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Situazione Italia e Germania dopo Prima Guerra Mondiale e ascesa fascismo, Dispense di Storia Contemporanea

La situazione dell'italia e della germania dopo la prima guerra mondiale, con particolare attenzione alla crisi economica italiana, alla marcia su fiume di d'annunzio e all'ascesa del fascismo in italia, nonché all'umiliazione della germania dopo la sconfitta nella guerra e alla successiva convinzione di avere nemici interni. Viene inoltre descritta la situazione che portò alla seconda guerra mondiale, con l'attacco giapponese a pearl harbor e la conseguente dichiarazione di guerra degli stati uniti.

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 01/02/2024

GiorgiaAlfano
GiorgiaAlfano 🇮🇹

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Scarica Situazione Italia e Germania dopo Prima Guerra Mondiale e ascesa fascismo e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA CONTEMPORANEA RIASSUNTO CAPITOLI 9-23 CAPITOLO 9. L’Italia liberale tra nazionalizzazione e modernizzazione 1861 = proclamazione del Regno d’Italia. Si formò un nuovo Stato nazionale che era diverso dai precedenti stati preunitari (esistenti prima dell’unità d’Italia), e che permetteva alla penisola italiana di stabilire un nuovo collegamento con gli altri stati d’Europa e ciò significava creare delle relazioni internazionali, trasformare sistemi economici e rielaborare culture politiche, pur attraversando la disomogeneità economico-territoriale composta da vincoli esterni e antagonismi interni. Per la costruzione di questo Stato nazionale c’era bisogno anche di processi di nazionalizzazione, coinvolgendo sempre più parte della popolazione nella vita nazionale e nella sua necessaria proiezione nel mondo. 1. Il completamento dell’unificazione e la questione romana Dopo essere rimasta orfana del suo leader, Camillo Benso conte di Cavour, morto il 6 giugno del 1861, la classe dirigente italiana aveva come compito il completamento dell’unificazione del Regno d’Italia e le opportunità della congiuntura internazionale permisero nel giro di un decennio di realizzare tale obiettivo, con l’acquisizione territoriale del Veneto nel 1866 e Roma nel 1870, parti della penisola che nel 1861 erano rimaste fuori dal nuovo Stato. In tale momento però, il governo italiano dovette garantire che l’unificazione fosse mantenuta nelle regioni meridionali, nelle quali si crearono numerose formazioni di guerriglieri filoborbonici, che a partire dall’inverno destabilizzarono l’Abruzzo, la Lucania e la Puglia. La rivolta fu contro il nuovo Stato che aveva chiesto uomini per l’esercito e introdusse le tasse, e questa si estese ai villaggi mentre i contadini si ribellavano contro i proprietari: un pericoloso mix di guerra civile, conflitto sociale e banditismo. Le autorità considerarono i gruppi armati come bande di briganti (da qui il termine “brigantaggio”) e affidarono la repressione all’esercito, ma ci furono molte migliaia di morti. Nel 1865 l’emergenza era conclusa e nello stesso anno Prussia e Italia avviarono trattative seguite dall’alleanza militare antiaustriaca, favorita da Napoleone III che voleva fomentare il conflitto austro-prussiano, convinto che la Francia ne avrebbe tratto vantaggio. Ma la guerra si risolse rapidamente grazie alla capacità militare dell’esercito prussiano; il contributo italiano (messo in ombra da due sconfitte, a Custoza in una battaglia di terra e a Lissa in uno scontro navale) fu soprattutto di tipo strategico perché costrinse l’Austria a impegnare delle truppe sul fronte meridionale. Con la conclusione della guerra ci fu un accordo diplomatico che stabilì che l’Austria cedesse il Veneto e Venezia a Napoleone III, il quale consegnò i territori all’Italia. In seguito, ci fu una normalizzazione dei rapporti tra Italia e Austria: con il riconoscimento del Regno da parte dell’Impero asburgico. Nel 1861, Cavour fece i suoi ultimi discorsi al Parlamento e dichiarò Roma come capitale d’Italia, ma la città era sotto la sovranità del papa, capo della Chiesa cattolica, il quale costituiva un’”internazionale” capacità di influenza a livello globale. Inoltre, Napoleone III con La Francia, assicurava al papa la presenza di una sua guarnigione militare a difesa di Roma, mentre Parigi restava il principale alleato del giovane Regno d’Italia. In Italia la Chiesa cattolica era profondamente radicata nella società: il mondo cattolico era esteso sia a livello popolare che all’interno della classe dirigente. Ma il rapporto tra il Regno d’Italia e il papa erano già estremamente tesi e i governi piemontesi nel 1848 si erano distinti per una politica ecclesiastica intenta a ridurre alcuni privilegi di cui godeva la Chiesa. Cavour aveva una ben determinata visione dei rapporti tra Chiesa e Stato, fondata sulla separazione tra le due istituzioni e il suo pensiero era sintetizzato da una formula separatista “libera Chiesa in libero Stato”, che mirava a una coesistenza. La violazione della sovranità dello Stato pontificio, in seguito anche con la spedizione militare del 1860 e l’annessione di Marche e Umbria, aveva reso le relazioni ancora più burrascose. Infatti, agli occhi di Pio IX, il Regno d’Italia era un usurpatore: anche perché il Papa si collocava in una posizione di rigido intransigentismo, e che con la pubblicazione nel 1864 del Sillabo (documento pontificio con cui si pronunciava la condanna degli “errori” del tempo), assumeva i caratteri di una opposizione alla società moderna. Due furono le iniziative militari prese dai democratici per conquistare Roma: alla guida di entrambe ci fu ancora Garibaldi ma in tutti e due i casi l’azione di gruppi armati si concluse come un fallimento. Nell’Agosto del 1862 con il primo tentativo, lo stesso Garibaldi fu ferito, mentre il secondo tentativo si compì nel 1867 dopo la cosiddetta “Convenzione di Settembre”. Una convenzione franco-italiana firmata a Parigi nel 1864 che prevedeva il ritiro delle truppe francesi entro due anni e da parte dell’Italia il rispetto delle frontiere dello Stato pontificio insieme all’impegno di trasferire la capitale da Torino a Firenze. Dopo il rifiuto di PIO IX (nono), le truppe italiane entrarono nel territorio dello Stato pontificio, e poi a Roma. Il 1° luglio 1871 la capitale si trasferì da Firenze a Roma e il conflitto tra Chiesa e Stato si inasprì ulteriormente. 1874= fu emanato il cosiddetto “non expedit” (in italiano, “non conviene”), ovvero l’indicazione della Santa Sede ai cattolici italiani di non partecipare alle elezioni politiche del Regno d’Italia, e in generale, alla vita politica nazionale italiana. 2. Stato e nazionalizzazione ci fu una vera e propria “pedagogia patriottica”, promossa dallo Stato con il coinvolgimento delle università e delle scuole, dell’editoria, degli ambienti artistici a cui venne affidato il compito di contribuire con opere di carattere monumentale o celebrativo; era stato proposto un insieme di miti e di riti che dovevano supportare una religione civile propensa a garantire la fedeltà dei cittadini allo Stato e ad alimentare la fede nella nazione. La monarchia fu uno dei punti importanti della definizione istituzionale dello Stato e per i processi di nazionalizzazione. L’Italia si dotò di una figura celebrativa e simbolica: quella del Re, con ricorrenze della famiglia reale celebrate come feste nazionali, quindi l’utilizzo della simbolica dinastica e anche l’anniversario dello Statuto albertino, furono elementi fondamentali del repertorio patriottico di temi a cui ricorrere per coinvolgere la popolazione nella vita nazionale del Regno d’Italia. N.B. Statuto albertino= Regno di Sardegna ai tempi dell’unificazione Il punto fondamentale dello statuto albertino divenne la Costituzione dello Stato nazionale, di cui il re era il vertice istituzionale. Il regime politico presentava una monarchia costituzionale, sebbene già nel periodo piemontese, soprattutto in seguito alla politica condotta da Cavour, esso avesse assunto i tratti di una monarchia parlamentare, ma tutte queste ambiguità costituirono un nodo irrisolto per lo Stato italiano, che si presentò più volte. Dopo l’unificazione il paese era gestito da una classe dirigente di uomini politici riconducibili alla famiglia politica liberale (il liberalismo è una dottrina politica ed economica che riconosce Prima guerra mondiale. L’Italia dovette accettare come alleato anche l’impero austro-ungarico, che fino a poco più di un quindicennio prima era stato il principale nemico dell’Italia e sotto cui la sovranità restavano ancora terre italiane. Quest’ultimo accaduto generò numerose proteste, soprattutto in quegli ambienti che si definirono “irredentisti”, proprio perché perseguivano la finalità considerata da loro stessi prioritaria, di lasciare all’Italia le regioni italiane rimaste sotto l’Austria. L’irredentismo divenne un movimento che anche a livello religioso, avrebbe mobilitato importanti settori dell’opinione pubblica urbana, soprattutto giovanile, in quanto da contrappunto alla politica estera in senso antiaustriaco. Il posizionamento dell’Italia in Europa era riaccodato alla proiezione verso il mare, iscritta nella stessa geografia della penisola; quindi, l’Italia è anche proiettata nel Mediterraneo. D’altronde gli italiani erano presenti e attivi in tutto il Mediterraneo fin dalla stagione degli Stati preunitari e proprio per questo la Francia aveva visto con contrarietà la formazione di tale Stato, rispetto al quale anche a seguito dell’unificazione manteneva una qualche diffidenza: d’altro canto, Londra aveva considerato la nascita del Regno d’Italia un fattore positivo in quanto fosse una limitazione per l’influenza francese. Proprio la proiezione marittima della penisola era a fondamento della scelta di mantenere un saldo legame con la Gran Bretagna, che costituiva un principio irrinunciabile della politica estera dello Stato italiano. Anche il Mediterraneo stava subendo un processo di ristrutturazione delle sue coordinate di riferimento con lo spostamento di Oriente e Occidente a un nuovo asse denominato nord-sud. 1869= Apertura del canale di Suez. Aveva provocato una riconfigurazione delle rotte e degli assi dell’intera area mediterranea. Al Levante si affiancava, e per certi versi si sovrapponeva, il Mezzogiorno: “Spingete lo sguardo verso mezzogiorno, piegando al Mediterraneo” scriveva ai giovani d’Italia nel 1859 Giuseppe Mazzini, per il quale la questione mediterranea era questione di “quella zona africana che appartiene al sistema europeo”. Negli Sessanta il lombardo Cesare Correnti nel corso del suo sforzo di dar vita alla Società geografica italiana, affermava che l’Africa li attirava invincibilmente. Il mediterraneo= Mare nostrum. La Tunisia non era più un’ambizione espansionista italiana e ci si dovette accontentare di mettere piede nel mar Rosso, dove stavano le “chiavi” del Mediterraneo, secondo il pensiero di Paolo Stanislao Mancini (ministro affari esteri 1881-1885) in ragione dell’apertura del canale di Suez. Nel 1882 venne ceduta al governo italiano la baia di Assab dalla compagnia Rubattino, e nel 1885 grazie all’appoggio dei britannici, il governo italiano organizzò una spedizione militare e occupò Massaua. Gennaio del 1887= nei pressi di Dogali, una colonna di cinquecento soldati italiani venne assalita da truppe etiopiche, così si preparò un corpo di spedizione di ventimila uomini da inviare da inviare in Eritrea come reazione a quanto avvenuto. Era iniziata l’espansione coloniale italiana. L’Italia si era collocata negli spazi europei e così si connetteva al mondo, in un periodo di ristrutturazione degli equilibri geopolitici. Anni Sessanta e Ottanta= ci furono dei processi di industrializzazione che resero indifferibile per l’Italia la sfida della modernizzazione. La collocazione dell’Italia nel mondo passava per la costruzione dello Stato nazionale, ma l’una e l’altra operazione non potevano realizzarsi se non si misuravano con le esigenze della modernizzazione del paese. Lo Stato liberale, che si era venuto disegnando durante il processo di unificazione, sebbene fosse il motore principale del processo di modernizzazione del paese, era a sua volta investito dall’onda di trasformazione da esso provocata. 1887= l’anno dell’adozione della tariffa protezionistica, dell’avvento di Crispi al governo come successore di Depetris, della disfatta di Dogali e della conferma della Triplice Alleanza come riferimento primario della politica estera del paese. Una crescita sensibile della produzione industriale, i cui ritmi di sviluppo dagli anni Ottanta erano sostenuti, era accompagnata da una grande crisi delle attività agricole provocata dalla “grande depressione”. Erano gli anni in cui nascevano alcune aziende industriali che avrebbero svolto un ruolo importante nel capitalismo italiano. Nel 1899 a Torino è stata fondata la Fiat. A livello internazionale si era registrato un calo dei costi delle materie prime, soprattutto del carbone, che aveva contribuito a favorire la nascita in Italia di una siderurgia nazionale. 1884= fondazione della Società italiana delle acciaierie, fonderie e altiforni di Terni che rappresentò un passaggio importante nel processo di formazione di un apparato produttivo industriale in Italia. Così, negli anni Ottanta lo Stato iniziò a giocare un ruolo decisivo nello sviluppo industriale. La nuova collocazione internazionale del paese, la stipula della Triplice alleanza e la presa in considerazione da parte dell’Italia di una qualche espansione coloniale, soprattutto dopo la “ferita” inferta dall’occupazione francese di Tunisi nel 1881, avevano spinto il governo ad attuare un intervento volto a sostenere il rafforzamento di un comportamento industriale siderurgico e meccanico in grado di garantire all’esercito e alla marina le forniture necessarie, senza dover ricorrere a produttori stranieri. Il passaggio successivo sulla via della modernizzazione fu quello della formazione di un sistema bancario in grado di sostenere lo sviluppo di un’economia industriale: le banche italiane avevano investito nel settore edilizio su cui avevano riversato capitali negli anni Ottanta, in presenza di una condizione di fragilità dell’industria italiana, in particolare del settore agrario. Tale situazione portò a una crisi generalizzata del sistema bancario italiano, ma nel 1893 lo scandalo della Banca romana rappresentò l’episodio emblematico, anche per le connessioni con il mondo politico. 1893= la fondazione della Banca d’Italia e la nascita di due nuovi istituti di credito (la Banca commerciale italiana nel 1894; Credito italiano 1895) rappresentarono la via d’uscita da questa condizione critica e costituirono anche un’innegabile modernizzazione all’interno del sistema bancario. La guerra commerciale con la Francia (voluta da Crispi nel 1887) ridimensionò il ruolo francese nell’economia italiana, mentre emergeva la complementarità tra sistemi italiano e tedesco che avrebbe costituito un perno dello sviluppo italiano fino alla Prima guerra mondiale. Dopo il 1887 i principali fenomeni di modernizzazione: industrializzazione, formazione classe operaia, emigrazione, reti commerciali hanno conosciuto il loro sviluppo, ma in particolare le realtà urbane che costituivano il reticolo urbano nelle regioni centro-settentrionali. Ne conseguì un’espansione delle attività terziarie, alimentato dalla crescita urbana e demografica. Tra il 1903-04 un milione di operai affluì per lavorare nelle grandi e medie imprese, e Milano e Torino in quegli anni assunsero il volto di metropoli industriali. I gruppi imprenditoriali conobbero un notevole incremento, frutto di un apparato industriale che andava irrobustendosi, e tra gli anni Novanta del XIX secolo e la Grande Guerra, l’universo delle professioni, che ottenne dallo Stato un’importante legittimazione, consolidò il proprio ruolo sociale. A ciò si accompagnò la diffusione di leggi e norme, che regolavano i diversi aspetti di vita pubblicata, privata, economica. Anche i modelli familiari si modificarono. L’affermarsi della villeggiatura, la diffusione della vacanza al mare, un nuovo stile di mondanità, lo sport, il turismo, furono altri aspetti di una cultura di massa che si affermava soprattutto tra le borghesie, ma anche in ampi strati delle classi popolari nel periodo tra le due guerre. L’inizio dell’industrializzazione aveva provocato la comparsa di nuove classi popolari urbane, i primi nuclei di classe operaia, che cominciarono a formarsi nell’Italia settentrionale negli anni Ottanta. Anche se la crisi agraria aveva contribuito all’impoverimento dei contadini, le campagne che avevano portato ad una crescita demografica, portarono ad un aumento del flusso di emigrazione che proseguì in maniera crescente fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. 1882= Milano, Partito operaio 1892= Genova, Partito dei lavoratori italiani (orientamento marxista) che, nel 1893 rinominato: partito socialista dei lavoratori italiani (PSI) **Giornale di partito, un quotidiano chiamato “AVANTI!” 1891= Milano, prima Camera del lavoro, che inaugurava la tradizione di organizzazione sindacale dei lavoratori italiani. Le istanze antisistema erano radicate in un’altra consistente porzione della società italiana, che si riconosceva in quella che è stata definita “opposizione cattolica”. Nel mondo cattolico italiano, dopo il Sillabo del 1864 e il non expedit nel 1871, era prevalso un orientamento di intransigentismo, cioè l’organizzazione nazionale dei laici cattolici, denominata Opera dei congressi fondata nel 1874. La questione cattolica aveva aperto una frattura all’interno della classe dirigente, in quanto il progetto dello Stato Liberale non era condiviso da tutti. 1891= Pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, che suscitò una mobilitazione nel mondo cattolico italiano. Le classi popolari erano quindi rappresentate da movimenti politici e culturali antisistema. La riforma elettorale promossa da Depetris nel 1882, e la conseguente pratica del trasformismo, furono un tentativo di allargare le basi sociali dello Stato liberale. Agli occhi dei suoi critici, il trasformismo era stato una “degenerazione” del sistema parlamentare. Nacque in quegli anni una forte corrente di opinione antiparlamentare, che avrebbe caratterizzato la vita politica italiana anche nei decenni seguenti. L’esperimento rudiniano era il tentativo (che si avvaleva del sostegno del re Umberto I) di contenere, con gli strumenti di un “governo forte”, le trasformazioni sociali entro limiti controllati, tali da non mettere in discussione il potere della classe dirigente. Febbraio 1899= battaglia parlamentare sostenuta da Luigi Pelloux. Provvedimenti eccezionali presentati al fine di rendere permanenti le misure di limitazione sulla libertà di espressione, di associazione, di riunione, di stampa e di sciopero, adottate per far fonte alla crisi sociale dell’anno precedente: fu l’ultimo tentativo di istituzionalizzare la svolta autoritaria. Dopo l’insuccesso dei candidati governativi alle elezioni politiche del giugno 1900, in cui ebbero un clamoroso successo i socialisti e l’estrema, l’assassinio del re per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, il 29 luglio 1900, segnò il tragico epilogo di un conservatorismo autoritario. Il sistema politico liberale aveva superato la crisi di fine secolo senza dover ricorrere a misure extraistituzionali. La modernizzazione stava procedendo e l’accelerazione del processo di industrializzazione rafforzava le regioni settentrionali, con lo sviluppo dei settori di punta. Lo sviluppo si concentrò in particolare sull’area del paese compresa tra Milano, Torino e Genova, il “triangolo industriale”. L’articolazione della società diventava più complessa, e ci fu la crescita della classe operaia. Alcuni fattori di arretratezza ebbero sensibili regressioni, ad esempio l’analfabetismo: in vent’anni era diminuito anche grazie all’espansione del sistema scolastico. Ormai era evidente che il movimento socialista non fosse una realtà né temporanea e né marginale. Nel 1900, durante il congresso di Roma ci fu un dibattito nel partito socialista tra intransigenti e riformisti, questi ultimi guidati da Filippo Turati e vincitori delle posizioni. Giolitti aveva dichiarato che per uscire dalla crisi il governo avrebbe dovuto conquistare la fiducia delle masse popolari. Ma l’antagonista del leader piemontese, Sidney Sonnino, già nel 1897 con il suo intervento voleva promuovere una politica che rafforzasse l’autorità dello Stato attorno a un governo forte in grado di compiere un’azione riformatrice in merito alle questioni sociali. Giolitti, invece, sostenne un’altra strategia politica, e proponeva la coalizione tra liberal- democratici, radicali e socialisti formatasi nella crisi di fine secolo. La strategia giolittiana riguardava i conflitti sociali, e Giolitti si dichiarò favorevole alla libertà di organizzazione sindacale e di sciopero in difesa dei legittimi interessi dei lavoratori. Lo Stato non doveva avere timore di lasciare libero corso al confronto tra lavoratori e datori di lavoro per la determinazione dei salari. L’apertura ad alleanze politiche con radicali e socialisti, ma anche con i cattolici, era parte integrante di una strategia che intendeva recuperare al sistema quelle forze sociali, culturali e politiche radicate nelle masse popolari. L’intervento di Giolitti nel dibattito alla Camera contribuì a far cadere il governo, sconfitto dal voto parlamentare. Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, condivideva la visione giolittiana e nominò presidente del Consiglio Zanardelli, che a sua volta affidò il Ministero dell’Interno a Giolitti. Il governo Zanardelli promosse un’opera di legislazione sociale, che tutelò il lavoro di donne e minori, e introdusse assicurazioni volontarie per la vecchiaia e obbligatorie contro gli infortuni. Mentre il programma giolittiano incontrò parecchie difficoltà nel corso della sua realizzazione. Le fratture di carattere sociale e territoriale, tra le quali andava assumendo sempre più spessore la questione meridionale, venivano spronate dall’impulso all’accelerazione ricevuto in quegli anni dall’industrializzazione del paese, concentrata prevalentemente nella zona settentrionale, con l’effetto di aggravare gli squilibri sociali e geografici. Tali dinamiche avevano un riflesso sulla collocazione delle forze politiche: all’interno del partito socialista e del movimento sindacale (1906= fondazione Confederazione generale del lavoro) l’alternanza di opzioni riformiste e intransigenti o massimaliste non permetteva a Giolitti di contare su un appoggio stabile di quel partito. Egli, infatti, durante la lunga esperienza di governo (1903-1914, salvo alcuni intervalli) ebbe la capacità di creare alleanze volte a coinvolgere i riformisti dell’estrema (quindi radicali e socialisti) a coalizioni che si rivolgevano ai moderati, anche con un sostegno da parte dell’elettorato cattolico: mondo in cui emergeva una corrente clerico-moderata, favorevole ad alleanze con i liberali al fine di contrastare i socialisti. Giolitti era bravo a gestire le competizioni elettorali grazie a quegli strumenti (in particolare i prefetti) con il quale il governo era in grado di intervenire a livello locale per sostenere l’elezione del candidato ministeriale e garantirsi la sua fedeltà. Questo era il modo con cui Giolitti cercava di realizzare il suo programma politico. L’obiettivo restava quello di inserire le nuove forze politiche e le masse popolari nel sistema liberale, così da arrivare ad un nuovo rapporto tra Stato, politica e società. Da Giungo 1906 a dicembre 1909= Giolitti fu a capo del suo “lungo ministero”. In questi anni, in cui l’egemonia politica di Giolitti (definita dagli avversari “dittatura parlamentare”) raggiunse il suo apice, ed emerse un radicato anti-giolittismo, diffuso particolarmente negli ambienti intellettuali. Era una manifestazione della crisi dello Stato liberale di fronte al necessario passaggio a un sistema politico che si adatta alla nuova società di massa. In Italia si era manifestato un fenomeno nuovo, quello di un ceto di intellettuali, presentatosi con un suo profilo autonomo e come antagonista alla classe politica, nel segno di un divorzio tra cultura e politica. 1907= La crisi finanziaria mondiale che provocò un arresto nello sviluppo e un’intensificazione della concorrenza internazionale. Essa rappresentò nel corso dell’età giolittiana, una frattura che impresse un’accelerazione alla crisi del sistema liberale e ne derivarono da una parte, l’irrobustirsi di fenomeni di reazione antioperaia e antisocialista, con tendenza all’espansionismo e all’imperialismo, e dall’altra parte una radicalizzazione delle posizioni nel Partito socialista. La crisi internazionale suscitata dall’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1908 fu un alto punto di notevole rilevanza nelle vicende italiane. Dopo l’atto unilaterale di Vienna, le diverse correnti nazionaliste diedero inizio al processo che condusse alla nascita di una forza politica dichiaratamente nazionalista. La “scoperta dell’imperialismo”, a cavallo del nuovo secolo, formò una “professionalità imperialista”, attenta agli studi coloniali, navali, sociologici e giuridici. L’imperialismo appariva come un segno di modernità per un paese che andava industrializzandosi e modernizzandosi, ma che restava ancora in misura agricola, quale era l’Italia. Ma una politica imperialista era ritenuta necessaria perché l’Italia non restasse esclusa dai benefici della competizione internazionale per la conquista di colonie e mercati. La guerra di Libia intrapresa da Giolitti nel settembre 1911, dopo i vari accordi con le principali potenze europee, si inseriva in questo clima culturale e nell’atmosfera di un orgoglio nazionale e le celebrazioni del cinquantenario dell’Unità, svoltesi nella metà del 1911, avevano confermato e contribuito a consolidare la connessione nazionale. Ma la guerra libica aveva contribuito a rendere più confusa e irrequieta la situazione politica, con l’instaurazione di processi politici che il sistema giolittiano controllava a fatica. D’altra parte, le istanze del quarto ministero Giolitti (durò da Marzo 1911 a Marzo 1914) provocarono una reazione negativa nei gruppi in cui gli interessi erano stati colpiti dal progetto di Legge di un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita proposto dal ministro Francesco Saverio Nitti. Contro questo progetto governativo si creò una coalizione che comprendeva le compagnie di assicurazione, gruppi finanziari, Camere di commercio, i settori liberal- conservatori della Camera e il movimento antiprotezionista. La difesa degli interessi economici minacciati dal prospettato monopolio si accompagnava a un accesso anti-giolittismo e all’opposizione alla contemporanea proposta del governo di introdurre il suffragio universale. La guerra italo-turca (approfondimento) La conquista della Libia, ovvero della Tripolitania e della Cirenaica, entrambe sotto sovranità ottomana, era stata un’aspirazione della politica estera italiana dagli anni Ottanta dell’Ottocento, quando si considerava lontana la conquista della Tunisia. Le mire italiane erano dirette alla Libia perché a inizio Novecento era un territorio ancora non controllato da potenze europee. Pur restando fedele alla Triplice Alleanza, l’Italia siglò un accordo italo francese (1901), uno italo-britannico (1902), uno italo- austriaco (1902) e uno italo-russo (1909): in essi l’attenzione per il Mediterraneo era prioritaria. A metà settembre del 1911 Giolitti, presidente del Consiglio dei ministri, assieme ad Antonino Paternò Castello di S. Giuliano, suo ministro degli Esteri, presero la decisione, insieme al re Vittorio Emanuele III, di procedere con la conquista della Libia. 29 settembre= Italia dichiarò guerra all’Impero ottomano e iniziarono le operazioni militari. L’invasione italiana incontrò una dura resistenza di gruppi armati ottomani, ma nel novembre il re firmò il decreto di annessione di Tripolitania e Cirenaica e accolse le richieste dei negoziati: a Ouchy, nei pressi di Losanna, il 15 ottobre 1912 fu firmato il trattato di pace. Veniva riconosciuta l’annessione della Libia all’Italia. (fine) La riforma elettorale, promossa da Giolitti nel 1912, introdusse il suffragio universale maschile e fu un passo importante per un adattamento del sistema alle nuove condizioni della società. Ma se, da una parte era un’innovazione importante, d’altra parte venne a contemplare il quadro di crisi del sistema giolittiano, rompendone gli equilibri. La riforma elettorale aveva suscitato nei liberali un senso di profondo turbamento, e non erano poche le voci che accusavano Giolitti di averli mandati allo sbaraglio, nella convinzione comune che il partito liberale fosse messo a dura prova e perciò occorreva “rinsaldare le file”. Le elezioni segnarono anche i cattolici, sebbene ancora non organizzati in un partito, come forza politica di primo piano: il loro appoggio era decisivo per contrastare i socialisti sul piano della mobilitazione del voto popolare. L’accordo che il presidente dell’Unione elettorale cattolica (il conte Ottorino Gentiloni) siglò con i candidati ministeriali, ai quali offrì l’appoggio del voto cattolico in cambio dell’impegno a non sostenere progetti di legge contrari al magistero della Chiesa, provocò la sospensione del non expedit in 330 collegi e permise ai candidati governativi di ottenere la maggioranza. La vittoria elettorale, ottenuta anche grazie scena internazionale avrebbero potuto innescare, in caso di crisi, una catena di reazioni tali da condurre a una guerra generalizzata. In tale cornice, alcune tensioni relative a questioni extraeuropee acquisirono i connotati di un confronto tra le due alleanze, come fu nel caso delle crisi marocchine del 1905 e 1911, che videro Francia e Germania sfidarsi riguardo al controllo sul Regno magrebino, che nel 1912 divenne un protettorato francese. Nel frattempo, sia a Londra che a Parigi prevalevano posizioni germanofobe, dettate anche dal revanscismo (revanscismo è l’atteggiamento politico di rivincita contro altri Stati, specie dopo una sconfitta militare) orientato al ritorno dell'Alsazia e della Lorena da strappare al controllo tedesco, e alimentate anche dall'atteggiamento spesso provocatorio della Germania e del suo re Guglielmo II. D'altro canto, la polarizzazione del sistema europeo predisponeva i leader della Triplice Intesa a un'attitudine di noncuranza nei confronti di esigenze e interessi tedeschi, esasperandone così percezioni e reazioni. Cresceva quindi un processo di reciproca diffidenza e incomunicabilità tra i due schieramenti. Il progressivo logoramento dei rapporti tra i governi avveniva in un contesto generale di aumento della militarizzazione degli stati: la lotta per il potere mondiale induceva a potenziare gli eserciti, grazie anche al rinnovamento della tecnologia militare, che accresceva la capacità distruttiva di eserciti e marine da guerra. L'inasprimento delle tensioni a partire dalle crisi marocchine del 1911 e dalle guerre balcaniche favori l'approvazione di piani di crescita delle spese militari: la ricerca di sicurezza portava ogni paese ad accrescere il proprio potenziale bellico al fine di intimorire i possibili avversari, col risultato di generare un diffuso atteggiamento di reciproca diffidenza. Le ristrutturazioni che i diversi eserciti subirono in quegli anni condussero a una forte concentrazione di potere nei vertici militari. Era un fenomeno che si registrava anche per quanto riguardava la politica estera, nel cui ambito le riunioni tra i vertici militari dei paesi membri delle due alleanze influivano sulle decisioni politiche. In questo contesto, la Germania avanzò un piano di potenziamento della flotta, con l'obiettivo di ridurre il divario tra flotta tedesca e flotta britannica. Ma questo programma tedesco rappresentò una minaccia relativa per la Gran Bretagna, che restò senza fatica la potenza più consistente finché, nel 1913, il comando navale tedesco non rinunciò formalmente alla gara per il riarmo navale. 2. Le accelerazioni balcaniche. Le regioni in cui si concentrarono le maggiori tensioni sullo scenario europeo furono i Balcani. A rendere la situazione più instabile contribuì la crescente agitazione nazionalista dei popoli balcanici, che si concentrò principalmente sulla Macedonia: qui venivano a confliggere le mire dei vari movimenti irredentisti balcanici che rivendicavano l'appartenenza di quella regione al loro progetto nazionale. In Serbia, si rafforzarono le posizioni di nazionalismo: il principale obiettivo doveva essere quello dell'unificazione di tutti i serbi all'interno di un unico stato. A minare la stabilizzazione intervenivano anche i processi dell'impero ottomano: la Rivoluzione dei Giovani Turchi (movimento che costrinse il sultano Abdelhamid II a ripristinare la costituzione ottomana del 1876 e a inaugurare una politica multipartitica all'interno dell'Impero) rappresentò un segnale colto immediatamente dalle province balcaniche. La Bulgaria si dichiarò indipendente, e la Bosnia- Erzegovina si unì all'impero austroungarico, rompendo l'equilibrio sancito dal congresso di Berlino. Quest'azione riaccese la rivalità austro-russa, e anche il governo italiano tentò di approfittarne richiedendo un "compenso" all'Austria, ma senza risultato. La crisi si concluse nel 1909 quando la Germania minacciò un intervento diretto: ma l'accordo austro-russo era definitivamente infranto e si riaccesero le competizioni tra i due imperi. L'annessione della Bosnia-Erzegovina costituì anche un passaggio di radicalizzazione nazionalista in tutta Europa: crebbe soprattutto il nazionalismo serbo, che si orientò verso la Bosnia contro l'impero austriaco (nemico della Serbia), mentre si rafforzavano i legami del Regno Balcanico con Francia e Russia. Nacquero in Serbia, dove aleggiava un forte irredentismo, nuove organizzazioni di massa nazionaliste (come la Difesa Nazionale), e anche un'organizzazione clandestina terroristica (che era contro la dinastia regnante) nota come la "mano nera". Dopo il 1908 i Balcani entrarono in una spirale di conflitti e di guerre, in una deriva favorita dall'impresa coloniale del governo italiano in Libia. La conquista coloniale italiana sfociò in una guerra italo-turca: tale guerra inflisse una grande umiliazione alla Sublime Porta (è uno degli elementi architettonici più noti del Palazzo di Istanbul, antica residenza del sultano ottomano. L'espressione, nel corso dei secoli, è stata usata come metonimia per indicare il governo dell'Impero ottomano). Mentre veniva meno il supporto britannico ai turchi ottomani, a Istanbul aumentava la presenza tedesca, che aveva anche molta presa sull'ammodernamento dell'esercito ottomano e su importanti progetti infrastrutturali. Il colpo arrecato dall'Italia all'integrità dell'Impero ottomano non poteva restare senza ripercussioni nei Balcani, dove fornì l'occasione per un'iniziativa antiturca: gli Stati balcanici formarono una Lega, favorita dalla Russia e comprendente Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia, con l'obiettivo di espellere gli ottomani dalla penisola. La Lega Balcanica diede inizio a una guerra contro la Sublime Porta, che costituì una disfatta per i turchi. L'impero ottomano rinunciava così a tutti i suoi possedimenti in Europa. Tuttavia, gli alleati della Lega (Serbia, Bulgaria, Montenegro, Grecia) avevano mire confliggenti, particolarmente sulla Macedonia, contesa tra Bulgaria, Serbia e Grecia. Queste divergenze sfociarono nella seconda guerra balcanica, che si concluse con la pace di Bucarest con la disfatta della Bulgaria, sconfitta dall'alleanza tra Serbia, Romania e Impero ottomano e Grecia. Fu la Serbia a conseguire i maggiori benefici dalle due guerre, fin quasi a raddoppiare superficie del territorio e popolazione. I conflitti balcanici furono caratterizzati da una violenza inedita, soprattutto verso i civili: le violenze generalizzate provocarono migrazioni di popolazioni tra i vari Stati balcanici e soprattutto l'esodo in massa della popolazione musulmana verso il territorio ottomano. Fu firmata tra Bulgaria e Impero ottomano la prima convenzione internazionale che prevedeva uno scambio di popolazione. Gli Stati balcanici uscirono dai due conflitti in una condizione di precarietà per le gravi perdite subite e il dispendio di risorse. La sempre più stretta convergenza di interessi tra Russia e Serbia, spina nel fianco dello stato asburgico, determinava un'asimmetria tra Impero russo e Impero austro-ungarico, non disponendo quest'ultimo di un alleato che fosse in una posizione di analoga insidia nei confronti della Russia. L'Austria doveva riformulare i termini della sua politica balcanica: l'Impero asburgico si ritrovava così sempre più isolato, mentre la crescita dei nazionalismi degli Stati della regione si riverberava inevitabilmente all'interno dell'Impero. La nascita dell'Albania fu fondamentale per la nuova politica austriaca, perché impediva un accesso al mare alla Serbia. Inoltre, le guerre avevano causato un inasprimento dei rapporti tra Russia e Francia. Quest'ultima aveva sempre evitato un coinvolgimento nelle questioni balcaniche, ma tra il 1912 e il 1913 registrò un cambiamento di politica tanto da far parlare di "rinascita nazionalista": la linea di Poincaré (repubblicano moderato e laico), basata su un intransigentismo antigermanico, rese la politica francese più aggressiva: ne derivò un maggior impegno delle spese a favore dell'esercito, e intensa fu anche l'attività dei francesi per rafforzare la cooperazione militare nel quadro dell'intesa anglo-francese e dell'alleanza franco-russa. Fu l'Austria a ritrovarsi nelle condizioni di maggiori difficoltà: la Serbia diventava lo stato più potente dei Balcani e non nascondeva l'ambizione di unire gli slavi del sud sotto la sua egemonia. Era una minaccia all'integrità dell'Impero, dove erano presenti sloveni, croati e minoranze serbe, il cui irredentismo veniva alimentato dalla rete di associazioni più o meno clandestine. In quegli stessi anni, nei vari circoli intellettuali si diffondevano nazionalismo e idee di guerra dalla funzione purificativa: si trattava spesso di una reazione al disorientamento di fronte alle sfide di una modernità che trasformava la società troppo velocemente. Nasceva una sensibilità internazionalista: gli internazionalisti avevano alimentato lo sviluppo di un pensiero e di un movimento internazionale pacifista. Non si era di fronte a una situazione che dovesse necessariamente condurre a un conflitto generalizzato. 3.Come scoppia una guerra. In questo contesto il 28 giugno 1914, a Sarajevo, il serbo irredentista Gavrilov Princip (associato all'organizzazione della "Mano Nera") assassinò l'arciduca Francesco Ferdinando e la sua consorte. L'obiettivo era impedire il progetto dell'arciduca di trasformare l'impero in una monarchia trialistica in cui il terzo popolo fosse costituito dagli slavi, perché rischiava di rovinare il progetto espansionista del popolo serbo. Il governo serbo era estraneo al complotto: non si voleva scatenare una guerra con l'Austria date le scarse risorse del paese dopo le guerre balcaniche. L'attentato provocò uno shock in tutta Europa e una prima reazione di solidarietà all'impero asburgico. Vienna scelse di intraprendere un'iniziativa decisa contro la Serbia, senza escludere il ricorso a una guerra. Berlino sostenne subito la causa del suo alleato: gli scenari che si ritenevano possibili erano una guerra contro la Serbia, o di un intervento russo da parte dei serbi ma senza l'appoggio di Francia e Inghilterra. La Germania, quindi, non mirava ad un conflitto generalizzato, ma era disponibile a seguire una strategia che contemplasse un livello di rischio di guerra considerato accettabile. Era una strategia che si basava su valutazioni errate e che rappresentò la principale responsabilità del governo tedesco nel processo che condusse allo scoppio della Grande Guerra. Il 23 luglio Vienna presentò a Belgrado un ultimatum con scadenza di 48 ore. L’accusa rivolta era di aver tollerato le organizzazioni segrete che avevano organizzato e compiuto l'attentato ed erano presentate richieste che attenevano principalmente alla repressione dell'irredentismo serbo e alle indagini per arrivare all'individuazione delle persone coinvolte nell'attentato. Le richieste di accettare la collaborazione degli organi austro-ungarici nell'azione repressiva da compiere nei confronti del movimento irredentista e di ammettere il controllo delle indagini sull'attentato da parte di organismi delegati da Vienna vennero considerate inaccettabili perché andavano a ledere la sovranità della Serbia. Il governo austro-ungarico aveva pensato e scritto l'ultimatum non tanto come ultima possibilità per arrivare a un accordo pacifico, quanto come una dichiarazione intransigente della propria posizione, ciò che presupponeva il probabile rifiuto serbo e quindi l'avvio di un conflitto. La Serbia si mostrò accomodante in quasi tutte le richieste, eccetto quelle che minavano la sovranità dello stato. La risposta fu insufficiente per l'Austria, e nonostante i tentativi britannici di organizzare una conferenza delle potenze (i britannici non si rivolsero Anche le importazioni da paesi neutrali come la Danimarca e la Svizzera si contrassero. In Germania e Austria-Ungheria si diffusero fame e malnutrizione. Tedeschi e austriaci erano consapevoli di queste difficoltà, ma scelsero di forzare l'andamento della guerra, concentrando forze e armamenti: gli austriaci realizzarono un'offensiva sul fronte italiano (Caporetto) e i tedeschi su quello occidentale con la battagli di Verdun (dove vennero utilizzate per la prima volta truppe da assalto ed armi automatiche, che resero questa battaglia la più sanguinosa della Prima guerra mondiale), ma la Francia seppe resistere all'assalto. Sul fronte orientale i russi sferrarono un attacco agli austriaci che, indeboliti dal conflitto italiano, resistettero solo grazie al sostegno tedesco, e ciò impedì ai tedeschi di usare tutte le truppe per conquistare Verdun. Sul fronte orientale l'offensiva dell'esercito russo si concentrò sul settore controllato dagli austro-ungarici. Le armate asburgiche erano state indebolite dallo spostamento di truppe sul fronte italiano e per resistere all'attacco dei russi il capo di Stato maggiore Conrad fu obbligato a rivolgersi all'esercito tedesco, che gli permise di contenere l'offensiva russa. Gli austriaci persero così la loro autonomia militare e furono ancor più soggetti all'egemonia strategica della Germania. Intanto il fronte orientale si collegava a quello balcanico con l'ingresso in guerra a fianco dell'intesa della Romania, che abbandonava così la neutralità e invadeva la Transilvania dichiarando così guerra all'impero austro ungarico. I rumeni furono sconfitti, e i russi ne occuparono il territorio. Al termine del 1913 la situazione in Europa appariva quindi a favore degli imperi centrali. 5.L’Italia in guerra. Allo scoppio della guerra l'Italia era legata a Germania e Impero austro-ungarico dalla Triplice Alleanza: mentre con la Germania, infatti, si era formato uno stretto rapporto, rimanevano le antiche rivalità con l'Austria. Motivi storici legati al processo risorgimentale si univano alla questione della terra irredente, rappresentata dal binomio di Trento e Trieste. Ad aumentare l'astio verso Vienna era stata anche la crisi bosniaca. La Triplice Alleanza aveva un carattere difensivo e obbligava i suoi contraenti a intervenire solo se uno dei membri fosse stato aggredito. Non era questo il caso della guerra scoppiata nel 1914: era stato l'Impero austro- ungarico a lanciare un ultimatum alla Serbia e la Germania a lanciarne uno a Francia e Russia. La scelta del governo italiano, presieduto da Salandra, fu di dichiarare la neutralità dell'Italia. Fu un atto pragmatico volto a prendere tempo. Da quel momento in poi si svolse un lungo dibattito politico tra neutralisti e interventisti. I neutralisti comprendevano le principali forze politiche che rispondevano al sentire profondo del paese, dove erano diffusi sentimenti contrari all'eventuale entrata in guerra. Ne facevano parte i socialisti, e anche la Chiesa preferiva non farsi coinvolgere in un conflitto che vedeva le grandi potenze cattoliche schierate l'una contro l'altra. Infine, a sostenere la neutralità era anche Giolitti, che disponeva della maggioranza parlamentare. Lo schieramento interventista era più variegato: vi si trovavano gli irredentisti e i repubblicani, desiderosi di sconfiggere l'impero austriaco. Sostenevano queste posizioni anche alcune correnti socialiste (tra cui l'ex-direttore del quotidiano "Avanti!", Benito Mussolini, che fondò poi il giornale interventista "Il popolo d'Italia), e non mancavano i nazionalisti che da sempre aspiravano alla guerra, e le loro aspirazioni si riflettevano in numerosi ambienti intellettuali e artistici come il Futurismo. Si aggiunsero a questo fronte anche gli oppositori di Giolitti. Nei dieci mesi di neutralità gli interventisti riuscirono a imporre la propria visione dal punto di vista mediatico, con il sostegno del "Corriere della Sera", l'ampia adesione di intellettuali, e i numerosi comizi in piazza: la conquista dello spazio politico fu una mossa vincente. Nel frattempo, il ministro degli esteri Sonnino portò avanti una complessa partita diplomatica, rifiutando i tentativi di mediazione della Germania (che chiedeva la neutralità dell'Italia in cambio di alcuni territori dell'Austria) e firmando un accordo segreto con l'Intesa: il 23 aprile 1915 venne firmato il patto di Londra, che prometteva all’Italia la conquista delle terre irredente (Trentino, Trieste, Istria e Dalmazia) in cambio dell'entrata in guerra del paese nel mese successivo. L'Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915, con un esercito (capeggiato dal generale Cadorna) molto numeroso ma male equipaggiato. Si aprì un nuovo fronte di guerra, quello italiano, stabilizzatosi lungo il confine dal Trentino all'Adriatico. Gli austriaci, pur in inferiorità numerica, poterono sfruttare al meglio alcuni fattori di superiorità: le ideali postazioni difensive che costringevano gli italiani a compiere i loro attacchi in salita ben visti dagli avversari e sotto il fuoco delle artiglierie che colpivano dall'alto, mentre le truppe asburgiche potevano fare i loro movimenti senza essere avvistate; e avevano una disponibilità di armi migliori. Nel 1913 un'offensiva austriaca chiamata Strafexpedition (in italiano spedizione punitiva; è considerata di origine popolare per sottolineare la presunta volontà dell'Austria di punire l'Italia per l'entrata in guerra a fianco dell’Intesa) costò all'Italia gravi perdite, sia umane che territoriali. Tuttavia, lo sforzo compiuto aveva logorato le truppe austriache, che furono costrette a ritirarsi su una linea maggiormente idonea alla difesa. In seguito a questa sconfitta italiana avvenne un cambio di governo: Salandra fu sostituito da Boselli: la nuova compagine governativa comprendeva anche democratici e cattolici. Il generale Cadorna decise di partire all'offensiva, che colse gli austriaci di sorpresa, e anche grazie ai nuovi armamenti gli italiani conquistarono Gorizia. Il maggio radioso (approfondimento) La dichiarazione di guerra fu preceduta da un’intensa mobilitazione di piazza tra il 13 e il 20 maggio 1915: le “radiose giornate”, come furono denominate dagli interventisti. Il 5 Maggio, a Quarto (vicino Genova), nel luogo da cui era partita la spedizione guidata da Garibaldi, fu inaugurato un monumento ai Mille: il tono della cerimonia, fu di esaltazione patriottica; l’oratore ufficiale fu D’Annunzio, il “poeta vate” (vate è colui che guida la folla, il popolo.). Il clima appariva quello della vigilia della dichiarazione di guerra. La situazione però sembrò capovolgersi quando il 9 maggio rientrò a Roma Giolitti (sebbene i lavori parlamentari fossero stati sospesi il 23 marzo). Egli era fautore di una politica neutralista, volta a conseguire mediante trattative con Berlino e Vienna concessioni territoriali. Il pericolo che il Parlamento riprendesse l’iniziativa, in mano fino ad allora al governo e agli interventisti, sembrava mettere in discussione l’entrata in guerra. Giolitti divenne l’obiettivo di violenti attacchi giornalistici. Il 13 maggio Salandra presentò le dimissioni. La notizia scatenò manifestazioni interventiste nelle città di quasi tutto il paese. La sera stessa, a Roma, D’Annunzio pronunciò in piazza del Campidoglio un discorso che incitava la folla alla violenza per impedire che “la Patria si perda”. I suoi discorsi dettero il tono alla mobilitazione dei giorni seguenti: occorreva imporre con forza la “volontà della nazione”, mentre si delegittimava apertamente il Parlamento. Nelle consultazioni con Vittorio Emanuele III Giolitti decise di fare un passo indietro, dopo essere stato messo a parte del patto di Londra che impegnava alla guerra non solo il governo anche il sovrano. Il 16 maggio il re respinse le dimissioni di Salandra. Il 20 il Parlamento, sotto la pressione degli interventisti, approvò la decisione dell’entrata in guerra. Il fronte interventista nonostante fosse minoritario nel paese, ebbe il sopravvento. Risultò vincente una strategia tesa alla conquista della piazza, con metodi innovativi di propaganda e azione, senza esclusione del ricorso alla violenza. Il richiamo alla guerra aveva rappresentato quasi “una costante”, “psicologica e ideologico-politica, esistenziale e sociale”. 6.una guerra mondiale. La guerra acquisì presto un profilo mondiale, a causa degli imperi coloniali (sfruttati per riserva di reclute e lavoratori, o proprio come luoghi di combattimento) e dell'ingresso in guerra di altre potenze extraeuropee. La guerra fu combattuta prevalentemente in Europa, ma non mancarono fronti in altri continenti. Nell'agosto 1914 scese in campo l'impero ottomano al fianco degli imperi centrali, attaccando la Russia nel mar Nero. Lo zar reagì con una spedizione (per togliere all'impero il controllo degli stretti Dardanelli e Bosforo) attraverso un'azione militare a Gallipoli, che però fallì. Nel dicembre 1914 l'impero ottomano attaccò i russi sul Caucaso, subendo una pesante sconfitta: altre due offensive russe ridussero il territorio controllato dai turchi. Un altro fronte si aprì in Iraq, dove gli ottomani respinsero un attacco britannico: meno fortuna ebbero invece nel tentativo di indurre la Persia a scendere in campo a favore degli imperi centrali. I britannici, infatti, fomentarono i sentimenti antiturchi e le rivolte arabe conquistando Baghdad e Gerusalemme. Con l'accordo di Skies-Picot, inglesi e francesi si spartirono i territori dell'impero ottomano. Contemporaneamente gli inglesi si impegnavano a favorire la realizzazione di uno "stato ebraico" in Palestina. In Asia il Giappone era già legato all’Inghilterra, che intendeva mantenere i suoi interessi economici e commerciali in Cina, minacciata da una squadra navale tedesca. Londra richiese quindi l'intervento di Tokyo, che ne approfittò per allargare la sua influenza di dominio nel Pacifico. Nell'agosto 1914 il Giappone dichiarò guerra alla Germania, e in ottobre aveva già conquistato numerosi possedimenti tedeschi. Anche Nuova Zelanda e Australia sferrarono molti colpi alla Germania. L'obiettivo principale di Tokyo, tuttavia, era la Cina: a settembre un corpo di spedizione giapponese sbarcò a Shandong (in concessione tedesca). Il contingente tedesco si arrese ai giapponesi. Negli anni seguenti il Giappone affermò la propria egemonia sulla Cina con le cosiddette "ventuno richieste", di cui solo sedici furono approvate: imponeva così la sua egemonia su tutti gli aspetti della politica cinese. In questo modo, pur rimanendo formalmente neutrale, la Cina sostenne lo sforzo bellico dell'Intesa vendendo armi e inviando operai. In questo modo il Giappone si poneva nel Pacifico in una prospettiva potenzialmente conflittuale con gli Stati Uniti: la Grande Guerra, quindi, si inseriva pienamente nelle dinamiche della politica internazionale. La guerra nei mari assunse così dimensioni globali: la squadra navale tedesca, dopo l'intervento del Giappone, si rifugiò in Cile (paese dal governo filogermanico) e affrontò vittoriosamente le navi da guerra britanniche a Coronel, ma fu poi sconfitta alle isole Falkland. Nelle guerre sui mari faceva la sua comparsa una nuova arma: il sommergibile, usato molto dai tedeschi. La guerra raggiunse anche l'Africa, dove erano presenti territori tedeschi. Qui il conflitto che durò più a lungo fu quello dell'Africa Orientale Tedesca (oggi Burundi, Tanzania, Ruanda). Il contingente tedesco di difesa, infatti, resistette strenuamente agli attacchi fino alla fine della guerra, quando si arrese imbattuto: erano stati coinvolti nel conflitto inglesi, francesi, portoghesi, sudafricani, indiani e belga. La guerra in Africa Orientale era dunque un condensato del carattere globale della guerra, una guerra di generali, mentre i punti auspicabili erano progetti geopolitici. Uno dei punti obbligatori era l'istituzione della Società delle Nazioni per risolvere i conflitti pacificamente. Wilson aveva un approccio idealistico diverso da quello britannico e francese, che criticavano e ironizzavano sulle sue idee. Nel frattempo, Gran Bretagna e Francia cercavano di affrontare la minaccia tedesca in modo diverso. Alla fine, il Senato americano rifiutò di ratificare il trattato di Versailles, mettendo fine all'intesa transatlantica che aveva portato alla vittoria della guerra. 2. “la vittoria (non mutilata)” L'Italia aveva una posizione particolare dopo la Prima Guerra Mondiale. Pur essendo una potenza vincitrice, era considerata come l'ultimo tra i Grandi. Tuttavia, il leader politico Orlando e il ministro degli esteri Sonnino sprecarono l'opportunità di influenzare la conferenza di pace per vari motivi, tra cui la concentrazione esclusiva sulle rivendicazioni territoriali, la mancanza di status internazionale e gli errori dei leader della delegazione. Inoltre, la vittoria militare non portò agli esiti geopolitici desiderati: l'Italia voleva conquistare le "terre irredente" e aumentare la propria influenza nel Mediterraneo, ma si trovò invece a dover affrontare le turbolenze dei Balcani e il risentimento tedesco. La linea negoziale italiana a Parigi era contraddittoria, associando rivendicazioni basate su un patto segreto degli alleati in contrasto con i principi di Wilson e una rivendicazione etnica riguardante Fiume, che era contestata dalle potenze europee. Quando il presidente Wilson si rivolse direttamente agli italiani per bypassare la resistenza di Orlando, quest'ultimo tornò in patria acclamato per non aver ceduto alle pressioni straniere. Tuttavia, per non essere esclusi dal trattato di pace imminente, Orlando tornò presto a Parigi. Infine, il governo italiano firmò il trattato di Saint-Germain-en-Laye che assegnava all'Italia il superamento dei confini alpini. Successivamente, il poeta D'Annunzio occupò Fiume con una milizia ribelle, ma l'impresa fu interrotta dopo sedici mesi da Giolitti. Con il trattato di Rapallo, l'Italia ottenne gran parte del litorale austriaco, ma Fiume divenne un'entità indipendente. Nonostante ciò, il mito della "vittoria mutilata" di D'Annunzio persisteva. 3.il caso Germania e le sue ripercussioni americane Durante i sei mesi di negoziati che portarono alla pace di Versailles, emersero le differenze tra i paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale. La Germania, ora Repubblica di Weimar, fu costretta a cedere tutte le sue colonie e ad accettare la responsabilità della guerra. Non le fu permesso di partecipare alla Società delle Nazioni e dovette subire un disarmo quasi totale e pesanti riparazioni. Tra le perdite territoriali, la Germania dovette restituire vari territori alla Polonia e alla Francia. Nonostante la diminuzione delle sue dimensioni, la sua posizione centrale nel continente e la scomparsa degli imperi russo e austriaco le conferivano un potenziale potere. Questa potenza virtuale, combinata con il risentimento effettivo del nazionalismo tedesco, fornirono le basi per il ritorno di Berlino sulla scena mondiale. Il caso tedesco dimostrò l'incoerenza e l'inapplicabilità del principio wilsoniano dell'autodeterminazione: molti dei territori persi dalla Germania erano abitati principalmente da tedeschi. L'idealismo di Wilson dovette cedere il passo agli interessi pragmatici degli imperi vincitori. Il rifiuto del Senato americano di ratificare il trattato di pace e l'istituzione della Società delle Nazioni ebbero un impatto sulla pace di Versailles e sul futuro rapporto tra Germania e le potenze vincitrici. La grande organizzazione internazionale non fu fondata e nell'opinione pubblica americana la guerra segnò una spaccatura che orientò le relazioni di potere tra gli Stati Uniti e l'Europa, con un'attenzione crescente verso il Regno Unito. 4. la questione nazionale nell’Europa centro-orientale. Dopo la Prima Guerra Mondiale, l'Europa centro-orientale si trovò in difficoltà nel periodo post- bellico. L'ordine fu compromesso dalla caduta dei tre grandi imperi europei (russo, asburgico, ottomano) e dalle richieste di autodeterminazione di Wilson, che favorirono movimenti irredentisti e nazionalisti difficilmente realizzabili. I trattati francesi con l'Austria, la Bulgaria e l'Ungheria confermarono l'impossibilità di creare entità etnicamente "pure". Il paese più significativo ad emergere fu la Polonia, che si rafforzò e si espanse, ma dovette affrontare conflitti con Germania, Cecoslovacchia, Lituania, Ucraina e soprattutto con la Russia, che fu sconfitta nel "miracolo della Vistola" grazie al sostegno dell'Intesa per evitare un'eccessiva crescita del blocco comunista. La divisione dell'Ungheria fu uno dei casi più traumatici di transizione da un impero a uno stato nazionale, poiché perse la maggior parte del territorio e della popolazione, distruggendo il sogno di una "Grande Ungheria". Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia trassero vantaggio dalla situazione, acquisendo parti dei territori ungheresi. La questione degli ebrei, perseguitati in tutti i paesi (specialmente in Polonia), contribuiva all'instabilità dell'Europa. 5. sulle rovine della Sublime Porta Nel 1923, la decomposizione dell'Impero ottomano si concluse con la firma del trattato di Losanna tra la Turchia di Ataturk e le potenze vincitrici della guerra. Il nuovo stato turco era situato geograficamente in Anatolia, di fede musulmana ed etnicamente turco. La creazione di questo nuovo stato era basata sugli accordi segreti anglo-francesi noti come Sykes-Picot. I nazionalisti turchi si concentrarono sulla liberazione dell'Anatolia e della Tracia orientale, espellendo i greci dalla regione e prendendo il controllo di Istanbul. Così nacque la Repubblica di Turchia nel 1923. Il trattato di Losanna legittimò un nuovo ordine dopo l'Impero ottomano, correggendo le dure condizioni del trattato di Sèvres, che non fu mai ratificato dalla Turchia. Rispetto a Sèvres, le condizioni imposte alla Germania sembravano insignificanti. Durante il periodo tra i trattati di Sèvres e Losanna, la minoranza greca fu definitivamente espulsa dalla Turchia attraverso una pulizia etnica basata sulla divisione religiosa tra musulmani e cattolici. 6. dopo Versailles: perché la pace fu una tregua. Si è spesso cercato di dimostrare come la pace di Parigi sia stata la causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale: sebbene questo approccio sia molto semplicistico, è innegabile che alcuni fattori resero quel tentativo resero quel tentativo di pacificazione piuttosto improbabile. In primo luogo, i trattati di pace furono un compromesso tra vincitori, che per di più comprendevano una potenza esterna all’Europa, ed escludevano completamente la Germania e la Russia (dando spago al revanscismo). Non si trattò solo di una questione economica, ma anche di un danno psicologico nella memoria collettiva delle nazioni sconfitte. Non stupisce, allora, l'avvicinarsi delle due potenze "escluse" che culminò nel trattato di Rapallo del 1922. Un altro errore della pace di Versailles fu la gestione della questione delle nazionalità irredente, di cui non si può accusare solo Wilson: un clima rivoluzionario si era diffuso già da prima della fine della guerra. (FINE CAPITOLO) 13. L'IMPERO ROSSO. NASCITA E CONSOLIDAMENTO DELL'UNIONE SOVIETICA Lo stato comunista emerse come un'ideologia politica innovativa, ma con radici nella storia imperiale russa. L'eredità storica fu reinterpretata da Lenin, Stalin e i leader bolscevichi, influenzando profondamente la costruzione dello stato sovietico. La sua origine è legata alla rivoluzione del 1917, ma è importante comprendere il legame tra guerra e rivoluzione: le rivolte scoppiarono durante la Prima guerra mondiale, che fornì il contesto e il terreno fertile per il bolscevismo. La guerra, con la sua brutalizzazione delle dinamiche sociali e politiche, giocò un ruolo formativo nella rivoluzione, non essendo un evento marginale come si pensava in passato, ma un elemento cruciale. 1. 1905: modernizzare l’aristocrazia o preparare la rivoluzione? Alla vigilia della guerra, l'impero russo era in una situazione di crisi ma ancora vitale. Le tensioni interne avevano portato alla nascita di partiti politici come i bolscevichi e i menscevichi, oltre al Partito socialista-rivoluzionario e al Partito democratico-costituzionale. Nel 1905, la rivoluzione scoppiò in seguito alla sconfitta con il Giappone, evidenziando i problemi istituzionali, nazionalisti e sociali dell'impero. Ci furono scioperi, tumulti e la formazione di consigli operai (soviet). Lo zar Nicola Il concesse alcuni diritti e l'istituzione della Duma, ma il regime non divenne mai una monarchia costituzionale. La rivoluzione lasciò un'eredità di abolizione della censura, nascita di associazioni e sviluppi teorici. Il primo ministro Stolypin cercò una riforma dell'impero ma fu assassinato. Nel contesto politico vivace, emerse anche un vivace tessuto culturale, con riforme nella Chiesa ortodossa russa. La mancata convocazione di un Concilio contribuì a sfavorire la dinastia. La Russia era un paese dinamico ma mostrava debolezze nella classe dirigente e nell'autocrazia al vertice. 2.l’impero in guerra: il crollo del centro Nell'agosto 1914, la Russia entrò in guerra e la militarizzazione dello stato e della società costituirono il terreno fertile per l'ascesa dei bolscevichi. La guerra totale portò alla mobilitazione di milioni di soldati e si manifestò subito con violenza, causando ostilità e odio verso la classe dirigente. Nonostante un'iniziale ondata di patriottismo, l'impero subì sconfitte che compromisero il prestigio della dinastia. La Russia si scontrò con le limitazioni della sua modernizzazione, con carenze industriali e risorse limitate che frenarono gli sforzi bellici. La penuria di beni nelle città minò il regime zarista e le regioni di frontiera furono sconvolte dai combattimenti. La Rivoluzione di febbraio del 1917 scoppiò a Pietrogrado, segnando la fine dello zarismo. Nicola Il abdicò e il sistema imperiale collassò. Le debolezze dell'impero, accentuate dalla guerra, portarono al crollo del sistema politico e rivelarono la fragilità della classe dirigente. 3. il 1917: vuoto di potere e rivoluzione bolscevica. La caduta dello zar generò un grande spaesamento nella società russa. A Pietrogrado si formarono due centri di potere: il governo provvisorio, composto da elementi liberali e legato alla Duma, e il Soviet degli operai e dei soldati, formato dai partiti socialisti e dai sindacati. Tuttavia, entrambi i centri mostravano debolezze e divisioni interne. Mancavano posizioni chiare su questioni politiche cruciali come la pace, la redistribuzione della terra e la questione nazionale. Anche nella chiesa ortodossa si avvertiva uno spirito rivoluzionario, con la destituzione dei vescovi legati a Rasputin e la convocazione del Concilio. Nel frattempo, a fine aprile si formò un governo di coalizione tra Il sequestro delle proprietà dei kulaki e la deportazione di famiglie contadine furono compiuti dall'OGPU, la polizia politica. Ci furono numerose proteste nelle campagne in risposta alla collettivizzazione, ma Stalin moderò leggermente la sua strategia pur perseguendo l'obiettivo finale. Nel 1932 si verificò una grave carestia, con tre milioni e mezzo di morti solo in Ucraina, a causa delle politiche agrarie disastrose di Stalin. Nonostante ciò, Stalin non intervenne per affievolire la resistenza delle campagne. La collettivizzazione rappresentò non solo un'operazione di ingegneria sociale, ma anche un conflitto sanguinoso tra la realtà rurale e l'immagine proiettata di una moderna città industriale. 10. Il potere di Stalin: modernizzazione e terrore. La collettivizzazione delle campagne fu parte del piano quinquennale per l'economia sovietica, con obiettivi di produzione centralmente stabiliti dal partito. Gli enti statali guidarono l'accelerazione economica e fecero uso del lavoro forzato dei kulaki, dando origine al sistema concentrazionario sovietico, il Gulag. Il consolidamento del regime si basò sulle nuove burocrazie sovietiche e sulla polizia politica, in particolare il NKVD. Stalin perseguì il pieno controllo del partito attraverso le “purghe” staliniane, che portarono all’eliminazione di vari membri, tra cui Zinov’ev, Kamenev e Bucharin. Il periodo noto come “grande terrore” si caratterizzò per un’ampia repressione, guidata dall’idea di un conflitto permanente e dalla necessità di eliminare i potenziali nemici interni. L’ordine 00447 firmato da Ezov portò all’arresto di centinata di migliaia di persone, e la repressione su vasta scala durò fino alla fine del 1938. Il XIX congresso segnò la dichiarazione ufficiale del raggiungimento del socialismo nell’Unione Sovietica, ma si affermò un discorso stalinista, russo-centrico e con riflessi imperiali. (FINE) 14. IL FASCISMO IN ITALIA. Il fascismo fu figlio dell'esperienza di guerra, che ne plasmò la cultura politica. L'azione sistematica e politica del partito fascista si caratterizzò fin dagli esordi con l'uso sistematico della violenza verso i propri oppositori. Questo movimento fu anche alquanto originale poiché diede vita a un regime di tipo nuovo, un esperimento totalitario fondato dal potere di Mussolini sulla mobilitazione sistematica delle masse, sulla loro coercizione e sull'idea inculcata a più riprese del primato ITALIANO NEL MONDO da realizzare e perseguire ad ogni costo sotto il controllo del primato fascista. La violenza sul piano interno e la guerra sul piano esterno e dei rapporti internazionali erano iscritte nel codice genetico stesso nel fascismo. Essendo un movimento nato alla fine di un conflitto mondiale e concluso alla fine del secondo, non poteva essere che un movimento ed una ideologia fondata esclusivamente su guerra e violenza. 1. La crisi del dopoguerra L'Italia, dopo la fine della grande guerra, anche se ne uscì vincitrice era un paese che viveva una grossa crisi economica ed aveva un forte debito accumulatosi con Gran Bretagna e Stati Uniti. La questione finanziaria poneva l'Italia in una situazione di SUBALTERNITA' verso le grosse potenze internazionali ed emergeva come principale elemento di debolezza del paese. Questa situazione determinò in Italia e in Europa forti tensioni sociali che sfociarono nel 1919 in violente agitazioni popolari. Queste agitazioni erano il frutto della debolezza economica italiana e portarono inevitabilmente a proteste e tumulti. Il carattere di queste manifestazioni era di tipo anarcoide, senza una vera e propria regia e acuì nei diversi segmenti delle borghesie italiane il sentimento anti-socialista per il timore di una affermazione bolscevica. L'inflazione colpì tutti, indistintamente la classe media e quella popolare. I reduci della guerra, una volta rientrati costituirono molte associazioni di EX COMBATTENTI E MUTILATI DI GUERRA. A tutto ciò si aggiunse un sottile e crescente sentimento di irrequietezza da parte della popolazione per come l'Italia era stata trattata dopo la fine del conflitto mondiale. Una questione molto definita fu quella dell'ANTIBOLSCEVISMO, espressione delle borghesie spaventate dalle grosse agitazioni sociali in atto. I sabotatori erano identificati come SOCIALISTI e quindi come avversari. Vigeva nella maggioranza della popolazione la parola d'ordine della VITTORIA MUTILATA. L'Italia doveva per forza di cose ASSUMERE UN RUOLO PRECISO NEL CONTESTO GEO-POLITICO DELL'EUROPA DEL DOPO GUERRA. Era un appuntamento decisivo per l'Italia liberale e la sua classe dirigente, la quale non era però culturalmente attrezzata ad affrontare le nuove sfide. Questa crisi di sistema provocò irrequietezza e malumore nell'esercito italiano i cui vertici avevano il timore di essere messi a riposo o quantomeno emarginati dalla vita politica attiva del paese, e si vociferava che fomentassero azioni rivoltose per favorire il ripristino della legalità. A questo stato di cose contribuì pure la MARCIA SU FIUME DI D'ANNUNZIO che mirò sull'immaginario collettivo identificando la presa della città come una forte rivendicazione di giustizia da parte dell'Italia messa in secondo piano durante i trattati di pace alla fine della grande guerra. Di parimenti ci fu un inasprimento del conflitto sociale con lo sviluppo dell'industria e il conseguente aumento della classe operaia rappresentata nella quasi totalità DAL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO. Anche i cattolici si erano organizzati nel partito popolare a compimento del travagliato itinerario di partecipazione della vita politica italiana. Nacque IL PARTITO POPOLARE, di ispirazione cattolica ma non al servizio del mondo ecclesiastico. Il principale creatore di questa nuova formazione politica fu LUIGI STURZO, un prete siciliano che già negli ultimi anni dell'800 aveva favorito un lavoro di presenza attiva dei cattolici nelle varie amministrazioni statali. QUESTO PARTITO SI RADICO' molto e diffusamente in Italia divenendo PARTITO DI MASSA grazie anche al radicamento del cattolicesimo nel paese e ai sindacati bianchi delle leghe contadine, circoli, associazioni e cooperative. Di pari passo cresceva l'ondata "rossa" anche in Italia dove le vicende della Russia bolscevica esercitavano un forte richiamo e molteplici speranze rivoluzionarie fra le masse popolari ed operaie. Come per altri contesti, vi era però anche in questo fervente attivismo socialista e rivoluzionario italiano, una FORTE CARENZA di lucidità politica che non andava oltre affermazioni di massimalismo generico. Nell'estate del 1920, una forte mobilitazione delle masse contadine portò ad uno sciopero agrario nel bolognese che durò l'intera estate fino ad ottobre e si concluse con la capitolazione dei proprietari terrieri e l'occupazione delle fabbriche, segnando di fatto il massimo scontro politico, ideologico e sociale tra chi guardava al socialismo e chi guardasse alla conservazione di uno status sociale di borghesia. Le città-caposaldo di questo vasto movimento di occupazione furono Torino, Milano e Genova. La fine di questa forte tensione sociale fu il riconoscimento da parte degli industriali delle richieste sindacali, mentre si facevano più insistenti le voci di un presunto complotto di nazionalisti e militari per l'affermazione dei diritti italiani calpestati nelle trattative del dopoguerra. In questa fase il governo guidato dal ritorno di Giolitti dopo la caduta di Nitti portò avanti una politica MEDIATRICE che inizialmente diede dei frutti ma che si rivelò inefficace nel momento in cui si ebbe l'affermazione del partito fascista. IL BIENNIO ROSSO IN EUROPA Il biennio rosso in Europa (1919-20) fu un periodo di grande turbolenza rivoluzionaria. Germania-> nacque il movimento spartachista (DA SPARTACO, UN GLADIATORE ANTISCHIAVISTA) con a capo la Luxemburg e Liebknecht -> si tentò una insurrezione in Russia ma fu repressa con la conseguente uccisione dei due leader da parte dei FREIKORPS. In Ungheria ci fu un movimento comunista che fu represso a seguito dall'instaurazione di un regime dittatoriale di destra che, tra le due guerre mondiali, si sarebbe diffuso anche in altri paesi dell’Europa orientale, come pure in Spagna e Italia. 2. L’avvento del Fascismo. La spinta rivoluzionaria si affievolì a causa della recessione economica e la conseguente disoccupazione degli operai. Dall'altro lato ci fu una spinta ANTI-SOCIALISTA che alle elezioni amministrative ebbe la meglio in diverse città italiane. In questo quadro si collocò la diffusione del movimento fascista guidato da Mussolini, che nel 1919 formò i FASCI DI COMBATTIMENTO a Milano, fondato su parole che diremmo oggi di sinistra→ ANTICLERICALE E REPUBBLICANO. All'inizio fu fallimentare in seguito alle elezioni a Milano dove presero solo un migliaio di voti). Successivamente la lista iniziò a orientarsi verso destra, iniziando a difendere gli interessi delle borghesie e dei ceti medi. Il movimento era costituito da EX ARDITI truppe d'assalto dell'esercito italiano durante la GRANDE GUERRA), gruppi radicali e anche studenti. I militanti promuovevano l'uso della violenza e di gruppi paramilitari, spesso utilizzati nei conflitti politici. Nel 1920 il movimento fascista iniziò a fare propaganda anti-bolscevismo soprattutto nelle zone agrarie della Pianura Padana. È importante ricordare che il movimento fascista era costituito perlopiù da giovani reduci e giovanissimi mai stati in trincea-> si volevano trovare modi per governare la società di massa e il fascismo pareva una soluzione. Pian piano si diffuse nelle zone agrarie della penisola e si iniziarono a distruggere sedi di giornali, tipografie, case del popolo ecc. A contribuire allo sviluppo del movimento fascista furono anche le varie fratture che ci furono nell'opposizione. Da una costola del PSI nacque il Partito Comunista D'Italia, con Togliatti e Gramsci. Gli organi di stato e le forze di polizia vedevano nei fascisti una soluzione contro i sovversivi. Il fascismo si trasformò in partito di massa dove il leader divenne Mussolini, chiamato DUCE-> nel 1922 superò i 200mila iscritti. Le camicie nere occuparono interi capoluoghi di provincia e la violenza venne scagliata contro socialisti, comunisti, repubblicani e popolari. Facta propose di introdurre LO STATO D'ASSEDIO, rifiutata dal Re. Ciò permise a Mussolini di non essere più minacciato da un'azione militare da parte dello Stato. Il Re affidò a Mussolini il compito di formare il nuovo governo. Pur nella correttezza procedurale della formazione del governo su incarico del re, si era compiuto il passo che dava inizio alla distruzione dello Stato liberale. L’inedito incarico al leader di un partito armato, che aveva come programma l’abbattimento dell’ordinamento politico, datogli in seguito all’impatto dell’iniziativa eversiva della marcia su Roma, costituiva un offesa, un danno, al sistema liberale. 3. La nascita di un nuovo regime L'obbiettivo primario era quello dell'espansione del dominio fascista sul paese -> fu importante la fusione con l'associazione nazionalista italiana. Mussolini proseguì nella sua opera di centralizzazione del partito e di sottomissione alla sua leadership-> costituì il GRAN CONSIGLIO, ossia l'organo supremo del partito, di cui lui era ovviamente presidente. La debolezza è che i parlamentari fascisti erano relativamente pochi, ma con le nuove elezioni e la possibilità del significava dominio sul Mar Rosso, avrebbe potuto rendere l'Italia più forte questa avrebbe potuto controllare diversi canali, come ad esempio quello di Suez. Nel 35 le truppe italiane aggredirono l'IMPERO ETIOPICO-> ciò sollevò delle proteste generali. IL 5 MAGGIO 36 MUSSOLINI DICHIARO' LA GUERRA CONCLUSA E IL 9 PROCLAMO' LA NASCITA DELL'IMPERO. Per la conquista dell'Etiopia fu impiegato non poco esercito, che continuò a combattere anche dopo la sua conquista per far fronte ad alcune rivolte locali. La guerra combattuta dagli italiani fu spietata (furono ad esempio impiegati i gas, e nel 37 la popolazione fu colpita indiscriminatamente). Intanto in Italia la propaganda favorì l'entusiasmo dei civili per la conquista coloniale. La guerra fu combattuta contro un avversario debole. La guerra in Etiopia, l'intervento in Spagna, l'annuncio del ritiro dell'Italia dalla società delle Nazioni fecero trasparire un orientamento prevalentemente revisionista e bellicista. 6. Controllo totalitario, fascistizzazione, razzismo. Il fascismo si insinuò sempre di più capillarmente nella società italiana-> si rese obbligatoria l'iscrizione al partito per i dipendenti statali. Il regime fin dall'inizio aveva dedicato grande attenzione alle associazioni giovanili, nel cui ambito doveva realizzarsi l'educazione fascista. I BALILLA COSTITUIRONO LA PROPOSTA FASCISTA PER I GIOVANI DAI 6 AI 18 ANNI. Esistevano GRUPPI UNIVERSITARI FASCISTI. Mentre il regime metteva a punto un sistema previdenziale (INPS, INAIL, INAM), IL PNF sviluppò anche un'ampia attività assistenziale, dall'assistenza medica a quella legale, dai sussidi alle famiglie povere agli asili nido e le colonie per bambini. Dopo le sanzioni inflitte all'Italia dalla SOCIETA DELLE NAZIONI PER L'AGGRESSIONE ALL'ETIOPIA, Mussolini volle l'autarchia per l'economia del paese-> rafforzò lo stato nell'ambito economico. Fu sostituito il VOI AL LEI, Fu sostituito il saluto romano al saluto canonico, la figura maschile veniva presentata come estremamente virile, quando si scriveva DUCE lo si doveva fare scrivendo tutto in MAIUSCOLO. Assoldò i portieri dei palazzi come INFORMATORI. Nella seconda metà degli anni 30 il regime attuò una organica politica razzista→> si voleva forgiare una NUOVA RAZZA di italiani, intesa in senso biologico (ciò si può capire dall'utilizzo di temi della eugenetica da parte di Mussolini). Si diffuse nel nord est italiano un odio verso le popolazioni slave, già presente dalla Grande Guerra. Nelle colonie si fece ampio uso della violenza, forte repressioni ci furono in LIBIA. Ci furono studi coloniali atti a dimostrare l'inferiorità degli africani, si proclamò un REGIME DI APHARTEID ITALIANI E INDIGENI AVEVANO SPAZI DIVERSI IN CUI VIVERE). Alcune norme manifestavano l'intento di preservare la razza italiana dalla promiscuità sessuale con la popolazione indigena. La paura del meticciato portò alla legislazione razziale del regime fascista ispirata al razzismo biologico sulla base del principio della purezza del sangue. Furono pubblicati articoli che denunciavano un complotto demo-Pluto-giudaico-massonico si trattava di un'invenzione della propaganda ANTISEMITA dell'esistenza di una macchinazione dei circoli plutocratici della finanza che controllavano le democrazie borghesi capitaliste, con ebrei e massoni. CON IL MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI di fatto GLI EBREI NON POTEVANO FAR PARTE DELLA RAZZA ITALIANA-› non potevano far parte del partito fascista, di conseguenza erano molto limitati, così come le loro proprietà. Nel gennaio del 38 fu realizzato un censimento degli ebrei in Italia che sarebbero stati deportati nei campi di sterminio. L'avvento di Hitler aveva posto al centro la questione ebraica. All'inizio la popolazione italiana si indignò, e molti furono perseguitati per questa opposizione, tra cui anche quelli che cercarono di aiutare gli ebrei tt istituzioni religiose cattoliche). LA POPOLAZIONE NON ADERI' CONSISTENTEMENTE AL REGIME, ALMENO LA GRAN PARTE -> ERA TUTTO UN GIOCO DI PROPAGANDA, DI AZIONE COERCITIVA E REPRESSIVA, LA FASCINAZIONE DELLA RELIGIONE FASCISTA. Era una ADESIONE NON UNIFORME. Si iniziò col tempo a capire che si diffondeva solo odio e si iniziò a mostrare una forma di apatia con distacco psicologico dal fascismo. N.B. Date da sapere: -1919 fondazione dei Fasci -28/10/1992 marca su Roma -1924 assassinio di Matteotti -1925 leggi fasciatissime -1929 Patti Lateranensi -1935-36 guerra d’Etiopia -1938 leggi razziali 15. Da Weimar a Hitler La repubblica tedesca battezzata nel gennaio del 19 a Weimar aveva la pianta di una pacifica liberaldemocrazia parlamentare, ma questa illusione durò venti anni, fino all'aggressione nazista alla Polonia. Quello stato era il prodotto di una sconfitta che la maggioranza dei tedeschi non considerava tale o ammetteva solo come provvisoria. I moti rivoluzionari bolscevisti furono dipinti dalla propaganda revanscista come CAUSE e non CONSEGUENZE DELLA SCONFITTA. Si era stati costretti a firmare il DIKTAT a Versailles (trattato unilaterale che non è stato negoziato tra pari ma imposto ad un popolo devastato dalla guerra), sotto minaccia delle riprese delle ostilità. Weimar NON ERA LA LIBERA ESPRESSIONE DEL POPOLO TEDESCO, riabilitato dai vincitori, ma la PRECARIA FORMA ISTITUZIONALE DI UNA IMPOSIZIONE SENTITA COME INGIUSTA-> per questo motivo la Repubblica di Weimar viene definita come una DEMOCRAZIA SENZA DEMOCRATICI. Lo schieramento di sinistra-centro, formato da socialdemocratici, cattolici e liberali, con numerosi compromessi fra quelle forze e i loro avversari, che erano ANTIDEMOCRATICI, ANTIPARLAMENTARI E ANTIREPUBBLICANI. Weimar dovette far fronte a una emergenza economica di proporzioni mai viste nella storia tedesca, tanto che per alcuni anni si tornò al baratto. Il fallimento economico premiava ladri e truffatori, esaltava l'esibizionismo dei ricchi e ricadeva sulle deboli spalle della Repubblica. WEIMAR AVEVA EREDITATO LE MACERIE MORALI E MATERIALI DELL'IMPERO DISTRUTTO, A PARTIRE DAI DEBITI BELLICI. Per un breve periodo alla metà degli anni 20, ci fu una ripresa economica ma già nel 28 si colsero segni di recessione, accentuati dal crollo di Wall Street nel 29. In tutto ciò ne trasse vantaggio la propaganda anticapitalistica delle estreme -> comunisti e nazionalsocialisti. Ci furono cospicue comunità germaniche che furono oggetto di vessazioni e che furono negati dei propri diritti civili. Fra i più decisi militanti della CAUSA GRANDE TEDESCA ci fu ADOLF HITLER, nato in Austria, che si distinse come soldato volontario del Reich, testimoniò la sua vocazione pangermanica. Dal 24 al 29, ci fu un apparente equilibrio domestico assicurato da una coalizione di centro destra con a capo Hindenburg, ma importante fu in questo periodo la figura di statista di Stresemann -> ci sono varie interpretazioni della sua visione (chi dà importanza al fatto che egli professasse il pangermanesimo in gioventù; chi affermava che fosse un pacifista internazionalista). In realtà la sua era prudenza, infatti non intendeva rinunciare alla prospettiva di ridisegnare le frontiere orientali di Weimar nonostante ci fossero dei trattati per l'arbitraggio. Con il crollo della borsa si ebbe una grande depressione e il tasso dei disoccupati in Germania si quadruplicò. La crisi contribuì al consolidamento di partiti estremisti, mentre ormai i liberali erano irrilevanti. Hitler in tutto ciò era a capo di un partito piccolo di estrema destra, NSDAP (Partito Nazionalista Tedesco dei Lavoratori, in italiano). Nacque nel 1889 vicino Linz in una famiglia austriaca borghese-> tuttavia Hitler non si senti mai austriaco, ma tedesco. Egli combatté per 4 anni nell'esercito bavarese ma non andò mai al comando. Aveva velleità artistiche, e nel 1919 venne a contatto con la politica, che divenne la sua totalizzante passione. Scoprì all'interno del partito la sua capacità di fascinazione delle folle, meritandosi il soprannome di TAMBURO. Dopo due anni dal 1919, divenne l'acclamato presidente del NSDAP. Egli miscelava pangermanismo, darwinismo sociale, anticapitalismo -> UN MINESTRONE IDEOLOGICO CHE MERITO' IL MARCHIO DI HITLERISMO. Senza Hitler probabilmente non ci sarebbe stato il nazismo→ di rado una singola figura seppe influenzare il suo tempo come lui. Voleva elevare la RAZZA GERMANICA, che aveva diritto al proprio spazio vitale, negato da Versailles e dal complotto internazionale ebraico- comunista. Il partito si dotò subito di una milizia armata contro sindacalisti e gente di sinistra, facendo anche il putsch della birreria (colpo di stato a Monaco) nel novembre 1923. Che costò ad Hitler alcuni mesi di carcere, mesi nei quali lui scrisse il MEIN KAMPF, in cui sono tratteggiate le linee del compito storico che volle assegnarsi. HITLER FU IL MISSIONARIO DI SÉ STESSO, NON DELLA GRANDE GERMANIA O DELLA RAZZA TEDESCA, alla cui debolezza volle attribuire la RESPONSABILITA' DELLA CATASTROFE CHE LUI STESSO AVEVA INFLITTO ALLA NAZIONE. La presa del potere da parte di Hitler fu certo frutto della sua capacità manovriera, ma anche dell'espressione di fallimento della Repubblica. L'ultimo governo democratico di coalizione si dimise nel 1930. La NSDAP inanellava una sequenza di successi negli scrutini locali regionali e nazionali-> toccò il 37% e ottenne la maggioranza nel Reichstag. Il Fuhrer era affiancato da due soli ministri, tra cui Goring, ma la mitologia del Fuhrer fu orchestrata da Goebbels, il talentuoso mago della comunicazione. Si voleva contemporaneamente battere i comunisti e i resti della democrazia weimariana-> a questo scopo, egli contò sui propri paramilitari, organizzati nella SA e nelle SS. IL PRIMO FEBBRAIO HITLER SCIOLSE IL PARLAMENTO E INDISSE NUOVE ELEZIONI IL 5 MARZO. L'incendio del parlamento, nella notte del 28 febbraio, gli offrì il pretesto per un decreto per la PROTEZIONE DEL POPOLO E DELLO STATO. Venne affondata la libertà di opinione, stampa, associazione e istituita la censura. LO STATO DI EMERGENZA ERA FORMALIZZATO E ASSEGNATO ALLA GESTIONE DEL CANCELLIERE. I deputati comunisti furono le prime vittime della repressione hitleriana, non poterono partecipare alla seduta, divisi fra clandestinità, carcere ed esilio. Al consenso si piegarono cattolici e liberali a causa delle minacce-> volevano evitare il peggio. Conferirono LA LEGALITA' A UNA DITTATURA. Il partito di Hitler divenne partito unico, molte persone vollero convertirsi all'ultimo minuto e per questo furono chiuse le iscrizioni. HITLER PROCLAMO' LA STAGIONE DELLA RIVOLUZIONE CONCLUSA DANDO VITA ALLA FASE DELL'EVOLUZIONE. Scattò nel 34 anche una repressione contro i leader delle SA, accusati di preparare il colpo di stato. FU LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI, in cui la Gestapo (Polizia Segreta dello Stato) eliminò presunti I SUDETI-> tedeschi che vivono ai confini della CECOSLOVACCHIA-> questa questione viene sfruttata internazionalmente-> HITLER VOLEVA QUELLE TERRE. Si fa una grande conferenza e alla fine si decide di smembrare la CECOSLOVACCHIA. Il passo successivo sarà prendere il territorio di DANZIKA. La Polonia era legata da vari trattai con le potenze occidentali e non avrebbero potuto non reagire a un attacco della Germania-> HITLER VOLEVA LA GUERRA, il problema è che Hitler ha paura di essere attaccato su due fronti allo stesso tempo. VUOLE EVITARE UN FRONTE ORIENTALE E UNO OCCIDENTALE-> egli teme di più la Gran Bretagna che la Francia. CON STALIN EGLI TROVA UN ACCORDO - PATTO MOLOTOV-RIBBENTROP -> sono i due ministri degli esteri della Germania e Russia che firmano questo patto in cui in teoria GERMANIA E RUSSIA affermano che non si sarebbero attaccate. In realtà in questo patto ci sono clausole segrete con le quali UNIONE SOVIETICA E GERMANIA SI SPARTISCONO L'EUROPA ORIENTALE. Sarà grazie a questo patto che la Germania non si farà problemi a invadere la POLONIA nel 39 per la questione del corridoio di Danzika. Senza QUEL PATTO, HITLER NON AVREBBE ORGANIZZATO L'INVASIONE DELLA POLONIA. 16. La Germania dalla dittatura alla guerra Alla vigilia della Seconda guerra mondiale Hitler poteva vantare una sequenza di successi: la liberazione dalle "catene di Versailles", l'eliminazione della disoccupazione, il recupero dell'orgoglio nazionale, tutto in un clima di forte consenso. Tutte le opposizioni erano state debellate, anche se parte delle élite conservatrici e aristocratiche, come nelle Forze armate, continuavano a coltivare diffidenza nei confronti del Fuhrer. Ma è sbagliato considerare il "vecchio" Hitler, trionfante nel suo primo governo, totalmente diverso dal "nuovo" Hitler, catastrofico nella pulsione suicida della Seconda guerra mondiale. C'è stata una coerente parabola tra i due, il primo Hitler è stato preparazione al secondo: il suo obiettivo esplicito era la rigenerazione del suo popolo, o razza, fino alla conquista del mondo. Che tutto dovesse svolgersi in tempi tanto brevi, dipendeva dall'intenzione di Hitler di scatenare la guerra quando ancora avrebbe avuto l'età per guidarla: inoltre, senza sbocco bellico, il Terzo Reich si sarebbe probabilmente accartocciato su sé stesso. 1 L'instabile (non-)stato hitleriano. Il nazismo fu una rivoluzione culturale, prima che sociale, volta all'inclusione delle masse nel meccanismo del nuovo ordine e all'esclusione degli elementi degenerati. Di questa strategia si tende oggi a ricordare il tratto brutale, ma negli anni Trenta era un aspetto meno visibile: si tendeva a rimarcare piuttosto la sua funzione di avanguardia anticomunista, e le sue teorie razziste, dopotutto, riflettevano una visione molto diffusa nella cultura europea. Il terrore di regime si scatenò con la presa di potere: l'accentramento delle polizie sotto Himmler fu compiuto entro il 1934, e si iniziavano a diffondere anche i campi di concentramento, che già nell'antiguerra ospitarono decine di migliaia di oppositori e di "razze inferiori". La politica razziale di Hitler verteva sull'eradicazione del "virus ebraico", obiettivo condiviso da consistenti correnti pubbliche (anche se quasi nessuno poteva immaginare le conseguenze che il Fuhrer avrebbe realizzato. Nel Reich viveva oltre mezzo milione di ebrei, dotati di piena cittadinanza formale. Inizialmente Hitler tentò di boicottare uffici, negozi e medici ebrei, ma con scarso successo: allora fece ricorso a misure drastiche, con l'estromissione degli ebrei dalla pubblica amministrazione e dalle scuole. Le leggi razziali di Norimberga, varate nel settembre 1935, annullarono l'emancipazione degli ebrei compiuta nel 1971, stabilendo anche il divieto di matrimonio misto. Gli ebrei che ne avevano la possibilità emigrarono in massa. Il culmine della campagna antisemita fu la "notte dei cristalli": a seguito di un attentato compiuto da un ebreo, in tutto il Reich vennero saccheggiati e dati alle fiamme sinagoghe, negozi e abitazioni degli ebrei. Ma Hitler non si dedicò solo alla sua campagna antiebraica: riuscì a mantenere le sue promesse in campo economico e sociale, dal rilancio economico al recupero del ruolo di potenza. Si diffuse il "culto di Hitler", attraverso una serie di organizzazioni parallele (come la "gioventù hitleriana”). La vena socialista del nazismo non si manifestava tanto nella negazione del capitalismo, quanto nella massificazione dell'individuo: tutti dovevano essere ridotti a membri della comunità di sangue, e a ben guardare ciò negava il principio nazionale per schiacciarlo sotto il peso della razza. Il nazismo allora non era né nazionalista né socialista: sfugge alle definizioni univoche, e la stessa categoria di "totalitarismo" non è del tutto esplicativa. Il nuovo regime non poteva però rovesciare completamente mentalità, culture, legature sociali e tendenze della vita quotidiana in una società complessa e moderna come quella della società tedesca. La dittatura di Hitler incentivava il caos dei poteri a livello locale e centrale, i conflitti tra le varie strutture: allo stato di diritto subentrò lo stato d'eccezione permanente. I poteri erano dunque parcellizzati, irriducibili a un sistema unitario che non fosse la volubile legge del capo. Scrisse l'esule Neumann che il nazismo era costituito da "un'anarchia più o meno organizzata": Hitler stava paradossalmente realizzando l'abolizione dello stato, per sostituirlo con "una forma sociale in cui i gruppi dominanti controllano direttamente la restante popolazione". Diffusa è la tesi secondo cui il nazismo, movimento rivoluzionario che modernizzò la Germania, ne recise il nesso con il passato imperiale. La mobilità sociale del Terzo Reich non era compatibile con l'aristocratismo del Secondo, il che portò alla formazione di un divario incolmabile tra la vecchia e la nuova classe dirigente: la conseguenza sociale di lunga durata del dodicennio hitleriano fu il ridimensionamento dei ceti alti, il che però non significò l'abolizione delle classi. I comunisti e socialdemocratici vennero perseguitati, e i sindacati vennero liquidati. La formazione del Fronte tedesco del lavoro (DAF creò una mega corporazione da quasi trenta milioni di iscritti, che spesso entrò in competizione con le strutture di partito). 2. Le politiche economiche e sociali Il consenso tanto elevato attorno a Hitler non può essere spiegato solo dalla propaganda di Goebbels, e nemmeno dalla brutale repressione del dissenso: aveva anche una base positiva nella politica economica del Reich. La figura centrale in questo campo fu Schacht, ministro dell'economia dal 1934 al 1937 (fu sostituito da Göring, incaricato del passaggio all'economia di guerra). Schacht aveva rovesciato l'austerità Weimariana allestendo grandiosi progetti infrastrutturali che contribuirono a ridurre drasticamente la disoccupazione. Particolarmente importanti furono le autostrade, sulle quali Hitler contava per costruire una rete di trasporti che collegasse i principali centri urbani e favorisse la motorizzazione (risale a quel periodo la nascita della Volkswagen). L'altro lato della ripresa economica fu il riarmo, avviato inizialmente con cautela e poi sempre più decisamente. In poco tempo i tedeschi passavano da una povertà diffusa a un benessere modesto, ma accessibile alle grandi masse: la socializzazione delle masse operaie e impiegatizie, attraverso varie associazioni, offriva opportunità di svago e sport mai godute prima. Per quanto riguarda la vita culturale, essa venne compressa dall'ideologia del regime: i nazisti mettevano all'indice "l'arte degenerata", così come la "musica degenerata" (che fosse ebraica o moderna). Ma l'americanizzazione aveva raggiunto anche la Germania, almeno per quanto riguardava il jazz e i film hollywoodiani. Il rapporto tra nazismo e la libera letteratura fu reso chiaro dal rogo dei libri a Berlino (1933; ma vennero comunque lasciate aperte delle valvole di sfogo, come la musica leggera e la letteratura sentimentale). A plasmare lo spirito popolare erano dedicati i grandi raduni di massa: il nazismo aveva infatti i suoi riti e i suoi miti. Il calendario del Terzo Reich era ritmato dalla celebrazione del Fuhrer: la presa del potere, il compleanno, la memoria dei caduti del putsch del 1923... Il regime si dimostrava anticristiano, nonostante un concordato con la Chiesa di Roma. La maggioranza cattolica si adattò al regime (fatta esclusione per alcuni casi singoli, vedendolo un argine al bolscevismo. Nel 1937 il papa pubblicò un'enciclica (Con bruciante preoccupazioni riguardo alle politiche razziste del Reich, ma senza conseguenze particolari) I protestanti furono precocemente affascinati dal nazismo, e le loro strutture ecclesiastiche si divisero tra fiancheggiatori e critici oppositori. Va ricordato che contro il nazismo si schierarono decisamente i Testimoni di Geova, che morirono a migliaia. 3 La Grande Germania La guerra era sempre stata l'orizzonte ultimo di Hitler: lo spazio vitale tedesco si sarebbe dovuto estendere verso est, ai danni di slavi e bolscevichi. Insomma, occorreva realizzare il progetto pangermanista: Hitler esaltava il fattore razziale, e i suoi obiettivi sembravano condivisibili da tutti i nazionalisti tedeschi. Miscelando pressioni politico-diplomatiche a esibizioni di forza, Hitler era convinto che le altre potenze europee lo avrebbero lasciato fare: l'Inghilterra era disposta a una politica di appeasement, e non avrebbe rischiato una nuova guerra che poteva segnare la fine del suo impero; la Francia, sebbene a parole avversa alle ambizioni naziste, sarebbe stata refrattaria a dichiarargli guerra una terza volta in settant'anni; l'America persisteva nel suo isolazionismo e la Russia aveva appena scelto il "socialismo in un solo paese". Hitler sapeva che il Reich non aveva amici né alleati, nemmeno l'Italia di Mussolini: anzi fu proprio il leader italiano la causa del fallimento dell'annessione dell'Austria nel 1934. I percorsi geopolitici di Hitler e Mussolini si avvicinarono solo nel 1935, con l'avventura italiana in Etiopia, e l'anno dopo nella guerra civile in Spagna. Nel novembre 1936 venne battezzato l'Asse Roma-Berlino, parallelo al patto anti- Comintern col Giappone, a cui aderì anche l'Italia (fu un trattato di alleanza politica, diretto contro l'Unione Sovietica, concluso il 25 novembre 1936 a Berlino tra il governo del Terzo Reich tedesco e quello dell'Impero giapponese, cui si aggiunsero, successivamente, l'Italia ed altri Paesi). Seguì il patto d'acciaio del 1939, ma l'alleato italiano veniva visto come militarmente troppo debole e politicamente poco affidabile. Nell'ottobre 1933 Hitler abbandonò la Società delle Nazioni, e l'anno successivo firmò un patto di non aggressione con la Polonia per evitare il conflitto con Parigi. Intanto Hitler dava slancio al riarmo, stabilendo un accordo navale con Londra. In pubblico Hitler proclamava la sua dedizione alla pace, ma puntava già al recupero delle terre perdute. 4 La guerra di Spagna. Nel percorso che portò la Germania alla Seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola fu una tappa rilevante. Non si trattava solo di uno scontro tra forze interne, ma fu anche teatro dell'intervento, diretto o indiretto, di potenze straniere: in particolare, si trattò della prima volta in cui tedeschi e italiani combatterono sullo stesso fronte. La guerra civile scaturì dalla ribellione (alzamenti di una parte delle forze armate spagnole contro il legittimo governo della Repubblica, proclamata dopo l'abdicazione del re Alfonso XIII.). La guida del paese era affidata al Fronte popolare, coalizione delle forze di sinistra, che aveva battuto il Fronte nazionale (formato dalle Nonostante ciò, la Polonia crollò già ai primi d'ottobre, senza dare il tempo alle due potenze di aprire un fronte sul Reno. I mesi successivi, fino al 10 maggio del 1940, si caratterizzarono per la mancata discesa in campo degli anglo-francesi che si stavano preparando alla guerra. Il periodo in questione, definito "STRANA GUERRA" infatti non era frutto della politica di appeasement del lungo tempo che serviva per mobilitare l'intero apparato industriale e bellico dei due grandi paesi. A ciò bisogna aggiungere la sicurezza della Francia di essere ben difesa dalla linea Maginot e dall'idea di entrambi i paesi di avere il tempo dalla propria quando, in realtà, Hitler mordeva il freno per accelerare le operazioni belliche. L'urgenza di guerra divenne frenesia per Hitler per vendicarsi di Versailles e di affermare il diritto al Lebensraum (Spazio vitale: voleva far diventare la Grande-Germania) per la superiore razza tedesca. Il Fuhrer intendeva chiudere al più presto la partita principalmente perché era convinto di avere una vita breve davanti a sé. Linea Maginot La linea Maginot era un sistema di fortificazioni permanenti eretto dalla Francia lungo la frontiera con l'Italia, la Svizzera, la Germania, il Lussemburgo e il Belgio ideata dal ministro della Guerra ANDRÈ MAGIONOT. - Linea difensiva-> composta da avamposti, barriere anticarro, filo spinato, artiglierie, caserme sotterranee e diverse infrastrutture come le ferrovie. – Nella concezione francese questa doveva essere una linea difensiva invalicabile in caso di attacco italiano o tedesco, ma era un progetto legato ancora a una visione di guerra basata sulla trincea. Quello che non veniva tenuto conto era il rinnovato potenziale dell’aviazione (Flotta aerea) e dei reparti corazzati (armamenti), cosa invece tenuta ben presente dal comando tedesco. - Questa linea difensiva, inoltre, non presentava fortificazioni permanenti in alcune zone considerate invalicabili, a cominciare dalle Ardenne da dove invece passarono i tedeschi. La linea Maginot ebbe un effetto psicologico negativo sui francesi che si convinsero di essere al sicuro dietro di essa. Ciò li spinse a rinviare l'offensiva fino all'invasione tedesca. • IL GOVERNO DELLA POLONIA OCCUPATA, L'ELIMINAZIONE DI POLACCHI ED EBREI Anche la Polonia come la Cecoslovacchia fu ridotta dal Fuhrer a una colonia del Reich. Lo scopo era quello di ripopolare la zona con tedeschi -> RIGERMANIZZARE e sfruttare il territorio polacco a beneficio dell’economia tedesca, tentativo che fallì a causa della carenza di coloni tedeschi, e di schiavizzare la “razza slava inferiore”. Slavi -> utili per i lavori forzati Tedeschi rispetto ai polacchi erano molti di meno -> non c’erano abbastanza coloni disponibili -> resta un’utopia la germanizzazione del territorio conquistato. La zona denominata Governatorato Generale, centrata su Varsavia e Cracovia, doveva invece essere la zona destinata ai polacchi e ridotta all’economia di sussistenza. L’occupazione nazista si tradusse anche nell’eliminazione o la prigionia di milioni di polacchi e, dal 1941, lo sterminio degli ebrei. La somma delle vittime in Polonia, sia nella metà nazista che in quella sovietica, è di circa 6 milioni. 2. Le campagne del nord L’INVASIONE SOVIETICA DEI PAESI BALTICI E DELLA FINLANDIA Dopo la presa della Polonia lo sguardo di Stalin si rivolse ai paesi baltici. Lo scopo era quello di creare una fascia di paesi che proteggesse la Russia dal futuro e inevitabile scontro con le "potenze imperialistiche", scontro che i sovietici cercavano di rinviare il più possibile per preparare il paese alla guerra. Nel giugno del 1940 Estonia, Lettonia e Lituania furono INVASE -> PROTETTORATO di MOSCA-> annesse ad agosto. L'altro obiettivo di Stalin era la FINLANDIA la cui conquista avrebbe rafforzato la protezione di Leningrado. Dopo inutili trattative, nel novembre del 1939 L'ARMATA ROSSA passò all'offensiva. Le TRUPPE FINLANDESI (attrezzate alla guerra invernale e più motivate) riuscirono a RESISTERE e l'unica cosa che ottenne Stalin fu l'espulsione dell'Urss dalla società delle Nazioni. Intanto a Parigi e a Londra si elaboravano fantasiosi piani di invasione della Norvegia, per impedire che sovietici e nazisti di impadronirsi dei porti scandinavi, dai quali contendere l'egemonia sull'Atlantico. Prima che questi piani potessero diventare concreti, Stalin ordinò una nuova offensiva sovietica contro la Finlandia, nel marzo del 1940, però, permise all'Unione Sovietica di acquisire alcune REGIONI ORIENTALI della Finlandia. L'INVASIONE TEDESCA DI NORVEGIA E DANIMARCA Per anticipare uno sbarco anglo-francese in Scandinavia che avrebbe interrotto i traffici di materiali ferrosi provenienti dai porti svedesi ed essenziali per L'INDUSTRIA BELLICA TEDESCA, Hitler preparò un PIANO D'INVASIONE (NORVEGIA): nei primi di aprile del 1940 i paracadutisti e la marina tedesca (Forze Navali) occuparono i principali porti norvegesi mentre la Wehrmacht (FORZE ARMATE TEDESCHE: Esercito) occupava la DANIMARCA. La spedizione per via mare anglo-francese in difesa della NORVEGIA fu un fallimento e il paese in giugno fu occupato dall'esercito tedesco controllo ampio dei porti strategici per colpire e per il flusso di materiali ferrosi. Alla SVEZIA fu RISPARMIATA l'invasione. In questo caso il Fuhrer, che in realtà voleva tenere fuori i "Cugini" scandinavi dalla guerra, diede ordine di trattare con rispetto popoli che considerava ariani tanto quanto quelli germanici. NUOVI LEADER PRONTI ALLA GUERRA IN FRANCIA E GRAN BRETAGNA. L’aggressività sovietica (Finlandia) e tedesca (Norvegia) nella regione scandinava ebbe come effetto la vittoria elettorale, in Francia e Gran Bretagna, di leader pronti a combattere la guerra fino in fondo. 21 marzo del 1940 in Francia venne eletto Paul Reynaud (successore di Edouard Daladier) che subito strinse un patto con Londra per assicurarsi reciprocamente contro qualsiasi pace separata con Berlino; 10 maggio in Gran Bretagna Winston Churchill (Conservatore) sostituiva Neville Chamberlain -> determinato ad impedire alla Germania di impadronirsi dell’Europa e non può più accettare che una sola potenza controlli il continente. 3. Hitler a Parigi, Mussolini a Mentone LA MINACCIA ANGLO-FRANCESE A OVEST Hitler comincia a pensare a un PIANO D’INVASIONE della Francia, da scatenare nell’ottobre 1939. OBIETTIVO: CONQUISTARE lo SPAZIO VITALE della Germania verso l’EST EUROPA e sottomissione delle “razze inferiori slave” -> la conquista dello spazio vitale non sarebbe mai stato sicuro con la minaccia ad occidente rappresentata da Francia e Inghilterra. Altro elemento che andava contro alla Francia era il revanscismo tedesco nei suoi confronti -> Hitler voleva vendicarsi per la Prima guerra mondiale e per l’umiliazione subita a Versailles. Con la Gran Bretagna il Fuhrer sperava di raggiungere un accordo che garantisse a Londra e Berlino, non amici ma nemmeno nemici, destinati almeno per una fase a non interferire -> in tal modo avrebbe potuto contare sulla costante neutralità degli Stati Uniti d’America. Nonostante ciò, Hitler non aveva progetti sul come organizzare la zona occidentale anche perché non aveva ben chiaro come classificare radialmente la popolazione oltre Reno. LA STRATEGIA PER SCONFIGGERE I FRANCESI Il piano di invasione della Francia prevedeva un BLITZKRIEG, dunque una guerra lampo, che aggirando la linea Maginot passando per il Belgio (Neutrale), doveva invadere il paese da nord con reparti corazzati per poi puntare su Parigi e accerchiare l'esercito francese costringendolo alla resa. Utilizzando forze mobili e manovrabili, inclusi carri armati, corazzati e supporto aereo >Un simile attacco porta idealmente a una rapida vittoria, limitando la perdita di soldati e artiglieria. La guerra doveva essere veloce così poi la Germania si sarebbe potuta occupare dell'Unione Sovietica. Tedeschi decisero di prepararsi per un conflitto più breve vinto attraverso manovre militari, piuttosto che in trincea. A spingere i nazisti ad invadere la Francia erano considerazioni strategiche, non ideologiche. I generali di Hitler temevano l'attacco francese alla Ruhr, cuore industriale e minerario del Reich, per diversi aspetti, almeno sulla carta superiore a quella germanica ma consideravano l'umiliazione di Parigi condizione necessaria a convincere Londra a non interferire nei piani di espansione di Berlino. Una guerra lunga e di logoramento, inoltre, si sarebbe tradotta in una sconfitta a lungo andare > avrebbe impedito al Reich di dedicarsi all'obiettivo principale> la guerra all'est, contro l'Unione Sovietica. L'INVASIONE E L'OCCUPAZIONE DI PARIGI Il 10 maggio 1940 iniziò l'OFFENSIVA: le forze armate tedesche penetrarono in Belgio, Olanda e Lussemburgo (Paesi neutrali) attraversando le Ardenne che i francesi, a torto, consideravano impenetrabili per le forze corazzate tedesche. In una settimina l'esercito tedesco, appoggiato dall'Aeronautica militare Luftwaffe, aveva messo fuori gioco i tre paesi neutrali e la FRANCIA: le truppe francesi e inglesi erano chiuse in una sacca L’idea di Mussolini, per non dimostrare la dipendenza dell’Italia dalla Germania, era quella di portare avanti una guerra parallela e di conseguire delle vittorie, almeno di facciata per la ripartizione delle spoglie dei vinti e di certo la presa di Mentone non poteva essere considerata tale e occorreva molto di più. I fronti in cui si impegnò l’Italia, perciò, furono due: il Mediterraneo e i Balcani. A contrapporsi alle mire espansionistiche fasciste era l’Impero britannico contro cui Mussolini indirizzò la propaganda. IL FRONTE AFRICANO E L’INTERVENTO TEDESCO La prima offensiva italiana si concentrò in Nordafrica: dalla Libia i 200 mila soldati italiani guidati da RODOLFO GRAZIANI dovevano occupare l’Egitto britannico così da prendere Suez e puntare ai giacimenti petroliferi mediorientali. Nonostante ad opporsi agli italiani ci fossero solo 30 mila inglesi, nel 1941 le truppe regie erano riuscite a spingersi solo fino a Bengasi. Le motivazioni di questo fallimento erano molteplici: la scarsa mobilità italiana, infatti benzina e camion scarseggiavano, l’inferiorità dei carri armati leggeri italiani («scatolette di latta») a confronto dei blindati britannici, i temporeggiamenti di Graziani. La Germania voleva rimanere fuori dallo scacchiere africano non voleva disperdere le forze e perdere di vista l’obiettivo strategico, lo “spazio vitale” dell’est, ma non poteva permettere che gli italiani venissero travolti in Africa, in quanto ciò significava concedere il Mediterraneo agli inglesi oltre che un trampolino di lancio da cui minacciare il continente. Per tale motivo Hitler decise di mandare un robusto contingente, l’Afrika Korps, guidato da Erwin Rommel in aiuto agli italiani. Da questo momento in poi gli italiani ebbero un ruolo subordinato anche nel fronte africano e ciò si tradusse in un’ulteriore umiliazione. Mussolini si confermava per i tedeschi più un problema che una risorsa. IL FRONTE BALCANICO E IL SOCCORSO TEDESCO. L’altro fronte in cui si impegnò Mussolini fu quello balcanico. In particolare, nell’ottobre del 1940 si diede inizio in segreto all’invasione della Grecia iniziando dall’Albania. Le avanguardie italiane passarono il confine greco, Hitler non era stato ufficialmente avvertito, ma da subito Hitler intuì le intenzioni di Mussolini e considerò la spedizione un errore grave, infatti dopo pochi chilometri l’avanzata italiana fu BLOCCATA (causa: piogge e del terreno irraggiungibile) e dopo poche settimane quella che doveva essere una passeggiata trionfale verso Atene si trasformò nella difesa dell’Albania dalla controffensiva ellenica. Anche qui la Germania si vide costretta a intervenire che nell’aprile del 1941 presero prima la Jugoslavia, per evitare che passasse in campo nemico, e la Grecia. GLI INSUCCESSI BELLICI ITALIANI E IL DECLINO DEL REGIME I palesi insuccessi militari del regime segnarono l’inizio della fine del fascismo. Il fallimento bellico fu sempre frutto dell’impreparazione dell’esercito e dell’incapacità dei comandi. L’avventurismo di Mussolini cominciò ad essere criticato sia dalla monarchia che dalle gerarchie del partito. Inoltre, la popolazione cominciava a sperimentare i sacrifici connessi alla guerra e l’umiliazione di essersi ridotti a satellite della Germania. L’aspirazione italiana a intraprendere una GUERRA PARALLELA si rivelò DISASTROSA, inoltre divenne sempre più palese che l’alleanza Roma-Berlino-Tokyo era tutto fuorché basata su strategie coordinate: ognuno seguiva i propri interessi e apriva i propri fronti. Questo fu uno dei motivi del FALLIMENTO DELL’ASSE. 6. Operazione “Barbarossa” L’ATTACCO TEDESCO E IL TRIPLICE FRONTE Il 22 giugno 1941 la Germania riversò contro l’Unione Sovietica 3 milioni e mezzo di soldati, più di 3000 carri armati, quasi 3000 aerei e più di 7000 cannoni. Alle 152 divisioni tedesche si aggiungevano 14 divisioni finlandesi, altrettante romene e un corpo di spedizione italiano formato da 60 mila uomini (Csir: Corpo di spedizione italiano in Russia). Mussolini, nonostante la contrarietà di Hitler, decise di inviare il corpo di spedizione per riparare all’umiliazione subita in Nordafrica e dimostrare di essere il “PRIMO ALLEATO” della Germania. Nonostante ciò, il corpo di spedizione era mal equipaggiato e non era pronto per affrontare l’inverso russo. L’attacco tedesco aprì nel vasto territorio russo tre fronti: 1. FRONTE SETTENTRIONALE a Leningrado. 2. FRONTE CENTRALE a Mosca. 3. FRINTE MERIDIONALE Fronte meridionale a Kiev e nel Caucaso. Durante tutta la guerra Hitler non seppe definire quale dei tre fronti fosse il più importante, anche se particolare attenzione fu riservata all’Ucraina per le risorse agricole e al Caucaso per quelle energetiche. La vastità del fronte (più di 2000 chilometri), l’allungamento delle linee di rifornimento e l’impossibilità di una Blitzkrieg in un fronte così vasto contribuì a demoralizzare le truppe. LE CONDIZIONI DELL’ARMATA ROSSA DURANTE L’ATTACCO Alle truppe naziste si contrapponeva l’Armata Rossa composta da 4 milioni e 700 mila soldati, di cui la metà era stanziata negli Urali, e poco meno di duemila carri armati. Tali forze furono prese di sorpresa dall’attacco tedesco, infatti il Cremlino (Fortezza Russa) era convinto di aver rimandato lo scontro con il patto di non belligeranza almeno fino al 1942. La strategia di Stalin dal patto di non aggressione con la Germania 23 agosto 1939, consisteva nel guadagnare tempo. Il dittatore sovietico non si faceva illusioni sull’evitabilità dello scontro con il Terzo Reich, inoltre Stalin era convinto che Hitler non avrebbe aperto un altro fronte senza prima aver liquidato la Gran Bretagna. La principale preoccupazione del dittatore, fino ad allora, era infatti il fronte contro il GIAPPONE. Il Giappone aveva però deciso di attaccare gli Stati Uniti, non l’URSS. Ciò permise alle Forze armate sovietiche di concentrarsi sul fronte occidentale, per respingere l’attacco nazista. Il problema principale che affliggeva l’Armata Rossa all’epoca era la scarsità di ufficiali; infatti, degli 80 mila ufficiali 30 mila erano stati arrestati o fucilati durante le purghe staliniane, mentre altri 10 mila erano stati degradati o esonerati. All’epoca di “Barbarossa” la riorganizzazione dell’Armata Rossa era appena stata cominciata e pochi erano gli ufficiali di esperienza ereditati dalla Prima guerra mondiale. Tra questi spiccava Georgij Zukov, massimo stratega dell’Armata Rossa. LA FULMINANTE AVANZATA TEDESCA E I MASSACRI NAZISTI Le condizioni in cui versava l’Armata Rossa spiegano la fulminea avanzata della Wehrmacht che già nell’estate-autunno del 1941 aveva posto sotto assedio Leningrado, mentre nel novembre dello stesso anno era arrivata alle periferie di Mosca, Kiev, Odessa e Rostov, pronta ad avventarsi sul Caucaso. Nonostante ciò, contrariamente alle previsioni di Hitler, l’Unione Sovietica non collassò, inoltre, anche in quelle zone dove i tedeschi furono visti come liberatori (Ucraina e paesi baltici-> odiano il regime bolscevico), le truppe naziste divennero subito sgradite alla popolazione a causa dei massacri compiuti ai danni dei civili. Alla fine, si conteranno a milioni le vittime civili della furia nazista, scatenata contro i «subumani» slavi quasi come contro gli ebrei. LA SVOLTA NAZIONALISTA DI STALIN E LA “GRANDE GUERRA PATRIOTTICA” La situazione in cui si veniva a trovare l’Unione Sovietica spinse Stalin a lanciare la carta del patriottismo per legare la popolazione contro il nemico occupante: nei primi di luglio del 1941 Stalin lanciò via radio la “grande guerra patriottica” combattuta NON IN NOME DEL COMUNISMO, ma della TRADIZIONE della GRANDE RUSSIA. Un fattore che in questa fase andò a favore dell’Unione Sovietica fu la grande disponibilità di uomini, infatti, nonostante le quasi tre milioni di perdite, il Cremlino riusciva a RIMPOLPARE (Arricchire) le file dell’Armata Rossa. A ciò si aggiunse la presenza dell’apparato industriale e bellico che, durante l’invasione, fu fatto spostare dalla Russia europea agli Urali. Il capo di Stato maggiore dell’Esercito tedesco, Franz Halder, già l’11 agosto 1941: “Sottovalutato il colore Rosso…Essi si trovano vicino alle loro risorse, mentre noi ci spostiamo sempre più lontano dalle nostre”. LE DIFFICOLTÀ DELL’ESERCITO TEDESCO E LA CONTROFFENSIVA SOVIETICA. Il Reich doveva impegnarsi su più fronti -> compreso il Nordafrica. Dopo la vittoriosa e fulminea avanzata, la Wehrmacht cominciava a sentire il peso della carenza di effettivi, impegnati nei diversi fronti (tra cui quello Nordafricano) o nel mantenimento delle zone occupate, del vantaggio logistico e morale dell’unione Sovietica che era avvantaggiata e motivata dal fatto che combatteva sul suo territorio nazionale, dell’ostilità delle popolazioni occupate e delle condizioni climatiche dell’inverno in arrivo. La prima svolta della campagna di Russia si ebbe all’inizio del dicembre del 1941, quando l’Armata Rossa, rafforzata dalle truppe provenienti dalla Siberia, respinsero le avanguardie tedesche a Mosca e iniziarono la controffensiva. Nonostante il contrattacco russo non fosse decisivo, metteva fine alle speranze tedesche di schiacciare l’Unione Sovietica con una breve campagna. Molto più sconnesso il cammino che portò gli Stati Uniti al conflitto con il Giappone. Anche perché l’obiettivo della Casa Bianca era la guerra alla Germania nazista, non all’Impero giapponese. Cercando lo scontro con Hitler, Roosevelt si trovò di fronte un altro nemico. LE STRATEGIE PRE-BELLICHE STATUNITENS Da subito Roosevelt si era dimostrato dalla parte della Gran Bretagna, in particolare dopo la caduta della Francia che era vista come un rischio anche per gli States -> aveva tratto la conclusione che l’America fosse sotto attacco. La Casa Bianca, allora, aveva cominciato a portare avanti una politica di aiuto verso i fratelli inglesi, nonostante ciò, l’intervento non era ancora possibile a causa della contrarietà dell’opinione pubblica, che si sentiva sicura e lontana dallo spettro della guerra, e di buona parte del Congresso, formato da neutralisti e isolazionisti. Roosevelt, anche davanti all’opposizione dell’opinione pubblica e del Congresso, era convinto che l’entrata in guerra dell’America fosse inevitabile, per tale motivo decise di giocare la carta dell’IDEALISMO e dell’interesse nazionale, e in un DISCORSO del gennaio 1941 davanti al Congresso con cui il presidente definiva gli Stati Uniti d’America come garante nel mondo delle Quattro Libertà: di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura. Il 7 DICEMBRE 1941, mentre gli aerei giapponesi volavano verso Pearl Harbor, il popolo americano era tuttora convinto che la guerra non fosse imminente. E che comunque il pericolo principale non venisse dal Pacifico. Quanto al secondo aspetto, quello STRATEGICO, l’attenzione era concentrata sull’Atlantico: Nonostante ciò gli States, per tutelarsi occuparono prima della Groenlandia (8 aprile) e poi dell’Islanda (7 luglio), per impedire che la Germania le utilizzasse come basi di un eventuale attacco al continente americano. LA FIRMA DELLA CARTA ATLANTICA La sintesi fra i due momenti – idealistico e strategico – si ebbe il 14 AGOSTO 1941, con la FIRMA della CARTA ATLANTICA da parte di Roosevelt e Churchill, al loro primo incontro nella baia di Terranova. In questo documento d’impronta wilsoniana veniva definito il futuro ordine mondiale. Il documento affermava principi ispirati ai valori del liberalismo e dell’internazionalismo di stampo wilsoniano, che in parte ripetevano il discorso rooseveltiano sulle Quattro Libertà. Principi come: - l’autodeterminazione dei popoli, - l’espansione della democrazia -> Si doveva ricercare la cooperazione economica fra tutte le nazioni e sviluppare il benessere sociale. - Le barriere doganali dovevano essere abbassate. - Il non riconoscimento delle terre conquistate con la forza -> Stati Uniti e Gran Bretagna non puntavano a ingrandimenti territoriali. - Eventuali cambiamenti di frontiera dovevano avvenire per consenso. - Bisognava combattere per un mondo libero dalla paura e dal bisogno. - La navigazione doveva essere libera. - Gli aggressori andavano disarmati e dopo la guerra bisognava concordare un disarmo comune. Churchill non era entusiasta della parte della Carta che parlava del diritto dell’autodeterminazione dei popoli, in quanto rappresentava una bomba a orologerie per l’Impero coloniale britannico. D’altra parte, il primo ministro inglese non era nelle condizioni di obbiettare, in quanto l’aiuto americano era essenziale per la sopravvivenza del Regno Unito e la firma della Carta atlantica  era un altro passo verso l’alleanza con gli States. Con questo documento non si andava contro non solo a quello che rappresentavano i regimi fascista e nazista, ma anche a all’imperialismo nipponico contro cui montava sempre più la critica dell’opinione pubblica americana anche per l’influenza che su di essa aveva la “Cina Lobby”, un gruppo di pressione molto influente. A pochi mesi da Pearl Harbor, Roosevelt concentrava ancora la sua attenzione sul teatro (zona) atlantico e sull’Europa, nella convinzione, mantenuta per tutta la guerra, che quella fosse il contesto strategico decisivo. Ma a ben guardare la Carta atlantica, si applicava anche alle conquiste giapponesi in Cina, che gli Stati Uniti non avevano alcuna intenzione di riconoscere. La collisione si avvicinava perché Tokyo, volta a rafforzare la sua sfera d’influenza asiatica, si opponeva agli Stati Uniti, una costruzione ideale dalle profonde conseguenze geopolitiche che forse a Roosevelt stesso – come a Wilson nel 1917 – non erano del tutto chiare. PEARL HARBOUR E LA DICHIARAZIONE DI GUERRA DELLA GERMANIA AGLI STATES Il 7 dicembre del 1941 l’aeronautica giapponese attaccava la flotta americana stanziata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, distruggendo 6 corazzate e mettendone fuori gioco 2. Molti aerei furono gravemente danneggiati e i morti, tra soldati e civili, furono quasi 2500. La CONSEGUENZA di questo attacco giapponese a Pearl Harbor è dichiarazione di guerra da parte di Hitler e Mussolini agli States, aprendo così un NUOVO FRONTE BELLICO (parallelo ma non direttamente correlato alla guerra in Europa) che spostava a sfavore dell’Asse gli equilibri bellici globali, in particolare in un momento segnato dal fallimento dell’operazione “Leone Marino” e dall’impantanamento di “Barbarossa”. La scelta di Hitler di dichiarare guerra agli Stati Uniti fu sicuramente dettata dalle clausole del patto Tripartito, ma anche da una sottovalutazione del potenziale bellico americano e dalla convinzione che il paese si sarebbe impegnato e logorato nel Pacifico lasciando campo libero alla Germania nell’Atlantico per uno scontro diretto con Gran Bretagna e Unione Sovietica. Certo Hitler aveva promesso al governo di Tokyo di scendere in campo al suo fianco se i giapponesi avessero attaccato l’Impero britannico in Asia. Incontrando il 14 luglio 1941 l’ambasciatore giapponese Oshima, il capo del Terzo Reich gli aveva illustrato la coincidenza d’interessi tra i due Imperi: - quello germanico era MINACCIATO a ovest dall’America, a est dall’URSS; -quello nipponico, a ovest dall’URSS e a est dall’America. Combattendo insieme gli STESSI NEMEICI, i due eserciti si sarebbero un giorno incontrati lungo la Transiberiana, probabilmente a Omsk, per stringersi la mano sulle rovine dei colossi rivali. Inoltre, Hitler aveva sottovalutato la potenza e la volontà di combattimento degli Stati Uniti. Infine, il Führer immaginava che Roosevelt avrebbe finito per logorarsi sul fronte del Pacifico, lasciandogli campo libero su quello Atlantico. UNO SCONTRO GLOBALE Nel DICEMBRE 1941 la collana delle «guerre lampo» con cui Hitler aveva sperato di cogliere la vittoria finale veniva così a esaurirsi. Si cristallizzava invece una costellazione strategica che sarebbe rimasta immutata fino alla fine della guerra – ormai mondiale, tanto da estendersi in continuità sui tre oceani Atlantico, Indiano e Pacifico, e da coinvolgere attori di tutti i continenti. Da una parte le tre potenze dell’Asse: Germania, Giappone e Italia, peraltro impegnate con i loro satelliti – tra cui Bulgaria, Romania, Ungheria, Croazia e Jugoslavia – in campagne non coordinate, tali da drenare le rispettive risorse piuttosto che convogliarle verso un obiettivo comune che non poteva essere chiaramente definito. Dall’altra la coalizione «anti-Hitler», mai formalizzata, composta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica– cui si unirono, quando la loro vittoria apparve più probabile, varie potenze minori, alcune delle quali già aderenti all’Asse. Fino al 1944, Stalin fu solo contro Hitler nella guerra europea, mentre Londra e Washington erano impegnate soprattutto sui mari e nell’aria lungo l’asse dei tre oceani. Inoltre, Giappone e Unione Sovietica si davano le spalle: - Il primo, Giappone, impegnato contro gli angloamericani nell’Asia-Pacifico contro Hitler in Europa; - la seconda, Unione Sovietica contro la Germania in Europa. -Gran Bretagna contro Italia e Germania in Africa. Quando Stalin dichiarò guerra all’Impero nipponico, il 9 agosto 1945, la Germania era stata debellata (distrutta). 2. La Shoah e la guerra di Hitler IL PROGETTO HITLERIANO DI ELIMINAZIONE DEGLI EBREI Per Hitler la guerra avrebbe dovuto risolvere una volta per tutte la questione ebraica. In effetti, furono 6 milioni circa gli ebrei sterminati dai nazisti fra il 1941 e il 1945, insieme a centinaia di migliaia di zingari e di appartenenti a «razze inferiori», nel contesto di una «rivoluzione biologica» avviata da Hitler già prima dello scoppio del conflitto con i programmi di eutanasia ai danni delle «vite non degne di essere vissute». Lo scopo di questa operazione era quello di “purificare la razza” e di germanizzare lo spazio vitale. L’obiettivo finale era la GERMANIZZAZIONE dello «spazio vitale» nell’Europa centro-orientale->una geopolitica del sangue e del suolo, che mirava a rendere coerente razza e territorio. che aveva per portarsi in vantaggio era quello di applicare una STRATEGIA COMUNE e non di combattere ognuno per se. Continuare a combattere guerre separate: - Giapponesi contro americani, - Inglesi in Asia e sugli oceani, - Tedeschi e italiani contro inglesi in Nordafrica e nel Mediterraneo, - Tedeschi e satelliti europei (compresa un’armata italiana) contro sovietici nelle regioni occidentali dell’URSS. Significava avviarsi a perdere ciascuno nei rispettivi scacchieri, oppure optare per una pace separata con questa o quella potenza nemica, ciò che per Hitler, perno dell’alleanza dei tre Imperi, era inconcepibile. Già nel gennaio del 1942 la DIPLOMAZIA TEDESCA si impegnò per convincere i giapponesi di applicare una strategia comune. Tale strategia prevedeva un’operazione A TENAGLIA dall’Asia sud- orientale, dal Caucaso e dal Nordafrica (Suez) per circondare l’Urss, in modo che non potesse più ricevere aiuti militari dagli Stati Uniti stavano sostenendo la resistenza, e puntare sull’India per conquistarla, facendo pressione sui nazionalismi locali, in modo da far crollare l’Impero britannico. India -> cuore dell’Impero britannico. Sul come sconfiggere gli Usa, Hitler ammetteva in privato di non avere alcuna idea. Forse si illudeva che, liquidato l’alleato britannico e accerchiata l’URSS, Roosevelt avrebbe ripiegato, accontentandosi di mantenere il controllo del suo continente. LE INCERTEZZE STRATEGICHE DEI GIAPPONESI Per quanto riguarda il Giappone i vertici dopo Pearl Harbour erano indecisi per quale strategia attuare, erano due: 1. l’ammiragliato (ministero della marina) proponeva di proseguire la guerra nel Pacifico per sfidare gli Stati Uniti e l’Impero britannico spingendosi alla conquista delle Midway e da lì delle Hawaii; 2. altri suggerivano di porsi sulla difensiva e di concentrarsi sul continente e, appoggiandosi ai nazionalisti di Subhas Bose, liberare l’India dal controllo dei britannici. Il rischio di perdere l’India, in cui oltre ai nazionalisti di Bose era nato il Partito del Congresso guidato da Mahatma Gandhi, spinse Londra a promettere l’indipendenza a guerra finita. Per il Führer, la perla dell’Impero britannico andava conquistata e soggiogata, non consegnata ai nazionalisti indiani. Emergeva qui una differenza di notevole impatto strategico fra l’imperialismo tedesco e quello giapponese, dunque tra la concezione germanica dello «spazio vitale» e quella nipponica della «sfera di co-prosperità asiatica”.  La Germania nazista non volle mai elaborare per il dopoguerra un concreto progetto di comunità europea.  A differenza della Germania, il Giappone provò ad articolare compiutamente il progetto di una comunità di Stati asiatici a egemonia nipponica. IL PROGETTO GIAPPONESE PER L’ASIA Il progetto del Giappone in Asia, considerata “SFERA DI CO-PROSPERITÀ ASIATICA”, si basava, come l’idea dello “spazio vitale” tedesco sulla superiorità razziale. Nonostante ciò, al contrario della Germania, il primo obiettivo dei giapponesi era di cacciare i Colonialisti “bianchi” dal continente e per farlo erano disposti a mettere da parte i pregiudizi di sangue e creare una grande comunità di Stati asiatici, anche se basata sulla superiorità nipponica. Per Hitler, invece, la creazione di una comunità europea era impensabile perché, secondo la sua visione, gli altri popoli non erano degni di convivere con quello superiore tedesco. La linea giapponese si affermò soprattutto nel 1943 quando il nuovo ministro degli Esteri, Mamoru Shigemitsu, nel novembre convocò la conferenza della Grande Asia dell’Est a cui parteciparono i rappresentanti di Giappone, Manchukuò, Cina, Birmania, Filippine e Thailandia, insomma tutti i nazionalismi asiatici antieuropei. Alla base del progetto della Grande Asia dell’Est c’era il motto “l’Asia agli asiatici” e la lotta dello “spiritualismo orientale” contro il “materialismo occidentale”. L’asianismo giapponese, anche se solo di facciata, mobilitò una serie di movimenti anticoloniali che volevano approfittare della guerra per raggiungere l’indipendenza. LE SCONFITTE GIAPPONESI NEL PACIFCO Il primo colpo d’arresto il Sol Levante lo subì nella BATTAGLIA DELLE MIDWAY, nel giugno 1942, quando la marina nipponica perse 4 delle sue migliori portaerei. Gli americani, insieme con gli inglesi e altri alleati, inflissero poi un’altra severa sconfitta ai giapponesi nella campagna di Guadalcanal, nelle isole Salomone (agosto 1942 – febbraio 1943) -> Da allora in avanti, la sconfitta totale del Giappone era questione di tempo. IL FRONTE NORD-AFRICANO: DA EL ALAMAIN ALLO SBARCO IN ALGERIA E MAROCCO. Nei primi di luglio del 1942 le truppe italo-germaniche guidate da Rommel avevano raggiunto EL ALAMEIN, a 90 km da Alessandria. Nonostante ciò, i britannici, guidati dal nuovo comandante Bernard Montgomery, riuscirono a radunare forze almeno il doppio più numerose di quelle italo- germaniche, peraltro esauste. Con la vittoria nella battaglia di El Alamein, (fra il 23 ottobre e il 5 novembre 1942) l’VIII armata di Montgomery sfondò le linee nemiche mentre Rommel, disobbedendo a Hitler, batteva in ritirata. Raggiunta la Tunisia nel maggio del 1943 le truppe italo-germaniche furono costrette ad arrendersi. Per Churchill El Alamein «non è la fine; non è nemmeno l’inizio della fine. Però è, forse, la fine dell’inizio». La sconfitta dell’Asse in Nordafrica fu suggellata (sigillata) dallo sbarco angloamericano in Marocco e in Algeria dove fu subito sconfitta la blanda resistenza posta dalle truppe fedeli a Vichy (Francia). IL SUMMIT DI CASABLANCA. Nel gennaio del 1943, mentre le truppe angloamericane sconfiggeva quello che restava delle truppe italo-germaniche, Roosevelt e Churchill si incontrarono sulla costa atlantica del Marocco a Casablanca. Stalin, che fu invitato, non partecipò ufficialmente perché troppo impegnato in patria, nella sua scelta pesò anche, insieme all’avversione per i viaggi in aereo era anche irritato per la scelta americana e britannica di sbarcare nel Nordafrica invece di aprire subito un secondo fronte contro la Germania sul suolo europeo, che avrebbe alleggerito la pressione tedesca sull’Armata Rossa. La principale decisione che venne presa a Casablanca fu quella di IMPORRE la RESA INCONDIZIONATA alle potenze dell'ASSE. Con questa scelta Roosevelt e Churchill vollero rassicurare Stalin, che sospettava la loro disponibilità a una pace separata con la Germania. La dichiarazione di Casablanca intendeva equilibrare il rinvio con la promessa di non trattare con Hitler alle spalle dell'Unione Sovietica. LA SVOLTA SUL FRONTE RUSSO CON LA BATTAGLIA DI STALINGRADO Mentre Churchill e Roosevelt discutevano a Casablanca, l'Armata Rossa stringeva l'oppressione sulla VI armata tedesca. La presa di quell’importante centro industriale doveva servire, nei piani di Hitler, ad aprire la strada verso il Caucaso e il petrolio del Caspio-> Obiettivo fondamentale, perché il carburante scarseggiava e le già mobilissime truppe germaniche erano ora costrette a rallentare per carenza di benzine. Ma la resistenza di Stalingrado superò le aspettative dei tedeschi e dei loro alleati romeni, ungheresi e italiani. Fu uno scontro infernale punto la battaglia per la città, iniziata nel settembre del 1942, si concluse solo il 2 Febbraio 1943ccon la resa dei superstiti della VI armata. STALINGRADO divenne subito un SIMBOLO -> Per i sovietici, si trattava della prima grande vittoria. - Per i tedeschi, la FINE del MITO della loro IMBATTIBILITÀ sul campo. - Per l’Armata Rossa, si apriva la prospettiva della LIBERAZIONE della PATRIA. E quindi della marcia su Berlino che avrebbe posto per sempre FINE al Terzo Reich «millenario». 4. Crollo del fascismo e collasso dell’Italia I BOMBARDAMENTI ALLEATI SULL’ITALIA Alla fine di ottobre 1942 iniziarono i bombardamenti alleati contro cui l’aereo nautica e la contrae aerea italiana non potevano niente. Bombardamenti si concentrarono soprattutto sul “triangolo industriale”. Il 23 ottobre 1942, l’aviazione (flotta aerea) britannica scatenava l’inferno su Genova e successivamente Milano e Torino -> Il vero obiettivo degli ATTACCHI ALLEATI era di SPEZZARE IL MORALE DEGLI ITALIANI e con esso il VINCOLO che li teneva ancora LEGATI al regime e allo Stato, Obiettivo centrato tra il 25 LUGLIO 1943 (caduta del Fascismo) e l’8 settembre dello stesso anno. Col passare del tempo i bombardamenti si intensificarono culminando nel bombardamento di Roma del luglio 1943 che causò 3000 morti. Lo scopo dei bombardamenti sui centri abitati era quello di demoralizzare la popolazione e far cedere il fronte interno(cosa che effettivamente avvenne). L’Italia fascista fu il primo paese dell’Asse a crollare. La sconfitta italiana fu quindi MORALE prima che strategica. La guerra aveva messo a nudo le fragilità del dualismo fascio-monarchico e del sentimento nazionale. nel nord per appoggiare i nazisti e occuparsi della repressione interna. La repubblica fu da subito privata dei territori del Sudtirolo e della costa adriatica, compresa Trieste, annessi al Reich. LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA La Repubblica Sociale fu posta formalmente sotto la guida di un Mussolini fiaccato dall’insuccesso. Al PNF si era sostituito il Partito fascista repubblicano che aveva recuperato i tratti socialisteggianti e anticapitalisti del primo fascismo. Alla base del nuovo partito c’era il programma varato il 14 novembre al congresso di Verona. Questo programma proponeva un progetto para-rivoluzionario inapplicabile, soprattutto in tempo di guerra, che però attirò diverse figure, dai sostenitori del razzismo come Giovanni Preziosi ai comunisti in camicia nera come Nicola Bombacci, passando per i fascisti fanatici come Alessandro Pavolini. La Repubblica di Salò (dalla città dov’era informale del Governo) era dotata di un apparato burocratico civile che versava nelle casse naziste svariati miliardi di lire come spese di occupazione, una diplomazia, una polizia e delle Forze armate. I combattenti schierati nel fronte interno dalla Repubblica Sociale erano circa mezzo milione, a dimostrazione di come il fascismo e Mussolini avesse ancora presa in una parte, anche se molto minoritaria, della popolazione. IL REGNO DEL SUD Nel sud invece si era formato il Regno del Sud, guidato dal re e da Badoglio che, nell’ottobre, aveva dichiarato guerra alla Germania. A questo punto l’Italia assumeva il titolo di Stato nemico, ma cobelligerante. A riprova di ciò reparti italiani furono inseriti nello schieramento antitedesco già dal dicembre del 1943. Nel Regno, il 9 settembre del 1943, i nuovi e vecchi partiti antifascisti si riunirono nel Comitato di Liberazione Nazionale (CNL). Al suo interno un ruolo preminente lo aveva il PCI che si trovò a partecipare, assieme a socialisti, democristiani, azionisti, liberali e democratici del lavoro, al secondo governo Badoglio, nato nell’aprile del 1944, e al successivo governo di Ivanoe Bonomi. Col ritorno di Palmiro Togliatti, il PCI, su indicazione di Stalin, aveva messo da parte l’ideologia per appoggiare un governo che sostenesse l’impegno bellico. Paradossalmente il PCI si dimostrò più moderato dei repubblicani che non entrarono nel secondo governo Badoglio perché contrari alla monarchia. IL MOVIMENTO PARTIGIANO Nel frattempo, dopo l’8 settembre, i militanti dei diversi partiti, alcuni renitenti alla leva di Salò e soldati in clandestinità avevano dato vita a gruppi partigiani che si opponevano al nazifascismo. Tra questi i più numerosi i organizzati erano i comunisti riunitisi nelle Brigate Garibaldi. Il rapporto tra partigiani e alleati non fu mai idilliaco -> Gli alleati non vedevano con simpatia i partigiani. Questi ultimi si servivano dei primi, ma stentavano ad aiutarli e a rifornirli. In particolare, dopo la caduta di Montecassino, lo sfondamento della linea “Gustav”, la presa di Roma il 4 giugno del 1944 e il proclama del generale inglese Harold Alexander, con cui chiese ai partigiani di tornare a casa, i rapporti si incrinarono ancora di più. Nel frattempo, gli alleati si arenavano lungo la linea “Gotica”, tra Carrara e Pescara, per ragioni metereologiche. Alla fine, il rapporto tra alleati e partigiani si stabilizzarono quando il Comando supremo alleato del Mediterraneo, il 7 dicembre del 1944, firmò un accordo col Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI): al CLNAI venivano delegati i poteri amministrativi fino alla fine della guerra, dopodiché il Comitato li avrebbe restituiti al governo militare alleato e avrebbe consegnato le armi. LIBERAZIONE DI ROMA L’occupazione nazista della capitale era iniziata l’8 settembre del 1943 e, nonostante il governo avesse proclamato Roma “città aperta” e quindi priva di difese, i tedeschi vi avevano installarono reparti delle Forze armate e delle SS. Nel gennaio del 1944 le truppe angloamericane erano sbarcate ad Anzio, ma invece di approfittare dell’impreparazione dei tedeschi, colti di sorpresa, decisero di radunare le forze piuttosto che marciare subito sulla capitale. I tedeschi al comando di Kesselring ne approfittarono sbarrando la strada agli americani e dando vita a uno scontro durato quasi sei mesi. Durante l’occupazione nazista la popolazione romana dovette subire le violenze degli occupanti. Il caso più grave fu quello delle Fosse Ardeatine: 335 innocenti furono fucilate come rappresaglia (rivincita) per la morte di 33 militi tedeschi uccisi da una bomba piazzata dai partigiani in via Rasella. Tra il 4 e il 5 giugno del 1944 le avanguardie delle V armata americana guidata dal generale Mark Clark entrarono a Roma accolti come liberatori. L’INSURREZIONE GENERALE E L’UCCISIONE DI MUSSOLINI Fra il 23 e il 25 APRILE 1945 scattò l’insurrezione (rivolte) generale nelle grandi città del nord: mentre i reparti tedeschi stavano collassando e i russi entravano a Berlino, i partigiani riuscirono in alcuni casi ad anticipare gli alleati e a liberare le città. Il 27 aprile Mussolini fu bloccato a Dongo mentre fuggiva in Svizzera vestito da tedesco e fucilato il giorno seguente. Il 29 aprile il suo copro fu esposto assieme a quello di altri 16 gerarchi e dell’amante Claretta Petacci a piazzale Loreto di Milano, presso un distributore di benzina, come vendetta per la fucilazione e la lunga esposizione dei cadaveri di 15 partigiani avvenuta nello stesso luogo il 10 agosto del 1944. LA RESISTENZA: TRA GUERRA CIVILE E DI LIBERAZIONE E IL RUOLO DEI PARTIGIANI NELLA GUERRA La guerra partigiana fu sempre vista solo come una GUERRA DI LIBERAZIONE, nonostante ciò molti ambienti della destra neofascista e non sostenevano anche la tesi secondo cui quella tra partigiani e repubblichini fu una guerra civile. Questo argomento è sempre stato al centro delle polemiche politiche tra destra e sinistra. Oggi la storiografia riconosce che quella avvenuta tra il 1943 e il 1945 fu una guerra di LIBERAZIONE dall’occupante nazista e CIVILE contro il fascismo. Anche sul ruolo e l’utilità bellica delle brigate partigiane si discuteva e si discute molto. La cosa certa è che quello italiano fu il movimento resistenziale più grande dell’Europa centro-occidentale: i combattenti clandestini furono almeno cento mila al tempo del proclama Alexander e si raddoppiarono nelle ultime settimane di guerra. I caduti partigiani furono circa 35 mila a cui si sommano migliaia di civili massacrati dai nazifascisti come rappresaglia a Marzabotto in Emilia, Sant’Anna di Stazzema in Toscana, nelle Fosse Ardeatine a Roma e via dicendo. 5. Agonia e fine del Terzo Reich LE DIFFICOLTÀ MILITARI DEL TERZO REICH E LE SPERANZE DI HITLER Dopo la vittoria sovietica a Stalingrado la situazione peggiorava ogni giorno per l’Asse: la guerra degli U-Boote era stata interrotta nel maggio del 1943 per le ingenti perdite, l’Armata Rossa continuava ad avanzare e l’offensiva di Kursk dovette essere annullata per inviare truppe in Italia dove si era aperto il fronte meridionale. Nonostante ciò, Hitler sperava che il fronte alleato, così eterogeneo, si sarebbe rotto. La speranza in particolare ricadeva sul popolo britannico, considerato razzialmente affine. Il Fuhrer credeva infatti di riuscire gli inglesi ad unirsi a lui nella lotta antibolscevica. Con la morte di Roosevelt nell’aprile del 1945, alla vigilia del crollo tedesco, Hitler si convinse che si sarebbe ripetuto il “miracolo della casa di Brandeburgo”, quando nella seconda metà del Settecento, durante la guerra dei Sette anni, Federico II, con i russi alle porte, fu salvato dalla morte della zarina Elisabetta. Ciò, però, non si sarebbe mai realizzato: Gli americani, capito che l’unica potenza del dopoguerra dopo quella statunitense sarebbe stata quella sovietica, avevano deciso di tenersi amica l’Urss per evitare una terza guerra mondiale subito dopo la seconda. L’INCONTRO DI QUÈBEC Nell’agosto del 1943 si tenne l’incontro di Québec fra Churchill e Roosevelt dove si stabilì che l’invasione dell’Europa sarebbe iniziata nella primavera del 1944 dal nord della Francia. Inoltre, i due si accordarono segretamente sul quando utilizzare la bomba atomica che era quasi stata ultimata nei laboratori americani. Stalin accolse con sollievo la notizia dell’apertura di un altro fronte in Europa e promise che, caduta la Germania, sarebbe entrato in guerra contro il Giappone. L’ORDINE MONDIALE POSTBELLICO In questi tempi i diversi leader cominciarono anche a pensare all’ordine postbellico futuro. Il progetto di Roosevelt era assai idealista, infatti prevedeva l’esistenza di “quattro poliziotti” – Stati Uniti, Urss, Gran Bretagna e Cina – che avrebbero vegliato sul nuovo ordine mondiale. A ciò aggiungeva la sua contrarietà alle ambizioni francesi e britanniche di mantenere i propri imperi. Diversamente da Roosevelt, Churchill era preoccupato di mantenere il più possibile integro l’Impero britannico. La sua idea era spartirsi l’Europa in zone di influenza secondo percentuali concordate, ma né Roosevelt, né Stalin vollero compromettersi. Stalin, dal canto suo, era convinto che a guerra finita le truppe sarebbero rimaste padrone del territorio occupato. LA CONFERENZA DI THRAN I tre Grandi si incontrarono per la prima volta insieme a Tehran tra il 28 novembre e il 1° dicembre del 1943. L’ordine del giorno era lo sbarco angloamericano in Francia che Stalin avrebbe sostenuto lanciando un’offensiva a oriente. Per quanto riguarda l’ordine postbellico l’unica cosa che venne decisa fu di far slittare la Polonia a ovest a danni della Germania e di consegnare all’Urss la Prussia orientale.
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