gioco di riflessione degli specchi e modellando delicatamente il corpo della giovane donna, Bellini ripropone un tema di genere nei termini del limpido e severo classicismo che caratterizza l’ultima fase della sua attività. Al dipinto sembra, inoltre, rispondere Tiziano con la contemporanea “Donna allo specchio” (1512-15), accrescendo però la carica di suggestione dell'immagine e l'incanto sensuale della mimesi con gli effetti di “lustro”, di ombre riflesse e della luce radente che accarezza le superfici rivelando la differente consistenza materica degli oggetti. Da Bellini e Giorgione muove agli inizi l’arte di Tiziano Vecellio, probabilmente allievo di Bellini e collaboratore di Giorgione nella decorazione del Fondaco dei Tedeschi. Intorno al 1510 l'assimilazione del nuovo linguaggio figurativo giorgionesco risulta in lui talmente intensa che non sono ancora del tutto spente le controversie circa l'attribuzione all'uno o all’altro di alcuni dipinto come “Il concerto campestre” (1511): si tratta di una vera e propria allegoria musicale, in cui, l'accordo del liuto, toccato dal giovane in eleganti vesti cittadine, e del flauto della donna, espressione dell'armonia nel grado supremo, viene turbato e interrotto dall'intrusione del pastore, la cui presenza richiede il rito di purificazione compiuto dalla seconda ignuda. Sul piano formale, l’alta sonorità cromatica e il particolare taglio compositivo consentono di accostare il dipinto ad altre opere giovanili di Tiziano, a cominciare dagli affreschi raffiguranti i “Miracoli di Sant'Antonio” (1511), che segnano però un più deciso stacco dalla maniera giorgionesca per lo sviluppo di strutture narrative di grande immediatezza ed efficacia. Come per Tiziano, anche per Sebastiano del Piombo, fondamentale risulta l’esperienza dell’arte di Giorgione: il suo esordio come pittore avviene probabilmente intorno al 1506-07 e le sue prime opere manifestano la tendenza a sviluppare suggestioni giorgionesche in senso vigorosamente plastico e monumentale, come il grandioso “Giudizio di Salomone” (1509) e la “Pala di San Giovanni Crisostomo” (1510-11), che presenta un audace struttura asimmetrica, con i personaggi della Sacra Conversazione addossati a poderosi elementi architettonici sulla sx, mentre, dalla parte opposta, si apre una veduta di paese (N.B. schema destinato a importanti sviluppi nell'arte lagunare, che vediamo fino alla “Pala Pesaro” di Tiziano). Dal concetto della pittura veneziana del primo ‘500 si distacca Lorenzo Lotto: artista veneziano, risulta attivo a Treviso per dipingere il “ritratto del vescovo Bernardo de’ Rossi” (1505), opera di saldo impianto plastico, di acuta definizione fisionomica e aperto a suggestioni nordiche. Tali suggestioni si accentuano sulla custodia del ritratto stesso, sulla quale è dipinta un’Allegoria ispirata al “contrasto tra virtus e voluptas” (1505), e in una seconda composizione allegorica (1505), anch'essa custodia di un ritratto, raffigurante una figura femminile nell'atto di vegliare al centro di una radura boschiva: un angelo (o genio alato) cosparge su di lei petali di fiori, mentre una satiressa si sporge da dietro un tronco d'albero a sx e un satiro intento nelle consuete libagioni dal basso. > Tale procedimento che si avvale di complicate allusioni simboliche, spinto fino a veri e propri giochi enigmistici, ricorre frequentemente nei ritratti dipinti da Lotto, come nel “Giovane con la lucerna” (1506-07): l'identità del giovane ecclesiastico che volge verso lo spettatore uno sguardo deciso e penetrante, stagliandosi col busto contro lo sfondo bianco-argenteo della tenda di broccato, è attesta dal motivo dei fiori di cardo che la decorano, creando insieme al tessuto una singolare allusione al suo nome (Broccardo Malchiostro). In contrasto con la luce fredda che definisce nitidamente nei minimi particolari la fisionomia del personaggio, a dx si intravede il lume di una lucerna entro un ambiente oscuro: l’esile fiammella, simbolo della fragilità della vita umana, allude al recente pericolo mortale cui il giovane è sfuggito. Ancora strettamente legato alla più avanzata cultura lagunare, il linguaggio figurativo del Lotto se ne distacca tuttavia per una sorte di irrequietezza che investe il campo delle scelte formali e dei contenuti: la “Pala di Santa Cristina al Tiverone” (1505) sembra allinearsi al recentissimo modello belliniano della “Pala di San Zaccardo” (1505), ma in realtà manifesta uno stacco deciso nel ritmo compositivo più serrato, sottolineato dall’intrecciarsi degli sguardi e dalle attitudini più inquiete e variate dei personaggi, investiti da una luce fredda. Si verifica un'apertura, allora, verso l’acuto realismo nella resa dei particolari, la maggiore accensione patetica e devozionale e un sentimento della natura meno “classico”, più misterioso e inquietante, propri dell’arte nordica. Ne sono splendidi esempi: - “Le nozze mistiche di Santa Caterina” (1506-08). - "San Girolamo penitente” (1506 - Louvre). - “San Girolamo Penitente” (1509 - Castel Sant'Angelo): ancora una volta viene ripresa l’immagine, dopo 3 anni dalla prima volta, cara alla cultura veneta del Santo eremita in ascetica solitaria contemplazione, MA in un ambiente più solare, meno nordico e tenebroso rispetto al precedente (1506) e reso tuttavia NON meno inquietante dal carattere ambiguamente antropomorfo di alcuni elementi naturali (Ex: tronco in primo piano e le radici dietro al Santo). - La pietà delle cimase della “Pala di Santa Cristina al Tiverone” (1505): di una struggente intensità emotiva, con il gruppo serrato delle figure di Cristo e degli angeli che si stagliano sul fondo scuro. - La pietà del “Polittico di Recanati” (1508): il complesso intreccio dei gesti dolenti appare in stretta consonanza con le pratiche di devozione contemplativa, volte a coinvolgere nel modo più diretto e profondo l’affettività del riguardante. >» Firenze: abbandonata Milano alla caduta di Ludovico il Moro, Leonardo sosta per qualche tempo a Mantova, prima di far ritorno a Firenze. Pochi mesi più tardi egli espone alla Santissima Annunziata un cartone raffigurante la Vergine con il bambino e Sant'Anna, ma mentre Vasari parla effettivamente di un cartone, Pietro da Novellara afferma che Leonardo “pinge”: ciò può quindi essere spiegato in rapporto alla due opere di Leonardo a noi giunte con i medesimi soggetti: - La prima (1498) è un cartone a biacca e carboncino che NON corrisponde però ad alcuna delle due descrizioni 3 la stesura cromatica è di stupefacente delicatezza nei trapassi e si ha una più sciolta naturalità nel fluire e nell’allacciarsi dei gesti e degli sguardi. Qui, nel dipinto, si accentua l'impressione dello spettatore di trovarsi di fronte a un’epifania di un evento misterioso e remoto nel tempo e nello spazio. - La seconda è un olio su tavola del 1501-10 e corrisponde alla descrizione del Novellara (+ si presume perciò che il cartone di cui parla il Vasari sia andato perduto) > le figure, serrate in un blocco, ma nel contempo articolate con un complesso intreccio di moti fluenti sottolineati dall'andamento dei panni, appaiono imminenti verso il primo piano, grandiose e monumentali come gli apostoli del Cenacolo, cui somigliano anche per l'intensità emozionale e psicologica. Al ritorno di Leonardo nella città Toscana, questa era profondamente mutata: dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e la cacciata dei Medici, il breve drammatico periodo della Repubblica savonaroliana aveva provocato una vera e propria frattura, anche nel campo delle attività artistiche. - Da Michelangelo nella “Madonna Bridgewater” (1507-08), dove l'energico movimento centrifugo del bambino riprende quello del Tondo Taddei. Alle immagini leonardesche Raffaello guarda cogliendone i principi di strutturazione plastico-spaziale, lasciandone però in ombra la complessità di allusioni e implicazioni simboliche, oltre che il carattere di indefinito psicologico > tale procedimento appare evidente nel “Ritratto di Maddalena Strozzi” (1506) che ricalca quasi puntualmente l'impianto compositivo della Gioconda, ma con intenti e risultati espressivi quasi antitetici, accentuando la descrizione dei lineamenti fisici come delle vesti, dei gioielli e dell'ambientazione paesistica. Analogamente nel “Ritratto di Agnolo Doni” (1506), marito di Maddalena, la figura si accampa nello spazio con la sintetica e pacata pienezza dei suoi volumi e l'evidenza naturalistica dei particolari. Tra la fine del 1504 e il 1508, all'attività fiorentina di Raffaello si alternano frequenti ritorni a Urbino e a Perugia, oltre che un probabile viaggio a Roma nel 1506 > in particolare, però, non si interrompono i rapporti con la corte urbinate dei Montefeltro, che per loro, il Sanzio, dipinge il “Dittico con San Giorgio e il Drago e San Michele e il drago” (1505): nel San Giorgio il movimento impetuoso e ruotante del cavallo e del cavaliere conferma lo studio dei disegni leonardeschi per la “battaglia di Anghiari”, mentre nel San Michele le immagini demoniache che attorniano l'arcangelo vittorioso, sullo sfondo della città infernale, rivelano la suggestione dei dipinti fiamminghi. A Perugia Raffaello dipinge, per volere di Atalanta Baglioni nella Cappella Funeraria della famiglia, una Pala (“Pala Baglioni” - 1507) che esprime, attraverso quello della Vergine su Cristo morto, il suo dolore di madre per l'assassinio del figlio Grifonetto nel corso di contese familiari per il dominio della città. > Numerosi disegni disegnano il complesso studio per tale progetto. Alla pala Baglioni può essere accostata la “Santa Caterina d'Alessandria” (1508), raffigurata, da un punto di vista rialzato, sullo sfondo di un vasto paesaggio brumoso, con un potente effetto plastico, accentuato dalla rotazione del corpo e dal morbido gioco di spirali creato dalle braccia e dalle vesti. Tra le ultime opere fiorentine, prima della partenza dell'artista per Roma alla fine del 1508, è anche la “Madonna del Baldacchino” (1507-08), che innova lo schema delle grandi pale d'altare, con i santi intorno al trono della Vergine collocati davanti a un grandioso fondale architettonico tagliato dai margini del dipinto, in modo da consentire il massimo di monumentalità di impianto eludendo ogni problema di dimensionamento tra figure e membrature architettoniche. Piero di Cosimo, intorno alla metà del primo decennio del 500, dipinge tre spalliere raffiguranti scene della vita primordiale degli uomini, anteriore alla conoscenza del fuoco: 1. “La caccia” - 1505: figure umane seminude, esseri semibestiali e animali si affrontano in una lotta feroce e indiscriminata, senza ravvedersi del comune pericolo costituito dall'incendio che, sul fondo, incomincia a devastare la foresta. 2. primi segni di una vita comunitaria e della scoperta di tecniche primitive di costruzione si manifestano nel “Ritorno dalla caccia” (1505). 3. Nell’"Incendio della foresta” (1505) un deciso progresso verso forme iniziali di civiltà è segnato dalla presenza di una capanna e di rozzi recipienti, mentre un uomo, ormai rivestito di abiti, consapevole dell'incendio e senza esserne spaventato come gli animali, tenta di catturare dei bovini. A questi tre pannelli che rivelano un’inconsueta attenzione rivolta alla rappresentazione di numerose specie animali e, soprattutto, a una suggestiva ambientazione paesistica, sono state collegate altre due tele: 1. Il Ritrovamento di Vulcano - 1500-05: Vulcano fanciullo, scaraventato dall’Olimpo a causa della sua zoppia, viene soccorso da delle fanciulle nell'isola di Lemno. 2. Vulcano e Eolo maestri dell'umanità - 1500-05: rappresenta Vulcano, ormai adulto, assistito da Eolo, al lavoro in una primitiva fucina per mostrare agli uomini l’uso del fuoco e le tecniche di lavorazione del metallo. Sullo sfondo viene eretta la struttura di una primitiva costruzione. Questi cinque dipinti ornavano, insieme ad altri perduti, due ambienti di una casa fiorentina: la loro iconografia piuttosto rara, si ispira alla concezione delle prime forme di esistenza come uno stato bestiale, cui l'umanità sfugge solo attraverso un lento progresso tecnico e intellettuale. > La visione dei primi stadi della vita dell'umanità come un processo di sviluppo interamente naturale e umano da forme di vita primitive e bestiali a forme sempre più evolute risultava tanto incompatibile con il mito antico quanto con la concezione cristiana della vita e dei destini umani. Due tavole dipinte per Giovanni Vespucci raffigurano in toni giocosi la narrazione di Ovidio della scoperta e del dono degli uomini, da parte di Bacco, del vino e del miele ne “Le storie di Silene” (1507), mentre altri due pannelli rappresentano il mito di Prometeo ed Epimeteo (1510-20): Vulcano aveva insegnato agli uomini come usare il fuoco per provvedere alle proprie necessità materiali, ma la torcia accesa da Prometeo alle ruote del carro del Sole rappresenta il dono della chiarezza della conoscenza, strappata agli dei e causa quindi di minaccia e castigo. ® RomaalTempodiGiulio Il e di Leone X: le grandi iniziative artistiche romane del primo quarto di 500 nascono in massima parte dall'impulso e dal mecenatismo di due pontefici, Giulio Il e Leone X, accomunati nel perseguire la restauratio della grandezza monumentale e culturale della Roma papale. > L'età di Giulio Il: Nipote di Sisto IV, Giulio Il aveva svolto un intelligente opera di committenza quando era cardinale; divenuto pontefice, egli si ricollega direttamente al progetto di trasformazione monumentale di Roma intrapreso da Sisto IV, attraverso il restauro o la fondazione di edifici e progetti di ristrutturazione urbanistica. Raggiunta Roma subito dopo la caduta di Ludovico il Moro, Bramante aveva ripreso le sue meditazioni sulla coerente e organica strutturazione di complessi architettonici, aggiornandole mediante lo studio di modelli antichi, come IL tempietto di San Pietro in Montorio + l’edificio, di ridotte dimensioni, a pianta centrale e di forma cilindrica era in origine destinato a trovar collocazione al centro di un cortile circolare porticato. Vi appaiono elementi classici ma in forme moderne. Alla fine del 1503, l’incontro con Giulio Il apre all'attività dell'artista nuovi vasti orizzonti come, per esempio, la progettazione del collegamento tra i palazzi vaticani e la residenza estiva del papa > l’enorme cortile doveva articolarsi in terrazze a tre livelli, collegate da scalinate e concluse in alto da una vasta esedra. I lavori proseguono lentamente e un secondo cantiere viene nel frattempo eretto nei primi mesi del 1506 quando Giulio Il decide di abbattere e ricostruire l'antica basilica vaticana. Tra i diversi progetti di Bramante viene infine scelto quello che prevede l'abbandono della tradizionale pianta a croce latina in favore di una struttura centralizzata, con pianta a croce greca e inscritta entro un quadrato, dominata da una cupola emisferica con 4 cupole minori tra i bracci della croce e torri angolari. I lavori procedono dal 1506 al 1514, ma in seguito il progetto subisce radicale trasformazioni e viene riproposto l'impianto basilicale longitudinale. N.B. Intorno alla nuova San Pietro era prevista la costruzione di una vasta piazza quadrilatera con palazzi porticati. Altri architetti partecipano, accanto a Bramante, all'opera di rinnovamento urbanistico ed edilizio di Roma, in particolare Baldassarre Peruzzi, che tra il 1509-12, progetta l'attuale Farnesina; viene costruito un edificio a due piani, scanditi da raffinate cornici e lesene, mentre nella facciata verso il giardino il corpo di fabbrica si articola in due ali aggettanti. Erigere un mausoleo per il pontefice nella tribuna della Basilica Vaticana è il progetto che accende la fantasia di Michelangelo, chiamato a Roma nel 1505: il primo progetto prevedeva un sacello a piante rettangolare che doveva innalzarsi a guisa di piramide, scandita in tre ordini decrescenti, con all’interno una cella sepolcrale cui dava accesso una porta dal lato posteriore. Nell’ordine basamentale nicchie con figure di Virtù o di Vittorie, cui si addossavano statue di Prigioni. Oltre la prima cornice erano invece previste altre 4 grandi statue raffiguranti Mosè e San Paolo, la Vita attiva e la vita contemplativa. Sulle pareti del monumento dovevano invece essere collocati rilievi in bronzo raffiguranti eventi memorabili del pontificato di Giulio II. Alla sommità due figure angeliche sostenevano un'’arca con la statua del pontefice defunto. > Acausa dei ripetuti rifiuti di Giulio Il (troppo interessato alla costruzione della nuova Basilica), Michelangelo interrompe i lavori e abbandona Roma alla volta di Firenze. A Firenze, Michelangelo riprende il cartone per la Battaglia di Cascina e il San Matteo, mentre Giulio Il insiste minacciosamente con la signoria per farlo tornare in città. Nel 1508 prosegue i lavori delle statue dei 12 apostoli, ma viene convinto di tornare a Roma per iniziare i lavori della Cappella Sistina (nel 1504 aveva subito una forte crepa, rovinando le decorazioni precedenti). A un primo progetto, che prevedeva di sostituire il cielo stellato di Piermatteo di Amelia con figure dei dodici apostoli, l'artista propone un cambiamento > al posto degli apostoli realizzare le figure di 7 profeti e 5 sibille, i cui troni sono fiancheggiati da pilastrini sorreggenti una cornice al di sopra dei vertici delle vele, delimitando uno spazio centrale diviso in senso longitudinale dalla continuazione delle membrature architettoniche ai lati dei troni che assumono la forma di possenti arconi e incorniciano “Nove storie della Genesi”, disposte in ordine cronologico dall'altare. Nei 5 scomparti che sormontano i troni dei profeti e delle sibille, il campo delle storie si restringe per lasciar spazio a figure di ignudi che reggono ghirlande di foglie di quercia, alludenti al casato di Sisto IV e Giulio II, e medaglioni bronzei con scene bibliche. Nelle lunette e nelle vele sono rappresentate “Le 40 generazioni degli Antenati di Cristo”, come vengono elencate dal vangelo secondo Matteo. > La complessa articolazione strutturale rispecchia la ricchezza e complessità del programma iconografico. N.B. accanto a Michelangelo sono attivi anche altri artisti, chiamati soprattutto da Firenze, il cui intervento è riconoscibile nell'esecuzione di parti delle prime tre storie della Genesi, come nel Diluvio. In seguito, gli aiuti verranno congedati. Mentre sulla superficie curva della volta, l'artista continua a riportare il disegno dei cartoni mediante lo spolvero o l'incisione, nelle lunette non fa uso di cartoni e procede con celerità passando direttamente da piccoli schizzi preparatori alla delineazione delle figure (FOTO 214-15). Alla conclusione della prima fase segue un'interruzione di circa un anno a causa delle mancanze economiche. Durante i 4 anni che vedono il Buonarroti impegnato nella Sistina, sensibili risultano le trasformazioni del suo presentano e “Creazione linguaggio figurativo, sul piano della tecnica come su quello dello stile + mentre le tre storie di No. composizioni gremite, concepite quasi come rilievi classici, già nei “peccato e cacciata dei Progenitori di Eva” la raffigurazione diviene più spoglia e potente: crescono le dimensioni dei corpi, si semplificano i gesti e si riducono i piani in profondità. Alla ripresa dei lavori e dopo aver studiato attentamente gli affreschi dal basso, Michelangelo accentua ulteriormente la terribile energia e grandiosità delle sue immagini: nelle figure dei Profeti e delle sibille, al crescere delle dimensioni, si accompagna l’intensificarsi della loro vitalità fisica e psichica, fino all'immagine di “Giona La tecnica esecutiva si fa via via più rapida, larga e decisa, con una maggiore unità e fusione di toni cromatici. La straordinaria intensità cromatica, rivelata dalla recente pulitura, si vede in particolare nelle lunette, dove i colori puri sono distesi su vaste superfici e diluiti, procedendo dagli scuri verso i chiari, per segnare il passaggio dalle parti in ombre a quelle in luce, e con effetti di sfocature nelle figure arretrate. Il ciclo appare allo spettatore come un'immagine potentemente unitaria, risultato raggiunto anche grazie alla geniale invenzione del “partimento” (dividere in parti). Michelangelo, attraverso una contaminazione dell’illusionismo del Mantegna e dei partimenti all'antica, crea una struttura assolutamente unitaria e di ineguagliabile forza espressiva, che sviluppa molte delle idee nate in rapporto al grandioso progetto del mausoleo papale. La seconda grande impresa del pontificato di Giulio Il trae origine dal rifiuto del papa di utilizzare come appartamento ufficiale quello decorato dal Pinturicchio per Alessandro IV. solitamente offerti dalle convenzioni di rappresentazione dell’arte rinascimentale. Raffaello crea un'immagine che si propone allo spettatore non come semplice rappresentazione, ma come “ritratto” del divino nell'atto di rivelarsi. Nella “Pala di Santa Cecilia” (1514) scompare l'immagine della divinità e, con essa, l'esteriorizzazione mimica accentuata dai sentimenti: tutto è trasposto in interiorizzazione > visione e sentimento. Lo spettatore si trova di fronte non all'immagine della divinità, MA alla rappresentazione dello stato affettivo della visione e dell'estasi musicale. > L'etàdiLeone X: l'elezione al pontificato di Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, è seguita da una copiosa produzione di sermoni e panegirici che esprimono l'auspicio dell'avvento di un’era di pace che consenta di restaurare l’unità della Chiesa e di tutto il mondo cristiano. Pacato e prudente, moto lontano dal temperamento bellicoso e terribile del suo predecessore, Leone X raccoglie pienamente l'età di Giulio Il per quanto riguarda il proposito di restaurare nella Roma papale il potere e lo splendore della città imperiale, presentandosi nelle vesti di “difensore della pace”. Come per Giulio Il, l'immagine più immediata ed eloquente di Leone X è un ritratto di Raffaello (1518-19) che lo rappresenta seduto su una sedia camerale davanti a uno scrittorio, tra i due cardinali nipoti Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII) e Luigi de’ Rossi, in atto di sfogliare, con in mano una lente, una preziosa bibbia miniata. Dalla ricca tessitura cromatico-luministica del dipinto traggono impareggiabile animazione i volti dei personaggi ed evidenza materica gli oggetti, mentre la disposizione della figura del pontefice lungo una direttrice diagonale, posta in risalto dalle membrature architettoniche sullo sfondo, consente di individuare ancora una volta con precisione la posizione dello spettatore, a dx rispetto al gruppo. Grazie alla incondizionata ammirazione del pontefice, Raffaello domina la scena artistica romana fino alla sua morte (1520). Già negli affreschi della seconda Stanza, gli orientamenti politici di Leone X trovano espressione in alcune trasformazioni del programma originario + in particolare nell’” Incontro di Attila e Leone Magno” (1518-19), la figura di Leone riceve maggior risalto che nei disegni preparatori e assume le sembianze del nuovo pontefice in atto di benedire, con la mano protesa in un gesto pacificatore. Gli affreschi della terza stanza (Stanza dell’Incendio) raffigurano eventi dei tempi di Leone III e di Leone IV, di papi che portavano quindi lo stesso nome di quello regnante. “L'incendio del Borgo” (1514) è il primo ad essere stato eseguito e con vasta partecipazione diretta del Sanzio, celebra simbolicamente l’opera di pacificazione impresa da Leone X per estinguere il divampare delle guerre tra gli stati Cristiani: più volte, in passato, sono stati espressi giudizi limitativi su tale affresco per la sua presunta discontinuità e mancanza di coesione spaziale, ma in realtà dall'analisi dell'impianto spaziale emerge con straordinaria chiarezza l'immagine di una “scena per spettacolo”, con un primo piano corrispondente al palcoscenico affollato da personaggi e un secondo piano inclinato, tangente al fondale. > Ciascuna delle parti è naturalmente scorciata secondo punti di fuga collocati su orizzonti diversi, vicini ma non coincidenti, in particolare quello relativo al piano inclinato, che è più alto rispetto a quello “praticabile” collocato all'altezza dell'occhio dello spettatore: viene in tal modo resa manifesta la necessità di leggere l'immagine a diversi livelli. Il soggetto è un episodio che ha come protagonista Leone IV, rappresentato sullo sfondo in atto di affacciarsi da una loggia e di estinguere, con il semplice atto della benedizione, l'incendio che divampa nel quartiere del borgo 3 chiara è l'allusione a Leone X. Mentre sono iniziati gli affreschi nella terza stanza, Raffaello è nominato, in seguito alla morte di Bramante, architetto della fabbrica di San Pietro (1514) e riceve poco dopo il prestigioso incarico di preparare i cartoni per 10 arazzi destinati alla Cappella Sistina > il centro di interesse e della sua attività si sposta verso tali imprese, mentre l'esecuzione degli affreschi viene affidata agli allievi (Penni e Giulio Romano). Con la commissione degli arazzi, il pontefice si ricollega sia a una tradizione risalente ai suoi predecessori di età carolingia, sia a forme di mecenatismo artistico proprie di casa Medici > la scelta dei soggetti, in gran parte derivati dagli atti degli Apostoli, appare ispirata dall’intento di presentare il pontefice regnante come autentico successore dei due primi “architecti” della chiesa, cioè Pietro e Paolo. L'impresa si presenta particolarmente ardua e rischiosa per l'artista perché oltre alla difficoltà di elaborare le scene dei cartoni in vista della loro traduzione in una tecnica diversa, Raffaello deve affrontare il confronto con le immagini dipinte da Michelangelo nella volta > stimolato da tali difficoltà, l'artista elabora un linguaggio figurativo singolarmente appropriato all'impresa. > Gli schemi compositivi della Seconda e Terza stanza vengono strutturalmente semplificati nella determinazione dei piani in profondità, mentre l’azione è più chiaramente scandita mediante nette contrapposizioni di gruppi o di singole figure. La caratterizzazione dei gesti ed espressioni punta al massimo dell'eloquenza > sviluppando motivi già presenti nell’affresco dell'incendio del Borgo, Raffaello dà vita in tal modo a uno stile “tragico” e straordinariamente ricco nella stesura cromatica, nel quale affondano le radici del Classicismo Seicentesco. Prima della morte di Giulio II, Agostino Chigi aveva affidato a Raffaello la progettazione di due edifici: le “Scuderie Chigi” presso la Farnesina e una “cappella funeraria” in Santa Maria del popolo > nelle due costruzioni, motivi derivanti da Bramante e da Giuliano da Sangallo si coniugano con suggestioni dall'antico, dando vita di volta in volta a soluzioni di grande originalità. - Le scuderie Chigi presentano un’energica articolazione plastica della parete, scandita dal ritmo serrato di doppie paraste, quasi in opposizione alla delicata modulazione delle superfici murarie ricercata dal Peruzzi nella Farnesina. - La cappella di Santa Maria del Popolo riprende l'impianto bramantesco dei 4 piloni angolari di San Pietro, ma rivela una più matura assimilazione dei modelli antichi. Inizialmente affiancato da Fra Giocondo e Giuliano da Sangallo, Raffaello si dedica alla costruzione di San Pietro: mentre i lavori procedono lentamente, elabora diversi progetti che modificano, in parte, l'impianto bramantesco, fino però a ripristinare la soluzione che prevede un corpo longitudinale innestato sulla crociera iniziata da Bramante. L'attività del Sanzio, però, si estende negli stessi anni ad altre imprese architettoniche: - Nel 1515 progetta un palazzo per il medico personale del pontefice + esso ben caratterizza il passaggio da un linguaggio ancora fondamentalmente bramantesco a una più meditata e libera rielaborazione di motivi classici. - La stessa trasformazione/passaggio appare compiuta nel Palazzo Branconio dell'Aquila, dove la ricerca bramantesca di monumentale unità del prospetto cede il passo allo studio della corrispondenze interno-esterno. - Villa Madama resta però il più grandioso complesso da lui progettato (1518) > l’idea della villa rinascimentale appare qui rielaborata alla luce delle tipologie spaziali dell'antichità classica, in forme imponenti, ma con una continua ricerca di integrazione tra edificio e ambiente naturale. N.B. Il rapporto dell'artista con l'antico si stringe ulteriormente con gli incarichi conferiti da Leone X di sovrintendere alla conservazione dei marmi antichi e di tracciare la pianta di Roma Imperiale, mettendo a punto un procedimenti di sistematico rilievo dei monumenti basato sul disegno architettonico in proiezione ortogonale. Il “paragone de li antichi” diviene centro di interessi e dell'attività del Sanzio durante gli ultimi anni della sua vita, atteggiamento che già si ritrova in alcuni precedenti come il “Trionfo di Galatea” (1511), affresco che doveva apparire ai contemporanei quasi la “suprema visualizzazione di un mito antico” per la ripresa di elementi iconografici classici e per la scoperta “imitazione” delle qualità cromatiche della pittura antica nel rosso del manto e nella gemmea lucentezza della superficie marina. “La loggia di Psiche” venne lasciata incompiuta da Bramante al primo piano e proseguita poi da Raffaello nei due piani superiori, apportando varie modifiche al progetto iniziale (arricchimento del sistema di articolazione plastica delle pareti e sostituzione, nella parete intermedia, della coperture a cupolette delle campate con volte a padiglione, prolungate su tre lati con ampi sottarchi). Il crescente successo di Raffaello accentua l'isolamento di Michelangelo che, nonostante il trionfo della volta della Sistina, doveva sentirsi progressivamente estraniato dalle varie iniziative e si isolava intento ai lavori per la Sepoltura di Giulio II, ripresi sulla base di un nuovo contratto stipulato nel 1513. Questo secondo progetto è ricostruibile tramite due disegni: - Il disegno di Jacopo Rocchetti > mostra il prospetto della tomba, non più isolata, ma destinata a essere addossata a una parete per uno dei lati minori. Rispetto al primo progetto diminuiscono le dimensioni del sacello in profondità, accentuandosi in verticale, mentre per il secondo ordine erano previste sei statua (al posto di 4) e nella zona superiore dovevano trovare collocazione una grande Madonna con il bambino. Altre due figure di angeli o santi dovevano infine fiancheggiare il gruppo sulla cornice esterna. > motivi classici e trionfali del mausoleo si attenuano in favore di una ripresa di elementi più tradizionali, affini a quelli che Andrea Sansovino sviluppò nelle tombe parietali della Rovere in Santa Maria del Popolo, ma, a parte per le dimensioni, il progetto del Buonarroti mantiene uno slancio dinamico. A Roma, nel 1513, Michelangelo scolpisce due statue di Prigioni, lo schiavo ribelle e lo schiavo morente, e la figura di Mosè, che richiamano da vicino le figure di ignudi e profeti nella volta sistina. Mentre nello “Schiavo Ribelle” il motivo della figura ignuda in atto di divincolarsi si carica di straordinaria potenza espressiva, il cosiddette “schiavo morente” manifesta l'idea del risveglio e del ritorno alla consapevolezza dell'abbandono allo stato di incoscienza del sonno. Il Mosè sviluppa in forme più complesse e mature il motivo, già dominante nel David, di una terribile concentrazione psichica, di energie latenti e controllate ma sul punto di tradursi in azione > l’attuale collocazione tradisce in parte l'effetto perseguito dal Buonarroti, che aveva concepito la figura per una visione laterale dal basso, pur senza sminuire l'impressione di potenza fisica e spirituale. L'impresa della facciata di San Lorenzo interrompe nuovamente i lavori per la sepoltura di Giulio II, che prevede un terzo contratto nel 1516. Prima della partenza per Firenze di Michelangelo, era intanto iniziata la collaborazione con Sebastiano del Piombo: a proposito della Pietà (1516-17) per la chiesa dei Francescani a Viterbo, il Vasari afferma esplicitamente che, pur essendo stato finito da Sebastiano, l'invenzione ed il cartone per il dipinto furono del Michelangelo (cartone scomparso, ma uno schizzo di uno degli ignudi per la sistina presenta sul verso degli studi preparatori per la Pala in questione). Giunto a Roma nel 1511, dopo l'esordio veneziano, Sebastiano del Piombo vi si afferma soprattutto per le sue doti di colorista, in ritratti o in dipinti mitologici come la “Morte di Adone” (1511-12). Agostino Chigi lo chiama tra i pittori attivi alla Farnesina, affidandogli la decorazione di una sala con scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. Verso la metà del secondo decennio, la sua “maniera” costituisce la più valida alternativa a quella di Raffaello, con cui nacque una forte competizione, che divenne più esplicita quando Giulio Il commissiona due grandi pale d'altare: - La Resurrezione di Lazzaro - 1516-19 > sia il carteggio di Michelangelo sia tre disegni di Sebastiano con studi per la figura di Lazzaro risorto e dei personaggi a lui più vicini, confermano le affermazioni del Vasari, il quale scrisse che la tavola di Sebastiano fu dipinta “sotto ordine e disegno in alcune parti di Michelangiolo”. Se all'apporto del Buonarroti vanno ricondotti il forte risalto plastico delle figure che gremiscono i primi piani, solo a Sebastiano spettano la splendida orchestrazione cromatica, ormai lontana dal tonalismo veneto, e il senso dell'atmosfera che conferisce una misteriosa intonazione emozionale alla scena, grazie soprattutto alla tempestosa veduta romana dello sfondo. Verso la fine del secondo decennio del secolo Tiziano accentua la ricerca di intenso dinamismo in composizioni sempre più monumentali. L'"Assunta” (1516-18) suscita ammirazione ma anche perplessità e discussioni per le dimensioni grandiose e i gesti eloquenti delle figure, mentre la stesura cromatica ha ormai abbandonato le armoniche assonanze tonali di Giorgione, per esprimere un'energia senza precedenti. Grazie a quest'opera, la fama di Tiziano esce dai confini della Serenissima, trovando commissioni dalla corte di Ferrara (Ex: le tele dei “Baccanali” 1518-23) e di Mantova, dove è spesso ospite dei marchesi Gonzaga. Durante i suoi soggiorni presso le corti, Tiziano approfondisce le sue esperienze di ritrattista puntando a rendere con la massima evidenza la “presenza fisica” delle figure > sceglie pose NON tradizionali e individua tagli compositivi e luministici che conferiscono dignità ai personaggi rappresentati, senza perdere in immediatezza e vivacità. Tra i più ammirati ritratti giovanili troviamo, per esempio, “Ariosto” (1510) e “Vincenzo mosti” (1520). Le opere inviate da Tiziano in diverse città dell’Italia settentrionale si traducono prontamente in preziosi spunti per l’attività degli artisti locali: è il caso del “Polittico Averoldi” (1520), punto di riferimento per la scuola bresciana. Anche se costretto ad accettare l'arcaica divisione in 5 tavole, l'artista vi sperimenta inconsueti effetti luministici, come il controluce sullo sfondo di un incandescente tramonto nella scena centrale o il delicato notturno dell’annunciazione. “L'elezione del doge Andrea Gritti” (1524) ribadisce ulteriormente la posizione dominante di Tiziano negli ambienti artistici veneti. N.B. Purtroppo, quasi tutte le “tele ufficiali”, come i ritratti dei dogi e le composizioni celebrative commissionate dal Senato, sono andate distrutte negli incendi di Palazzo Ducale nel tardo 500. Il superamento degli schemi 400eschi da parte dell'artista è testimoniato in modo particolare nella “Pala Pesaro” (1525), dove le figure non seguono più la regolare scansione geometrica delle Sacre Conversazioni, ma si dispongono secondo una strutturazione compositiva nuova, più libera e adatta a sottolineare la vivacità e naturalezza dei gesti e delle attitudini, mentre anche l'architettura contribuisce a spezzare la simmetria della rappresentazione. Durante gli anni Venti, la perdurante assenza di Lorenzo Lotto da Venezia, consente a Tiziano di rimanere a lungo senza rivali sulla scena veneziana. L'unico pittore in grado di confrontarsi con lui è il friulano detto Il Pordenone > nella sua eclettica formazione, oltre agli iniziali richiami al Mantegna e alle incisioni di Direr e dei maestri nordici, è fondamentale il periodo trascorso a Roma che, grazie alla conoscenza diretta delle opere di Raffaello e Michelangelo, stimola in lui l'elaborazione di uno stile magniloquente, che trova un originale equilibrio tra raffinati ricordi classici e un temperamento narrativo di indole popolare. Il maestro friulano si trova così a proprio agio nei vasti spazi di grandi cicli di affreschi, soprattutto quelli per la cattedrale di Cremona (la “Crocifissione” e la “Deposizione” - entrambi 1521) dove sviluppa un'inedita forma di rappresentazione, discorsiva e solenne insieme, spesso caratterizzata da scorci prospettici virtuosistici. Nell’esecuzione di ambiziose pale d'altare, il Pordenone risulta invece più discontinuo perché i dipinti per le chiese veneziane appaiono più macchinosi e forzati > ciò spiega come Tiziano abbia facilmente la meglio nel concorso del 1528 a Venezia per l'esecuzione della Pala di San Pietro Martire, un grande e drammatico dipinto destinato alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, distrutto da un incendio a fine 800. > Bergamo e Brescia: le due province orientali della Lombardia, Bergamo e Brescia, soggette al governo della Repubblica di Venezia, attraversano durante la prima metà del secolo un periodo di particolare vivacità artistica. Se da un lato le due città non sono coinvolte nelle vicende rovinose del ducato di Milano, dall'altro esse soffrono solo marginali conseguenze in occasione della guerra tra la Serenissima e la Lega Santa, pur subendo lunghi e sanguinosi assedi. Fino all’inizio del ‘500, l’arte bresciana e bergamasca rimane strettamente legata alla produzione milanese, ma, durante il secondo decennio del XVI secolo, diverse circostanze favoriscono un deciso orientamento verso il Veneto: l'arrivo a Bergamo di Lorenzo Lotto è probabilmente legato alla commissione, nel 1513, di una grande pala d'altare. Nelle opere immediatamente successive al suo soggiorno a Roma mostra insieme l'ambizione e l'impaccio di adeguarsi ai modi della “maniera moderna”, cui d'altra parte è portato a reagire con repentini e vivacissimi scarti espressionistici, sperimentando schemi compositivi complessi e pose macchinose come nella “Pala della trasfigurazione di Recanati” (1510-12). Con il trasferimento a Bergamo, il Lotto entra in una nuova fase della sua attività, trovando la propria dimensione in un'arte provinciale, con lo sviluppo di forme alternative. Si stabilisce a Bergamo dal 1523 al 1526, anni duranti i quali attraversa numerose esperienze figurative, entrando in contatto con l’opera di Gaudenzio Ferrari e del Correggio, rinnovando il rapporto con l’arte nordica 3 a queste suggestioni va aggiunto il gusto dei committenti e dei pittori bergamaschi, verso un'originale sintesi tra la rinnovata arte veneta e la tradizione lombarda. La monumentale “Pala Martinengo” (1513-16) si presenta oggi privo delle predella, dei pilastrini laterali, della cimasa e della cornice, ma tuttavia risulta ancora di straordinaria imponenza. Apparentemente, la pala sembra ancora nel solco della tradizione delle Madonne e Santi, ma, in realtà, il punto di vista appare ribaltato, poiché le figure non sono collocate sullo sfondo dell'abside ma verso la fuga di colonne delle navate e la cupola è aperta verso il cielo. 3 Gli effetti di luce mobile e trascorrente accentuano l'impressione di instabilità della scena e la tesa caratterizzazione psicologica dei personaggi. In alto, i simboli recati in volo dagli angeli compongono un rebus, mostrando ancora una volta il suo particolare gusto per gli emblemi che troverà maggiore espressione nelle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore realizzate da Giovan Battista Capoferri (1526-27), cioè un complesso ambizioso e di vaste dimensioni poiché ciascuno stallo prevedeva una custodia che ne anticipava in forma simbolica il contenuto narrativo. All’inizio degli anni Venti, il Lotto dipinge opere particolarmente significative: la “Pala di San Bernardino in Pignolo” (1521) esprime con folgorante immediatezza la capacità di rendere presente la scena come esperienza istantanea: i santi sono rappresentati in “colloquio”, i due angeli potentemente scorciati reggono la tenda verde del trono proiettando una zona d'ombra sotto la quale si muovono la Madonna e il bambino, un altro angelo, in atto di scrivere, si interrompe bruscamente e si volta a fissare il riguardante. Il colore, molto brillante, è tuttavia più vicino alla tradizione nordica che a Tiziano. Il coevo “Commiato di Cristo dalla madre” (1521) mostra invece richiami al patetismo espressivo e popolare di Gaudenzio Ferrari, con figure monumentali inserite in un ambiente chiaramente definito. Il Lotto comincia qui a sviluppare una stesura pittorica più larga e ondulata, che caratterizza anche ritratti come quello di “Andrea Odoni” (1527), rivolto a manifestare l'immagine interiore del personaggio e quasi rivelandone i più segreti trasalimenti emotivi. Nel 1526 l'artista fa ritorno a Venezia, il cui ambiente, dominato da Tiziano, sembra tuttavia poco incline ad accoglierlo, tanto da portare l'artista a continuare a mantenere i rapporti soprattutto con altre regioni > poco dopo il suo rientro, invia infatti a Jesi la “Pala di Santa Lucia” (1532) e l'Annunciazione (1527). I pochi dipinti eseguiti per chiese veneziane non hanno buona sorte, eccetto per “L’elemosina di Sant'Antonio” (1542). Nel 1549 il pittore, ridotto quasi a miseria, è costretto ad abbandonare Venezia e trasferirsi nelle Marche. Nella prima metà del ‘500 si svolge l’attività di tre maestri bresciani, quasi coetanei: 1. Il romanino desordisce nel 1510 con un “Compianto su cristo morto” che manifesta subito la complessità delle sue esperienze giovanili: su un sostrato innegabilmente caratterizzato dai modelli del “realismo” lombardo si innestano riferimenti cremonesi e ferraresi. L'episodio decisivo nella sua formazione è però l'incontro con l’opera di Tiziano a Padova: la “Pala di Santa Giustina” (1513) è un esplicito omaggio all'artista veneziano, anche se continuano ad affiorare ricordi della tradizione lombarda, specie nell’architettura bramantesca della volta a botte che sovrasta le figure. I medesimi motivi si ritrovano nella grande pala d'altare con “Madonna con Bambino e Santi” (1517). Nel corso della sua attività, il Romanino tocca diversi cantieri, come quello del duomo di Cremona, dove dipinge alcune delle monumentali scene della “Passione di Cristo” (1519-20). Nel 1521 comincia a lavorare nella cappella del sacramento della chiesa bresciana di San Giovanni Evangelista. Il Moretto + collaboratore del Romanino nella cappella del sacramento e autori, insieme, della nascita di una cosiddetta “scuola”, il Moretto è l'artista ad ottener maggior successo tra i due. La sua attività si svolge prevalentemente a Brescia, tanto che il retaggio della tradizione foppesca è molto più incisivo nelle sue opere che non in quelle degli altri due suoi contemporanei. Costantemente impegnato per le chiese e i committenti privati bresciani, il Moretto sa tradurre in un linguaggio piano ed elegante gli stimoli veneziani e lotteschi > tra le sue prime opere emerge “Elia e l'angelo” (1534), nel cui sfondo compaiono evidenti richiami alla pittura fiamminga. La meditazione su Tiziano, elemento fondamentale della sua arte, è palese in numerose opere, ma, attraverso le incisioni di Marcantonio Raimondi, il Moretto entra in contatto anche con l’arte di Raffaello, e giunge a una “maniera” più composta e morbida > non a caso, “La Santa Giustina e un devoto” (1530) era attribuita a Raffaello. Attivo anche come elegante ritrattista (Ex: “Ritratto di gentiluomo” - 1526), il Moretto, a partire dagli anni '40, risulta uno dei primi e più efficaci interpreti delle istanze controriformistiche. Tema ricorrente delle sue pale d'altare diventa il “Sacrificio eucaristico” > il linguaggio piano ed esplicito delle sue composizioni si presta in modo adeguato alla dimostrazione di concetti dottrinali: nascono così opere come “il Cristo e l'angelo” (1550), tutto impostato su una gamma di toni smorzati che accentua il tono patetico della composizione sapientemente articolata lungo i gradini della Scala Santa. Giovan Gerolamo Savoldo + La produzione nota di Giovan Gerolamo Savoldo è in massima parte concentrata nell’arco di due decenni (1520-40). N.B. L'assenza di opere giovanili rende molto difficoltosa la ricostruzione della formazione e delle prima esperienze del pittore. Entro il 1520 si stabilisce a Venezia, e pur dipingendo relativamente poco per committenti lagunari, rimane stabilmente inserito nell’ambito della cultura figurativa veneta. Ciò nonostante il Savoldo viene considerato un pittore bresciano, dal momento che, pur nella complessità degli stimoli culturali che la sua opera manifesta, egli si mantiene sempre sostanzialmente fedele alla matrice naturalistica dell’arte lombarda e a una concezione della “mimesi” di ascendenza nordica. Il “realismo” del Savoldo appare del resto spesso come filtrato lungo un itinerario interiore, da una suggestione contemplativa che rimandava all'arte di Giorgione > lo testimoniano dipinti di straordinario fascino come “La maddalena” (1540), panneggiata in un mantello palpitante di luce, o il “San Matteo e l'angelo” (1530-35), che mostra una delle caratteristiche conquiste del Savoldo: l'ambientazione notturna con una fonte di luce interna al dipinto e con effetti chiaroscurali di forte suggestione. Mentre nelle grandi pale d'altare il Savoldo sembra più aperto a suggestioni tizianesche e più legato a schemi tradizionali, di intenso fascino sono i suoi dipinti di medie dimensioni, destinati agli studioli dei collezionisti 3 in tali opere il bresciano torna frequentemente sui medesimi temi, come quello della Maddalena, del riposo durante la fuga in Egitto, di piccole Adorazioni/Natività notturne o delle “Tentazioni di Sant'Antonio” (1530), un soggetto che gli offre la possibilità di reinterpretare motivi caratteristici della pittura fiamminga. Benché non si conosca neppure uno, per nome, dei committenti del Savoldo, l'artista fu un ottimo ritrattista: un posto del tutto particolare lo occupa il “Ritratto d'uomo in armatura” (1515-20) > eccezionale tour de force nella rappresentazione della figura colta “di spalla” e in un'attitudine fortemente dinamica, ma soprattutto nel serrato gioco di rispondenze, di riflessi, di bagliori creato dai due specchi dai pezzi dell'armatura, che mettono in risalto la diversa consistenza delle materie, creando una tessitura luministica di straordinaria ricchezza. Il motivo fiammingo degli specchi vi appare sviluppato, probabilmente riprendendo un modello giorgionesco in collegamento alla disputa circa la superiorità nella “mimesi” della pittura o della scultura, a riprova della possibilità, da parte dei pittori, di rappresentare simultaneamente diverse vedute del medesimo soggetto. essersi fatto monaco domenicano > formazione artistica ed esperienze spirituali lo orientano fin dagli inizi verso una concezione severa ed essenziale dell'immagine sacra, con predilezione per composizioni solenni. Le sue prime opere rivelano un'iniziale adesione al linguaggio figurativo della cerchia del Ghirlandaio, ma in seguito egli si apre alla suggestione dei grandi eventi artistici contemporanei, attratto dallo sfumato leonardesco e dall’energia plastica di Michelangelo. La sua austera e composta eloquenza si manifesta in opere come “L’apparizione dell’Eterno alle Sante Maddalena e Caterina” (1508), dipinta dopo un viaggio a Venezia che lo spinge ad arricchire la gamma cromatica. Lo schema compositivo della “Madonna del Baldacchino” (1507-08) di Raffaello è ripreso nello “Sposalizio di Santa Caterina” (1512) con intenti dimaggiore monumentalità e di varietà nell'animazione e nelle attitudini delle figure, spinti tuttavia fino a effetti che tradiscono la naturalità del modello con pose più enfatiche. Un successivo soggiorno romano gli offre l'opportunità di studiare le opere più recenti di Raffaello e Michelangelo, ma le nuove esperienze lo lasciano turbato e incapace di reagire con l'entusiasmo manifestato dieci anni prima. = Anche per l'attività di Andrea del Sarto fondamentale punto di riferimento sono le opere fiorentine di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, ma l'educazione ricevuta presso la bottega di Piero di Cosimo lo spinge però a cimentarsi con diverse tecniche pittoriche, affrontate spesso con il gusto della ricerca sperimentale > Particolarmente interessanti, in tal senso, sono gli affreschi a monocromo con “Storie del Battista” (1514-26). Eccellente disegnatore, grazie a un'esecuzione impeccabile e nello stesso tempo molto libera e sciolta nella modellazione, Andrea riesce a contemperare elementi di difficile conciliazione come il chiaroscuro atmosferico di Leonardo, il risalto plastico di Michelangelo e il classicismo compositivo di Raffaello. Intorno al 1515 l'artista saggia nuovi e vivaci schemi narrativi nelle “storie di Giuseppe”, mentre del 1517 è la “Madonna delle arpie”, immagine densa di complessi significati allegorici, dove appare più insistita la ricerca formale nelle attitudini eleganti dei personaggi. Tra il 1518-19 si aprono per l'artista nuove prospettive con l'invito rivoltogli da Francesco I di trasferirsi in Francia, anche se una certa “timidità d'animo” gli impedisce tuttavia di cogliere la grande occasione. A Firenze, nelle opere dell'ultimo decennio di attività, si approfondisce il dialogo-contrapposizione con quelle dei due giovani allievi Pontormo e Rosso Fiorentino. Penetranti ritratti, affreschi (Ex: Madonna del Sacco - 1525), tavole (Ex: Compianto su Cristo morto - 1524; Madonna con Bambino, Santa Elisabetta e San Giovannino - 1528) ripropongono modelli ed esperienze dei decenni precedenti, ancora con grande vitalità e originalità, con inedite sottigliezze esecutive e stesure scintillanti e trasparenti. L'ultima opera del maestro, “La Madonna in gloria e quattro Santi” (1530) con il vasto paesaggio fantastico di rocce dirupate e la tesa caratterizzazione delle immagini dei santi, sembra infine addirittura anticipare i motivi iconografici e devozionali che troveranno ampio sviluppo nella pittura della seconda metà del secolo. = Il Pontormo è la personalità centrale della pittura fiorentina a partire dalla fine del secondo decennio del secolo: tormentato e introverso, prototipo dell'artista turbato e malinconico, egli entrerà effettivamente in una grave crisi che investirà direttamente la sua attività artistica. Le giovanili esperienze presso Leonardo e Piero di Cosimo trovano uno sbocco naturale nell'incontro-scontro con Andrea del Sarto + in lui Pontormo riconosce l'artista capace di armonizzare le caratteristiche dei tre grandi d'inizio secolo, ma, allo stesso tempo, gli rimprovera la soggezione nei confronti di schemi compositivi arcaici. Il Pontormo partecipa con Andrea del Sarto e altri artisti all'esecuzione dei dipinti per la camera nuziale di Pierfrancesco Borgherini, raffiguranti “Le storie di Giuseppe ebreo” (1517-18), distaccandosi dalle opere dei collaboratori soprattutto per la complessa organizzazione spaziale e narrativa delle scene. In seguito, dipinge “La pala Pucci” (1518), dove la struttura formale delle Sacre Conversazioni appare sconvolta: le figure, infatti, NON sono più disposte in modo regolare e simmetrico, ma lungo linee diagonali e assumono espressioni caricate, forse in omaggio alla ricerca di rappresentazione degli “affetti” di Leonardo. La base dell’arte di Pontormo è essenzialmente il disegno, come dimostra l'imponente corpus grafico pervenutoci 3 le opere nascono da una lunga e paziente meditazione intellettuale, scandita dalla verifica disegnativa: tale operazione è applicata anche nei ritratti, tra cui spicca il celebre “Ritratto ideale di Cosimo il Vecchio” (1518). Pronto ad aprirsi agli stimoli più diversi, il Pontormo dipinge nel 1521 la “Lunetta con Vertumno e Pomona”, insolito passaggio “classico” in una produzione sempre condotta sul filo del più rigoroso controllo formale. Dal 1522 al 1525 il maestro è attivo presso la Certosa del Galluzzo, alle porte di Firenze, per la quale dipinge alcune delle sue opere più significative: - Gli affreschi con scene della “Passione di Cristo” (1523-25) > direttamente ispirati alle incisioni di analogo soggetto di Direr, scelta che assume, però, un significato quasi polemico di aperta rottura con la tradizione rinascimentale. - Decorazione della Cappella Capponi in Santa Felicita: “Affresco con l'Annunciazione” (1527-28) e “Pala d’Altare con il trasporto di Cristo al Sepolcro” (1526-28) > eliminando qualsiasi accenno monumentale, l’artista inserisce, in quest’ultima, gli 11 personaggi in uno spazio indistinto, ambiguo e privo di punti di riferimento. | gesti enfatici e i volti dolenti appaiono carichi di tensione espressiva, mentre la stesura del colore è compatta e smaltata: l'immagine risulta così carica di un raffinato intellettualismo, sottile ed enigmatico (N.B. lo stesso effetto lo suscita “La visitazione” - 1528-29). = Simile a quello del Pontormo è l'iter stilistico di Rosso Fiorentino, anche lui discepolo di Andrea del Sarto e a sua volta animato dal desiderio di un profondo rinnovamento, cercando un'alternativa alla “forma chiusa” della tradizione toscana. Senza dimenticare attenti riferimenti ai grandi contemporanei (Michelangelo, Dùrer etc.), avvia un singolare recupero della deformazione espressiva, spinta quasi a effetti caricaturali, accennata dalle opere di Filippino Lippi Piero di Cosimo. Le opere fiorentine mostrano una tensione non inferiore ai contemporanei dipinti del Pontormo: nella “Deposizione della croce” (1521) l'impianto compositivo presenta soluzioni prospettiche paradossali, come l'incrocio tra la croce e le tre scale sullo sfondo di un cielo compatto e privo di profondità. | gesti sono bloccati, quasi meccanici, mentre le espressioni rivelano forzature quasi grottesche. | colori smaltati e gelidi, accentuano il carattere irreale della composizione. = Rispetto agli altri artisti fiorentini, il senese Domenico Beccafumi opera in una posizione defilata: prima di essere definitivamente conquistata, Siena vive nella prima metà del 500 l’ultima stagione di indipendenza politica, ma anche di autonomia artistica. Insieme al Sodoma, il Beccafumi ne è l'interprete più originale > la sua arte è meno scopertamente polemica rispetto a quella dei fiorentini, ma altrettanto innovativa e, soprattutto, il Beccafumi non mostra l'avversione nei confronti della tradizione del 400 ostentata dal Pontormo e non esita ad ispirarsi al Perugino. La giovanile tavola di “Santa Caterina da Siena riceve le stimmate” (1514-15) indica chiaramente verso quali sviluppi si avvia l’arte del Beccafumi: una sensibilità spaziale grandiosa, ma nello stesso tempo complessa, predilezione per figure allungate e sottili e, soprattutto, un gusto personale e prezioso per la luce e il colore. Nel campo della pittura profana emergono gli affreschi di Soggetto storico, come “il suicidio di Catone” (1524-25) e “Il tribuno Publio Munzio manda al rogo i colleghi” (1529-35), in cui l'artista mostra una vivida fantasia, animando le raffigurazioni con scintillanti colori e imprevedibili scorci. Le pale d'altare, invece, sviluppano soprattutto inediti effetti luministici, con bagliori improvvisi e incandescenti, talvolta giustificati dal soggetto, come, ad esempio, nel “Cristo al Limbo” (1530-35). Il 19 novembre 1523 viene eletto papa il cardinale Giulio de’ Medici, che assume il nome di Clemente VII + uno dei primi atti ufficiali di Clemente VII è quello di ordinare la ripresa dei lavori nella Sala di Costantino, la cui decorazione era iniziata al tempo di Leone X, su progetto di Raffaello: per dissimulare l'irregolarità del vasto ambiente, l'artista aveva studiato una partitura molto più complessa di quella delle Stanze, che prevedeva architetture dipinte con nicchie tra pilastri alle estremità delle pareti e finti arazzi negli ampi campi centrali. Oltre alle immagini di santi pontefici e a figure allegoriche femminili, il ciclo comprendeva “Quattro storie di Costantino”, raffigurate come arazzi. > Alla morte di Raffaello, i suoi allievi e collaboratori hanno in mano il programma generale delle decorazione elaborato dal maestro e i suoi disegni per le prime due scene, ma Leone X decide di affidare l’opera a Giulio Romano e al Penni. A Giulio Romano spetta l'esecuzione della “Battaglia di Ponte Milvio” (1520-24), ambientata sullo sfondo di una veduta romanesca e intessuta di citazioni classiche. Alla ripresa dei lavori, per iniziativa di Clemente VII, dopo l'interruzione sotto il pontificato di Adriano IV (sotto il quale vennero interrotti la maggior parte dei cantieri artistici di Roma) vengono significativamente mutati i soggetti delle ultime due scene, che avrebbero dovuto avere Costantino come protagonista + i due nuovi soggetti scelti introducono in primo piano papa Silvestro e alludono chiaramente alla supremazia del pontefice sull’imperatore (N.B. con le immagini Roma cerca di rispondere alle minacce imperiali). A Roma, la supremazia artistica di Giulio Romano, erede di Raffaello, che fin dal 1521 aveva cercato di competere con la Trasfigurazione del maestro e con la Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo nella grande pala raffigurante “La lapidazione di Santo Stefano”, quasi tentando una sintesi delle loro maniere, ha termine nel 1524, quando l'artista si trasferisce a Mantova. Con tale partenza, prima ancora del Sacco, ha inizio la diffusione della grande Maniera romana presso le corti italiane ed europee, ma, negli anni seguenti il clima della cultura figurativa muta ancora sensibilmente, soprattutto nel segno della passione archeologica + l'antico diviene una moda e in pittura si afferma la tendenza verso forme eleganti, inconsuete e preziose: protagonisti principali sono giovani artisti come Perin del Vaga, Polidoro da Caravaggio e lo stesso Rosso Fiorentino. Quest'ultimo mostra come esempio di tali eloquenze il suo “Cristo Morto tra due angeli” (1525-26), che stempera il modello michelangiolesco in toni di estenuata sensualità + il significato spirituale dell'immagine è affidato esclusivamente ai simboli (Ex: le torce = vita eterna). Nel 1515 Leone X si reca solennemente in visita a Firenze, per la cui occasione vengono costruiti apparati trionfali, che colpiscono la fantasia del papa e lo spingono a indurre un concorso per la Facciata di San Lorenzo: viene prescelto il progetto di Michelangelo che dal marzo del 1517 è investito dalla totale responsabilità della costruzione elabora rapidamente un modello in legno, proposta del tutto innovativa per la struttura a nartece. Le potenti membrature ideate dall'artista dovevano poi essere animate da statue in marmo, sculture in bronzo e numerosi rilievi. I lavori procedono molto a rilento fino al naufragare dell'impresa > ciò apre la strada a un nuovo incarico, altrettanto prestigioso per l'artista: costruire, sempre nel complesso di San Lorenzo, una seconda cappella funeraria. Situata a ridosso del braccio dx del transetto della chiesa, in corrispondenza simmetrica rispetto alla Sagrestia Vecchia del Brunelleschi, la Sagrestia Nuova doveva ospitare, oltre alle tombe dei due “capitani”, quelle dei magnifici Lorenzo e Giuliano. Inizialmente Michelangelo studia un monumento isolato al centro dell'ambiente, ma prevale in seguito la soluzione tombe a parete (capitani = pareti laterali; Medici = pareti di fronte all'altare). La morte di Leone X provoca una prima interruzione del progetto, che riprendono però dopo la proclamazione di Clemente VII. Il sacco di Roma provoca però un altro arresto e alla definitiva partenza per Roma dell'artista nel 1534, il progetto rimane incompiuto. N.B. le prime statue iniziate dall'artista erano comunque le allegorie del Tempo (la Notte e il giorno per la tomba di Giuliano e l'aurora e il crepuscolo per Lorenzo) > figure dalle membra poderose, ma come abbandonate in un'angosciosa inerzia, appaiono come immagini della forza distruttrice del tempo e, al tempo stesso, gravando sui coperchi delle tombe, sembrano spezzarli liberando le anime dei duchi alla contemplazione della “Vergine allattante il bambino”, simbolo di vita perenne (alla Vergine si rivolgono in effetti le statue di Giuliano e di Lorenzo, con un movimento deciso il primo e in atteggiamento raccolto e meditativo il secondo). Nella decorazione degli interni si svincola da ogni modello creando un allestimento senza precedenti + da un'iniziale decorazione incentrata su simbologie edonistico-mitologiche, si passa a una decorazione più complessa e di significato politico, volta a esaltare la potenza dell'imperatore Carlo V, come nella Sala dei Giganti, dove Giulio celebra il trionfo di Carlo sui suoi nemici, annientati e schiacciati dal poderoso turbine che sembra sconvolgere l’intero ambiente. La fantasia del pittore esercitata negli scorci e nelle complesse inscenature della Sala di Psiche trova qui piena espressione tramite concitate e muscolose torsioni delle figure e la negazione dell'inquadramento prospettico. Il clamore e le devastazioni del Sacco costringono gli artisti ancora rimasti in città a cercare rifugio in altri centri della penisola: - Infuga da Roma, il Parmigianino ripara a Bologna, dove riceve l'incarico di dipingere una “Sacra Conversazione” (1529) > il gruppo di Santi che circonda la Vergine con il bambino appare collocato in un ambiente oscuro e, nell'atmosfera notturna, si intrecciano complesse corrispondenze di gesti e sguardi che riconducono al clima delle raffinate rappresentazioni clementine. La cosiddetta “Madonna della Rosa” (1529-30) fornisce una versione talmente intellettuale e sofisticata sul tema sacro della Vergine con il Bambino da prestarsi a essere interpretata come un soggetto profano: Venere che regge amore. In effetti, l'ambiguità era probabilmente intenzionale dal momento che in origine l’opera era destinata a una collezione privata. Oltre alle opere sacre dipinge anche straordinari ritratti, che tendono a sublimare le caratteristiche del personaggio raffigurato entro i contorni di un'immagine ideale ed enigmatica, come la cosiddetta “Antea” (1535- 37). Nel 1531 fa ritorno nella nativa Parma, dove riceve l’incarico di affrescare la zona presbiteriale della Ciesa della Madonna della Steccata, impresa che lo impegnerà fino al 1540, anno della sua morte. Parmigianino inizia l’opera dalla volta del presbiterio sospinto da un anelito di perfezione e dal desiderio di giungere a un’ineguagliabile rappresentazione di grazia e bellezza, ma rimanendo costantemente insoddisfatto > lungo le due linee di imposta della volta, sono dipinte in affresco le “Vergini savie” (1535-40) e le “vergini folli”, immagini irrealmente slanciate e avvolte in vesti preziose, mentre nelle 4 nicchie a monocromo delle estremità sono raffigurati “Adamo, Eva, Mosè” (1532-34) e Aronne. La decorazione appare splendidamente elegante e raffinata, ma chiusa come entro uno scrigno, risultando quanto di più lontano dalle cupole correggesche si potesse immaginare. N.B. La produzione grafica di Parmigianino risulta fondamentale per la diffusione oltre i confini emiliani dell'ideale di grazia e bellezza formale perseguito dall'artista. La cosiddetta “Madonna dal collo lungo” (1534-40) è sicuramente una delle opere paradigmatiche dell’arte italiana nel momento di passaggio tra la misurata razionalità del primo Rinascimento e lo sperimentalismo formale > la grande pala presenta molti elementi stilisticamente affini agli affreschi di Santa Maria della Steccata. A una prima osservazione colpiscono l'eleganza e le sinuosità delle figure, le cui proporzioni appaiono decisamente allungate, particolare che rivela uno studiato travolgimento dei canoni rinascimentali di rappresentazione dei corpi umani. Anche nella composizione la pala adotta soluzioni inconsuete: invece di disporre le 5 figure ai lati del gruppo centrale, il pittore le costringe entro uno spazio ristretto sulla sx, lasciando un grane vuoto dalla parte opposta 3 la definizione dello spazio è volutamente ambigua, tanto che risulta difficile capire se la sacra conversazione sia raffigurata in un interno, come il tendone potrebbe far pensare, o all’esterno. Lo spazio stesso non è scandito secondo le consuete regole prospettiche: il profeta sulla dx appare decisamente troppo piccolo in rapporto alla posizione che occupa. Da un punto di vista grafico tutta la composizione appare imperniata sul fluire delle linee curve, la cui importanza formale è ribadita dal perfetto ovale dell’anfora. Il significativo scambio di sguardi tra i presenti ravviva la scena: la Vergine e un putto che si affaccia in mezzo al gruppo di figure contemplano il corpo del bambino, mentre un volto femmineo punta gli occhi in direzione dell'osservatore. N.B. la Vergine tiene il figlio nella posa in cui gli artisti rinascimentali rappresentavano tradizionalmente il corpo deposto di Cristo. - Perin del Vaga, allievo di Raffaello, dopo aver lasciato Roma si stabilisce a Genova, città ligure che nel 1528 entra nell’orbita di influenza spagnola grazie a un'accorta manovra politica del grande ammiraglio Andrea Doria. L'artista, conquistato rapidamente il favore di quest'ultimo, riceve l’incarico di coordinare la ristrutturazione e l'ammodernamento della “Villa-fortezza dei Doria” (1529-33) > nonostante l'ubicazione suburbana, NON intendeva farne una dimora di passaggio e svago, ma la residenza ufficiale della famiglia, dove poter ospitare anche l'imperatore in occasione dei frequenti viaggi in Italia. All’interno, i saloni destinati a funzione pubblica vengono decorati con cicli di affreschi che celebrano le analogie tra Genova e Roma antica ed esaltano il ruolo pacificatore di Carlo V e Andrea Doria + nella Sala dei Giganti, lungo le pareti, destinate a essere coperte da arazzi, corre una fascia ad altorilievo, al di sopra della quale si alternano lunette e figure a stucco; il soffitto, scompartito a riquadri, reca al centro la “Caduta dei Giganti” (1531-33), immagine allegorico-celebrativa che associa Andrea Doria e Carlo V al trionfo di Giove sui suoi nemici. I giganti riversi, nei quali sono facilmente riconoscibili riferimenti a Michelangelo, sono infatti abbigliati “alla turca”, alludendo alle vittorie di Andrea Doria e dell’imperatore sui Berberi. N.B. La composizione ripresenta la “Disputa sul sacramento” di Raffaello, ma l’attenzione per i rapporti ritmici interni e le posizioni enfatiche degli sconfitti manifestano l'intento di superare il classico equilibrio del modello nella ricerca di più complesse tensioni ed effetti dinamici accentuati dal rilevato plasticismo. - Unaltro allievo di Raffaello è Polidoro da Caravaggio, che lascia Roma nel 1527, già devastata, e trova rifugio a Napoli, dove si trova a operare in una situazione culturale diversa da quella degli anni romani, ma riesce comunque ad ambientarsi rapidamente, abbandonando in parte la sua propensione per la decorazione all'antica, e accogliendo, dunque, influenze locali. Nella città campana l'artista trova lavoro prevalentemente presso committenti come La Confraternita dei venditori di Pesce, ed è costretto a distaccarsi radicalmente dal raffinato ambiente umanistico frequentato fino a quel momento > tale nuova situazione stimola la sua vena drammatica, anche se restano sempre vivi i legami con la cultura artistica romana aggiornata sulla recente produzione di Rosso Fiorentino e di Parmigianino. A causa della instabile situazione politica napoletana, decide, qualche anno dopo, di trasferirsi in Sicilia: in questa fase estrema della sua vita dipinge, per esempio, il “Polittico per i Carmelitani” (1533-34) e l'Andata al Calvario” (1534). Quest'ultima presenta analogie tematiche e strutturali con il cosiddetto “Spasimo di Sicilia” (1517) di Raffaello, ma, contemporaneamente, rivela, nelle sue varianti, l'originalità di Polidoro. Accanto all'amore per i dettagli naturalistici, in quest'opera l'artista palesa la sua conoscenza delle stampe nordiche, dalle quali deriva l'ambientazione dell’angusta valle e una certa crudezza di modellati; nello scorcio di Gerusalemme sulla dx e nel sottostante gruppo di personaggi a cavallo affiora la familiarità di Polidoro con l'antico. N.B. anche Polidoro da Caravaggio deve essere annoverato tra i grandi diffusori del nuovo linguaggio artistico romano maturato prima del Sacco e a lungo la sua opera costituisce un fondamentale punto di riferimento per moltissimi artisti meridionali (Ex: Marco Cardisco: “Ecce Homo” - 1525). La battaglia di Pavia e la pace di Cambrai segnano il definitivo tramonto delle mire espansionistiche di Francesco | di Valois in Italia, proprio mentre si apre un periodo di grande influenza dell’arte italiana su quella francese: in questi anni, infatti, il re affida la ristrutturazione di Fontainebleau, il suo castello preferito, a un nutrito gruppo di artisti italiani, determinando un'importante svolta nella storia del gusto francese, ancora parzialmente dipendente dalla cultura gotica internazionale. N.B. solo con l’arrivo di Rosso Fiorentino trova attuazione il desiderio di Francesco I di rinnovamento dell’arte francese: il Fiorentino si rivela un perfetto artista di corte coordinando l'allestimento di varie imprese quali dipinti, disegni per arazzi, apparati, oreficerie e stampe. Mentre la Galleria di Francesco | è rimasta sostanzialmente integra, gran parte delle fastosi decorazioni degli appartamenti del castello sono state distrutte: gli affreschi allegorici della galleria, incorniciati da ornamenti a foglie, mascheroni frutti e ghirlande in stucco, costituiscono la grande novità elaborata dall'artista, che porta al massimo grado di sviluppo le tendenze delle raffinate sperimentazioni formali romane, adattandole alle esigenze della corte francese. Negli anni francesi, Rosso esegue anche diversi dipinti, tra cui “La Pietà” (1530-35), in cui accentua l'assimilazione di elementi michelangioleschi e rivela un nuova propensione per i colori brillanti e accesi. Alla sua morte, Francesco Primaticcio lo sostituisce nella direzione dei cantieri francesi, ma la sua opera è quasi del tutto perduta, ad eccezione di pochi ambienti ancora esistenti come un caminetto del 1541-43. Numerosi altri artisti italiani affluiscono in Francia, in particolare: - Benvenuto Cellini > per qualche anno occupa una posizione di rilievo a Fontainebleau, eseguendo opere di bronzo e oggetti di oreficeria per il sovrano: in particolare la “saliera d'oro” (1540-43) è esempio insigne della sua arte e del suo grande virtuosismo nel rendere anche in figure di piccolo formato le complesse e dinamiche attitudini predilette degli artisti manieristi. - Sebastiano Serlio > si dedica alla pubblicazione dei “Libri di Architettura”, contribuendo alla diffusione internazionale del gusto per la contaminazione architettonica tra elementi classici e variazioni manieristiche. > In generale, la produzione della scuola di Fontainebleau è caratterizzata dalla stretta correlazione tra disegni, pitture, incisioni, manufatti d'arte di ogni materiale e dimensione, dalla rapida diffusione di forme adottate per oggetti disparati > i modelli elaborati dagli artisti italiani vengono rapidamente recepiti da quelli francesi, che si adeguano al nuovo gusto con una autonoma produzione ornamentale di tono intellettualistico, elegante e raffinato, che trova riflesso nei dipinti di Jean Cousin il Vecchio (Ex: Eva prima Pandora - 1550-60). ® Laculturaartistica romana fino alla metà del secolo: la morte di Clemente VII lascia in eredità al suo successore, Paolo Ill Farnese, una situazione complessa sul piano interno come su quello religioso, in quanto poco era stato fatto per tentare la riconciliazioni tra i cristiani dopo lo scisma. Dal punto di vista artistico, invece, Clemente VII era riuscito ad assicurarsi la collaborazione di Michelangelo, impegnato a dipingere il Giudizio Universale (1536-41) e in seguito utilizzato da Paolo III in altre imprese che attireranno a Roma numerosi artisti. Gli anni del Pontificato di Papa Paolo III sono difficili e caratterizzati da un doppio campo di azione: mentre viene posta in atto una decisa politica di rafforzamento della famiglia Farnese, si tentano gli estremi rimedi per ricostruire l’unità dei cristiani. Dopo aver assistito al rientro dei Medici a Firenze, e quindi alla caduta della Repubblica fiorentina in cui con tanta passione aveva creduto, Michelangelo lascia per sempre la città e ritorna a Roma, chiamato da Clemente VII. La città che lo accoglie non era quella che aveva lasciato sotto leone X, ma la capitale del Cattolicesimo, considerata però da molti in Europa come la “nuova Babilonia”. Clemente VII ha perso l’ostentata sicurezza dei suoi predecessori e, seguendo il filo delle meditazioni scaturite dai recenti, traumatici avvenimenti, commissiona a Michelangelo l'esecuzione di un affresco sulla parete dell’altare della Cappella sistina raffigurante il “Giudizio universale”, un tema tragico e penitenziale che ben si adatta al clima di incertezze e angosce che pervadono il diviso universo cristiano. il definitivo tramonto di un ideale politico di indipendenza ormai irrealizzabile nello scacchiere internazionale dominato dall'impero spagnolo e dai suoi stati-satelliti. Numerosi artisti sono chiamati a lavorare negli ambienti del palazzo allestiti a partire dal 1540: - Francesco Salviati > affresca tra il 1543 e il 1545 la sala delle udienze con un ciclo di “Storie di Furio Camillo”, proponendo una fantasiosa ricostruzione del mondo antico, noto attraverso lo studio diretto delle rovine di Roma e l'assimilazione della lezione di Raffaello e dei suoi seguaci. Il ciclo dipinto da Salviati introduce a Firenze il nuovo stile romano nelle sue forme più spettacolari, e diviene un modello per numerosi artisti delle nuove generazioni. - Agnolo Bronzino + decora la cappella della Duchessa Eleonora di Toledo, nella quale si manifesta pienamente la complessità formale del linguaggio dell'artista. Sulle pareti affreschi “Le storie di Mosè” (1540-45), il patriarca biblico salvatore del suo popolo come “prefigurazione” di Cosimo de’ Medici. Lo stile di Bronzino è elegante e raffinato + ricchissimo di rimandi e citazioni di opere di Michelangelo, di Pontormo e di Rosso fiorentino, ma anche di pittori del ‘400 (Signorelli, Uccello). La molteplicità dei modelli appare assimilata in un linguaggio sintetico e prezioso che predilige forme tornite, colori freddi e smaltati ed esprime perfettamente l'ideale rinascita propugnata da Cosimo, sotto il cui dominio avrebbe dovuto aprirsi una nuova ritmica “età dell'oro”. In tale temperie culturale è dipinta l'Allegoria (1540-45), di cui non è ancora stata fornita una convincente lettura iconografica (presenti Cupido, Venere e il tempo). La fama del Bronzino è tuttavia legata soprattutto ai ritratti, nei quali la rappresentazione psicologica e individuale dei personaggi sembra annullarsi nell'elegante apparato che circonda le figure, come nel “Ritratto di Eleonora di Toledo” (1545), dove, su uno sfondo lucente ma freddo, si stagliano le due figure offerte allo sguardo dell'osservatore come due oggetti preziosi da ammirare, e il “Ritratto della poetessa Battiferri” (1555-60), dal tagliente profilo stagliato su un fondo ardesia. - Giorgio Vasari > il momento culminante della ristrutturazione di Palazzo vecchio coincide con l’arrivo di Giorgio Vasari a Firenze nel 1555, divenendo il maggior interprete dei programmi artistici di Cosimo, per il quale impianta numerosi cantieri su modello di quelli romani. Sotto la sua direzione i lavori in Palazzo Vecchio procedono alacremente e ha inizio la sistemazione definitiva del grandioso “Salone dei Cinquecento”, la cui decorazione è adesso dedicata alla celebrazione dei fasti e dei trionfi dei Medici (vi si trova all'interno, per esempio, la Vittoria di Michelangelo). Anche il successore di Cosimo, Francesco I, si vale della collaborazione di Vasari, cui affida la realizzazione del suo Studiolo (1570-75), ma col nuovo signore, il clima culturale varia sostanzialmente perché i suoi interessi personali sono rivolti a problemi di natura esoterica, tecnico-scientifica e le commissioni monumentali vengono accantonate in favore di imprese meno appariscenti. Lo studiolo, sistemato in un camerino adiacente al Salone dei Cinquecento, viene destinato ad accogliere le opere più importanti della collezione personale di Francesco I, che comprende medaglie, cammei, vasi, gioielli etc. > questo piccolo ambiente ha la forma di un forziere, con volta a botte, e presenta lungo pareti e soffitto un succedersi di riquadri e nicchie contenenti statue di bronzo: la luce naturale non vi penetra da alcuna finestra. AI centro della volta dello studiolo sono dipinte le raffigurazioni della “Natura che offre a Prometeo un quarzo perché lo lavori” e dei 4 elementi originali “Aria, acqua, terra, fuoco”, mentre complesse corrispondenze legano tra loro le altre immagini, che illustrano le attività umane di trasformazione della materia o narrano soggetti cosmologici e allegorici + nel riquadro dedicato al “Pianto delle sorelle di Fetonte” (1570-75), l'artista Santi di Tito raffigura in realtà la nascita mitologica dell’ambra, mentre nella “Miniera di Diamanti” l'artista Maso da San Friano si adegua alle indicazioni di Borghini che aveva richiesto un'immagine bizzarra e stravagante. » Palazzi, Statua, Fontane, Giardini > sulla piazza della Signoria e nella Loggia dei Lanzi vengono a trovarsi alcune tra le più importanti statue fiorentine, come il “Perseo in bronzo” di Benvenuto Cellini: il simuoso corpo di Perseo si erge sui resti riversi di Medusa decapitata. Il virtuosismo di Benvenuto Cellini si manifesta nella ricerca di molteplici punti di vista, come nella puntigliosa definizione da orafo dei dettagli dell’elmo e del viso di medusa o nella ricchezza profusa nella base di bronzo e marmo, carica di ricordi dell’arte di Fontainebleau e di rimandi classici. Nonostante il risultato conseguito dal Cellini, Francesco I non affida all'artista l’incarico di realizzare una monumentale fontana per piazza della Signoria > il compito spetta all’Ammannati che, tra il 1563 e il 1577, conduce a termine la “Fontana di Nettuno”, composta da un bacino di base sorreggente le figure bronzee di divinità marine e coronata al centro da un carro sormontato dalla grande statua marmorea del Dio del mare. L'assetto della piazza diventa definitivo nell'ultimo quarto del secolo quando lo scultore fiammingo Giambologna vi colloca due sue opere: 1. Il “Ratto della Sabina” (1583) > è concepita dallo scultore per dimostrare la sua grande abilità nell’atteggiare drammaticamente un gruppo di tre personaggi: un vecchio, un giovane e una donna, e rappresenta un importante ponte tra la statuaria rinascimentale e quella barocca. 2. “Cosimola cavallo” N.B. l’attenzione dei Medici non si concentra solo sul riassetto di Firenze, ma si dirige anche sulle ville suburbane della famiglia: sempre al Giambologna è affidata, per esempio, la realizzazione del grande gigante accovacciato raffigurante “L'Appennino” (1571), che riflette la sua antropomorfa massa rocciosa in uno specchio d’acqua . Per il giardino di Boboli invece Bernardo Buontalenti inventa la “Grande grotta”, costituita da tre locali e in ambiguo equilibrio tra citazione e ripresa del repertorio architettonico classico (Ex: apertura a serliana). ® Sviluppidel Rinascimento a Venezia e nei domini veneti: Nel 500 le forze navali turche e imperiali si spartiscono di fatto il dominio del Mediterraneo, accentuando il declino di Venezia come potenza marinara. Per controbilanciare la grave perdita economica causata dal diminuire dei commerci, Venezia rafforza i suoi domini nell’entroterra italiano. La difesa dei possedimenti implica un'intensa attività di rafforzamento militare, con la costruzione di fortezze e cinte murarie. = Per molti decenni la scena della pittura lagunare è dominata dalla personalità di Tiziano: una linea di continuità e di armonioso sviluppo del suo linguaggio figurativo è facilmente riconoscibile fino alle opere degli anni 30, ma già nella cosiddetta “Venere di Urbino” (1538) si colgono i primi segni di un nuovo orientamento, di una volontà di adeguamento al mutare del clima culturale. La ricerca di scorci inconsueti e audaci torsioni delle figure contagia Tiziano che, nelle “Storie bi ‘he” (1542-44) tenta di conciliare il risentito plasticismo delle pose artificiose dei personaggi con ricerche cromatico-luministiche, destinate tuttavia a riprendere presto il sopravvento sulle componenti plastico-disegnative. > La cosiddetta “crisi manieristica”, infatti, costituisce solo un momento del continuo processo di arricchimento del suo linguaggio figurativo. La “Danae” (1546) mostra la straordinaria rapidità di assimilazione e rigenerazione dell’arte di Tiziano, ormai già lontano dalle esercitazioni formali degli anni immediatamente precedenti. Molto stimato dall'imperatore Carlo V, Tiziano dipinge ritratti dei vincitori come degli sconfitti, ma nel raffigurare “Carlo V a cavallo” (1548) riesce a fissare sulla tela l’immagine stessa dell'autorità morale e secolare dell’imperatore, la cui figura solitaria, a cavallo e in armatura, si staglia, ai margini di un bosco, sullo sfondo di un paesaggio acceso dal crepuscolo. N.B. oltre che con le “mitologie”, gli autoritratti, dipinti con soggetti religiosi come “L’Annunciazione” (1564), dipinti con soggetti storici come “Le versioni di Tarquinio e Lucrezia” (1570), Tiziano approda anche a una finale indistinzione della figura dell’uomo dallo spazio vivente del mondo, portando alle estreme conseguenze un processo che si cogliere già in atto fin dalle sue opere più giovanili. Il confronto tra due opere di uguale soggetto e composizione ma dipinte a decenni di distanza come “L’incoronazione di spine” (1542-44) del Louvre e dell’Incoronazione di Spine (1570) della Alte Pinakothek, può essere utile per chiarire il lungo cammino percorso da Tiziano: - La versione del Louvre appartiene agli anni della cosiddetta “svolta manieristica”, cioè quando l'artista manifesta Particolare attenzione per i valori plastici e formali delle novità “romaniste” ormai diffuse in tutta l’Italia settentrionale. La composizione ostenta un’inconsueta enfasi drammatica concentrando l’attenzione sui corpi plasticamente rivelati degli aguzzini che si accaniscono contro la straziata figura di Cristo > tutti i personaggi sono sospinti in primo piano e un complesso incrocio di diagonali determina la dinamica struttura del dipinto illuminato da una forte luce radiante che crea accentuati contrasti di ombre profonde e larghe chiazze luminose. - Nella versione della Alte Piankothek Tiziano riprende il medesimo soggetto ed impianto compositivo, ma si vale di nuovi mezzi espressivi per conferire ancor più intensa drammaticità alla scena. All’enfasi un po' teatrale e all'intonazione cupa e brutale del dipinto del Louvre, subentra una visione più interiorizzata. La variazione compositiva più vistosa riguarda la figura rassegnata di Cristo, che reclina il volto sofferente, mentre i carnefici gli stringono intorno: protagonista del dipinto diviene però la luce, che frantuma e frange i contorni delle figure vanificando l’effetto di solidità strutturale. Uno dei dipinti più inquietanti e insieme rivelatori della tarda attività di Tiziano è la tela raffigurante “ Marsia scorticato” (1570): il soggetto è tragico e crudele perché sconfitto da Apollo in una gara musicale, il Satiro Marsia viene scuoiato vivo dal vincitore, mentre sulla dx un altro satiro porta un secchio d’acqua per alleviare le sofferenze del compagno. Nel frattempo, Re Mida, nel cui volto è stato riconosciuto un autoritratto, assiste al supplizio assorto in triste meditazione. Alle spalle di Apollo e dello scita, un’altra figura di giovane sembra in procinto di suonare una lira da braccio ed è stata da alcuni identificata come una seconda raffigurazione di Apollo (le analisi tecniche condotte sul dipinto hanno tuttavia mostrato che si trattava in origine di un semplice “portatore di lira” e che la figura è stata modificata in un secondo tempo, probabilmente dopo la morte di Tiziano). = Il Tintoretto trascorre la sua vita interamente a Venezia. Il periodo della sua formazione si conclude entro il 1539, quando è menzionato già come maestro, ma ala fase sperimentale della sua attività si protrae per qualche anno oltre tale data e assiste, fin dagli esordi, al propagarsi del nuovo linguaggio figurativo importato sulla laguna dai transfughi tosco-romani. La sua formazione, inoltre, include la conoscenza della tradizione locale, incarnata in quel momento da Tiziano, ma comprende anche lo studio della opere di Michelangelo, di Sansovino e degli antichi 3 in tal modo l'artista acquisisce un forte senso plastico-monumentale che si lega alla sua propensione luministica di intonazione drammatica e a un accentuato interesse per effetti teatrali. Con il “Miracolo di San Marco” (1548), Tintoretto balza improvvisamente alla ribalta e la sua fama giunge addirittura a preoccupare Tiziano: la raffigurazione sviluppa elementi altamente spettacolari volti ad ottenere il massimo coinvolgimento emozionale degli spettatori. Il “Ritratto di Jacopo Soranzo” (1550) è un eccellente esempio della sua abilità di ritrattista e della sua tendenza a rappresentare i personaggi colti nell’attimo in cui sul loro volto trascorre un'emozione o comunque un elemento rivelatore della loro interiorità. N.B. il Tintoretto non si vale del genere del “ritratto ufficiale”, ma conferisce al personaggio una intensa vitalità sia grazie al taglio sia attraverso una stesura cromatico-luministica estremamente sintetica e dinamica. In altre opere di storia la suggestione ambientale è affidata agli elementi paesistici, come nella “Susanna e i vecchioni” (1557), con la figura ignuda in atto di contemplarsi, entro un vasto giardino misterioso, modellata da morbidi trapassi chiaroscurali e cromatici, ignara degli sguardi dei due malgavi giudici che la spiano. Il lento diffondersi della luce conferisce all'immagine un “tempo” ben diverso da quello drammatico e incalzante di altri dipinti di Tintoretto. = L'attività dei Carracci si svolge inizialmente a Bologna, dove i 3 cugini danno vita congiuntamente, nel 1582, alla “Accademia dei desiderosi”, un'accademia “privata”, di carattere profondamente diverso da quello di istituzioni “pubbliche” come la fiorentina accademia del disegno. Alla discussione e all’enunciazione di principi teorici e normativi si sostituisce una scuola legata alla pratica di bottega, ma con la proposizione di modelli che consentano di “ritornare al vero naturale”, recuperato sia mediante un più stretto contatto con la realtà quotidiana sia attraverso lo studio e la rimeditazione della tradizione rinascimentale. Alla luce di tali indirizzi il disegno torna a essere eminentemente strumento di indagine sulla realtà e fondamento di una nuova “maniera” che ripudia le bizzarrie, la concettosità, la ricerca di complessità e di effetti virtuosistici degli artisti manieristi, senza tuttavia rinunciare alla grandiosità e all’'eloquenza delle composizioni. Vivaci interessi naturalistici trovano riflesso in dipinti giovanili di Annibale Carracci, come “Il ragazzo che beve” (1582-83) o “La macelleria” (1583): motivi figurativi fino ad allora soprattutto appannaggio di artisti fiamminghi > l'interpretazione di tali soggetti proposta da Annibale evita il pericolo di una registrazione analitica e frantumata dei dati reali grazie a una grande capacità di sintesi sul piano compositivo. Nella Macelleria, un'opera di notevole formato, la scena di “genere” è rappresentata come una “storia” e le figure portate alla ribalta dall’effetto di compressione prospettica si propongono all’osservatore in pose composte e quasi monumentali. 3 L'esperienza dei Carracci si muove dialetticamente, fin da principio, tra indagine naturalistica e ricreazione di un grande stile “classico” > nei cicli ad affresco dipinti nei palazzi bolognesi l’attività dei tre artisti è volutamente corale, fondata su un continuo scambio: alla richiesta di distinguere l'apporto personale lasciato da ciascuno nel ciclo delle “Storie di Romolo” (1589-90; dei tre Carracci) in Palazzo Magnani, gli artisti rispondono che “l’opera è dei Carracci: l'abbiamo fatta tutti noi”. In realtà, tuttavia, la maniera dei tre maestri viene diversificandosi notevolmente con il procedere degli anni, dando luogo a esperienze molto articolate. Se ci si sofferma a esaminare tre dipinti di soggetto religioso è possibile individuare chiaramente i diversi orientamenti dei tre artisti: 1. L’annunciazione (1585) di Ludovico Carracci > mostra la complessa personalità del suo autore, particolarmente sensibile alle richieste di chiarezza narrativa avanzate dal cardinale Paleotti come alla resa dei valori naturalistici. Un severo rigore formale e prospettico definisce la scena , composta ed equilibrata, che viene sfrondata di ogni elemento superfluo e semplificata in modo da risultare adatta a una lettura devota, mentre alcuni particolari come il cesto appoggiato per terra, i libri o il volto stesso della Vergine rivelano l’attento studio dal “vero”. La gamma cromatica è contenuta, mentre a delicati effetti luministici è affidato il compito di rivelare insieme gli aspetti naturali e sovrannaturali della rappresentazione. In seguito, le opere di Ludovico acquistano maggiore eloquenza narrativa e compositiva, ma l'artista rimane sempre un profondo e sensibile indagatore della sfera dei sentimenti, capace di commuovere e persuadere, con rappresentazioni di intonazione affettiva e appassionata. 2. La comunione di San Gerolamo (1591-92) di Agostino Carracci > è concepita come un’opera paradigmatica, densa di citazioni e di riferimenti culturali, molto apprezzata dalla critica seicentesca e dai pittori delle generazioni successive. La maniera di Agostino è caratterizzata da una forte componente intellettuale ed erudita, che lo allontana dalla sensibilità devozionale e sentimentale di Ludovico come dallo slancio appassionato di Annibale. N.B. mentre nell’Annunciazione di Ludovico lo studio delle opere di artisti emiliani e veneti appariva interiorizzato e assorbito, nella pala di Agostino i riferimenti a Tiziano, Tintoretto, Veronese, Correggio o Raffaello sono dichiarati esplicitamente, quasi con intento didascalico, nel tentativo di giungere a un'ideale perfezione. 3. L'assunzione (1592) di Annibale Carracci > mostra il cammino percorso dall'artista: le esperienze naturalistiche rifluiscono nella caratterizzazione dei singoli apostoli, che manifestano concitatamente il loro stupore di fronte al sepolcro vuoto, mentre al di sopra un vasto spazio di nuvole e luce accoglie la Vergine che ascende al cielo. Nella calda gamma cromatica e nel potente slancio ascensionale della composizione accentuata dai forti contrasti luministici ogni traccia di moderato eclettismo culturale è spazzata via dalla irruente e appassionata personalità dell'artista. Dei tre membri dell'accademia solo Ludovico rimane in patria, continuando per molti anni ancora a dipingere pale caratterizzate sempre da una forte tensione religiosa e formale, come il “Martirio di San Pietro Toma” (1598-99). = Annibale > A Roma, Annibale arriva su diretto invito del potente cardinale Odoardo Farnese e sviluppa una maturazione assai rapida a contatto con le opere di Michelangelo e, soprattutto, Raffaello > le precedenti esperienze bolognesi si risolvono in una vocazione classicista che non rinnega il passato, ma propone piuttosto una sintesi feconda di idealismo e naturalismo, che consente all'artista di far rivivere la struggente e sensuale bellezza delle favole antiche. N.B. nonostante faccia parte della cerchia dei Farnese, non diviene artista di corte perché rimane ostinatamente legato alla pratica concreta della sua professione: sempre per i Farnese, comunque, Annibale dipinge “La pietà” (1599-1600), dove la rappresentazione del tema drammatico si concentra sul rapporto tra la Vergine e il Figlio morto, appoggiati al sepolcro. "> La luce investe le due figure, mettendo in evidenza il saldo impianto monumentale del gruppo, definito con un ù rigore formale che non argina l’effusione del sentimento e la contemplazione della idealizzata bellezza del corpo “senza piaghe” di Cristo. Tra le poche opere realizzate dall'artista dopo la conclusione dei lavori alla Galleria Farnese, sono le due lunette dipinte per il cardinale Aldobrandini raffiguranti la Deposizione e la “Fuga in Egitto” (1603) + con quest’ultima Annibale crea uno dei primi paesaggi italiani ispirati alla poetica dell’ideale classico, aprendo la strada all'opera, per esempio, di Lorrain e Poussin + entro una vasta veduta fluviale l'episodio del viaggio della Sacra Famiglia NON assume alcun particolare risalto e assoluto protagonista diviene il “sentimento della natura”. > Il grandioso senso di profondità prospettica e atmosferica è generato da sapienti tagli spaziali e luminosi mentre l'attento studio dei particolari naturalistici non turba il senso di assoluta unità emozionale e compositiva dell'immagine. Il grande palazzo romano dei Farnese, progettato da Antonio da Sangallo e compiuto da Michelangelo, passa in eredità, dopo la morte del cardinale Alessandro, al pronipote, il Cardinale Odoardo, che, pur essendo molto giovane, intende completare la decorazione della residenza familiare. Affida, dunque, gli affreschi del Camerino (suo studio privato) e della Galleria del palazzo ad Annibale, ancora sconosciuto a Roma + la decorazione del Camerino lo occupa fino al 1569-97, sperimentando le possibili modulazioni del suo linguaggio in contatto con l’opera di Raffaello e di Michelangelo e con le antichità romane. > Inuncomplesso intreccio di motivi mitologici, decorativi e araldici, Annibale fornisce una nuova, moderna interpretazione dell’universo classico, anche se ancora non raggiunge quella pienezza espressiva che dimostrerà di avere nella Galleria. Come già era accaduto a Fontainebleau, anche la Galleria Farnese a Roma è concepita come il fulcro del percorso interno del palazzo, luogo di esposizione dei migliori pezzi della raccolta e anche espressione della potenza della casata + dopo un iniziale progetto che prevedeva l'esecuzione di cicli incentrati sulle gesta dei Farnese, Odoardo decide di far invece dipingere nella volta un “ciclo mitologico” (1598-1600), raffigurante gli Amori degli Dei, e nelle fasce parietali le Virtù, poste sotto la protezione di Perseo. L'affresco della volta viene strutturato mediante una complessa intelaiatura architettonica, con medaglioni e figure di ignudi, ispirata alla volta della Sistina: il riquadro centrale raffigura il “Trionfo di Bacco e Arianna” (1598-1600), mentre tutto intorno, entro scomparti minori, trovano posto gli altri dei dell'Olimpo, i fauni, le ninfe e i Ciclopi. "> La narrazione mitologica ritrova nella visione di Annibale nuovo vigore, ricollegandosi a grandi modelli rinascimentali, da Raffaello a Correggio. Lo studio del “naturale” affrontato da Annibale negli anni bolognesi continua a essere una componente fondamentale del linguaggio dell'artista, restituendo verosimiglianza ai gesti e alle pose degli dei antichi che nella loro apparente e immediata spontaneità nascondono colte citazioni. N.B. accanto ad Annibale giunge a Roma per alcuni anni anche suo fratello Agostino, chiamato a collaborare per la decorazione della Galleria, ma il sodalizio tra i due artisti si rivela difficile, e ben presto il secondo fa ritorno a Bologna. = Nella seconda metà del 1592, il giovane pittore Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, si trasferisce a Roma. Non sono ancora stati individuati con certezza dipinti del Merisi anteriori al suo trasferimento a Roma, e, poco dopo il suo arrivo, già in possesso di un bagaglio di cultura, lavora per circa 8 mesi nella bottega di Giuseppe Cesari, ultimo esponente di rilievo della cultura tardomanieristica romana. Inizialmente il Merisi dipinge composizioni di fiori e frutta: opere di un “genere” ritenuto minore, ma richiesto dal mercato e praticato soprattutto da specialisti fiamminghi. I rapporti con la Bottega Cesari si interrompono presto per la necessità del Caravaggio di star da solo e si dedica alla realizzazione di scene di genere a mezze figure e di piccoli quadretti “da lui nello specchio ritratti” > a tale pratica sono state ricondotte composizioni di argomento allegorico, come il “Ragazzo con canestro di frutta” (1593-94) e il “Ragazzo morso da un ramarro” (1593), nelle quali l'artista rappresenta, con appassionata adesione alla verità ottica e naturale dell'immagine, figure di adolescenti in atteggiamenti talora ripresi da modelli antichi o michelangioleschi, con fiori, frutta, canestra e caraffe di cristallo. La forte adesione formale ed emotiva al modello sembra travalicare ogni significato simbolico e l'artista, senza disperdere l’attenzione dello spettatore nella minuta, analitica descrizione dei particolari, come in molti dipinti fiamminghi, punta piuttosto a cogliere e affermare perentoriamente, per mezzo della luce che costruisce le forme e di studiati tagli compositivi, l'assoluta dignità di ogni elemento naturale (Ex: Il dipinto “Canestra di frutta” (1596) è stato realizzato per il cardinale Federico Borromeo). Per il cardinal Del Monte dipinge “La testa di Medusa” (1596-98) al centro di uno scudo da parata donato dal Cardinale a Ferdinando de’ Medici. L'idea di raffigurare la testa di Medusa su uno scudo deriva dalla mitologia classica, ma il dipinto indugia in particolare sulla descrizione dell'espressione stravolta del viso, contratto in un urlo carico di angoscia e raccapriccio. Lo studio delle reazioni umane di fronte a violente sollecitazioni di carattere psicologico o fisico, che aveva già trovato sviluppo nell'arte lombarda, a partire da Leonardo, approda infine con Caravaggio al “Ragazzo morso da un ramarro” e al drammatico stravolgimento della “Testa di Medusa”. Ancora per interessamento del Cardinal Del Monte, Caravaggio riceve l’incarico di dipingere 3 tele per la Cappella Contarelli, sue prime opere pubbliche: - La vocazione di San Matteo (1599-1600) - parete laterale + coglie il preciso momento in cui Matteo viene chiamato all’apostolato da Cristo. Nella prima versione, Caravaggio aveva scelto di rappresentare Cristo da solo, in atto di chiamare a sé il prescelto Matteo, ma più tardi decide di aggiungere anche la figura di San Pietro, alludendo probabilmente alla mediazione della Chiesa tra il mondo divino e l'umano. Le vesti dei personaggi raccolti intorno al tavolo, come in una scena da osteria, sono quelle dei contemporanei, e tutto l'episodio presenta concrete annotazioni realistiche che per la prima volta compaiono così direttamente in una pittura sacra esposta al pubblico. Il dipinto è costruito su due piani paralleli: nella zona inferiore vengono collocati tutti i personaggi, mentre la fascia superiore è vuota, connotata solo dalla finestra e dalla forza del fiotto di luce, proveniente da una fonte esterna. Questo processo di assimilazione lo troviamo in dipinti come “L’Annunciazione” (1623) o “Il ritrovamento di Mosè” (1633). - Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi 3 seppe innestare sul limpido rigore disegnativo accenti drammatici derivati direttamente da modelli caravaggeschi, caricati di forti effetti teatrali, con esiti che contribuiranno in modo determinante alla diffusione del caravaggismo a Napoli. Ex: La Maddalena penitente (1617-20). - Carlo Saraceni > l’opera di Caravaggio attrae precocemente il pittore veneziano: nei dipinti di soggetti religioso lo studio delle opere di Caravaggio sposta l'accento su più drammatici contrasti luministici e sulla resa realistica dei personaggi, come nell’”Estasi di San Francesco” o nella “Morte della Vergine” (1615-19). - Orazio Borgianni > in origine nemico di Caravaggio, si accosta all'opera di quest’ultimo, da cui riprende spunti naturalistici e drammatici che innervano una cultura figurativa molto complessa, maturata in spagna grazie anche al contatto con El Greco e Tiziano. Nella “Sacra Famiglia e Santi”(1615) la modulazione dell'ombra e della luce è studiata in modo da conferire il massimo risalto al gruppo di figure raccolte intorno al gioco del Bambino con San Giovanni Battista, mentre in primo piano la natura morta di panni in un cesto manifesta la sensibilità dell'artista per motivi naturalistici. La situazione artistica romana è, in questi anni, molto complessa e articolata: mentre le maggiori commissioni pubbliche vengono affidate in gran parte ai pittori “bolognesi” seguaci dei Carracci, alcuni artisti lombardi si pongono decisamente nella scia del Caravaggio, interpretando l'opera del maestro in maniere molto differenti e incontrando le richieste di un vasto pubblico: - Bartolomeo Manfredi > all'artista si devono opere da camera apparentemente di stretta ortodossia caravaggesca, me in realtà volte a sfruttare invenzioni iconografiche del maestro trasformate per lo più in “scene di genere”: i Bari, per esempio, o “i Concerti” (1611) perdono nell'interpretazione di Manfredi la tensione che li sorreggeva nell’invenzione originaria > trovano così una facile divulgazione singoli motivi caravaggeschi in scene sempre caratterizzate da effetti di illuminazione laterale e artificiale. È una visione profana e divulgativa dell’opera di Caravaggio. - Giovanni Serodine > offre un’interpretazione passionale e fervida dei soggetti sacri, radicalizzando la scelte del maestro e trasformando sempre di più le scene religiosi in accadimenti “quotidiani”, con umili personaggi come nell’”Incontro di San Pietro e San Paolo sulla via del martirio” (1624-25) o nella “Chiamata dei figli di Zebedeo”. La sua stesura pittorica è condotta con rapide pennellate radenti a tocco, intrise di luci e ombre profonde. - Jean Valentin de Bolougne > si accosta all'opera del Merisi soprattutto attraverso la pittura di Bartolomeo Manfredi, ma conferisce alle scene di taverna, ai concerti e alle allegorie (Ex: “La scena di osteria” - 1616-20), uno spessore psicologico più profondo di quello presente nelle opere di altri caravaggeschi della seconda generazione. - Simon Vouet + ancora più ragguardevole è la sua posizione sociale: grande ritrattista, Vouet è protetto da una prestigiosa cerchia di collezionisti, che gli affidano numerosi incarichi, tra cui l'esecuzione di due pale per la chiesa di Chiesa di San Lorenzo in Lucina (“La tentazione di San Francesco” - 1624; “San Francesco rinuncia ai suoi averi”). Accanto ai francesi, a Roma, operano attivamente anche fiamminghi od olandesi: - Gerrit vanHonthorst > si specializza nella rappresentazione di soggetti di genere, spesso a lume di candela come nel “San Giuseppe falegname” (1617), riprendendo talora puntualmente interi brani di composizioni caravaggesche, staccati dal loro originario contesto. N.B. La loro attività risulta fondamentale per l’irradiarsi del caravaggismo in Europa settentrionale, e in particolare in Olanda e nelle Fiandre. La fortuna del caravaggismo a Roma va invece lentamente declinando nel terzo decennio del secolo, e con lo schiudersi di quello successivo si può dire conclusa, ormai soppiantata dall'imperante classicismo degli artisti emiliani e dalle nuove esperienze maturate da Cosimo da Cortona o da Giovanni Lanfranco. Tra i grandi collezionisti privati incontra tuttavia un certo favore un filone pittorico nuovo, inaugurato dall'olandese detto il Bamboccio > si tratta delle cosiddette “bambocciate”, piccole tele raffiguranti scene quotidiane, popolate di personaggi popolari, rivolte a illustrare con vivace curiosità scene prive di qualsiasi implicazione morale, sacra o allegorica. A Roma, come già a Bologna, Annibale Carracci è circondato da un gruppo di giovani allievi che ben presto raggiungono notevole autonomia, di fatto concentrando nelle loro mani gran parte delle commissioni pittoriche e in particolare i cicli di affreschi in chiese, ville e palazzi della città. La comune educazione carraccesca costituisce per questi artisti il fondamento del loro orientamento “classico”, riconosciuto come elemento unificante dai teorici contemporanei, ma senza che tale orientamento annulli le interpretazioni e le caratteristiche individuali dei singoli. L'insegnamento di Annibale Carracci si rivela fondamentale per la formazione di: - Guido Reni > destinato a diventare l'artista più originale del gruppo, perviene ad un risultato di “Classicismo integrale”, che propone cioè l’esperienza dell’antico e del Rinascimento con toni di appassionata nostalgia, in un linguaggio severo, di somma eleganza, e nello stesso tempo nutrito di robusto naturalismo, in cicli di affreschi raffiguranti, per esempio, “Aurora” (1616) o in tele di soggetto religioso/mitologico. Due opere di diversa destinazione consentono di riconoscere questi caratteri peculiari della sua pittura: 1. La pala raffigurante “La strage degli innocenti” (1611-12) 2. “Le fatiche di Ercole” (1617-21) per Ferdinando Gonzaga. > Esse mostrano la sicura padronanza dell'artista nel rappresentare temi sacri e profani e la sua capacità di fondere motivi desunti dall'antico, dal linguaggio rinascimentale e dalla “elezione” di elementi naturali. Nel 1614 Reni rientra a Bologna, dove la sua opera continua ad essere ricercata e, verso la fine della sua carriera, l'artista trova ancora la forza di rinnovare il suo linguaggio allentando la tensione drammatica della sua fase matura in toni più elegiaci, affidandosi a una stesura pittorica sempre più sfaldata ed evanescente, in cui dominano accordi quasi quasi monocromatici legati da una dominante argentea (Ex: Suicidio di Cleopatra - 1640-42). - Francesco Albani > per conto di Annibale, lavora al completamento della Galleria Farnese e nella Cappella Herrera, elaborando una personale visione classicista, che per una certa vena elegiaca e morbida si distacca dall’appassionata interpretazione del maestro come dalla rigorosa idealizzazione formale di Reni. Nei tondi raffiguranti “Storie di Venere e Diana” (1617-18), si riconosce lo studio degli affreschi di Raffaello alla Farnesina, ma interpretati con un sentimento idillico che trova espressione nella rappresentazione distaccata e serena dei paesaggi mitologici. - Domenichino > giunto a Roma si affianca ad Annibale (in seguito anche a Reni e all’Albani) in diverse imprese, diventando pienamente autonomo solo dopo la morte del caposcuola, nel 1609. Nei suoi dipinti si riconoscono fortissimi interessi per il disegno, per la chiarezza narrativa e per una lunga e meditata elaborazione formale che li trasferisce in una dimensione di bellezza classica e ideale, purificandoli da ogni scoria di triviale naturalismo. Oltre a numerosi affreschi e a pale per chiese romane, il Domenichino dipinge paesaggi con ambientazioni naturali ispirate nostalgicamente a una ideale classicità, come il “Guado” (1605). Dopo aver fatto ritorno a Bologna per qualche anno, viene poi richiamato a Roma dal nuovo papa, Gregorio XV, che volle in città un altro artista importante per tale contesto: - Il Guercino > dopo aver rivolto l’attenzione alla pittura di Dosso Dossi, dei veneti e del Correggio, il Guercino si era accostato a Ludovico Carracci, derivandone uno spiccato interesse per gli effetti di luce e la resa atmosferica, e sviluppando una tecnica pittorica con vibrante stesura a macchia e contrasti luministici. L'artista dà prova delle sue qualità affrescando il “Carro di Aurora” (1621), soggetto da raffigurato da Reni nel 1613, ma Guercino, valendosi dalla collaborazione del quadraturista Agostino Tassi, conferisce all'immagine impeto travolgente, traendo il massimo partito dall'effetto di sfondamento illusionistico della volta. Il vibrare delle luci accentua l’effetto di movimento generato dalle nubi, dagli scorci e dai gesti delle figure. Tra le più celebri opere del Guercino è anche il paesaggio moralizzato, dall'iscrizione latina apposta sul quadro stesso, “Et in Arcadia Ego” (1618): due pastori si soffermano sorpresi e pensierosi di fronte a un muro in rovina sul quale campeggia un teschio, mentre sullo sfondo si allarga un orizzonte di alberi e nuvole, solcato da una luce di tramonto. L'iscrizione latina significa “sono presente anche in Arcadia” > si tratta di un memento mori di intonazione elegiaca, un motivo nel quale il Guercino esprime il sentimento del tramonto della classicità ideale. Tra il 1595 e il 1631 la diocesi di Milano viene retta da un secondo arcivescovo Borromeo (Federico), che, dotato di temperamento molto diverso da quello del cugino Carlo, vede fiorire durante gli anni della sua missione una vivace stagione artistica, germogliata sulle riforme religiose promosse dal suo predecessore: - Il Cerano + è uno dei pittori più amati da Federico Borromeo, che aveva personalmente contribuito ad ampliarne gli orizzonti culturali ospitandolo a Roma e a Bologna. Nel quadrone raffigurante “Carlo che distribuisce ai poveri i proventi della vendita del principato d'Oria” (1602), l'artista accosta a brani di impetuosa e appassionata eloquenza, spunti naturalistici e descrittivi, con il chiaro intento di favorire nello stesso tempo la meditazione e il coinvolgimento emozionale degli spettatori. L'impianto di carattere teatrale della rappresentazione contrappone all’accalcarsi della folla dei poveri sulla scalinata la figura solitaria del Santo sotto il porticato, che placa il tumulto con la sua presenza e autorità morale. Il Cerano è grande pittore di storia, ma rinnova anche la tipologia della pala d'altare lombarda, con immagini turbinose e drammatiche, realistiche nei particolari e visionarie nell'impianto compositivo e nella concitata tessitura luministica, come il “Martirio di Santa Caterina”. In seguito alla santificazione di Carlo Borromeo vengono commissionate nuove tele per rappresentare i suoi miracoli e accanto al Cerano concorrono a tale impresa altri pittori: - Giulio Cesare Procaccini + nella narrazione degli eventi sacri Procaccini contrappone alla cupa e drammatica tensione di Cerano inscenature più pacate e sontuose, riecheggiando motivi della tradizione rinascimentale emiliana, da Correggio a Parmigianino. Anche nell’ Annunciazione” (1612) tali caratteristiche appaiono in evidenza nella resa dell'atmosfera intima del sacro evento, come nella preziosa dolcezza delle espressioni, del fluire dei gesti, dei trapassi cromatici e luminosi. - Il Morazzone è a lui si deve la raffigurazione del “Martirio delle Sante Rufina e Seconda”, detto “Il quadro delle tre mani” (1625), un'opera singolarmente unitaria e omogenea nonostante l'intervento dei tre artisti: il fatto che le parti eseguite da ciascuno possano essere chiaramente individuate dimostra concretamente l'esistenza di una comunità di indirizzi e di clima culturale che prevale sulle pur marcate caratteristiche individuali. In contatto a Roma con gli ambienti influenzati dal Barocci e da Federico Zuccari, il Morazzone si orienta in seguito, nel clima della riscoperta dell’opera di Gaudenzio Ferrari, verso grandiose composizioni di carattere scenografico e corale, con risultati altamente spettacolari soprattutto in dipinti come “La pentecoste” (1615): impostata al centro su un gran vuoto di cielo aperto da un vortice luminoso, mente intorno si accalcano le figure degli apostoli e della Vergine, in un dinamico intreccio di gesti e audacissimi scorci. =. Il percorso artistico di Giovanni Lanfranco si svolge tra Roma e l'Emilia, ma, durante la sua formazione, riscopre soprattutto l'attualità del Correggio, da cui deriva, reinterpretandolo, l'impianto per l’Assunzione > l'immensa superficie della cupola viene affrontata come composizione unitaria e trasformata in animato spettacolo celeste, con schiere concentriche di figure scaglionate entro una ricca trama di ombre e luci, progressivamente stemperata nel chiarore della Gloria al vertice. La rappresentazione dell’Estasi nell’apparizione di Cristo a Santa Margherita da Cortona (1622) riflette alcuni dei tratti più caratteristici della religiosità barocca: presentando la Santa riversa nella contemplazione di Cristo, che le appare tra gli angeli, e immergendo l'evento mistico in una luce soprannaturale, l'artista anticipa una soluzione di cui Bernini avrebbe valorizzato più tardi tutte le implicazioni e possibilità. = Incontrastato campione del Barocco pittorico, Pietro da Cortona aveva avuto una modesta formazione nell’ambito del Tardomanierismo fiorentino, ma i suoi orizzonti si erano ampliati con il trasferimento a Roma. Tra le esperienze centrali della fase formativa devono porsi lo studio dei rilievi della Colonna Traiana e dei Baccanali di Tiziano > la grande occasione fu per l'artista la commissione dell'affresco per la volta del Gran Salone di Palazzo Barberini, la cui celebrazione della Divina Provvidenza doveva saldarsi alla glorificazione del casato dei Barberini e svilupparsi in distinti episodi allegorici che illustrassero virtù cristiane attraverso episodi mitologici. Uniformandosi alle richieste, l'artista spartì quindi la composizione in 5 settori mediante un finto cornicione sontuosamente ornato da ghirlande e tritoni, ma nello stesso tempo ne annullò la rigidezza di limite spaziale con l'espediente illusivo delle figure allegoriche che ad esso si sovrappongono, quasi invadendo lo spazio della Sala. Nel 1637, nel corso di un viaggio a Firenze, l'artista aveva intrapreso, su incarico del Granduca Cosimo I, la decorazione di una sala di Palazzo Pitti con rappresentazioni delle “4 stagioni” (1643-46) > l'esuberanza inventiva già spiegata nel capolavoro romano torna in questi affreschi di festoso tema profano, ove l'intonazione si fa più ariosa anche per effetto di un cromatismo piacevolmente schiarito sulla scia dei grandi maestri veneti. Un fatto nuovo rappresentano gli stucchi bianchi e dorati che incorniciano gli affreschi creando un nesso decorativo tra parti plastiche e pittoriche, le une quasi preziosamente intarsiate nelle altre. L'ultima impresa dell'artista furono gli affreschi per la cupola, il catino e la volta della Chiesa Nuova a Roma: l'affresco della volta, per esempio, con “Il miracoloso intervento della Vergine durante i lavori di costruzione della Chiesa Nuova” (1664) rivela la singolare abilità dell’artista nel fondere l'intento narrativo con l'illusionismo scenografico in una rappresentazione destinata a incontrare le esigenze propagandistico-celebrative dei committenti. Non minore, pari anzi solo a quella del Bernini e del Borromini, fu l'incidenza del Cortona sugli sviluppi dell’architettura barocca. Fin dalle prime prove, come nella distrutta “Villa del Pigneto” (1630), gli elementi della tradizione classica e rinascimentale vengono manipolati con una sensibilità scenografica in parte riconducibile alla lezione del Manierismo fiorentino (Buontalenti - vedi Giardino di Boboli), in parte allo studio dell’architettura romano-ellenista > l’edificio era collegato ai giardini retrostanti attraverso una complessa scalinata a rampe ellittiche tra statue, grotte e fontane: il corrispondersi di elementi concavi e convessi costituiva una novità che avrebbe fatto scuola. Tra i successivi interventi figura al primo posto la ricostruzione della Chiesa dell’Accademia di San Luca (1635-1650) > nella pianta a croce greca è evidente il ritorno a schemi del Rinascimento toscano ma l'andamento curvilineo della facciata arginato ai lati da coppie di pilastri sporgenti prosegue l’audace sperimentazione di forme avviata nella Villa del Pigneto. La magnificenza con cui sono trattate le superfici, fortemente strutturate in un plastico succedersi di colonne, riecheggia la lezione di Michelangelo, ma non esclude accentuazioni decorative e imprevisti accostamenti di linee curve e spezzate che si fanno particolarmente apprezzare nelle capricciose invenzioni per l'interno e l'esterno della cupola. La matrice manieristica recede nel successivo progetto per la nuova facciata di Santa Maria della Pace (1656-57) che connette superfici concave e convesse in una scenografia studiata per abbracciare la piazza antistante e fare da sfondo alla stretta via di accesso. Un lineamento assolutamente nuovo è però il portico semicircolare su colonne doriche che precede l'ingresso. I forti accenti plastici che si notano in questa chiesa tornano nelle realizzazioni successive (Ex: Cupola della chiesa dei santi Luca e Martina), ma inseriti entro sintassi classicistiche che attestano l'evoluzione dell’artista verso un controllo formale più rigoroso. = Gian Lorenzo Bernini identifica una svolta decisiva e duratura, che interpreta le aspirazioni più vitali della cultura del tempo: i tratti che nella sua opera ci colpiscono come rivoluzionari (dinamismo, libertà inventiva, capacità di plasmare la materia) riflettono una concezione dell’arte fondata su un rinnovato rapporto con la natura e con la tradizione. - Daunlatola natura viene sentita come campo di forze in azione e teatro della manifestazione divina - Dall'altro la tradizione perde ogni carattere dogmatico e costrittivo, offrendosi al libero gioco delle sperimentazioni. Nella formazione del Bernini ebbe un'importanza decisiva l'educazione all'antico: allievo del padre, egli seppe cogliere nell’arte classica una nuova ricchezza di possibilità latenti. Tra secondo e terzo decennio del 600, i residui manieristici appaiono però del tutto consumati e l'artista comincia a creare situazioni di forte tensione drammatica e dinamica, come dimostra il violento movimento del “David” (1623- 24), colto mentre tende la fionda e prende la mira aggrottando la fronte, indicando l'atto culminante del confronto con Golia. Nell’"Apollo e Dafne” (1624-25), gruppo ispirato alle metamorfosi di Ovidio, il Dio sta per raggiungere la ninfa in fuga che si trasforma in lauro al tocco della sua mano > l’impeto dell’inseguimento sembra propagarsi allo spazio creando un’acuta risonanza all’epilogo del mito. N.B. La rottura con la tradizione rinascimentale e manieristica non potrebbe essere più completa: come nel David, l'artista blocca il movimento al suo culmine e fonde la figura con lo spazio circostante. All’effetto concorre lo stesso trattamento del marmo con la resa intensamente mimetica del fogliame, delle capigliature e della corteccia. Uno dei più grandi e colti committenti ed estimatore del Bernini fu il Cardinale Maffeo Barberini, papa dal 1623 col nome di Urbano VIII: l'artista ricevette da lui la commissione che doveva consacrarne ufficialmente il successo, cioè “Il baldacchino bronzeo per l’altare di San Pietro” (1624-33), realizzato in collaborazione col Borromii > la grandiosa struttura, poggiante su 4 sontuose colonne tortili e coronata da altrettante snelle volute che si incurvano a dorso di delfino al di sopra di una trabeazione adorna di lambrecchini e fiocchi, riecheggia deliberatamente la foggia dei baldacchini che si innalzavano nelle chiese romane in occasione di cerimonie. N.B. L'ardimento stava nell'aver trasposto nel bronzo e in dimensioni colossali un'invenzione provvisoria ma senza distruggerne il carattere di trionfo effimero. Nominato architetto della Fabbrica di San Pietro nel 1629, già l'anno prima aveva cominciato i lavori per la crociera della Basilica Vaticana e alla Tomba di Urbano VIII, completata nel 1647 + in quest’ultima Bernini colloca alla sommità del monumento la statua del pontefice in trono e gli associa le candide figure della Carità e della Giustizia che evocano l'idea della maternità e della vita. Pungente è il contrasto con lo scheletro che sorge dall'una e scrive l'epitaffio dell’illustro defunto: anche la morte rende quindi omaggio alla gloria del papa, che protende il braccio in un gesto autorevole di benedizione. Tema congeniale allo scultore, l'espressione affabile di urbano VIII venne fissata anche in altre occasioni, grazie soprattutto alla dote di ritrattista: tra i busti-ritratto scolpiti nei primi decenni, caratterizzati da maggiore spontaneità e schiettezza, spicca quello di Costanza Buonarelli (1630-35), moglie di un allievo e amata dall'artista. 3 Bernini coglie l’effigiata quasi di sorpresa, con la bocca socchiusa e la camicia aperta sul petto, in un’istantanea che ha quasi carattere di confessione privata. In altri busti coevi, come quello di Luigi XIV (1665), il modellato si fa vibrante e la presentazione più mossa: l'impetuoso trattamento dei drappi agitati dal vento e le cascate di riccioli ne sono un esempio. Col gruppo della “Transverberazione di Santa Teresa” (1646-52), Bernini compie un passo decisivo verso uno degli obiettivi di fondo della sua ricerca: attuare, attraverso l'integrazione delle 3 arti, una nuova sintesi di visione ed emozione. > Bernini presenta la grande Santa spagnola riversa nell’estasi, mentre un angelo le trafigge il cuore con un dardo d’oro, immagine dell'amore divino: l'iconografia dipendeva da un passo dell’autobiografia della Santa, scelto per esemplificare le straordinarie esperienze mistiche di cui essa fu testimone e protagonista. La cappella diventa lo spazio dell'evento soprannaturale evocato anche attraverso accorgimenti scenici che n e sottolineano l'attualità: da due coretti laterali si affacciano, ritratti nel marmo, membri della famiglia Cornaro in atto di manifestare stupore e devozione, mentre le figure dell'angelo e di Santa Teresa fluttuano sulle nubi investite dalla luce che filtra da una fonte nascosta. La risorse tecniche e inventive profuse dal Bernini nel campo degli allestimenti teatrali e degli apparati effimeri (un altro esempio è la scenografia per la nascita di Delfino - 1638) lasciano con gli anni tracce evidenti anche nel campo della scultura e dell’architettura 3 nella Fontana dei Fiumi (1648-51) per Piazza Navona, lo scultore associa il motivo trionfale dell’obelisco a un basamento in travertino che imita lo scoglio con affratti, muschi e palmizi e le statue allegoriche dei fiumi adagiate tra le rocce. Anche i vari disegni per la successiva sistemazione dell’Obelisco di piazza della Minerva esprimono la volontà di pietrificare nella fissità del monumento le associazioni liberamente sperimentate nell’ambito dell’effimero. Gli anni del pontificato di Alessandro VII Chigi coincidono con una serie di grandi commissioni ufficiali: - Bernini costruisce i colonnati di piazza San Pietro e completa gli interventi all’interno della Basilica creando, con la cattedra e la soprastante Gloria (1656-57), uno sfondo di trionfale magnificenza al baldacchino. Già esistevano progetti per trasformare la vasta area antistante la chiesa in una piazza ottagonale o rettangolare: tale impresa fu finalmente decisa nel 1656 da Papa Alessandro VII e il Bernini venne chiamato ad affrontare problemi di vario ordine che finirono per condizionarne le scelte: la nuova piazza doveva soddisfare esigenze di monumentalità, ma nello stesso tempo correggere l'anomalia dell’eccessiva orizzontalità della facciata maderniana e raccordare alla basilica il palazzo papale. N.B. La pianta ovale e i porticati d'ordine dorico che chiudono la piazza entro due grandiosi emicicli non riflettono solo una nuova concezione dello spazio ma danno contemporaneamente soluzione a tutti questi problemi. Per esaltare le proporzioni della facciata e l'altezza dei suoi pilastri, Bernini collega gli emicicli alla chiesa mediante la cosiddetta “piazza retta/trapezoidale”, che occupa la zona del sagrato e inquadra la facciata tra due quinte prospettiche lievemente “degradanti” (fig. 31). L'intero complesso tende del resto a configurarsi come un immenso teatro. Alle statue di Santi issate sopra la trabeazione e libere contro lo sfondo del cielo era invece affidato il compito di visualizzare la gloria della Chiesa trionfante. - Sempre da Alessandro VII riceve l’incarico della ristrutturazione della “Scala Regia” (1663-66) ai palazzi apostolici: dovendo contrastare l’angustia dello spazio a disposizione, tra l’altro molto irregolare, egli riuscì a dilatarlo in una maestosa fuga prospettica mascherando e correggendo l'andamento delle pareti laterali attraverso i colonnati che fiancheggiano la rampa. - Nella Chiesadi Sant'Andrea al Quirinale (1658-70) lo spazio ellittico diventa la scena dell’apoteosi del Santo titolare: la sua statua, fissata al frontone appare nell'atto di ascendere dall'altare verso la cupola. Tra i tardi capolavori di scultura emergono, inoltre:
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