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RIASSUNTI COMPLETI - Diritto del lavoro (L.Gaeta), Sintesi del corso di Diritto del Lavoro

Riassunto completo (senza eliminare nulla) dei 2 libri ("Storia illustrata del diritto del lavoro italiano" e "Appunti dal corso di diritto del lavoro") che devono essere studiati per conseguire l'esame di "Diritto del lavoro" all'Università di Giurisprudenza di Siena

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 22/09/2021

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tarquinioprisco 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTI COMPLETI - Diritto del lavoro (L.Gaeta) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! LIBRO: “STORIA (ILLUSTRATA) DEL DIRITTO DEL LAVORO ITALIANO” PREISTORIA DEL DIRITTO DEL LAVORO Vediamo come il diritto del lavoro è divenuto valore fondante della Rep (art 1 Cost). Ogni epoca ha la sua concezione di ‘diritto del lavoro”; in quello attuale per la 1° volta l’elemento centrale non è il lavoro, ma il lavoratore — diritto del lavoro industriale (sta per esser sostituito da uno nuovo). Antichità — per la polis il lavoro non è un valore; a Roma domina il lavoro servile, cui evoluzione è la locatio servi (cessione temporanea del mio schiavo come lavoratore altrui), estesa al liberto. Vi son poche tipologie regolamentate di lavoro libero, riconducibili alla locatio operarum-operis (lavoro subordinato-autonomo: lavoro in cambio di corrispettivo); accanto vi son le professioni liberali (commercianti-artigiani), associate in collegia per tutelarsi. In epoca tardo-antica particolare rapporto di lavoro è il colonatus, che sostituisce l’attività servile in ambito agricolo, aprendo la strada alla servitù della gleba. Pure la legislazione romano-barbarica (VI) presenta interessanti norme sul lavoro. Medioevo — lavoro è utile all’equilibrio sociale: fulcro è la bottega artigiana. Nel mondo feudale il lavoro agricolo è il vincolo che lega il contadino alla terra, che evolve da servitù della gleba (alto medioevo) a mezzadria (stagione comunale): nasce il modello della ripartizione degli utili, caratterizzato dal rapporto di lavoro tra famiglia contadina e proprietario, e viene pure rivalutato il lavoro manuale (dignità salvifica) da F. d'Assisi. Età moderna — nel lavoro artigianale sorge il verlag (antenato del rapporto di lavoro): il mercante va trasformandosi in datore di lavoro. Il lavoro per i cattolici diviene il modo per espiare il peccato originale, per i protestanti segno della grazia divina. Nel 700 prime forme di capitalismo (lavoro industriale) pervadono pure l’agricoltura. Nell’ancien regime il lavoro non è libero perché legato alla dimensione corporativa o a relazioni di sottomissione. Per l’Illuminismo (XVIII) il lavoro è l'occupazione cui l’uomo è condannato per sue necessità. A liberare il lavoro è la Riv francese; la borghesia detta valori spiazzanti rispetto ai precedenti, riassumibili in 2 prin (riconosciuti nel Code Napoléon, 1804): 1. Libertà individuale: non si lavora per appartenenza a uno status (corporativismo: esser lavoratore), ma stipulando un contratto (fare il lavoratore). 2. Divieto (Luigi XVI e L. Le Chapelier) d’entità intermedie (corporazioni-coalizioni) tra individuo-Stato perché impediscono la formazione della volontà del singolo, ma questa criminalizza le coalizioni di lavoratori, che perciò divengono incapaci di reagire alle prepotenze dei padroni. Le contraddizioni di questa modello portano alla riv industriale. ITALIA UNIFICATA E DIRITTO ‘SELVAGGIO’ Negli anni post Unità, in un sistema borghese-liberale, emerge il disagio sociale per gli squilibri di classe. La Riv industriale cambia il mondo del lavoro in un contesto ancora rurale: la macchina, con lo sviluppo tecnologico, può essere acquistata solo dai ricchi (imprenditore capitalista che dirige altrui lavoro) e x usarla serve una nuova struttura — a metà 800 il tessuto produttivo passa da piccole botteghe artigiane a grandi fabbriche concentrate nelle maggiori città: artigiani-contadini divengono operai, con duri ritmi, paghe per sopravvivere e poca igiene. Su questa industrializzazione sorgono teorie filosofiche basate sullo sfruttamento della nuova classe: socialismo-comunismo. In Italia dopo l’unificazione politica si promuove quella legislativa: cc borghesi e unitario (1865) non disciplinano i rapporti di lavoro perché l'autonomia deve agire indisturbata e lo Stato garantire solo l’ordine pubblico: questa aumenta la disuguaglianza nel rapporto di lavoro (se lavoratore non accetta bassa paga, datore ne sceglie un altro) - diritto eguale in un sistema diseguale: lavoratore è un contraente debole e, rispetto al preindustriale, perde il possesso della tecnica (saper fare una cosa) e la libera gestione del tempo. Il diritto sanzionava, poi, l’associazionismo dei lavoratori perché contravveniva l’individualismo liberale: nel 1864 furono abolite le corporazioni, mentre nel resto d’Europa si andava in senso opposto (nel RU nasce la ‘1° internazionale’: Ass. inter. lavoratori). In ING-FRA si sviluppò (800) una legislazione per regolare la durata della gg lavorativa e limitare il potere dei produttori. In Italia vi furono pochi interventi normativi, ma qualcuno iniziò a studiare le legislazioni straniere. Il 1° diritto del lavoro dell’Italia liberale fu selvaggio, pensato per altre situazioni e che, trapiantato sui rapporti di lavoro, risultò inadeguato a regolarli. Cieco sulla diseguaglianza dei rapporti di produzione nel lavoro industriale, l'applicazione del diritto civile a questa rapporti modificò chi lavorava per altri. LIBERALISMO TRA 800-900 e LEGISLAZIONE SOCIALE L’800-900 è la belle époque, ma non per i lavoratori — scoppia la ‘2 riv industriale’, fondata su elettricità-acciaio e progresso scientifico. Data la situazione di ricatto del lavoratore di fabbrica e il disagio dei lavoratori terrieri (questione sociale-agraria) si richiede l’intervento della legge per correggere il sistema codicistico (nasce il moderno diritto del lavoro): i socialisti portarono in Parlamento le istanze di riscatto della classe lavoratrice; Leone XIII emanò (1891) l’enciclica Rerum Novarum in cui invitava gli imprenditori ad accontentare le esigenze dei dipendenti (paternalismo imprenditoriale) e questa a non ribellarsi. La dottrina cattolica incise pure sulla sussidiarietà: l'assistenza sociale andava rimessa alla famiglia e all’associazionismo cattolico, solo in estrema ipotesi allo Stato (in materia sociale l’intervento statale diviene complementare, non sostitutivo, dell’iniziativa privata). In questa contesto (governo Sx storica) fu emanata la 1° legislazione sociale, che però non fondo regole universali, ma era indirizzata a un preciso destinatario (operaio): le poche leggi emanate predisposero solo garanzie di base (ordine pubblico), limitando la forza del padrone nella determinazione del contratto; fu previsto il riposo settimanale-festivo, la tutela per infortuni sul lavoro e altre leggi sociali settoriali (x ambiti meritevoli: es miniere). Era una politica di ‘bastone-carota’: l'operaio era destinatario delle leggi e delle cannonate dell’esercito. Con questa 1° legislazione nacque il ‘prototipo’ dei rapporti di lavoro e si formarono le caratteristiche di questa materia, tra cui fondamentale è l’inderogabilità della norma di tutela (vietato contratto che devii la legge in peius x lavoratore) -— questa disciplina fu detta ‘diritto sociale o ‘operaio’, ma nessuno parlava ancora di ‘diritto del lavoro’. Questa materia contiene pure il capitolo del to del lavoro collettivo: si sviluppò l’associazionismo operaio; nacque la ‘2° internazionale’ (1889), che proclamò il 1/05 festa internazionale dei lavoratori e stabilì l'autonomia dei sindacati nei cfr dei partiti. Il cp Zanardelli rese libera la stipula di contratti collettivi con l'imprenditore (‘concordati di tariffa’, per regolare salari) e l'astensione collettiva da lavoro (scioperi), se non violenta: questa requisito era, però, interpretato ampiamente dalla giurisprudenza, vanificando ogni liberalismo; inoltre, pure la libertà di organizzarsi collettivamente fu ostacolata perché ritenuta un attacco all’ordine pubblico. Il sindacato, dunque, non era libero, eppure nel XX l’aggregazione operaia divenne sindacato: nacquero le ‘federazioni’ (raggruppano associazioni nazionali cui aderiscono i lavoratori dello stesso settore: es Fiom, 1901, di operai metallurgici) e la CGDL (Conf. Gen. del Lav., 1906), che riunì le federazioni di mestiere e le Camere del lavoro, per disciplinare la lotta della classe lavoratrice vs il regime capitalistico della produzione. Ricevettero nuovo impulso le commissioni interne (organismi rappresentativi degli operai nella singola azienda), che controllavano i conflitti sul luogo di lavoro, e nacquero le prime associazioni cattoliche (sindacati bianchi), favorevoli alla collaborazione e non alla lotta di classe. Le associazioni degli imprenditori nacquero per resistere all’associazionismo operaio. Leghe locali e singoli imprenditori confluirono nella CIDI (Conf. ita. dell’indust.; poi Confindustria, 1910). Poiché i giudici erano di ceto borghese (come imprenditori) erano rare sent a favore dei lavoratori. Innovativa, invece, fu l’istituzione (1893) dei collegi dei probiviri: magistratura speciale, composta da rappresentanti di imprenditori- lavoratori, con a capo un esperto neutrale, che risolveva controversie di lavoro nell’industria. A fine 800 la dottrina s’interessò del lavoro: primi giuslavoristi furono detti ‘socialisti della cattedra’, perché interessati a problemi sociali. Nel 1901 Barassi pubblicò la 1° trattazione organica del rapporto di lavoro, in cui creò la categoria giur della subordinata (situazione soggettiva del lavoratore, derivante dal contratto di lavoro); egli qualificò il rapporto come locazione delle opere (distinse tra locatio operis-operarum: impegnarsi a fornire un prodotto finito o a locare le proprie energie sotto direzione del datore) cosicché ad esso si potessero applicare le norme di tutela (della legislazione sociale). Carnelutti propose una diversa teoria del rapporto di lavoro (su modello compravendita e non locazione) ed enfatizzò i profili pubblicistici del diritto del lavoro, ma prevalsero le teorie barassiane, cioè l’opzione ricostruttiva privatistica, e s’iniziò a insegnare questa materia nelle Università. Nonostante ciò la letteratura giur italiana, borghese, si disinteressò di questa nuovo ramo del diritto, grezzo-inidoneo a ragionamenti raffinati. In questa embrionale diritto del lavoro entrò pure il diritto collettivo del lavoro. Messina s’occupò, invece, del contratto collettivo per risolvere i problemi della sua efficacia-inderogabilità e per assicurare al contratto, stipulato dai sindacati dei lavoratori-datori, la capacità di fissare regole negoziali direttamente efficaci per i lavoratori — questa 2° operazione non riuscì: il contratto collettivo risultò applicabile solo ai lavoratori iscritti al sindacato stipulante e le sue previsioni eran derogabili con successivo contratto individuale, salvo una sanzione risarcitoria. Dopo questa opera di ‘sistemazione giur’ del contratto collettivo, il diritto collettivo del lavoro divenne parte integrante del diritto del lavoro, mentre la legislazione sociale si scisse da esso, assumendo il nome di prevalenza/sicurezza sociale, di matrice pubblicistica e perciò trascurata dai giuslavoristi. Dalla concettualizzazione del contratto di lavoro e di quello collettivo sorse una caratteristica fondamentale del diritto del lavoro: la sua formazione extra-legislativa. Nel clima riformista d’inizio XX furono molti gli inviti a disciplinare per legge le relazioni del lavoro e venne costituito (1902) un Consiglio superiore del lavoro, incaricato di elaborare una legge generale sul contratto di lavoro, ma che non portò gran frutti. Le proposte di quegli anni andavano dal divieto dello sciopero al riconoscimento per legge di un sindacato controllato, a una contrattazione inderogabile: punti animati da una ‘vena illiberale’ che infatti furono poi colti dal fascismo. ‘SEC BREVE’ e NUOVO DIRITTO DEL LAVORO Al ‘sec lungo’ (da Riv francese a 1° GM) segue il “sec breve? (fino a crollo comunismo sovietico, 1991) — il 1° diritto del lavoro, d’età liberale, poco garantista-liberista, mutò durante la guerra. A inizio XX l’Italia era ancora rurale (58% agricoltori), ma in questa settore non c’eran molte norme di tutela del lavoro e le poche presenti operavano solo nel nuovo lavoro industriale, in cui si attuavano le nuove teorie dell’ organizzazione scientifica del lavoro — taylorismo (velocizzare tempi di produzione parcellizzando le prestazioni: catena di montaggio, usata nell’industria Ford, da qui ‘fordismo’). degli altri sindacati. Questa inattuazione comporta che il sindacato assume la veste di associazione non riconosciuta e il contratto collettivo diviene mero contratto ‘di diritto comune’, con efficacia solo per gli iscritti. Negli anni 50 (Guerra fredda) l’Italia muta volto: l’industria (triang: Mil-Tor-Gen) supera l’agricoltura; molti lavorano in nero perché per avere i documenti (per lavorare) serve la (impossibile) dimostrazione di godere di un’occupazione nel comune di residenza. In questa decennio l’Italia è governata da coalizioni centriste dominate dalla DC, eppure l’epurazione dal fascismo è inesistente: le poltrone son occupate dalle stesse persone di prima, trapiantando gli apparati fascisti nell'Italia repubblicana. Il diritto del lavoro diviene materia obbligatoria negli studi giur, ma insegnata x supplenza (solo 4 prof: difficile riciclare corporativisti in giuslavoristi). Su questa materia si fronteggiano 2 opzioni ricostruttive: una pubblicistica (Mortati), volta a risistemare la materia alla luce della Cost, e una privatistica (Santoro-Passarelli), volta a recuperare lo spirito originario del diritto del lavoro, vedendo nella sua appartenenza al diritto pubblico un lascito del fascismo — s’impone la 2°, ma il ritorno al diritto privato fa prevalere spesso soluzioni tradizionaliste e non al passo con le nuove garanzie che la Cost dà al lavoro dipendente. Studiosi formatisi nell’accademia corporativa riprendono poi le teorie istituzionalistiche, ritenendo che l’impresa- istituzione sia una delle ‘formazioni sociali’ tutelate dell’art 2 Cost, ricostruendo perciò il rapporto di lavoro come ‘associativo’; teorie, questa, presto proposte in ottica anti-contrattualistica. Si forma, però, pure una corrente contrattualistica che mette in guardia dai pericolo di una ricostruzione volta a mascherare, in nome di un interesse superiore dell’impresa, l’attribuzione di poteri all'imprenditore. S’affermano proprio le teorie contrattualistiche e anti- organistiche del rapporto di lavoro, scartando le ricostruzioni centrate sulla natura associativa del rapporto. Pure il legislatore repubblicano interviene sulla tutela del lavoro, ma con pochi risultati — legge del 49 accentra in strutture pubbliche il collocamento dei lavoratori, mentre il sindacato ne avrebbe voluto la gestione; la legge del 50 tutela le lavoratrici madri; decreti in materia antinfortunistica; legge del 58 tutela lavoro a domicilio; leggi su rapporti ‘speciali’ (es apprendistato, lavoro domestico). Importante in campo sindacale è la L. Vigorelli (59) che autorizza il governo a ‘ricopiare’ il testo dei contratti collettivi in D.Lgs, dandogli efficacia generale, come soluzione all’inattuazione dell’art 39. Nel 60 si tenta di ripetere l'operazione con una legge delega, ma la Corte cost non lo consente, ribadendo come unica via, per stipulare contratti collettivi erga omnes, quella dell’art 39. Anni difficili i 50 per il diritto del lavoro: i rapporti individuali di lavoro son ancora improntati all’autoritarismo del fascismo e il sistema di contrattazione collettiva s'incentra su accordi nazionali, efficaci però solo per gli iscritti. La libertà sindacale è, perciò, un’utopia: in fabbrica è facile licenziare i lavoratori sindacalizzati e negli uffici pubblici i dirigenti son scelti in base alla loro appartenenza filogovernativa. La libertà di pensiero (art 21 Cost) non vien riconosciuta se il cittadino vuol dire la sua opinione nel luogo di lavoro. V’era, perciò, un’interpretazione ‘minimalistica’ della Cost (“di carta”, Calamandrei), sorretta pure dai giudici perché la magistratura era composta da persone che poco prima avevano avvallato il diritto corporativo fascista. Questa diritto del lavoro, poco garantista, dimentico della Cost e incentrato ancora sull’esaltazione contrattuale dei poteri del datore, svolge negli anni 50 gran supporto nello sforzo di spingere l’Italia verso la ricostruzione, fino al ‘miracolo economico’ d’inizio anni 60. DAL BOOM AL ‘69’ A inizio anni 60 in Italia v’è il boom economico (benessere) che permette pure agli operai di ripagare la loro fatica coi piaceri dei 1° consumi di massa. I tempi cambiano: inizia la contestazione globale al sistema, si protesta in piazza, s’impone il femminismo, cambia il ‘costume’, vestiario-musica e si mette in discussione ogni autorità. Pure la Chiesa si svecchia e il suo atteggiamento in materia di lavoro si fa più deciso, come mostrano le encicliche papali: Pacem in terris di Giovanni XIII (59) chiede un cambiamento dell’atteggiamento della politica nei cfr dei problemi del lavoro; Populorum progressio di Paolo VI (67) condanna la divisione ricchi-poveri e lo sfruttamento dei lavoratori, legittimando l’insurrezione vs un governo che attenti ai diritti fondamentali della persona. Tutto culmina nel ‘68’: moto di protesta che, partendo dalle università di Berkeley-Sorbona, dilaga ovunque e coinvolge pure il mondo del lavoro, culminando nelle lotte operaie per i rinnovi dei maggiori contratti collettivi (“autunno caldo” 69). In Italia, opinioni favorevoli a una maggior tutela dei lavoratori inducono il legislatore, tra 60-63, a emanare importanti provvedimenti: legge sugli appalti di manodopera; legge che circoscrive a certi casi il ricorso a tempo determinato; legge che vieta il licenziamento del lavoratore a causa del suo matrimonio. Questa politica nasce con l’ingresso al governo del PS (Nenni), nel 1° centrosx italiano, fino a giungere alla legge sui licenziamenti individuali (66): son nulli quelli per rappresaglia politica/sindacale e il datore deve addurre un giustificato motivo. Questa provvedimento vale, però, solo nelle aziende con +35 dipendenti. L’ingresso, in magistratura, di classi medio-basse (giovani-donne-giudici: ‘pretori d’assalto’) porta a sent più orientate verso i bisogni dei lavoratori. Riv profonda si ha in dottrina: nascono indirizzi alternativi rispetto alle classiche letture privatistiche — Mancini imposta in modo nuovo i rapporti tra diritto privato e diritto del lavoro, coniugando l’esame delle categorie civilistiche con la ‘politica del diritto’ e la valorizzazione della Cost. Giugni elabora la teoria dell’ordin intersindacale che riconosce l’esistenza di un ordin originario, costituito dalle regole (talora confliggenti con le statali) che governano le relazioni tra parti sociali. Questa teoria trova terreno fertile nello sviluppo delle relazioni industriali degli anni 60, segnati dalla creazione di un diritto sindacale ‘di fatto’, in cui han spazio giurisprudenza-dottrina, ma poco le leggi (Stato ausiliario). Da allora, perciò, alla scuola giuslavoristica classica (Santoro-Passerelli) s’affiancano la scuola bolognese-barese, rispettivamente ispirate a Mancini-Giugni, attente a coniugare il dato normativo-storico, socio-economico. Paradossalmente è Giugni, teorico dell’astensionismo legislativo, che ha poi ruolo chiave per una legge fondamentale: Statuto dei lavoratori (69) — l’art 1 dà ai lavoratori il diritto di manifestare il loro pensiero nei luoghi di lavoro. La 1° parte dello SDL pone limiti ai poteri del datore: l’art 18 lo obbliga a reintegrare a lavoro il dipendente licenziato illegittimamente, senza potergli dare solo una somma di denaro (‘stabilità reale’), però può rifiutarne la riammissione pagandogli la retribuzione senza prestazione. La parte dello SDL sul diritto collettivo si fonda sulla libertà sindacale, riconosce i diritti dell’associazione sindacale nei luoghi di lavoro e un sistema repressivo della condotta antisindacale. È un’eccezione perché il sindacato, non desideroso d’assoggettarsi a discipline legislative per paura d’oppressioni, ora ‘si fida’ dello SDL, accettando di farsi confezionare una normativa imperniata sul sindacato ‘maggiormente rappresentativo sul piano nazionale’, cui son riservati diritti importanti, tra cui quello di costituire rappresentanze aziendali. È l’incontro tra ordin statale- intersindacale, ove 1° sostiene 2° (‘legislazione di sostegno’ del sindacato). Lo SDL spinge le 3 gran confederazioni (CIGL, CISL, UIL) a collaborare, perciò nel 72 stipulano un patto federativo (triplice) per l’unità d’azione. Nel settore dell’industria metalmeccanica i 3 sindacati di categoria (FIUM, FIM, UILM) si fondono (73) nella FIM (Fed. dei lav. metalmeccanici). La contrattazione collettiva si decentra (“protocollo Intersind-Asap”, 62 tra le 3 gran federazioni dei metalmeccanici e le associazioni delle imprese a partecipazione statale) su più livelli (non solo accordi nazionali), tra cui quello aziendale. S’affermano pure (nei luoghi di lavoro) muovi organismi rappresentativi dei lavoratori, che volevano come rappresentanti dei compagni di lavoro scelti (non sindacalisti ‘di mestiere’ ignari dei loro bisogni). Gran parte dello SDL s’applica, comunque, nelle sole unità produttive con +15 dipendenti e molte sue disposizioni son modellate su imprese medio-grandi: nelle piccole aziende, commercio, agricoltura, fuori dall'impresa, vige ancora un diritto del lavoro di rango inferiore. Il diritto del lavoro dell’età del garantismo, che ridimensiona la struttura autoritaria insita nei rapporti di lavoro, tiene buono un interlocutore collettivo sempre più duro, ma pochi anni dopo si è costretti a far marcia indietro. ANNI DI PIOMBO Nel 73, per una crisi petrolifera sorta dal conflitto tra Israele e paesi arabi, scoppia una crisi economica, che in Italia causa un’involuzione del diritto del lavoro — inizia la fase del diritto del lavoro d’emergenza, caratterizzata da una legislazione frammentata-complessa. Su temi lavoristici la legge fa sempre più rinvii a provvedimenti amministrativi, aumentando il ruolo autorizzatorio della PA; la materia vien così delegificata in molte parti secondo il modello deregulation. Il diritto del lavoro unitario del garantismo diviene flessibile — rapporto di lavoro standard (tempo pieno e indeterminato) si frantuma in variabili perché le imprese non vogliono vincolarsi con troppi rapporti stabili: nasce il lavoro part-time. Legislatore interviene per sostenere le aziende in crisi per mezzo della cassa integrazione guadagni (Inps paga parte dei salari dei lavoratori d’imprese danneggiate). L’unico intervento nel solco del garantismo è la legge (77) che afferma la parità uomo-donna nel lavoro. Nel 78, x la difficile realtà economica, i sindacati CGIL-CISL-UIL riconoscono l’esigenza di sacrifici salariali (‘svolta dell’Eur”) e nell’82 si sostituisce la “indennità d’anzianità’ col più equilibrato ‘trattamento di fine rapporto”. S’interviene pure sulla inderogabilità del diritto del lavoro — interventi normativi sul contenimento retributivo prevedono che i livelli fissati dalla legge non son derogabili in melius per il lavoratore dalla contrattazione collettiva; altri prevedono la possibilità di una deroga in peius. In questa crisi il sindacato cerca di conservare quanto possibile (strategia difensiva). Svolta simbolica è la ‘marcia dei 40.000’ (80): impiegati Fiat protestano, rivendicando la loro centralità nei progressi produttivi e denunciando la scarsa rappresentazione dei loro interessi da parte dei sindacati confederali. Lo scollamento con la protesta studentesca, di solito alleata alle lotte sindacali, avviene nel 77 con la cacciata di Lama (segretario CGIL) da parte degli studenti che occupano l’Università di Roma; dopo ciò il sindacato dà più attenzione, nelle sue politiche contrattuali, alle nuove figure di lavoratori. Tuttavia, per questa attenzione per le nuove professionalità, i lavoratori si disaffezionano ai sindacati confederali, perciò si fan strada i sindacati ‘autonomi’, spesso rappresentanti un’unica categoria. Il fatto che talvolta il sindacato collabora col mondo imprenditoriale (per individuare le migliori scelte di politica del lavoro) comporta pure che i sindacalisti diventino bersaglio di un terrorismo che colpisce chiunque sia sospetto di cooperare col ‘nemico’. 1 70 son ‘anni di piombo’ perché s’afferma il terrorismo — nasce la ‘strategia della tensione’ (bomba p.za Fontana, Mi, 69), animata dal terrorismo nero che colpisce nel mucchio, mentre quello rosso opera in modo mirato: le Brigate rosse cercano spazio nelle grandi fabbriche, teorizzando la reazione vs lo ‘Stato imperialista delle multinazionali’, impadronitosi di nodi vitali del potere economico-politico; costituiscono, perciò, il ‘partito armato’, che ha come obiettivo il mondo del lavoro: vengono uccisi dirigenti-sindacalisti e nel 78 rapiscono Moro (artefice di una nuova strategia di ‘solidarietà nazionale’ in cui i governi collaborano con l’opposizione di sx, realizzando le politiche del lavoro emergenziali). Il diritto del lavoro dell’emergenza vuol superare una fase critica, ma dopo un decennio si prende atto che la crisi sta diventando endemica e va affrontata con nuovi strumenti. NEOCORPORATIVISMO Gli 80 son anni del ‘riflusso’ e ripiegamento sul privato. Compaiono le tv private che danno nuovi modelli sociali, incentrati sul consumo di massa: sorge il pensiero debole, con un edonismo fondato sull’immagine (Reagan). Nasce un nuovo modello di gestione delle politiche del lavoro e relazioni industriali (‘concertazione’) col 1° accordo trilaterale tra sindacati rappresentativi, organizzazioni imprenditoriali e governo (non mediatore super partes, ma contraente); sistema in cui le parti s’accordano sulle linee politiche del lavoro e il governo le trasfonde in provvedimenti normativi, vincolanti per tutti (non solo x iscritti a sindacati) — cd ‘modello neocorporativo’ perché i rappresentanti di imprenditori-lavoratori collaborano nell’interesse del paese (corporativismo). Il 1° accordo di questa tipo (protocollo Scotti, 83) è sulle dinamiche salariali-contrattuali, ma per la Corte cost non è un contratto collettivo, ma qualcosa di anomalo rispetto all’art 39 Cost; la cultura lavoristica si divide, perciò, tra chi afferma la vincolatività giur dell’accordo e che gli dà solo rilievo politico. Ai 3 sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) è rimproverato di aver tradito il ruolo di antagonisti del potere imprenditoriale-politico, facendosi coinvolgere nella gestione della politica industriale. In realtà la concertazione è uno ‘scambio politico’: sindacato aumenta i diritti d'informazione su punti strategici della vita aziendale in cambio di una rinuncia a strategie rivendicative. Ciò, però, comporta nuove contestazioni: risorge il terrorismo, che colpisce i teorici della concertazione (attentato a Giugni, 83, ispiratore dell’accordo). Frutto degli accordi di concertazione è una legislazione contrattata (tra governo e parti sociali) che, oltre alla regolazione dei rapporti di lavoro, si dedica allo sviluppo delle politiche economico-industriali e interviene soprattutto sulla flessibilità di occupazione e condizioni di lavoro: s’introduce il lavoro part-time, i contratti di formazione- lavoro, di solidarietà interna-esterna e s’interpretano più elasticamente i limiti dell’orario di lavoro. Circa la ‘politica dei redditi’ (intervenire su salari per contenere inflazione) viene stipulato un nuovo patto trilaterale (‘accordo di S. Valentino’, 84) che legittima il governo a ridurre gli scatti d’indicizzazione del salario all'aumento del costo della vita. La CGIL non firma questa accordo, ponendo fine al ‘patto federativo’ che durava dal 72, e patrocina un referendum vs ‘decreto Craxi’, che però si conclude col suo mantenimento in vigore e, perciò, col successo del governo e del sistema di concertazione (appoggiato da CISL-UIL). Nel 92 l'ennesimo patto trilaterale (‘accordo Amato”), siglato pure dalla CGIL, cancella il sistema della ‘scala mobile’ (indicizzare automaticamente i salari in base all'aumento del prezzo di alcune merci), fattore d’ulteriore inflazione, rimettendo l’adeguamento delle retribuzioni alla svalutazione nelle mani della contrattazione collettiva di categoria. Negli anni 80 una legge quadro avvia la revisione del rapporto di lavoro legato a un anacronistico modello di supremazia dell’ente pubblico (PA), attraendo questa tipo di lavoro nelle regole del rapporto di lavoro privato. In quegli anni molte imprese lasciano il modello taylorista-fordista, seguendo, sull’eco dell’esperienze americane-giapponesi (toyotismo), modelli più avanzati d’organizzazione lavorativa (più autonomia decisionale del singolo) e la vera riv è data dall’applicazione di muove tecnologie nel settore industriale — l’elettronica (pc) trasforma i modi di produrre, favorendo un’organizzazione del lavoro più frazionata: alcune prestazioni non son più concentrate in un’unica struttura (fabbrica), ma si può lavorare pure da casa (telelavoro). Per ridurre il costo del lavoro aumenta il decentramento produttivo (varie attività si spostano all’esterno dell’impresa, affidate ad altre imprese o singoli lavoratori), che può manifestarsi pure come delocalizzazione in paesi stranieri, ove il lavoro costa meno perché vi son meno tutele. Questa modelli accentuano la crisi di rappresentanza del sindacato, abituato a muoversi in una realtà circoscritta (fabbrica). Il prototipo del lavoratore a tempo pieno-indeterminato della medio-grande fabbrica si sgretola x vari fattori, tra cui la scoperta di nuovi mestieri, indotta soprattutto dall’allargamento del terziario — è la “3° ondata”: ci son tanti tipi diversi di lavoro, cui è difficile dare una qualificazione giur (giurisprudenza è disorientata nel qualificare il lavoro di un pony express o telelavoratore con gli stessi criteri dell’operaio, perciò cerca di adattare i requisiti tradizionali alle nuove fattispecie, ma non sempre con buoni esiti). Poche norme di questa decennio rispondono ancora a logiche garantistiche: eliminazione del licenziamento immotivato (90); introduzione delle ‘azioni positive’ per promuovere il lavoro femminile (91); revisione del sistema di In questa contesto il diritto del lavoro muta funzione — dalle classiche protezioni del lavoro si passa alle contemporanee, del regresso protettivo, rispondenti ai soli ‘fragili’ rapporti di forza dell’autonomia collettiva ‘aziendalizzata’ e individuale; da quelle centrate sul lavoratore della grande impresa taylorista-fordista, subordinato ma col lavoro stabile, a quelle centrate sul lavoratore dell’azienda post-fordista, insicuro nel suo lavoro instabile, confidante in quelle regole provvidenziali che lo Stato sociale, in crisi fiscale, non sa assicurare. È questa il nuovo diritto del lavoro, che perde l’originario spirito di tutela inderogabile della parte più debole del rapporto per divenire un quasi una tutela della parte forte. Un diritto del lavoro che si ‘riprivatizza’, diversificato per ogni impresa. L’art 1 Cost dà al lavoro il ruolo del patto fondativo della Rep, ma la realtà mostra che, negli ultimi 30 anni, a questa primazia non son corrisposte adeguate politiche legislative e il diritto del lavoro odierno somiglia a quello ‘selvaggio’ dal quale questa percorso è partito. LIBRO “APPUTNI DAL CORSO DI DIRITTO DEL LAVORO” (seconda edizione ORGANIZZAZIONE SINDACALE A fine 800 il diritto del lavoro si divide in 2 rami: individuale (relazioni datore-lav) e collettivo (diritto sindacale: ‘conflitto industriale’ tra interessi dei datori-lavoratori) — 1° sviluppatosi in un sistema di regole scritte (regionali, statali, UE); 2° tra 2 sistemi: statale (norme cogenti per tutti) e autonomo delle relazioni tra parti sociali (sindacati- imprenditori) -— Giugni parlò di scontro tra 2 diversi ordin (statale-intersindacale). L’attenzione va, perciò, data non alla legge statale, ma alle relazioni-regole che le parti sociali si danno automaticamente, creando un sistema di produzione di norme, modalità per la loro interpretazione e istanze per risolvere controversie: un ordin autonomo, fondato sul reciproco riconoscimento delle parti, uniche portavoce dei loro interessi; non si parla più di rappresentanza civilistica, ma di rappresentatività (capacità di associazioni datoriali e sindacati d’interpretare unitariamente gli interessi di datori-lavoratori). Dagli ami 50 s’è, quindi, imposto in Italia un diritto sindacale ‘di fatto’, controllato dalle gran confederazioni, e i rapporti tra questa ordin intersindacale e l’ordin statale ha vissuto fasi alterne tra momenti in cui il sindacato si fa disciplinare dal potere pubblico e momenti in cui un sindacato ‘forte’ influenza il legislatore, ottenendo da lui un sostegno normativo. Fonte giur basilare del fenomeno sindacale è l’art 39 Cost (“organizzazione sindacale è libera”), correlato all’art 18 (diritto d’associarsi liberamente). La differenza terminologica nei 2 art tra organizzazione-associazione può spiegarsi in 2 modi — forse la 2° designa un raggruppamento di persone formalizzato (regole specifiche x sua costituzione), mentre la 1° un’aggregazione, pure spontanea-episodica, di soggetti che fanno valere collettivamente le loro ragioni: l’art 39, dunque, avrebbe lasciato campo aperto a ogni tipologia aggregativa. O forse la 1° è una specificazione della 2°: l’art 18 predisporrebbe una tutela generale per ogni tipo d’aggregazione e la tutela dell’art 39 scatterebbe solo se l'associazione ha scopo sindacale, cioè se rappresenta gli interessi dei soggetti del mondo del lavoro, ricorrendo agli strumenti tipici dell’attività sindacale (stipula contratti collettivi e proclamazione scioperi). Forse la ‘organizzazione sindacale’ ex art 39 non può esser rappresentativa degli interessi pure (oltre che dei lavoratori) dei datori perché l’art 39 è nella parte di Cost (art 35-40) rivolta solo al lavoro subordinato-autonomo, che ha tutele specifiche, non riservagli agli imprenditori. L’associazionismo imprenditoriale sarebbe, perciò, garantito dalla tutela generale della libertà d’associazione (art 18). Libertà sindacale L’art 39 è stato scritto dopo 20 a di repressione della rappresentanza dei lavoratori (nell’ordin fascista si poteva costituire una sola associazione sindacale per ogni categoria ed era soggetta a controlli statali), anche grazie al sostegno di 2 convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro: quella di S. Francisco (48: garantisce diritto di costituire organizzazioni sindacali) e di Ginevra (49: tutela lavoratori-sindacati vs atti antisindacali dei datori). La libertà sindacale dell’art 39 è un diritto soggettivo, operante nei cfr dei poteri pubblici-privati, e si può distinguere in “Libertà...”: 1) “Di”: organizz. sindacale può perseguire in modo pieno (scioperi, ec) gli interessi dei lavoratori. Questa libertà ha significato: positivo (fare: costituire un sindacato, coalizzarsi, iscriversi) e negativo (non fare: non aderire ad associazioni, dimettersi). 2) “Da”: organizz. sindacale è libera da ingerenze esterne, anzitutto il potere pubblico, seppur l’art 39 impone, al sindacato che vuol acquisire personalità giur, l’obbligo di registrarsi presso uffici pubblici. Nei paesi anglosassoni questa libertà è negata da alcune clausole contrattuali che prevedono sia che il datore debba assumere solo lavoratori iscritti al sindacato che ha concluso il contratto collettivo e restarvi iscritti per tutto il rapporto di lavoro (closed shop), sia che i dipendenti debbano (pena licenziamento) iscriversi al sindacato che ha concluso il contratto collettivo (union shop) — questa sistema ormai opera in USA, perché il RU l’ha eliminato x censure della CEDU. Nel nostro sistema condizionare l'assunzione di un lavoratore all’iscrizione al sindacato è illegittimo ex art 15 SDL, che vieta ogni patto/atto discriminatorio; inoltre l’art 16 SDL vieta al datore di concedere trattamenti economici favorevoli discriminatori (es premi ai lavoratori non iscritti ai sindacati). costituire sindaca La libertà sindacale ha 2 limiti: 1) L’art 17 SDL (datori non possono costituire/sostenere associazioni sindacali di lavoratori) vieta i sindacati di comodo per impedire all’imprenditore di creare un interlocutore fittizio, che manchi di reale rappresentanza degli interessi dei lavoratori. La sanzione è l’inibizione, al datore, della sua attività di sostegno. 2) Gli appartenenti alle forze armate non potevano costituire/aderire associazioni sindacali, ma avevano una rappresentanza obbligatoria in particolari organismi elettivi previsti dalla legge (Cocer: Consigli centrali di rappresentanza). Questa sistema è stato dichiarato illegittimo dalla Corte cost, perciò la condizione dei militari è stata equiparata a quella dei poliziotti: possono costituire sindacati autonomi, formati-diretti solo da poliziotti, fermo però il divieto di aderire ad altre associazioni sindacali. Natura giur del sindacato I co.2-4 dell’art 39 stridono col co.1 perché prevedono che i sindacati s’iscrivano in un registro pubblico per poter stipulare contratti collettivi efficaci per tutti i lavoratori. Questa parte del 39 non è stata attuata perché il sindacato non vuol sottoporsi a controlli pubblici. I costituenti ritenevano inverosimile che un’organizzazione rinunciasse a priori a poter stipulare contratti collettivi con efficacia generale; eppure il sistema di relazioni industriali s'è evoluto in questa direzione — non essendosi attuato il 39, il sindacato è un’associazione non riconosciuta e vi s’applicano gli art 36-38 cc, pensati dal legislatore x disciplinare piccole associazioni e che invece regolano 2 grandi entità: partiti-sindacati. Questa norme son inadeguate a regolare l’organizzazione sindacale e lo dimostrò, a fine anni 40, il distaccarsi dalla CGIL dell’ala cattolica e laico- riformista (che crearono CISL-UIL). S'è, perciò, sviluppato un sistema sindacale ‘di fatto’, che prescinde dall’ordin statale e si muove in quello intersindacale — circa l’organizzazione sindacale, perciò, conta non il tema della rappresentanza civilistica (capacità sindacato d’agire per conto di iscritti), ma della rappresentatività di fatto (capacità sindacato di farsi carico degli interessi dei lavoratori a prescindere da iscrizione). Forme organizzative del sindacato Esistono, perciò, formule diverse d’aggregazione dei lavoratori — in origine, nei paesi più industrializzati (RU-USA), è prevalsa l’aggregazione x mestiere (sindacato rappresenta lavoratori che svolgono stessa attività); poi, con la diffusione dell’industria di massa, s'è affermata quella x categoria produttiva (sin. rappresenta lavoratori di un settore, a prescindere dal mestiere). È questa il sistema in Italia, in cui il sindacato crea un’ampia rete d’aggregazione dei lavoratori; esistono pure sindacati generalisti-autonomi (rappresentano lavoratori di varie-unica categorie produttive: es insegnanti). A inizio Rep il legame dei sindacati ai partiti era stretto (CISL ai democristiani; UIL ai laico-riformisti; CIGL ai social-comunisti; UGL alla dx), oggi, invece, è più sfumato (frantumazione partiti) nel mondo del sindacalismo generalista; in quello autonomo, invece, si distinguono organizzazioni interessate a progetti di tutela di un’unica categoria produttiva (es scuola). Le associazioni datoriali son nate come risposta all’associazionismo operaio; più importanti sono: nell’industria- servizi Confindustria, Confapi (piccole imprese); nel commercio Con-commercio, Confesercenti (piccole aziende); nell’artigianato Confartigianato e Cna; nelle cooperative Legacoop e Confcooperative; nell’agricoltura Confagricoltura, Cia e Coldiretti; nel bancario Abi; nell’assicurativo Ania. Strutture organizzative del sindacato Il modello tradizionale d’organizzazione sindacale in Italia è quello confederale, strutturato in più livelli: in ogni gran sindacato generalista il livello superiore è la confederazione (raggruppa a livello nazionale federazioni con stessa sigla sindacale); la federazione è l’organismo sindacale che raggruppa a livello nazionale tutti i lavoratori della stessa categoria. L'organizzazione dei gran sindacati non è diversa dal passato: a livello nazionale la confederazione è la struttura generale, costituita da diverse federazioni rappresentanti le categorie produttive (metalmeccanici, chimici, ec) e questa modello si ripete a livello territoriale: in ogni Regione-Provincia esiste l’organizzazione orizzontale del sindacato (raggruppa nello stesso ambito territoriale tutte le associazioni delle diverse categorie), e verticale che raggruppa i vari livelli (nazionale, regionale, provinciale, aziendale) di ogni singola categoria produttiva. La struttura organizzativa delle associazioni imprenditoriali è uguale a quella del sindacato dei lavoratori, articolata in livelli verticali-orizzontali. RAPPRESENTANZA NEI LUOGHI DI LAVORO A inizi XX nelle fabbriche iniziarono a formarsi organi rappresentativi dei lavoratori. Il modello delle commissioni interne (dirimono controversie entro l’impresa) si sviluppò nell’industria fino al 25, quando il Patto di Palazzo Vidoni abolì ogni rappresentanza dei lavoratori nelle aziende, sostituendoli col fiduciario d’azienda (supervisore sui rapporti tra parti sociali). L’accordo Buozzi-Mazzini (43), tra Confindustria-CGIL, sancì la rinascita delle commissioni interne, elette dai lavoratori di aziende con un certo numero di dipendenti su liste presentate da gruppi autonomi di lavoratori o da associazioni sindacali (parlamento aziendale), che però non potevano stipulare contratti collettivi a livello nazionale, rappresentando solo i lavoratori all’interno delle aziende. Sorse, perciò, un problema di rappresentanza aziendale ‘a doppio canale’ (presenza sul luogo di lavoro di una struttura elettiva, con funzioni consultive-partecipative, e di una associativa, con funzioni negoziali) e non ‘a canale unico’, in cui la rappresentanza ha funzione consultiva-negoziale. Il modello delle commissioni interne franò (60) perché in esse vi erano funzionari sindacali non calati nelle dinamiche aziendali per capire le istanze dei lavoratori, e dilagò il consiglio di fabbrica (delegati scelti dai lavoratori d’ogni reparto aziendale), formalizzato come struttura di rappresentanza aziendale (con potere contrattuale) da un patto federativo (72) tra i 3 gran sindacati. Rappresentanze Sindacali Aziendali Nel 70 il legislatore dedicò alla regolazione delle RSA (rappresentanza sindacale aziendale) l’ art 19 SDL. Questa art venne accusato di violare gli art 3 e 39 Cost perché riconosceva diritti solo ad alcuni sindacati (quelli aderenti a confederazioni più rappresentative sul piano nazionale, o firmatari di contratti collettivi nazionali/provinciali applicabili nelle loro aziende), ma la Corte cost ne sancì la legittimità perché lo SDL dava al sindacato 2 livelli di tutela: uno base, per tutti, x su libertà d’associazione sindacale, e uno ‘incentivante’ x quei sindacati che dessero prova d’effettiva rappresentatività, premiandoli con ulteriori diritti (quelli derivanti dalla costituzione di una RSA). Nel 70 la situazione della rappresentanza in azienda era complessa: in delle fabbriche v’erano le commissioni interne, in altre i consigli e in altre altri organismi rappresentativi. L’art 19 non si riferisce a nessuna di questa esperienze, ma funge da ‘contenitore’ di tutte: un organismo può definirsi ‘RSA’, e beneficiare delle prerogative riconosciutegli dal SDL, se rispetta 1 dei 2 requisiti richiesti dalle norme. Nel 95 vi furono 2 referendum (promossi dalla Democrazia proletaria per allargare la possibilità di costituire RSA) parzialmente abrogativi dell’art 19: uno massimale (abrogare art 19, tranne parte iniziale su formazione delle RSA su iniziativa dei lavoratori in aziende +15 dipendenti) e uno minimale (abrogare riferimento al sindacato maggiormente rappresentativo e eliminare, a livello nazionale-provinciale, i contratti collettivi previsti dal 2° requisito) — fu approvato il 2°: l’art consente, perciò, di costituire RSA nell’ambito di ogni sindacato che abbia stipulato un contratto collettivo di qualsiasi livello, anche solo aziendale, applicabile all’unità produttiva. L’effetto dell’attuale art 19 è stato, però, contrario a quanto voluto dai promotori del referendum, perché lascia gran spazio al ‘potere di accreditamento’ del datore che non applichi un contratto collettivo nazionale nello scegliersi la controparte sindacale con cui stipulare un contratto aziendale; in questa caso una tale organizzazione diviene titolare del potere di costituire una RSA, escludendo un sindacato molto rappresentativo, ma che non è firmatario di un contratto collettivo applicato nell’azienda. La contraddizione è esplosa quando la Fiat, uscita dal sistema di contrattazione nazionale, ha stipulato contratti collettivi solo con la FIM-CISL e UILM-UIL, e non con la FIOM- CGIL (sindacato maggioritario in azienda) e quindi la RSA è stata costituita nell’ambito delle sole CISL-UIL. Le rimostrane della FIOM son state accolte dalla Corte cost, dando pure alla CGIL la facoltà di costituire una RSA di Fiat, poiché ‘firmatarie’ si riferisce non solo alle organizzazioni sindacali che han siglato il contratto collettivo, ma pure a quelle che han partecipato alle trattative, pur non sottoscrivendo l’accordo. Resta, però, aperta all'imprenditore, che vuol escludere un sindacato scomodo dall’attività in azienda, la via della sua mancata convocazione alle trattative per la stipula del contratto collettivo aziendale. Dopo il referendum la nozione di ‘sindacato maggiormente rappresentativo’ è stata sostituita con ‘sindacato comparativamente più rappresentativo’, nata per operare una selezione tra più contratti collettivi concorrenti sottoscritti da diverse sigle sindacali, ma usata come la precedente. Entrambe le nozioni son usate per dare solo ad alcuni sindacati il potere di stipulare contratti collettivi con particolari effetti. Rappresentanze Sindacali Unitarie Negli anni 80, dopo la rottura dell’unità sindacale (84), il modello dei consigli dei delegati subì una crisi che portò, nelle aziende, alla frammentazione della rappresentanza, con la costituzione di più RSA, talvolta in lotta (è obsoleto l’art 29 SDL, che prevede la fusione di più RSA in una, per le discordie dell’ex Triplice). Il sistema delle RSA fu poi rivisto da un accordo trilaterale (protocollo Ciampi, 93) e da uno confederale tra Confindustria e sindacati, che prevedeva la costituzione (in unità produttive +15 dip) di RSU (rappresentanze sindacali unitarie; composte x 2/3 da eletti dai lavoratori su liste presentate da associazioni sindacali e x 1/3 da nominati dai sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale applicato in azienda) che potevano stipulare, congiuntamente alle articolazioni territoriali dei sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale, dei contratti collettivi aziendali. La nuova regolamentazione, ‘concordato di tariffa’. Poi le sue funzioni-contenuti son cresciute: oggi è il perno della regolamentazione di ogni rapporto di lavoro. Fin dalla sua 1° concettualizzazione dottrinale (fatta da Messina a inizio 900) sorsero problemi. Le regole del diritto privato consentivano di estendere l’efficacia delle pattuizioni contenute nel contratto collettivo a tutti i lavoratori iscritti al sindacato stipulante (singolo ha conferito al sindacato un mandato per trattare in suo nome prima della stipula del collettivo); ma le stesse regole privatistiche non impedivano che un successivo contratto individuale tra datore e singolo lavoratore del contratto collettivo dettasse condizioni peggiori di questa ultimo. Emergevano, perciò, 2 problemi: quello dell'efficacia soggettiva (individuare soggetti cui possono applicarsi le sue disposizioni) e oggettiva (relazione tra contratto collettivo-individuale e capacità del 2° di derogare il 1°) del contratto collettivo. La costruzione di Messina riteneva il contratto collettivo un istituto autonomo (no somma di contratti individuali) e riconosceva che esso spiegava i suoi effetti nei lavoratori iscritti al sindacato stipulante; non riuscì, però, a dargli forza di legge tra le parti individuali, perciò potevano stipulare successivamente pattuizioni peggiorative, pena una mera sanzione risarcitoria x il suo inadempimento. A inizio 900, perciò, tutti chiesero la soluzione di questa problemi, e una ‘forte’ la trovò il fascismo — L.563/26 stabilì che i contratti collettivi fossero efficaci per tutti i datori-lavoratori della categoria, pur non iscritti al sindacato; il r.d.1130/26 ne dispose l’inderogabilità da parte del contratto individuale, pena la sostituzione delle clausole difformi (salvo più favorevoli al lavoratore). Il sindacato unico fascista era un ente di diritto pubblico e dalla sua attività scaturiva un ‘contratto collettivo corporativo’ pubblicistico: valido erga omnes, pubblicato sulla Gazz. Uff. e inderogabile in peius dal contratto individuale come una legge (“corpo del contratto, ma anima della legge, Carnelutti). Questa soluzione fu trasfusa nel cc del 42 (art 2061-2081), che inserì il contratto collettivo tra le fonti del diritto. Caduto il fascismo, la norma che rimodellava il diritto transitorio in materia di contratti collettivi inserì un inciso che prevedeva che i contratti collettivi corporativi continuassero a restare in vigore ‘salvo le successive modifiche’ per continuare a garantire ai lavoratori una retribuzione non massacrata dalla inflazione dei tempi di guerra; ma ciò suscitò problemi interpretativi. Questa contratti ultrattivi son ancora vigenti. All’Assemblea costituente l’unica modo perché lo Stato desse al sindacato il diritto di stipulare contratti collettivi validi per tutti i lavoratori della categoria di riferimento, pur non iscritti al sindacato stipulante, parve l’attribuzione della personalità giur: sindacato doveva chiedere la ‘registrazione presso uffici locali/centrali’ (art 39), dimostrando di possedere un ordin interno a base democratica. Il costituente immaginò, però, a torto, che i sindacati avrebbero accettato il compromesso della registrazione pur di stipulare contratti collettivi con efficacia generalizzata; non immaginò una contrattazione collettiva privatistica, con efficacia limitata ai soli iscritti. L’art 39, x i motivi visti, è rimasto inattuato, perciò, finché non interviene una legge attuativa, non si possono creare altre soluzioni per dare efficacia generale al contratto collettivo. Questa inattuazione ha creato un vuoto normativo, che ha lasciato gran margine d’azione agli interpreti (dot-giur); il sistema è stato, perciò, occupato dalle strutture giur del diritto privato a causa della teoria dell'autonomia privata collettiva: l’interesse collettivo del gruppo è la sintesi (no somma) degli interessi individuali, destinati a soccombere di fronte ad esso. Da allora (anni 50), quindi, il modello che dominato le relazioni industriali è il contratto collettivo “di diritto comune’; definizione con cui s’afferma che il contratto collettivo è regolato dal diritto comune dei contratti (cc). La sua efficacia soggettiva, quindi, è circoscritta alla sfera giur di chi lo stipula, quindi dei soggetti che rappresenta (datori-lavoratori iscritti ai sindacati che l'han sottoscritto). La giurisprudenza ha poi cercato, con operazioni interpretative, di fornire il contratto collettivo di diritto comune di prerogative simili, in termini d’efficacia soggettiva-oggettiva, a quelle del contratto collettivo corporativo. S’è, quindi, creato, per l’inattuazione del 39, un sistema a sé stante, rapportabile ai sistemi di common law perché fondato sull’autorevolezza degli studiosi e sulle decisioni delle alte magistrature. La prospettiva cambiò con la prospettiva dell’ordin intersindacale: conta non più il profilo civilistico della rappresentanza volontaria (conferimento, dal datore, di un mandato al sindacato mediante sua iscrizione), ma quello ‘fattuale’ della rappresentatività (capacità delle parti sociali, e soprattutto del sindacato, di tutelare-rappresentare le istanze dei lavoratori, imponendo al contratto collettivo da esso concluso un’efficacia ‘di fatto’, estesa pure ai lavoratori non iscritti, e che perciò va oltre quella che può dargli il diritto statale). L. Vigorelli Nel 59 fu poi emanata la L. Vigorelli (741/59), con cui, “per assicurare minimi inderogabili di trattamento economico- normativo nei cfr di tutti gli appartenenti a una stessa categoria’, si conferì al governo la delega ad emanare d.lgs. che si uniformassero alle relative clausole di tutti i contratti collettivi di diritto comune conclusi fino a quel momento. Furono, perciò, emanati migliaia di d.lgs., ognuno dei quali era la copia di un contratto collettivo che, per il sol fatto d’esser trasfuso in un atto normativo, acquistava subito efficacia generale e non più circoscritta ai soli iscritti al sindacato stipulante. Si scoprì quanto fosse rilevante il numero dei contratti collettivi fino ad allora stipulati e la loro varietà, e soprattutto che essi erano scritti in un linguaggio ‘a sé’, poco simile a quello del legislatore. Questa diritto sindacale transitorio cerò problemi sull’ibrida natura giur del contratto collettivo trasfuso in D.Lgs: le sue disposizioni non potevano contrastare norme di legge, mentre erano derogabili in melius per il lavoratore da parte del contratto collettivo di diritto comune e del contratto individuale; non si sapeva, perciò, se esso fosse o no un atto legislativo. La soluzione della legge delega venne riproposta l’anno dopo (L.1027/60) per estendere a tutti le clausole retributive dei contratti collettivi stipulati nel mentre, ma la Corte cost affermò che l’escamotage della recezione in d.lgs. andava bene solo in via ‘transitoria-eccezionale’, perciò la L. del 59 era cost, ma non quella del 60, che tentava di riproporre annualmente quel meccanismo. L’unica via per far acquisire efficacia generale alle disposizioni di un contratto collettivo restava quella dell’art 39. Statuto Dei Lavoratori Il sindacato, non desideroso di discipline legislative, accettò (70) di farsi dare una normativa dallo SDL (ordin statale sostiene l’intersindacale) che individuò il contratto collettivo come fulcro degli assetti normativi del rapporto di lavoro; infatti il suo art 36 obbliga gli imprenditori, che godono di benefici pubblici o eseguono appalti per opere pubblica, ad applicare condizioni non inferire a quelle dei contratti collettivi della categoria-zona (non c’è formale estensione erga omnes, perciò la norma non è incost per violazione dell’art 39). Pure in altri casi il legislatore ha subordinato la concessione di benefici alla condizione che il datore applicasse il contratto collettivo (o trattamenti non peggiori) — ultima di questa norme è il d.lgs.50/16: gli imprenditori, che stipulino con PA contratti di fornitura, devono osservare il trattamento economico-normativo dei contratti collettivi nazionali-territoriali. Attività creatrice della giurisprudenza La giurisprudenza è intervenuta sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo x allargarne l’ambito degli interessati oltre gli iscritti alle associazioni firmatarie; soprattutto ha esteso ultra partes le sue clausole retributive: “la retribuzione è determinata dal giudice” (art 2099 cc) riferendosi all’art 36 Cost (“retribuzione proporzionata a quantità-qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente x vita dignitosa”), quindi suo parametro è il contratto collettivo relativo alla categoria d'appartenenza del lavoratore non sindacalizzato in questione. Quindi i min retributivi del contratto collettivo son stati estesi a tutti i lavoratori non iscritti al sindacato firmatario: ciò non viola l’art 39 perché il contratto collettivo è applicato indirettamente, come parametro esterno. All’efficacia oggettiva del contratto collettivo i giudici, dagli anni 50, gli han applicato l’art 2077 cc (contratto collettivo corporativo è inderogabile dal contratto collettivo, se non in melius, con sostituzione delle clausole difformi). La giurisprudenza ha, perciò, mostrato una continuità tra contratto corporativo-privatistico, ritenendo trasferiti a questa ultimo i riferimenti delle leggi (specie cc) al ‘contratto collettivo’; inoltre ha attribuito natura ‘reale’ all’inderogabilità (sostituzione automatica clausole difformi) e non solo ‘obbligatoria’ (chi viola contratto collettivo deve risarcire), risolvendo gli sforzi della dottrina per spiegare l’inderogabilità del contratto collettivo con le categorie del diritto civile - Santoro Passarelli aveva ritenuto che il contratto collettivo concluso col mandato (irrevocabile) del datore-lavoratore non poteva esser superato dalle parti perché non potevano far prevalere il loro interesse dopo che, col mandato, lo avevano messo in 2° piano rispetto agli interessi collettivi degli altri lavoratori- datori. Questa teoria non dava natura reale alla inderogabilità. Il prin inderogabilità del contratto collettivo fu recepito per la 1° volta dal legislatore con la L.533/73 (processo del lavoro), che riscrisse l’art 2113 cc per sanzionare (annullabilità) rinunce-transazioni riguardanti disposizioni ‘inderogabili’ della legge e contratti collettivi. Infine, circa il riferimento alle ‘speciali condizioni più favorevoli ai lavoratori’ dell’art 2077 (unica deroga possibile), la giurisprudenza ritiene che va fatto un cfr tra contratto individuale-collettivo, creando un puzzle con le parti migliori di entrambi. Sul punto vi son 2 orientamenti: per la teoria del ‘cumulo’ il cfr va fatto paragonando ogni singola clausola, scegliendo le più favorevoli e cumulandole; x quella del ‘conglobamento’ il cfr va fatto paragonando i 2 contratti e applicando in blocco il più favorevole. In giurisprudenza prevale un orientamento intermedio: il cfr va fatto ‘istituto x istituto’ (retribuzione, ferie, ec), applicando al lavoratore quelli più favorevoli dell’uno-altro contratto. Questa soluzione talvolta è imposta dalla contrattazione collettiva (‘clausole di inscindibilità”). Contratto collettivo fonte del diritto La L.533/73 ha stabilito l’inderogabilità dei contratti collettivi e la loro equiparazione alla legge come causa di nullità delle sent arbitrali (“son impugnabili per violazione e falsa applicazione di legge o contratti collettivi”), che son argomenti per ritenere il contratto collettivo come fonte del diritto. In realtà il contratto collettivo col tempo ha assunto natura ‘para-legislativa’: è espressione di un contratto privatistico, ma produce gli effetti tipici di una norma. Perciò vi son 2 orientamenti: privatisti (non ritengono il contratto collettivo una fonte) e pubblicisti (contrario). Il d.lgs.40/06 ha avvalorato la teoria dei 2°, ma i contratti collettivi non sono, a differenza della legge, pubblicati in Gazz. Uff. e non possono costituire oggetto di giudizio davanti alla Corte cost; essi, poi, van interpretati con le regole civilistiche sull’interpretazione die contratti di cui agli art 1361-1371 cc. In realtà il contratto collettivo crea una ‘3° dimensione de diritto’, descrizione di un’autonomia incarnata da un contratto collettivo che presenta la ‘vocazione’ di fonte del diritto. Rapporto tra legge e le nuove funzioni del contratto collettivo Prima la legge era fonte primaria di regolazione del rapporto di lavoro e poteva rinviare alla fonte subordinata (contratto collettivo corporativo) il compito di completare/derogare le sue disposizioni in favore dei lavoratori. Dopo, invece, la legge (fonte) dettava prin generali a tutela dei valori cost, senza invadere lo spazio del contratto collettivo di diritto comune (fonte ‘di fatto”), che ottenne una ‘riserva assoluta’ nella regolazione del rapporto di lavoro — crisi degli anni 70 indebolì questa sistema: la L.91/77 fisso dei ‘tetti’ agli incrementi dei salari che la contrattazione collettiva non poteva superare, inaugurando la stagione dell’inderogabilità in melius della legge. Si ricorse sempre più a una contrattazione ‘gestionale’, volta a gestire situazioni che richiedevano una riduzione dei diritti dei lavoratori, fino ai gg nostri, ove si diminuisce pure gli ambiti d’operatività della contrattazione collettiva. Punto più basso è la L.148/11, che abilita il contratto collettivo a derogare in peius alla legge in molte materie e con efficacia per tutti i lavoratori. In questa scenario diviene, perciò, favorevole al lavoratore la posizione tradizionale, contraria all'estensione generale dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo. Questa problema è connesso a quello della natura del contratto collettivo se è una norma a rinviare ad esso perché operi deroghe/integrazioni della norma. Questa tipo di contratto collettivo ha natura pubblicistica, rinvenendo la sua rilevanza nella legge che vi rinvia. La dottrina è divisa tra chi ritiene che il rinvio conferisca automaticamente al contratto collettivo l'efficacia della norma delegante e chi, invece, lo nega, per evitare un bis della L. Vigorelli. Altra cosa sono i ‘rinvii impropri’ (meri inviti del legislatore perché le parti sociali regolino una certa materia), carichi di contenuto politico, non precettivo, perché le parti potrebbero intervenire anche senza essi.4 Funzione normativa-obbligatoria del contratto collettivo Il contratto collettivo ha una parte normativa (destinata ai lavoratori, regola istituti del rapporto), e una obbligatoria rinvenibile nelle sue clausole (obbligatorie, es che disciplinano procedure arbitrali, e di tregua, con cui sindacato s’impegna a non proclamare scioperi prima della scadenza del contratto) che contengono regole di condotta che le parti s'impegnano a osservare per la riuscita del contratto (in caso di violazione comportano sanzioni endo- associative). Livelli della contrattazione collettiva A ogni livello organizzativo del sindacato corrisponde un livello di contrattazione collettiva, ognuno dei quali produce un contratto collettivo che interagisce con quelli degli altri livelli — livello più elevato è quello del contratto collettivo interconfederale (tra confederazioni nazionali di lavoratori-datori), che regola le linee delle politiche del lavoro, senza scendere nel dettaglio, perché riguarda le più diverse categorie. Livello inferiore è quello del contratto collettivo nazionale di lavoro (‘di 1° liv.’, tra diverse federazioni nazionali di categoria e organizzazioni imprenditoriali), che disciplina più compiutamente i rapporti di lavoro della categoria per cui si contratta (ccnl chimici, ec). A livello inferiore vi sono i contratti collettivi decentrati (‘di 2° liv.) comprendenti quelli: territoriali (riguardano lavoratori-imprese di stessa categoria produttiva, operanti in certa zona) e aziendali (riguardano un’azienda/unità produttiva). TU del 14 fissa regole sulle parti legittimate a stipulare un contratto collettivo e la sua efficacia soggettiva — contratto collettivo aziendale può esser sottoscritto dalle RSU-RSA e ha efficacia per tutti i lavoratori dell'azienda (pur non iscritti) se (se sottoscritto dalla RSU) è stato approvato dalla maggioranza dei suoi componenti, o se (se sottoscritto dalle RSA) esse son costituite nell’ambito di sindacati aventi complessivamente la maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali all’interno dell’azienda, con possibilità di chiedere il ricorso a un referendum confermativo. Inoltre, per il contratto collettivo nazionale può esser ammessa alla trattative ogni federazione che, nella categoria di riferimento, vanti una rappresentanza di almeno il 5% (media tra percentuale dei lavoratori ad essa iscritti e quella dei voti da essa ricevuti alle elezioni delle RSU). Questa contratto, concluso da federazioni che insieme raggiungono il 50%+1 della rappresentanza dei lavoratori e che sia approvato dalla maggioranza dei lavoratori, è efficace nei cfr di tutti i lavoratori della categoria. Questa disciplina, però, sorge da una fonte privatistica e ha efficacia circoscritta alle parti che han sottoscritto l’accordo: l’attribuzione dell’efficacia erga omnes da parte del TU ai contratti collettivi è irrilevante (parti non possono darsi il potere di dar forza di L. a loro pattuizioni). Contrattazione collettiva decentrata una delle leggi ‘fascistissime’ (26) vietò sciopero-serrata. Questa reati rientrarono poi nel cp Rocco (30): l'art 502 puniva con sanzione pecuniaria lo sciopero per fini contrattuali, definito come l'abbandono collettivo o turbamento della continuità del lavoro da parte di 3/+ lavoratori; questa pene erano inflitte a chi scioperava per solidarietà con altri lavoratori o per protesta; pene più rigide (detentive) eran previste x tumulti-sommosse, x gli organizzatori dello sciopero, e x scioperi x fini non contrattuali (politici, tesi a costringere una pubblica autorità a dare/omettere un provvedimento). Caduto il fascismo, nella Cost lo sciopero divenne un ‘diritto’, ma le norme del cp restavano al loro posto. La formula laconica dell’art 40 fu dovuta al compromesso tra sx (propensa ad ampliare il contenuto dello sciopero) e moderati (inclini a porvi limiti e parificarlo alla serrata), che fu trovato nel ricopiare il preambolo della Cost francese (46). Nonostante ci fosse chi gli dava mero valore programmatico, l’art 40 venne riconosciuto come norma precettiva e lo sciopero fu ritenuto un diritto, sovvertendo i prin dello Stato liberale che tollerava lo sciopero secondo una logica di parità contrattuale, ove i lavoratori potevano astenersi dal lavoro, ma risarcendo i danni. Con la Cost emerse, invece, la prospettiva dello Stato sociale, in cui lo sciopero è un’arma della parte debole, perciò non c’è spazio per forme di responsabilità civile, quindi la perdita della retribuzione resta l’unica conseguenza negativa dei lavoratori che esercitano questa diritto. L’art 40 non è mai stato attuato, perciò la mancanza di leggi che regolano lo sciopero ha dato problemi ricostruttivi- applicativi di questa diritto ed è toccato alla giurisprudenza individuarne condizioni-limiti. Alcune sent han segnato il percorso di questa diritto, in un contesto in cui non son state abrogate le norme repressive del cp — es nel 52 la Cassazione affermò l’esonero degli scioperanti dalla responsabilità per inadempimento contrattuale, comportando come conseguenza solo il venir meno della retribuzione. Poi la Corte cost dichiarò incompatibili col nuovo ordin i reati di sciopero per fini contrattuali. Diverso è stato, invece, l'atteggiamento della CG che, in 2 pronunce del 07 (Viking, Laval), ha affermato che lo sciopero può esser ritenuto prevalente, rispetto al diritto di libertà d'impresa (dello stesso rango dello sciopero), solo se incarna interessi generali di tutela dei lavoratori e sia proporzionato al fine perseguito, che dev’esser compatibile con le fonti del diritto UE. Prospettiva diversa dalla italiana, ove il diritto di sciopero è uno strumento di realizzazione dell’eguaglianza sostanziale. Natura giur dello sciopero La 1° ricostruzione teorica (Santoro Passarelli) post Cost lo riteneva un ‘diritto soggettivo potestativo’: titolare può modificare una situazione giur nei cfr di un altro soggetto (datore), costretto a sottostare alle conseguenze dell’esercizio di questa diritto. Si poteva, perciò, scioperare solo x pretese che il datore poteva soddisfare, quindi solo per motivi economici. Negli anni 60, nuove teorie pubblicistiche lo definirono un ‘diritto d’eguaglianza sociale’ (stabilisce eguaglianza tra contraente debole e datore) o un ‘diritto assoluto della persona’ (incarnazione di una delle ‘formazioni sociali’ tutelate dall’art 2 Cost). In un’ottica analoga Giugni parlò di “diritto pubblico di libertà’ (impossibilità, x pubblici poteri, d’emanare provvedimenti in contrasto col diritto di sciopero e, x datori, di compiere atti x mortificarne l’esercizio). Con gli anni, la formula del ‘diritto fondamentale della persona’ ha avuto successo, divenendo punto di riferimento dell’analisi dottrinale. Titolarità del diritto Più frastagliata è la risposta degli interpreti al quesito se titolare del diritto di sciopero sia il singolo lavoratore, l'aggregazione che lo rappresenta o il sindacato ‘istituzionale’. Le teorie, successive alla Cost, incentrate sulla titolarità collettiva del diritto di sciopero enfatizzavano il ruolo del sindacato; si andò da tesi che vedevano il sindacato come unico titolare del diritto, ad altre che vedevano sindacato-lavoratori ‘contitolari’ (diritto di proclamarlo era delle associazioni, mentre i lavoratori avevano il diritto d’aderirvi), ad altre ancora che lo identificavano nel singolo titolare del diritto, legittimato però ad esercitarlo solo dopo l’autorizzazione del sindacato. Tesi di questa tipo colpivano lo sciopero spontaneo, cioè quello che gruppi di lavoratori attuano indipendentemente dalla linea strategica dei gran sindacati. Ebbero poi gran successo le teorie del diritto individuale ad esercizio collettivo, in cui la proclamazione dello sciopero da parte del sindacato non era più un requisito di legittimità dell’esercizio del diritto, ma un mero invito a scioperare (funzione propagandistica tra lavoratori interessati). Questa teoria dava, quindi, cittadinanza alle nuove aggregazioni spontanee che si stavano affermando. A fine ami 80 il pendolo tornò dall’altra parte con la tesi della titolarità collettiva a esercizio individuale (dec sindacale coesisteva con la libertà del lavoratore di aderire allo sciopero). Oggi si divide tra chi sostiene la titolarità collettiva in capo a un sindacato sempre più istituzionalmente coinvolto nei meccanismi della legge e chi propone una rielaborazione della tesi della titolarità individuale a esercizio collettivo: del diritto di sciopero è titolare il singolo lavoratore, mentre il suo esercizio dev’esser collettivo, rispecchiando l’interesse collettivo dei soggetti interessi. L’accoglimento di questa teoria comporta varie conseguenze applicative: lo sciopero può esser pure spontaneo o ‘a sorpresa’; non conta il numero dei lavoratori coinvolti (pure uno, purché si muova per tutelare interesse collettivo); gli atti con cui un sindacato abbia disposto del diritto di sciopero son validi solo per il sindacato firmatario e non per i singoli lavoratori. Es più importante è quello delle clausole ‘di tregua’ o di ‘pace sindacale’ contenute in alcuni contratti collettivi, a partire dagli anni 60, in virtù di cui ci s'impegna a non scioperare prima della scadenza del contratto collettivo o a esperire tentativi di conciliazione. L'accordo interconfederale del 11 consente ai contratti aziendali d’includere tali clausole, volte pure a promuovere procedure di ‘raffreddamento’ del conflitto: esse vincolano solo i sindacati firmatari e non i singoli lavoratori, che rimarrebbero perciò titolari del loro diritto di sciopero. Tranne i militari-poliziotti, ogni lavoratore dipendente gode del diritto di sciopero. Delicato è, invece, l’allargamento dei confini dello sciopero oltre il lavoro subordinato — la Corte cost, data l’espansione della subordinazione, ha riconosciuto la titolarità del diritto di sciopero ai piccoli imprenditori senza lavoratori alle loro dipendenze, che, pur formalmente indipendenti, dipendono socio-economicamente ai propri committenti. La giurisprudenza ha, perciò, riconosciuto sempre più largamente il diritto di sciopero ai lavoratori autonomi con contratto di collaborazione coordinata-continuativa, fino a che le L. del 90 e 00 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali hanno allargato l’area d’esercizio del diritto ad alcuni lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Definizioni-limiti: problema degli scioperi ‘anomali’ Senza una L. attuativa dell’art 40, è toccato alla giurisprudenza definire l’ambito di liceità dello sciopero. Successo ebbe una definizione che dava allo sciopero-diritto dei limiti ‘intrinseci’: dato che esso era l'astensione del lavoro continuativa, concertata e completa, a tutela d’un interesse professionale collettivo, non erano sciopero-diritto le sue forme anomale, carenti dei requisiti di continuità (es sciopero ‘a singhiozzo’, in cui s’alternano momenti d’astensione-lavoro), concertazione (es sciopero ‘a sorpresa’: senza preavviso), completezza (es sciopero ‘a scacchiera’: agitazione solo di alcuni reparti). Non rientravano nell’art 40 pure lo sciopero di solidarietà con altri lavoratori; quello con fini diversi dalla stipulazione di un contratto collettivo o che mirasse alla modifica di un contratto collettivo in corso; quello che segue una pretesa non disponibile da parte del datore (motivi politici). In questa casi gli scioperanti dovevano risarcire. Per un decennio questa visione dominò, ma negli anni 60 vi furono critiche (Tarello) che si basavano sul rifiuto di definizioni statiche-precostituite: non si poteva costruire a tavolino una nozione aprioristica, sostituendola alla ricerca caso per caso della sussumibilità di un fatto alla norma. Pure un’altra corrente negò la legittimità alle forme anomale di sciopero e si basava sull’uso delle clausole generali relative all’obbligo di diligenza-collaborazione o ai doveri di buonafede-correttezza che tutelano l’interesse del datore alla conservazione dell’organizzazione aziendale, imponendo agli scioperanti di evitare all'azienda i danni non connessi alla cessazione dell’attività. La giurisprudenza di fine anni 60 avanzò i criteri del ‘danno ingiusto’ e ‘corrispettività dei sacrifici’: il danno degli scioperanti al datore era inevitabile, ma non doveva superare quello del lavoratore (perdita retribuzione). In questa modo l’illegittimità di uno sciopero veniva decisa non da una ‘anormalità’ delle sue modalità d’esercizio, ma dal quantum del danno. Negli anni 70, grazie al contributo di Ghera, si decise che il generale divieto di ledere le altrui situazioni soggettive gravava pure sugli scioperanti, che dovevano, perciò, rispettare pure un interesse datoriale, che non è quello che attiene allo svolgimento dell’attività, ma alla mera aspettativa alla conservazione dell’organizzazione aziendale in vista della ripresa dell’attività produttiva. Il limite non stava, perciò, nel danno alla produzione, ma nel danno alla produttività. La sent 711/80 della Cassazione spazzò via ‘corrispettività dei sacrifici’ -‘danno ingiusto’ e rese inutile la distinzione tra scioperi normali-anormali, passando dall’individuazione dei limiti interni a quelli esterni del diritto di sciopero, desumibili dal suo contemperamento con altri diritti di eguale/maggior portata cost. Ora si prescindeva dalle modalità d’effettuazione dello sciopero e si poneva il limite del danno inferto alla ‘capacità produttiva’ dell’azienda. Questa ricostruzione è ormai indiscussa: ogni sciopero, a prescindere dalle sue modalità, ha sempre gli stessi limiti esterni e non più interni preconcetti; ogni sciopero va indagato caso per caso. Sciopero non economico Stesso percorso la giurisprudenza seguì x il problema della liceità dello sciopero per fini non economici (no vs datore per soddisfare richieste che può appagare), complicato dalla vigenza delle norme (cp) che sanzionavano l'astensione da lavoro x ‘fini non contrattuali’. Anzitutto la Corte cost lasciò in piedi l’art 505 cp, ma affermò la liceità dello sciopero di solidarietà (fatto dai lavoratori di un’azienda per sostenere rivendicazioni di colleghi di altre, purché vi fossero affinità delle esigenze e comunanza d’interessi). La Corte poi affermò la contrarietà all’art 40 dell’art 503 cp, lasciando in vita lo sciopero politico solo se fosse volto a sovvertire l’ordin cost (ipotesi ‘di scuola’ perché è quasi ovvia la sua illiceità) o a impedire/ostacolare il libero esercizio dei diritti-poteri in cui si esprime la sovranità popolare. La Corte individuò 2 tipologie: 1) sciopero ‘politico-economico’ (motivi economici); 2) sciopero ‘politico puro” (motivi politici) - solo al 1° s’applicava l’art 40, mentre il 2°, pur lecito, doveva assoggettarsi alle regole dell’illecito civile; ma questa distinzione è andata scemando perché il 1° è dilatato fino a comprendere tutte le agitazioni vs politica governativa in materia economica, fiscale, ec. Nel frattempo la Corte ha dichiarato pure l’illegittimità dell’art 504 cp, che prevedeva il reato dello ‘sciopero di coazione’ nei cfr della pubblica autorità. Sciopero e sospensione del rapporto L’effettuazione di uno sciopero legittimo trasforma l'inadempimento dell’obbligazione lavorativa in causa di sospensione del rapporto di lavoro, perciò, quando sciopera, il lavoratore conserva tutti i suoi diritti-obblighi non connessi all’effettuazione della prestazione (es diritto d’assemblea sindacale o obbligo di non divulgare segreti aziendali). Altra conseguenza dello sciopero è la perdita della retribuzione per tutta la durata dell’astensione (perché il rapporto è a prestazioni); invece non è prevista la riduzione delle ferie. Circa lo sciopero breve (dura meno di un gg lavorativo) la giurisprudenza ha ritenuto che al lavoratore non spetta nulla, quindi neanche il compenso per le ore lavorate, se la sua prestazione è scesa al di sotto di quel livello di normalità tecnica che le dà un senso. Modalità dello sciopero e altre forme di autotutela Vi son varie modalità di svolgimento dello sciopero, sulla cui legittimità gli interpreti devono pronunciarsi. Alcune riguardano momenti passati (es scioperi ‘a gatto selvaggio’: con azioni improvvise bloccavano le catene di montaggio); altre vanno rarefacendosi e altre vengono inventate. Spesso, poi, questa agitazioni non comportano un'effettiva astensione del lavoro con conseguente perdita delle retribuzione — es: lavoratori si rifiutano solo di svolgere il lavoro straordinario, richiestogli dal contratto collettivo (sciopero dello straordinario), o di eseguire mansioni ulteriori rispetto a quelle di loro competenza (sciopero delle mansioni), o rallentano i ritmi produttivi richiesti (sciopero del cottimo/rendimento). C’è chi ritiene questa fattispecie sussumibili nell’art 40, mentre chi sottolinea la mancanza di un elemento fondamentale dello sciopero (abbandono del lavoro) deve stabilire se lo svolgimento dell’attività non eseguita fosse o no obbligatorio per legge/contratto. Opposte a questa son altre forme di protesta collettiva in cui, invece, la prestazione viene resa, ma ne vengono esasperati i contenuti - sciopero pignolo (effettuato continuando il lavoro, ma rallentando l’attività a causa dell’applicazione rigida di disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali); sciopero alla rovescia (dipendenti svolgono lavori non richiesti). Non son rari i casi in cui l'agitazione collettiva si svolge non allontanandosi dall’impresa. Vi son varie ipotesi — sciopero bianco (dipendenti s’'astengono dal lavoro, ma non lasciano l'impresa per scongiurare il crumiraggio e compattare gli scioperanti); occupazione d'azienda (permanenza dei lavoratori oltre l'orario lavorativo; rischia di ricadere sotto l’art 508 cp, che punisce l'occupazione di un'azienda per impedire/turbare svolgimento del lavoro, ma è legittimo se c'è una giustificazione, es assemblea regolamentare convocata); sciopero virtuale (dipendenti affermano di esser in sciopero, ma svolgono le loro mansioni dando in beneficienza i proventi della gg scioperata). Dal concetto di sciopero esulano altri comportamenti di protesta dei lavoratori, comunque riferibili alla nozione di autotutela collettiva — picchettaggio (attività strumentale all'esercizio dello sciopero: è un blocco effettuato dai lavoratori che, davanti alla fabbrica, dissuadono i colleghi che vogliano entrare al lavoro; la sanzione penale subentra se il picchettaggio degeneri in azioni violente); blocco delle merci (impedire l’uscita dall'impresa dei suoi prodotti; è lecito se non trascendere in comportamenti violenti ma va considerata un'eventuale responsabilità civile); boicottaggio (propaganda volta a indurre terzi a non fornire all'impresa materie prime o a non acquistarne i prodotti; l'ipotesi è punita dall’art 507 cp, ma è legittima per la Corte); sabotaggio (danneggiamento dei locali/macchinari dell'azienda; è reato x l’art 508 cp, ma è legittimo per la Corte). Sciopero dalla parte del datore Strumento tipico nelle sue mani è la serrata (chiusura, totale/parziale, dell’azienda per un periodo più/meno lungo), spesso usato come risposta a un’azione dei lavoratori; essa era parificata allo sciopero dalla legge, che proponeva l’ingannevole idea della ‘parità delle armi’, ma la Cost ha diversificato questa 2 fattispecie, riconoscendo lo sciopero come diritto, ma non la serrata. La Corte cost ha affermato che la serrata è una mera libertà, perciò ha dichiarato illegittima la norma che punisce quella x fini contrattuali (art 502 cp), poi pure le altre che sanzionano gli altri tipi di serrata contemplati dal cp (per fini politici, di coazione alla pubblica autorità, di solidarietà/protesta). In ogni caso, però, la serrata è un illecito civile, cioè una mora al creditore (art 1206 cc: rifiuto di ricevere prestazioni dipendenti) o inadempimento del contratto di lavoro, perciò l’imprenditore deve versare la retribuzione al lavoratore come risarcimento/adempimento controprestazione. L’art 1206 cc esclude la mora del creditore se questa rifiuta di ricevere la prestazione per un motivo legittimo, che dovrebbe sostanziarsi nella impossibilità di riceverla. Inoltre la giurisprudenza ha stabilito che la ‘messa in libertà’ (rifiuto del datore di ricevere la prestazione quando è in atto uno sciopero articolato: rifiutare quella offerta dai normalmente erogate e riguardare 1/3 dei dipendenti normalmente coinvolti. Questa limiti sono i parametri di riferimento pure per la valutazione d’idoneità di accordi-codici. La Comm. ha pure compiti consultivi-mediazione — può, su richiesta delle parti o sua iniziativa, esprimere il suo giudizio sull’interpretazione/applicazione degli accordi-codici e inoltre (su richiesta parti) può emanare un lodo sul merito della vertenza (pronuncia sulla controversia relativa all’interpretazione di fonti sulle prestazioni indispensabili). Altra funzione è la prevenzione degli scioperi illegittimi — ricevuta comunicazione della proclamazione dello sciopero, se ravvisa criticità, l’autorità lo comunica ai soggetti interessati e li invita a riformularla. Inoltre può segnalare all’autorità competente per la precettazione le situazioni in cui dallo sciopero può derivare un pregiudizio ai diritti cost delle persone, e formulare proposte sulle misure da adottare con l’ordinanza di precettazione per prevenire questa pregiudizio. Sanzioni La L.83/00 dà potere sanzionatorio alla Comm. Il procedimento che porta all’irrogazione di sanzioni può aprirsi per iniziativa della Comm. o su richiesta delle parti, associazioni rappresentative, autorità nazionali/locali interessate. La Comm. valuta il comportamento delle parti: se rileva inadempienze/violazioni degli obblighi di legge o accordi collettivi sulle prestazioni indispensabili, procedure di raffreddamento-conciliazione, o codici d’autoregolamentazione, commina sanzioni per i dirigenti responsabili, amministrazioni pubbliche e rappresentanti legali delle imprese che erogano servizi, e prescrive al datore d’applicare sanzioni disciplinari ai lavoratori. Le associazioni rappresentative degli utenti devono esser sentite dalla Comm. prima della valutazione d’idoneità e possono agire in giudizio vs sindacati che fanno l’effetto annuncio e che disattendono l’invito della Comm. a differirlo, e vs erogatori dei servizi che non diano adeguate informazioni agli utenti. L’art 4 contempla 3 tipi di sanzioni: 1.Le organizzazioni dei lavoratori che proclamano (o aderiscano) uno sciopero in violazione delle disposizioni su preavviso, comunicazione scritta, prestazioni min e delle procedure di raffreddamento-conciliazione possono incorrere nella sospensione dei permessi sindacali retribuiti e mancata percezione dei contributi associativi trattenuti sulla retribuzione, per un ammontare di €2.500-50.000 a seconda della gravità della violazione e degli effetti sul servizio pubblico; e nell’esclusione delle trattative cui l’organizzazione partecipa x 2 mesi dalla cessazione del comportamento. 2.I dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e i legali rappresentanti delle aziende che erogano i servizi, se non garantiscono le prestazioni indispensabili, non prestano correttamente l’informazione agli utenti o non adempiono gli obblighi derivanti dagli accordi collettivi o dalla regolamentazione provvisoria della Comm., son soggetti a una sanzione amministrativa pecuniaria di €2.500-50.000. Lo stesso vale per le associazioni-organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, in solido coi lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori che, aderendo alla protesta, si siano astenuti dalle prestazioni, in caso di violazione dei codici d’autoregolamentazione o della regolamentazione provvisoria della Comm. 3.I lavoratori che s’astengono dal lavoro violando gli obblighi legali o che, richiesti dell’effettuazione delle prestazioni min, non prestano la loro attività, son soggetti a sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità dell’infrazione (se pecuniarie, datore deve dare importo ricevuto all’Inps), con esclusione del licenziamento. La qualificazione di questa sanzioni come ‘disciplinari’ è usata in senso atecnico e va riferita, più che alla natura della sanzione (che infatti il datore deve irrogare dopo la valutazione negativa del comportamento da parte della Comm.), al procedimento che il datore deve rispettare nella sua applicazione, che è quella dell’art 7 SDL. Precettazione La realizzazione del contemperamento del diritto di sciopero col godimento dei diritti della persona è affidata pure alla precettazione — provvedimento amministrativo adottato dal Prefetto se lo sciopero è locale, o dal Pres Consiglio se è nazionale/interregionale. Suo presupposto è il fondato pericolo di un pregiudizio grave-imminente ai diritti della persona, che potrebbe derivare dall’interruzione/alterazione del funzionamento dei servizi pubblici essenziali a causa dello sciopero. Se c’è questa presupposto il procedimento è avvito dall’autorità precettante competente su segnalazione della Comm. o direttamente dall’autorità, che deve comunque informare la Comm. L’adozione del provvedimento non è immediata: l’autorità competente deve invitare le parti a desistere dai comportamenti che determinano il pericolo, se questa tentativo di conciliazione va male possono esser adottate con ordinanza le misure necessarie a prevenire il pregiudizio ai diritti della persona (differimento dello sciopero ad altra data, riduzione durata o prescrizione di misure per assicurare livelli di funzionamento del servizio compatibili con la salvaguardia di quei diritti). L'ordinanza va portata a conoscenza dei destinatari e va diffusa coi mezzi di comunicazione. Contro di essa è ammesso il ricorso al Tar, ma l’impugnazione non sospende la sua esecutività. L’inosservanza delle sue disposizioni da parte dei destinatari comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie. LAVORO SUBORDINATO-AUTONOMO Nel cc 1865 il rapporto lavorativo era una sottospecie del contratto di locazione — art 1570 prevedeva, infatti, la locazione delle opere (obbligo di parte a fare una cosa x altra mediante mercede), di cui l’art 1627 distingueva 3 tipi: la 1° riguardava il prestare la propria opera all’altrui servizio, ma solo a tempo o per una determinata impresa per impedire l’asservimento schiavistico del lavoratore per tutta la sua vita. Ciononostante era ammessa la stipula di un contratto senza indicazione del termine finale perché si riteneva risolvibile in ogni momento mediante disdetta (dava al datore la libertà di risolvere a suo piacimento il rapporto in qualsiasi momento). Il reg del rapporto di lavoro era, perciò, lasciato al contratto individuale, formalmente libero, ma in sostanza prevaricatorio della parte forte sulla debole. Sin dall’inizio la dottrina inquadrò la prestazione di lavoro nella figura della locatio operarum (‘opere’ temporanee prestate in godimento al locatore-datore), contrapposta alla operis (‘opera’ alla cui realizzazione la persona s’obbligava). La loro distinzione venne coniugata a quella tra obbligazioni ‘di risultato’ e ‘di mezzi’: la /. operis avrebbe avuto ad oggetto uno specifico risultato di lavoro (compimento di opera/servizio), col rischio (della mancanza/imperfezione del risultato) a carico del debitore, mentre la /. operarum avrebbe avuto ad oggetto l’attività lavorativa in quanto tale, con estraneità del debitore rispetto al rischio del risultato, e quindi col locatore-datore tenuto a retribuire la quantità di lavoro svolte indipendente dall’utilità di cui di fatto aveva potuto appropriarsi. Sin dall’inizio, però, ci fu confusione tra i 2 tipi contrattuali. Carnelutti propose una lettura imperniata sul contratto di compravendita (di energie lavorative), ma non ebbe successo. Gli interventi di ‘legislazione sociale’ tra 800-900 preferirono determinare analiticamente i lavoratori destinatari delle rispettive tutele, rifiutando costruzioni unitarie della categoria. Proprio a seguito di questa operazioni, progressivamente, la categoria della |. operarum fu sostituita da quella del contratto di lavoro subordinato, creata a immagine-somiglianza di un determinato tipo di lavoro, prevalente socio-economicamente: quello dell’operaio della fabbrica medio-grande. I ‘socialisti della cattedra’ (studiosi con buoni sentimenti verso lavoratori), infatti, identificavano il lavoratore meritevole della tutela nel soggetto socio-economicamente debole, individuando perciò questa ideal-tipo nell’operaio manuale, nel proletario. Barassi (padre del diritto del lavoro italiano) cercò di dare una 1° costruzione giur del contratto di lavoro — come suo criterio qualificante scelse la mozione di subordinazione. Questa contratto (rientrante tra ‘locazioni d’opere’) dava il diritto di godere dell’energie lavorative del soggetto senza implicare la sua persona quale oggetto dello scambio (come x Camnelutti): lavoratore assoggettava la prestazione ai criteri direttivi del datore, senza altro impegno che eseguirla. Infatti dato che il datore s’accollava il rischio della produttività-organizzazione, egli aveva il potere di dirigere-controllare l’attività lavorativa. Barassi, quindi: 1) sostituì il criterio discriminativo basato sulla contrapposizione tra attività-risultato con quello della subordinazione; 2) non usò la fattispecie del lavoro subordinato per attribuire il rischio dell’inutilità della prestazione a una/altra parte, ma x ricollegare a essa l’effetto dell’applicazione delle ‘leggi sociali’ (c’è identità tra lavoro subordinato e presupposti per l'applicazione della normativa di tutela). Per respingere ogni assimilazione a soggetti dotati di tipicità sociale (operaio fabbrica), egli modellò un’idea di subordinazione ampia-elastica, onnicomprensiva, estendendo a tutti le norme dettate per i bisogni dell’operaio industriale. Il cc 1865 inquadrò il rapporto di lavoro negli schemi della locazione (matrice contrattualistica) restando fedele alla tradizione romanistica e rifiutando quella germanico-fedale che lo inquadrava nel rapporto fiduciario basato su continuità-reciproca fedeltà. L’idea contrattualistica restò dominante in epoca corporativa, ma l’influsso dell’altra corrente politica non tardò — si fronteggiarono 2 dottrine: 1) quella fedele ai postulati contrattualistici, che ravvisava nella disponibilità del lavoratore il connotato formale del vincolo di subordinazione; 2) la teoria organicistica, che svaluta l’elemento contrattualistico a vantaggio dell’inserzione del lavoratore nell’organizzazione gerarchica creata-diretta dall’imprenditore, vista come istituzione in cui collaborano capitale-lavoro. L’art 2094 cc 1942 cercò di fondere questa 2 componenti (seguendo la tendenza espansiva di Barassi), ma nel dopoguerra il dibattito sulla natura del rapporto di lavoro non cessò, anzi causò molte ricostruzioni teoriche, che è inutile ricostruire, se non evidenziando come il binomio contratto-rapporto crei una coppia di alternative: 1) tra teorie comunitarie (basate sulla considerazione dell’impresa come istituzione) e individualistiche (enfatizzano il ruolo conflittuale del rapporto di scambio); 2) tra teorie contrattualistiche-acontrattualistiche che, nella relazione tra datore-lavoratore, valorizzano il momento negoziale/effettuale. Alla tradizionale alternativa tra . operis-operarum il cc ha sostituito quella tra lavoro autonomo- subordinato: non si tratta più di distinguere 2 sottotipi del contratto di locazione in base alla diversa ripartizione del rischio, ma di verificare l’inquadrabilità della singola fattispecie in 1 dei 2 tipi contrattuali, con la conseguente individuazione della disciplina applicabile. Di distinguere questa 2 tipi di contratto se n’è occupata dottrina- giurisprudenza. Anzitutto, circa gli effetti riconducibili alla fattispecie, ci s’è sempre trovato davanti a una relazione biunivoca rigida tra i 2 termini: se un rapporto è subordinato gli s’applica in blocco la normativa lavoristica; se è autonomo non gli s’applica per nulla — conseguenza è che talvolta il sistema di tutela viene applicato pure a fasce di lavoratori non bisognosi (‘portoghesi del diritto del lavoro’, Giugni) e viene, invece, negato, ad es, a lavoratori autonomi assoggettati al potere di un committente. D'altra parte, l'allargamento delle fattispecie ‘tutelate’ è continuato in giurisprudenza fino agli anni 80, con la conseguenza di estendere l’ambito d’operatività delle garanzie lavoristiche. Il problema è, perciò, verificare in concreto gli ‘indici’ della subordinazione. Dottrina-giurisprudenza han concordato sulla strada da prendere per la qualificazione della fattispecie — teoria del ‘giudizio d’approssimazione’, che presuppone l’uso di un metodo ‘tipologico’: si confronta la fattispecie concreta (da qualificare) e i 2 modelli del rapporto di lavoro (autonomo-subordinato), riconducendola a 1 dei 2 a seconda della prevalenza delle componenti tipiche dell’uno/altro. A quello tipologico si contrappone il metodo ‘sussuntivo’: si confronta la fattispecie concreta e la nozione legale unitaria di lavoro subordinato e se coincidono si sussume la fattispecie concreta nella astratta; operazione frustrante perché presuppone una loro coincidenza completa (‘giudizio d’identità’). Il metodo tipologico, più pragmatico e perciò più usato dai giudici, dà all’interprete un maggior margine d’azione e si fonda sulla verifica della presenza, nel caso concreto, di elementi socialmente tipici (‘indici’) del lavoro dipendente. La loro ricerca non è agevolata dal legislatore, che anzi dice che è lavoratore subordinato chi presta lavoro subordinato (art 2094), autonomo chi lavora senza vincolo di subordinazione (art 2222): tutto ciò che non è subordinato è autonomo. La giurisprudenza, lavorando sugli ‘indici di subordinazione’, ora s’è riferita a quelli desumibili dal cc, ora ne ha creati di propri: in ogni caso sono indizi, nessuno di per sé decisivo, ma la cui simultanea presenza/assenza fa pendere la bilancia da una parte/altra. Due indici riprendono un'antica distinzione: il lavoro subordinato è un’ obbligazione “di mezzi’, quello autonomo ‘di risultato’ — va accertato se l’oggetto del contratto è la realizzazione di un risultato o la messa a disposizione di energie lavorative, senza un riferimento al risultato cui son volte: nel lavoro subordinato il risultato entra nei motivi del contratto, nell’autonomo è la causa stessa del contratto. Vi son state molte critiche a questa distinzione: se, infatti, s’identifica il risultato con l’interesse creditorio dedotto in obbligazione, ogni obbligazione può apparire ‘di risultato’; così come tante fattispecie di lavoro autonomo (es professioni intellettuali) possono configurare un’obbligazione di mezzi se intese come adempimento corretto degli obblighi professionali, senza dar rilievo al risultato. Correlato all’alternativa mezzi-risultato è l’antico indice della diversa ripartizione del rischio: il lavoratore subordinato è svincolato da ogni rischio tecnico-economico (perché egli non può incidere direttamente sulla gestione dell’impresa, quindi risponde solo del suo corretto adempimento contrattuale) che invece incombe sull’autonomo (e imprenditore). Pure qui, però, le distinzioni non sono nette: in alcuni casi di lavoro autonomo (es professioni intellettuali) il rischio sulla ‘utilità’ del lavoro s’attenua fino a scomparire, mentre certi tipi di lavoro subordinato (es quello con partecipazione agli utili) presentano un rischio simile a quello del lavoratore autonomo. ART 2094 cc “Lavoratore subordinato è colui che s’obbliga a collaborare nell’impresa a favore d’un imprenditore” — data la restrizione di questa nozione alle persone occupate in un’impresa, le norme lavoristiche s’applicavano ai rapporti non inerenti l’esercizio dell’impresa solo se compatibili. S'è superato ciò con una lettura più ampia, svincolata dal collegamento con un’impresa. Ambiguo è il dato della ‘collaborazione’: o si considera un mero richiamo all’obbligo di svolgere la prestazione con diligenza, eliminandolo nell’analisi della subordinazione; o lo rileggiamo evolutivamente, dandogli valore qualificatorio. La teoria della subordinazione ‘tecnico-funzionale’ identifica nella collaborazione la causa del contratto di lavoro subordinato (è la sua funzione economico-sociale), sottolineando l’interesse del creditore a coordinare l’attività lavorativa del debitore. Un'altra interpretazione la considera l’inserzione della prestazione all’interno di un’organizzazione - è ambigua perché, pur interpretando nel modo più lato il riferimento all’azienda, resterebbero fuori ipotesi di lavoro dipendente, mentre pure il lavoro autonomo potrebbe esser catturato nell’orbita dell'impresa perché ogni prestazione di durata a vantaggio di essa dovrebbe essere ‘subordinata’. Per l’art 2094 il lavoratore subordinato “s’obbliga mediante retribuzione” (onerosità prestazione). Gli interpreti si son soffermati su questa requisito per negare l'ammissibilità di un contratto di lavoro subordinato gratuito, invalido x contrasto con l’art 36 Cost. Si presumono gratuite le prestazioni rese da persone conviventi, legate da vincolo di parentela, affinità o affettivo; la presunzione può esser vinta solo dalla prova della sussistenza della subordinazione (x l’art 230-bis cc chi presta lavoro continuativo nella famiglia/impresa familiare ha diritto al mantenimento e partecipazione agli utili in proporzione alla quantità-qualità del lavoro prestato, salvo “che sia configurabile un diverso rapporto”; ciò, quindi, non esclude la dimostrazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato). I datori iniziarono a spacciare rapporti di lavoro subordinato in rapporti parasubordinati per sottrarsi agli oneri della subordinazione; fenomeno contrastato dalla ‘L. Biagi’ (03), che precisava che tutti i rapporti parasubordinati dovevano essere riconducibili a 1/+ progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato (‘lavoro a progetto’). La riforma poneva, quindi, dei limiti alle collaborazioni coordinate-continuative — serviva un progetto scritto, predisposto dal committente, con un contenuto specifico e che indicasse il risultato finale. V’eran poi delle conseguenze sanzionatorie: se v’era difformità fra quanto contemplato nel progetto e l’attività svolta il rapporto si convertiva da autonomo a subordinato sin dalla data della stipula; se s’accertava in giudizio che l’attività, svolta in conformità del progetto, era subordinata, il rapporto veniva convertito in subordinato. Altre norme estendevano al lavoro a progetto degli istituti del lavoro subordinato — es il compenso doveva esser proporzionato alla quantità-qualità del lavoro, assumendo come parametri min retributivi quelli previsti dai contratti collettivi per il lavoro subordinato; si estesero le disposizioni sulla sicurezza-igiene sul lavoro e di tutela vs infortuni- malattie professionali; si riscrissero le disposizioni sulla sospensione del lavoro e recesso per giusta causa. Si creò, insomma, intorno al collaboratore co.co. un min ‘statuto’ protettivo. Collaborazioni organizzate dal committente La disciplina del lavoro a progetto è stata, però, abrogata dal d.lgs.81/15 (attuativo Jobs Act) che ripristinò lo ‘statuto’ del collaboratore co.co. antecedente alla L. Biagi. Il suo art 2, modificato dalla L.128/19, ha individuato la nuova fattispecie delle ‘collaborazioni organizzate dal committente’: ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità son organizzate dal committente s’applica la disciplina del lavoro subordinato; vi son, però, delle eccezioni relative a casi specifici, in cui si prevede che i contratti collettivi possono evitare l'applicazione delle disposizioni sul lavoro subordinato. La norma è ambigua - versione originaria (prestazioni ‘solo’ personali) pareva applicare le regole della subordinazione a una fattispecie in cui si sarebbero applicate comunque; dopo la modifica del 19, la categoria delle collaborazioni organizzate dal committente fa, invece, pensare all’estensione della disciplina del lavoro subordinato a fattispecie ibride e d’incerta collocazione, sovrapponibili alla co.co.co., da cui si differenzierebbe solo per la presenza dell’elemento dell’organizzazione della prestazione da parte del committente. Lavoro autonomo non imprenditoriale Né il codice, né leggi speciali dan grande attenzione al lavoro autonomo — art 2222 non lo definisce, ma dice che è una prestazione prevalentemente personale; per il resto la categoria è ricavabile x esclusione rispetto a ciò che è qualificabile lavoro subordinato. Il quadro è cambiato col tempo, grazie alla previsione di alcune provvidenze antidiscriminatorie, previdenziali, antinfortunistiche e relative alla tutela della salute, e all’estensione ad alcune categorie di lavoratori autonomi del diritto di sciopero. La L.81/17 rafforza le tutele per i lavoratori autonomi che svolgono la loro attività in forma non imprenditoriale: le principali misure favoriscono la sua formazione-inserimento nel mercato del lavoro; riconoscono alcune provvidenze per la tutela della maternità, congedi parentali, invenzioni, e la sospensione del rapporto di lavoro, senza diritto al corrispettivo, in caso di gravidanza, malattia-infortunio; prevedono infine una sua tutela vs committenti che abusino del suo eventuale stato di ‘dipendenza economica’. FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO Al rapporto di lavoro s’applicano le norme generali sul contratto del cc. Capaci agire e lavoro dei mino! La L.977/67 regola il lavoro minorile, distinguendo i minori in bambini (fino a 15 a) e adolescenti (da 15-18 a) — età min d’accesso al lavoro è di 16 a (fine istruzione obbligatoria), ad eccezione delle attività svolte in settori culturali, artistici, sportivi o dello spettacolo, ove possono essere impiegati pure bambini, purché l’attività non pregiudichi la loro sicurezza, integrità, e frequenza scolastica. Il minore ha, perciò, la piena titolarità dell’esercizio dei diritti che dipendono dal contratto di lavoro e la piena capacità d’agire (può stipularlo direttamente e azionare in giudizio i diritti che da esso derivano). Nessun minore può esser adibito a lavorazioni pesanti/pericolose, a lavori nottumi. Disposizioni particolari, più favorevoli delle generali, son poi previste per l’orario di lavoro, riposi e ferie. La L.977/67 non s’applica, comunque, agli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti servizi domestici prestati in ambito familiare o prestazioni di lavoro non nocivo, pregiudizievole o pericoloso nelle imprese a conduzione familiare. Forma e vizi del consenso Per il contratto di lavoro vige la regola della forma libera (stipulabile pure oralmente), che non è contraddetta da quella che obbliga il datore a informare il lavoratore delle condizioni applicabili al rapporto, consegnandogli copia del contratto all’atto d’assunzione (obbligo accessorio che non intacca l'avvenuta costituzione del rapporto), né dalle norme che impongono al datore di tenere un ‘libro unico del lavoro’ ove iscrivere tutti i suoi dipendenti-collaboratori co.co. Le uniche eccezioni a questa regola riguardano, oltre qualche rapporto di lavoro speciale, alcuni contratti di lavoro flessibile (richiesta forma scritta perché lavoratore dev’esser consapevole che la previsione di una certa modalità del rapporto è una deviazione del modello tipico del lavoro a tempo pieno-indeterminato). Di scuola sono i casi relativi ai vizi del consenso, difficilmente rinvenibili in un contratto di lavoro: violenza, dolo, errore trovano comunque la loro disciplina nelle ordinarie norme civilistiche. Qualche rilievo può avere la simulazione (divergenza tra quanto dichiarato nel contratto e la reale volontà delle parti): assoluta è quella in cui le parti dichiarino l’esistenza di un rapporto di lavoro mai svolto (contratto simulato non ha effetto); relativa è quella in cui dichiarano l’esistenza di un certo tipo di contratto, invece se ne svolge un altro. Invalidità e prestazioni di fatto Deviazione della disciplina lavoristica rispetto alla generale riguarda l'invalidità (nullità/annullamento) del contratto di lavoro — art 2126 stabilisce che essa non retroagisce, come nella disciplina generale, al momento in cui il vizio s’è manifestato o alla stipula del contratto, ma opera ex nunc (da quando è dichiarata), facendo salvo il rapporto di lavoro svolto prima della scoperta del vizio, perché sennò le sanzioni restitutorie imporrebbero al lavoratore la riconsegna di quanto percepito a titolo di corrispettivo, mentre il datore non potrebbe ridargli le energie lavorative spese, arricchendosi ingiustificatamente Se la nullità del contratto deriva dall’illiceità dell’oggetto/causa si ritorna alla disciplina generale: in questa caso la nullità ha effetto ex tunc e il lavoratore non può vantare diritti derivanti dall'esecuzione della prestazione. Tale illiceità non ricorre in ogni caso di violazione di norme imperative, ma sol quando il contratto sia contrario ai prin d’ordine pubblico e buon costume. In ogni caso, se, nel contratto nullo x questa illiceità, il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del lavoratore, questa ha sempre diritto alla retribuzione, perché egli è vittima della situazione di nullità (es minore fatto lavorare in condizioni vietate dalla legge). Patto di prova L’ordin consente, prima della stipula di un contratto, la previsione di un patto di prova (art 2096 cc): l'imprenditore deve consentire e il lavoratore fare l'esperimento che è oggetto della prova perché il 1° possa meglio scegliere i dipendenti da assumere. Questa patto dev'essere stipulato in forma scritta, sennò è nullo e il lavoratore è assunto in via definitiva fin dalla stipula del contratto. Il periodo di prova ha una durata che tiene conto delle mansioni per cui è effettuata; i contratti collettivi la ritengono non superiore a 6 mesi (stesso tempo decorso il quale la disciplina sui licenziamenti individuali s’applica pure ai lavoratori in prova). Durante la prova ogni parte può recedere senza dover dare motivazione-preavviso all’altra. Il lavoratore può, però, impugnare il licenziamento (facendo proseguire la prova fino al termine) se determinato da motivi illeciti non attinenti alla prova (es discriminatori); il datore, infatti, deve dargli modo di dimostrare le sue capacità professionali, disponendo adeguate modalità di verifica della riuscita della prova. Il periodo di prova fra le stesse parti può esser apposto una sola volta al contratto, salvo che il lavoratore venga riassunto successivamente x mansioni diverse o a distanza di un lasso che giustifichi la necessità di riverificare le competenze. Finita la prova, l’assunzione del lavoratore diviene definitiva e il servizio prestato si compunta nell’anzianità del suo servizio. Contratti a contenuto formativo 1) CONTRATTO DI TIROCINIO (o apprendistato, art 2130 cc) — la stipula di un contratto di lavoro è spesso preceduta da un periodo d’addestramento del lavoratore presso il datore. Questa contratto riconosce all’apprendista una retribuzione, il diritto all’istruzione professionale, un attestato dell’esperienza compiuta e l’applicazione delle norme sul contratto di lavoro compatibili. È un contratto a causa mista perché lo scambio non è solo tra lavoro-retribuzione, ma incorpora pure l’obbligo per il datore di formare il lavoratore; questa giustifica la riduzione, x il datore, del costo dell’apprendista, ma per evitare che divenisse un suo alibi per risparmiare sul costo del lavoro è stato oggetto di molti interventi normativi — L.25/55 dettò norme sull’età degli apprendisti (tra 15-21 a), sulla durata max del contratto (5 a) e retribuzione (ridotta rispetto a quella del lavoratore ordinario). Dopo una sent della Corte cost, che estese agli apprendisti la tutela vs licenziamenti arbitrari, l’apprendistato assunse la fisionomia di un contratto ‘garantito’ durante la sua esecuzione, volta ad assicurare l'apprendimento, ma da cui il datore poteva recedere alla scadenza con un mero preavviso. Il d.lgs.276/03 e 81/15 distinguono 3 tipi d’apprendistato: 1. ‘xlaqualifica-diploma professionale o d’istruzione secondaria superiore’ (art 43) — destinato ai giovani tra 15- 25 a che vogliono acquisire la qualifica traverso i percorsi scolastici o la formazione professionale regionale; 2. ‘professionalizzante’ (art 44) — destinato ai giovani tra 18-29 a che vogliono acquisire una qualifica contrattuale, cioè un titolo non rilasciato dal sistema educativo, ma connesso all’inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva; la formazione connessa a questa apprendistato è definita dalla contrattazione collettiva; 3. ‘di alta formazione-ricerca’ (art 45) - destinato ai giovani tra 18-29 a, coniugabile coi percorsi di diploma di scuola superiore, laura, dottorato di ricerca e praticantato professionale; questa apprendistato può esser attivato a seguito di convenzioni tra datori-istituzioni educative e la formazione è regolata dal sistema pubblico. Per tutti i tipi è richiesta la forma scritta ad probationem, l’indicazione di un piano formativo individuale, di un tutor, della qualifica da conseguire e della durata del contratto non inferiore a 6 mesi, con libera recedibilità dopo la scadenza, ma se nessuna parte recede il rapporto prosegue come un ordinario contratto a tempo indeterminato. Vi son 2 modalità di retribuzione dell’apprendista: classica (riduzione percentuale rispetto alla retribuzione del lavoratore del corrispondente mestiere) o, se lo prevedono i contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati più rappresentativi, l’inquadramento dell’apprendista in una qualifica inferiore di 2 livelli a quella spettante alla qualifica conseguita. All’apprendista di 1-3° tipo il datore non deve una retribuzione per la formazione esterna (impartita dal sistema pubblico), mentre per quella interna, svolta in azienda, deve corrispondere il 10% della retribuzione ordinaria. Per gli apprendisti minorenni, la L.977/67 stabilisce una limitazione oraria della prestazione lavorativa e il divieto di lavoro notturno. Il rapporto di apprendisti-dipendenti dell’azienda non può esser superiore a ‘3 a 2’, salva la possibilità di assumerne sempre almeno 3. La violazione degli obblighi formativi è colpita da sanzioni amministrative (forse conversione appr. in contratto ord. a temp. ind.). 2) CONTRATTO DI FORMAZIONE-LAVORO _— contratto nato nel 77, destinato a una fascia d’età più ampia degli apprendisti (fino 40 a), con sconti sugli oneri previdenziali-retributivi e strutturato per poter garantire una formazione meno accorta al singolo lavoro, più adatta all'evoluzione scientifico-tecnologica e attenta al collegamento tra sistema educativo e mondo del lavoro. Venti anni dopo questa contratto fu affossato dalla sua incompatibilità con la normativa UE. 3) STAGES (o tirocini formativi e d’orientamento) — istituiti (fine 70) per favorire l’inserimento dei giovani nel lavoro. Essi non costituiscono un rapporto di lavoro: si svolgono sulla base di convenzioni tra ospitanti- promotori (scuole, università, ec); riguardano neo diplomati-laureati, disabili, rifugiati e svantaggiati; non possono durare +1 a e non comportano retribuzione per lo stagista, che al più riceve una borsa dall’ospitante e crediti formativi usabili nel percorso scolastico. Nel 2017 la Conferenza Stato-Regioni ha fissato linee guida per la revisione della disciplina x valorizzarne gli scopi formativi e contrastarne eventuali usi distorti. Lavoro a tempo determinato Il cc 1865, per evitare il lavoro schiavistico a vita, riteneva il contratto di lavoro a tempo determinato l’unico possibile; ma poi fu visto con sfavore perché il contratto poteva sciogliersi col libero recesso di una parte. Per il cc 1942, allora, il contratto di lavoro era sempre a tempo indeterminato, a meno che il termine non risultasse dalla specialità del rapporto (art 2097). Negli anni 50 il contratto a termine veniva, però, usato per applicare ai lavoratori condizioni meno favorevoli (es no indennità d’anzianità), perciò la L.230/62 lo fece diventare possibile solo in forma scritta e in dei casi elencati (sostituzione lavoratori assenti; lavori stagionali nel settore aereo-spettacolo), pena la nullità dell’apposizione del termine e la trasformazione in ‘indeterminato’. Dopo la crisi degli anni 70 questa L. s’attenuò: si previdero nuovi casi d’apposizione del termine e si ne delegò alla contrattazione collettiva l’individuazione di altri. Il d.lgs.368/01 affermò che un contratto a termine poteva esser stipulato in forma scritta, ma al posto delle ipotesi tassative introdusse una causale ampia-aperta (causalone): tutte le volte in cui sussistessero ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive. La ‘Rif Fornero’ (12) ammise di sottoscrivere un contratto a termine senza dover riferirsi ad una causa, ma solo se fosse stato il 1° contratto a termine stipulato con un lavoratore e con durata max di 1 a. Il d.lgs.81/15 (attua Jobs Act), poi, generalizzò la acausalità della previsione di un termine al contratto: si poteva sempre sottoscrivere, a prescindere dalle ragioni. Infine, la disciplina del contratto a termine è stata modificata dal ‘ decreto dignità’ (18): ora la scelta tra un contratto a tempo determinato/indeterminato è libera; uniche limitazioni son l’obbligo della forma scritta, i divieti in alcuni casi (per sostituire lavoratori in sciopero; in aziende interessate da cassa integrazione; nei licenziamenti collettivi x lavoratori con stesse mansioni) e un limite max di durata (2 a). È sempre ammessa, dunque, l’apposizione di un termine fino a 1 a al 1° contratto di lavoro, mentre per stipulare un rinnovo o un contratto di durata superiore (inferiore a 2 a) serve una di questa condizioni: a) esigenze temporanee- Prima eccezione: lavoro interinale Il tema dei rapporti interpositori fu rivisto col ‘pacchetto Treu’ (97), che ammise il ‘lavoro interinale’ o temporaneo (interposizione di manodopera), che si realizzava quando il lavoratore veniva assunto da speciali agenzie, controllate dallo Stato, e inviato a lavorare a tempo determinato nell’azienda che ne richiedeva le prestazioni. Il nuovo sistema era, comunque, solo una deroga alla L.1369/90, che per il resto restava operativa, sanzionando le ipotesi d’interposizione di mere prestazioni lavorative non rientranti nei casi previsti dalla nuova legge (acquisizione di lavoratori tramite soggetti non autorizzati). Questa L. fece cadere per la 1° volta un postulato della subordinazione (necessaria inserzione della prestazione all’interno dell’organizzazione del datore): nel lavoro interinale il lavoratore era dipendente dell’agenzia, ma la sua prestazione veniva inserita nel ciclo produttivo di un altro imprenditore, che ne era il suo datore. Liberalizzazione Scossa definitiva fu data dalla ‘L. Biagi’, che consentì ad agenzie private autorizzate l’attività d’intermediazione di manodopera (favorire incontro domanda-offerta di lavoro) e d’interposizione (assunzione prestatore per eseguire prestazione presso un 3° soggetto). Questa L. rese le agenzie private protagoniste della somministrazione di lavoro: nuovo istituto, volto a sostituire il lavoro interinale e a superare i divieti d’interposizione della L.1369/60, che fu abrogata. La L. Biagi è stata abrogata dal d.lgs.81/15, che ne ha comunque lasciato in piedi l’impianto originario, emendato infine dal ‘decreto dignità’ (18). Il ‘contratto di somministrazione’ tra agenzia di somministrazione e utilizzatore riguarda la fornitura di 1/+ lavoratori della 1° al 2°, che ne dirige-controlla la prestazione per tutta la ‘missione’. Può essere a tempo determinato/indeterminato: il 1° è possibile entro il limite del 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore; il 2° (detto staff leasing) è ora liberamente praticabile, ma non può riguardare un numero di lavoratori superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminati occupati nell’impresa utilizzatrice. L’agenzia deve aver ottenuto (x solidità economico-finanziaria) l'autorizzazione a svolgere attività di somministrazione dal Min.dl. L’utilizzatore può essere un qualunque datore. L’esercizio non autorizzato della somministrazione o il ricorso a soggetti diversi dalle agenzie autorizzate è punito solo con sanzioni amministrati ve. Il lavoratore è titolare di 2 rapporti giur: 1) col suo datore (agenzia di somm.): può essere a tempo determinato/indeterminato; 2) con l’utilizzatore delle prestazioni: in tal caso il lavoratore, mentre attende d’esser ‘somministrato’, ha diritto a una ‘indennità di disponibilità’, meno cospicua di una normale retribuzione. Con l’utilizzatore s’instaura un mero rapporto di fatto, la cui durata dipende dal tipo di contratto di somm. (determinato/indeterminato) stipulato tra agenzia-utilizzatore; possono esser somministrati a tempo indeterminato solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’agenzia. Il lavoratore ha lo stesso trattamento economico-normativo dei dipendenti dell’utilizzatore e può esercitare i suoi diritti sindacali nell’azienda utilizzatrice. Retribuzioni-contributi son corrisposti dall’agenzia e rimborsatigli dall’utilizzatore, che, per il servizio reso, gli dà pure un importo aggiuntivo concordato nel contratto, parametrato al numero dei lavoratori somministrate e alle ore di lavoro svolto. L’agenzia può comminare sanzioni disciplinari al lavoratore; l’utilizzatore ha il potere direttivo-controllo. La somministrazione è vietata per sostituire lavoratori in sciopero o in aziende non in regola circa i rischi sulla salute, interessate da cassa integrazione, con licenziamenti collettivi di lavoratori adibiti alle stesse mansioni della somm. La somministrazione illecita comporta, se il lavoratore lo richiede, la costituzione di un rapporto di lavoro in capo all'utilizzatore. Alle imprese conviene la somministrazione anziché la meno onerosa assunzione diretta dei lavoratori perché: lavoratori somministrati non entrano nel numero dei dipendenti dell’azienda utilizzatrice, perciò non supera quei limiti dimensionali che comportano oneri; gli oneri indiretti (es ferie/malattie del lav.) ricadono sull’agenzia; si può chiedere all’agenzia la sostituzione di un lavoratore non gradito. Negli anni 80 una frammentazione delle imprese portò a un loro decentramento, in cui ognuna si specializzava, delegando, ad altre, attività che questa potevano far meglio. Il legislatore, perciò, liberalizzò gli appalti di manodopera. La L. Biagi abrogò la L.1369/60 — un appalto è legittimo se l'appaltatore dirige-coordina i lavoratori (seppur non ha titolarità dei mezzi di produzione, che magari sono noleggiati dall’appaltatori); è, invece, illegittimo se la direzione-coordinamento dei lavoratori è esercitata dall’appaltante, che ne diviene il datore pure formalmente (in questa caso s’applica ancora la vecchia sanzione del 60); se, comunque, questa lavoratori, diretti-coordinati dall’utilizzatore, son stati inviati da un’agenzia autorizzata, siamo davanti a una somministrazione. Appalto-somministrazione son, quindi, diverse perché nella 1° l’appaltatore s’obbliga a fornire un’opera con gestione a suo rischio, mentre nella 2° l’agenzia s’obbliga a fornire suoi lavoratori subordinati. Entrambe hanno, però, l'intento di rimuovere divieti relativi a situazioni fraudolente ormai superate e da liberalizzare, e d’incentivare il ricorso al decentramento. Nel caso dell’appalto la liberalizzazione non è andata a vantaggio dei lavoratori, come dimostra l’abrogazione della norma della L.1369/60 che garantiva ai lavoratori impiegati dall’appaltatore la parità di trattamento rispetto ai dipendenti dell’appaltante. Appare, perciò, più chiara la convenienza per le imprese di ricorrere agli appalti. I lavoratori coinvolti conservano l’unica garanzia della responsabilità solidale tra appaltante-appaltatore per i soli crediti retributivi-contributivi entro il limite di 2 a dalla cessazione dell’appalto. La Corte cost (sent.254/17) ha, inoltre, ritenuto che questa tutela possa esser estesa pure ai lavoratori impiegati in forme di decentramento produttivo diverse dall’appalto, che con esso condividono l’esigenza di protezione di chi presta un'attività lavorativa indiretta (es subfornitura). La sanzione in caso di appalto illecito è, se lo richiede il lavoratore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente che ne ha usato le prestazioni. In ogni caso l’ intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro sono reati (art 603 cp). LUOGO DELLA PRESTAZIONE e VICENDE DELL’IMPRESA La determinazione del luogo dell’adempimento dell’obbligazione lavorativa spetta al datore; se non è indicato contrattualmente si desume dalla natura della prestazione. Il lavoratore di solito stabilisce il suo domicilio nel luogo ove lavora, perciò la sua modifica può esser gravosa per lui-famiglia, contrastando con l’interesse del datore a servirsi al meglio dei dipendenti, spostandoli ove son più utili. Lo SDL (art 13) prevede il trasferimento del lavoratore esterno (da unità produttiva a altra di stessa azienda) — è legittimo se effettuato x ‘oggettive’ ragioni tecniche, organizzative e produttive (non rileva dissenso dell’interessato), che devono esser comprovate (serie-forti), mostrare l’inutilità del lavoratore nell’unità di provenienza, e non devono comportare grandi disagi al lavoratore (es gran spostamenti). Eventuali giustificazioni ‘soggettive’ (incompatibilità ambientale del lavoratore x rapporti difficili coi colleghi/superiori) valgono solo se si traducono in una difficoltà organizzativa, sennò cozzano col divieto del trasferimento come sanzione disciplinare (art 7SDL). Vi sono poi dei divieti — art 15 SDL proibisce patti/atti volti a discriminare il lavoratore nei trasferimenti; è vietato il trasferimento non consensuale della persona che gode di congedi di maternità-paternità, che ha poi diritto a rientrare nella stessa unità o in altra dello stesso comune; il lavoratore con handicap grave (e congiunti che lo assistono) può scegliere la sede più vicina al suo domicilio e non può esser trasferito ad altra sede senza il suo consenso. La normativa sul trasferimento non s’applica alla ‘trasferta’, regolata dalla contrattazione collettiva, che le riconnette un'indennità particolare e consiste nella modifica temporanea del luogo della prestazione, con la previsione del ritorno alla sede originaria dopo un po’. Distacco È una fattispecie, disciplinata dal d.lgs.276/03, vicina al trasferimento -. è l’invio temporaneo di un lavoratore da parte del suo datore (distaccante), per soddisfare un suo interesse, a un altro (distaccatario) che ne dirige la prestazione, mentre la titolarità del rapporto resta al 1°, che è responsabile del suo trattamento economico-normativo. È una fattispecie, perciò, vicina al trasferimento, ma questa avviene nella stessa azienda, invece il distacco è il prestito del lavoratore a un’altra impresa; inoltre è simile alla somministrazione, ma il distaccante non è un’agenzia autorizzata che esercita l’attività di fornitura del lavoro, ma un qualsiasi datore. L’interesse del distaccante è un'altra differenza dalla somministrazione; esso può esser di qualsiasi tipo (es far apprendere al distaccato una tecnica lavorativa del distaccatario), ma non risolversi in un fine di lucro; x questa il distaccante può ricevere dal distaccatario solo un rimborso dei costi retributivi-contributivi del lavoratore distaccato. Il lavoratore deve dare il consenso al distacco solo se comporta un mutamento delle mansioni; sennò basta un’informativa da parte del distaccante, che può disporre con libertà il tempo-luogo della prestazione. Altro limite è la necessità di dimostrare l’esistenza di ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive ogni volta che il distacco comporti un trasferimento a un’azienda situata a +50km da quella cui il lavoratore è normalmente adibito. Per il distacco illecito è prevista (se chiesta dal lav) la costituzione del rapporto di lavoro in capo al datore che utilizza la prestazione. Lavoro nei gruppi d’impresa e codatorialità Nel mondo dell’impresa si può fare collegamenti tra società per una miglior gestione di capitali-risorse (‘società madre’ che controlla 1/+ ‘società figlie’); fenomeno detto ‘gruppo d’imprese’ — lavoratore può operare nell’una/altra società del gruppo (col distacco) o prestare la sua opera x più società del gruppo. Ogni società del gruppo conserva la sua autonomia giur: le società possono delegare a quella capogruppo vari adempimenti burocratici, ma questa delega non individua il soggetto titolare delle obbligazioni contrattuali-legislative. La giurisprudenza considera unitariamente le società collegate solo se è c’è un unico centro decisionale per la gestione del personale e rapporti sindacali, confermata pure da indici come la coincidenza degli amministratori e l’uso di un unico immobile. Per evitare che l’uso di un lavoratore da parte di un’altra società del gruppo sia fraudolenta (attenui suoi diritti) è prevista la conversione del rapporto in capo all’effettivo datore. La L.99/13 interviene sull’utilizzazione cumulativa del lavoratore da parte di più società del gruppo, ammettendo la codatorialità dei dipendenti ingaggiati da società che han sottoscritto un ‘contratto di rete’ —. questa norma incide sulla subordinazione perché il lavoratore non è più dipendente di un datore, ma di un’entità di datori. In concreto questa L. dice poco, rinviando a quanto stabilito dal contratto di rete, quindi dai codatori, non solvendo il dubbio sulla loro responsabilità solidale nei cfr del lavoratore. Trasferimento d’azienda Pure l’azienda può esser oggetto di trasferimento. L’art 2112 cc enuncia il prin x cui, in caso di trasferimento d’azienda (nozione ampia ove rientrano tutte le operazioni che mutino la titolarità di un'attività economica organizzata: cessione contrattuale, affitto, usufrutto, fusione, leasing, ec), il rapporto di lavoro continua col cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. La tutela dei lavoratori è rafforzata, poi, dalla previsione di una responsabilità solidale tra cedente-cessionario circa i crediti che il lavoratore vanta al momento del trasferimento, a meno che questa non liberi il cedente da questa responsabilità. La regola è, perciò, assicurare la continuità dei rapporti di lavoro e ciò avviene automaticamente (senza consenso lavoratore). La stabilità del rapporto è assicurata pure dalla regola per cui il trasferimento d’azienda non può esser motivo (del cedente-cessionario) x licenziare un dipendente. Il lavoratore può, invece, recedere dal contratto entro 3 mesi dal trasferimento se questa comporti una sostanziale modifica delle sue condizioni di lavoro. Il cessionario deve applicare al lavoratore il contratto collettivo che disciplinava il suo rapporto prima del trasferimento e fino alla sua scadenza; se ne applica un altro di pari livello esso si sostituisce integralmente a questa ultimo seppur comporti un peggioramento dei trattamenti economico-normativi (che potrà semmai essere motivo di legittimo recesso per il lavoratore). L’art 47 L.428/90, attuando una dir UE, predispone una procedura cui son assoggettati i trasferimenti d’azienda con +15 dipendenti, creando un altro profilo di soli nel trasferimento perché coinvolge tutte le organizzazioni sindacali -. cedente-cessionario devono informare le strutture sindacali (RSA/RSU o sindacati il cui contratto s’applica in azienda) della loro intenzione di trasferire almeno 25 gg prima del trasferimento, e questa ultime possono chiedere un esame congiunto della situazione. Il mancato rispetto degli obblighi d’informazione e dell’esame congiunto è motivo di condotta antisindacale, ma non inficia l’accordo di trasferimento. Questa norma propone, perciò, un meccanismo proficuo nell’individuazione della migliore soluzione possibile, anche alternativa al trasferimento, tentando di ridurre ogni contenzioso tra lavoratori-datori. Vi possono, poi, essere pure ipotesi di ‘retrocessione’ dell’azienda, ad es in caso d’affitto, quando al suo termine, salva diversa pattuizione, l’azienda torna al cedente. In questa caso i rapporti di lavoro tornano a far capo al datore originario; tuttavia, se il concessionario nel mentre ha assunto nuovi lavoratori, x la giurisprudenza questa non godono della tutela normativa perché il cedente originario non può ritrovarsi un’organizzazione più ampia, di quella che ha ceduto, non giustificata da un arricchimento dell’attività produttiva dell'azienda. Trasferimento di ramo d’ azienda Il d.lgs.18/01 aggiunse all’art 2112 un co.5 che ne estendeva l’applicazione al trasferimento di parte dell’azienda (fase produttiva ceduta a altro imprenditore, mentre risultato produttivo è riacquisito da azienda principale, es con appalto: strategie di outsourcing) a condizione che fosse una sua articolazione funzionalmente autonoma, preesistente al trasferimento e che conservi la sua identità nel trasferimento. La norma è stata modificata dal d.lgs.276/03 x cui il ramo d’azienda trasferito deve avere caratteristiche che ne mostrino l’autonomia, ma questa non dev’esser preesistente, ma basta che sia identificata dal cedente-cessionario al momento del trasferimento. L’art 2112, perciò, nato per garantire ai lavoratori la prosecuzione del rapporto, agevola lo scorporo dell’azienda, con riduzione del personale. Aziende in crisi L’art 47 L.428/90 nei casi in cui l’azienda si trovi in ‘crisi aziendale’, amministrazione straordinaria, liquidazione coatta o stato di fallimento, rinvia all'accordo collettivo (‘in perdita’): se con la cessione dell’azienda (per salvarla) si prevede il mantenimento dell’occupazione, l'accordo guarderà-cancellerà le garanzie di conservazione dei diritti, trattamenti economico-normativi e dell’obbligazione solidale tra cedente-cessionario, di cui beneficerebbero i lavoratori che conservano il posto. È possibile pure licenziare dei lavoratori, scelti con criteri individuati dallo stesso accordo. Ex art 2119 il fallimento e altre procedure concorsuali non son ‘giusta causa’ di licenziamento; i lavoratori comunque licenziati hanno, perciò, diritto all’indennità di mancato preavviso. I lavoratori che non passano alle dipendenze del cessionario hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questa fa entro 1 a; ad essi comunque non s’applica l’art 2112. Il d.lgs.14/19 ha emanato il ‘codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza’, che contiene diverse norme sui rapporti di lavoro. La contrattazione collettiva ha ormai superato lo schema della classificazione x categorie legali, prevedendo solo un certo numero di qualifiche, spesso dette ‘categorie’, ‘aree professionali’, ‘livelli’, ec (es da A a F x chimici); in ognuna di esse è prevista la definizione generale di varie figure professionali che si presumono omogenee, le cui mansioni, ritenute equivalenti, sono retribuite allo stesso modo. Questa definizione di solito avviene con una ‘declaratoria’ dettagliata del bagaglio necessario di conoscenza, esperienza, professionalità e responsabilità; ad essa segue un elenco non tassativo di ‘profili’ professionali. In questa qualifiche, dato il sistema dell’inquadramento unico, son collocate indifferentemente mansioni rapportabili alle categorie legali di impiegato-operaio. Modifica delle mansioni Il datore può modificare le mansioni del suo dipendente indipendentemente dalla sua volontà — ius variandi, regolato dall’art 2103 cc (modificato da SDL e Jobs Act), giustificato dalle esigenze di flessibilità dell’organizzazione aziendale, prevalenti sull’interesse del lavoratore a conservare la sua posizione. Lo spostamento può essere ‘a mansioni...’ : 1) Equivalenti (‘mobilità orizzontale’) -— art 2103 lo consentiva senza limiti, invece la versione statutaria del 2013 consentiva solo spostamenti a mansioni equivalenti alle ultime svolte, senza diminuzione della retribuzione. Sul concetto di ‘equivalenza’ sorse un dibattito, risolto dalla giurisprudenza nel senso di richiedere la sussistenza di 2 requisiti delle nuove mansioni: a) dovevano essere dello stesso livello d’inquadramento (area salariale) delle originarie; b) dovevano consentire l’uso/perfezionamento delle esperienze-competenze acquisite con la mansioni originarie, senza menomazione della complessiva professionalità del lavoratore. L’ultima versione del 2103 richiede la sussistenza solo del 1° requisito e vieta la ‘retrocessione’ ad altra categoria legale. Ormai, quindi, qualche spostamento entro lo stesso livello (o qualifica) e della stessa categoria è legittimo seppur non assicuri la conservazione del bagaglio professionale del lavoratore. Nel caso di spostamenti orizzontali, essendo mansioni dello stesso livello, la retribuzione dovrebbe essere la stessa, seppur talvolta i contratti collettivi operino distinzioni interne allo stesso livello; comunque, il lavoratore perde ogni ulteriore indennità retributiva legata allo svolgimento della mansione originaria. Il mutamento di mansioni, infine, è accompagnato da un’attività di formazione del datore solo ove necessario, e il suo mancato assolvimento non comporta la nullità del mutamento. 2) Inferiori (‘demansionamento’) -— era consentita dall’originario art 2103 purché il lavoratore conservasse la 3) retribuzione originaria. La giurisprudenza, però, ammetteva dei demansionamenti ‘consensuali’, che comportavano il pagamento della retribuzione corrispondente alle nuovi mansioni acconsentite; ignorando che il consenso, in un rapporto diseguale, è fittizio. La versione statutaria del 2103 vietava ogni demansionamento. Col tempo, però, sorsero dei demansionamenti giustificati da un interesse del lavoratore (es lavoratore madre o divenuto inabile per infortunio, ec): casi in cui l’alternativa sarebbe stata il licenziamento. La giurisprudenza allargò, poi, le ipotesi di demansionamento legittimo (con consenso del lavoratore) a tutti i casi in cui si sarebbe dovuto sennò procedere a un licenziamento ‘economico’ (per ragioni oggettive dell’impresa), instaurando quindi a carico del datore un ‘obbligo di repéchage’ del lavoratore in altre mansioni, pure inferiori, prima di licenziarlo per motivi non inerenti a un suo inadempimento. L’attuale 2103 consente il demansionamento, che può essere: a) unilaterale -- datore può assegnare il lavoratore a mansioni inferiori in caso di modifica agli assetti organizzativi dell’azienda che incide sulla sua posizione o nelle ipotesi previste dai contratti collettivi di qualsiasi livello, ma solo se stipulati da sindacati più rappresentativi sul piano nazionale o da loro RSA/RSU. Il demansionamento va comunicato, a pena di nullità, in forma scritta e non può comportare la diminuzione di +1 livello d’inquadramento, né il mutamento di categoria (retrocessione da impiegato a operaio), né il decurtamento del trattamento retributivo. b) consensuale —. datore-lavoratore stipulano un accordo individuale che può prevedere pure l’adibizione a mansioni inferiori di +1 livello e la corrispondente decurtazione dalla retribuzione. L’accordo, però, dev’esser stipulato (sennò nullo) in una sede ‘protetta’ (sede di conciliazione o davanti a commissione di certificazione) perché s’attesti la volontà del lavoratore, e deve perseguire un interesse del lavoratore (es conservazione posto lavoro, acquisizione di una diversa professionalità, miglioramento delle condizioni di vita, ec). Superiori — erano liberi nella versione originaria-statuaria del 2103 ed il testo del 70 conteneva una previsione per evitare prassi fraudolente di adibizioni a mansioni superiori senza riconoscimento della nuova posizione: tale assegnazione diveniva definitiva automaticamente passato un periodo fissato dai contratti collettivi, comunque non superiore a 3 mesi. L’ultima versione della norma dice che il periodo, decorso cui la promozione è definitiva, dev’esser fissato dai contratti collettivi; solo in mancanza di questa fissazione, il termine è stabilito dalla legge, che lo raddoppia a 6 mesi continuativi. Infine, con una disposizione ambigua, si condiziona l’acquisizione di mansioni superiori alla volontà del lavoratore; nulla è detto, infatti, su questa rinuncia e sulla verifica della sua genuinità. DURATA DELLA PRESTAZIONE Il contratto di lavoro è un rapporto di durata: il tempo segna i ritmi-riposi della prestazione di lavoro subordinato. Dopo una riduzione della gg lavorativa x donne-bambini nelle fabbriche dell’800, la 1° disciplina sull’ orario di lavoro è il r.d.1.692/23 che lo fissa in un max di 8h gg e 48h settimanali. L’art 2107 cc e 36 Cost rinviarono a questa L., che restò in vigore a lungo, convivendo coi contratti collettivi che ne completavano le regole: dagli anni 70 s’impose il modello della settimana lavorativa di 40h, distribuite in 5gg. Il d.lgs.66/03 ha revisionato l’orario di lavoro — orario normale di lavoro è 40h settimanali; i contratti collettivi possono stabilirne una durata min o parametrarlo alla media dell’anno (orario ‘multi-periodale’: si supera la settimana di 40h, da compensare entro l’anno con settimane inferiori). In generale la durata settimanale (comprende straordinario) non può eccedere 48h; mentre non c’è più il limite di 8h dell’ orario giornaliero: dato che al lavoratore son assicurate 11h continuative di riposo giornaliero, sarebbe possibile una gg lavorativa di 13h; questa possibilità di calcolo a contrario fa sì che la L. del 03 non contrasti l’art 36 Cost (legge deve regolare durata max della gg lavorativa), ma l’incost può esservi se consideriamo che le 11h di riposo possono diminuire in dei casi (dirigenti, telelav. o a domic.). La L. del 03 definisce l’orario di lavoro come ‘qualsiasi periodo in cui il lavoratore è a lavoro, a disposizione del datore e nell'esercizio della sua attività/funzioni’; perciò non vi rientrano i riposi intermedi (es x pasti), il tempo per recarsi a lavoro, le soste brevi; mentre la giurisprudenza ritiene rientrante nell’orario di lavoro il ‘tempo tuta’ (necessario per mettere indumenti di lavoro), se risponde a una necessità organizzativa che rende obbligatori quegli indumenti. Il contratto collettivo può estendere il tempo normale della prestazione lavorativa; invece l’accordo individuale può specificare la distribuzione dell’orario di lavoro all’interno dell’unità di tempo (gg, settimana, mese, anno). Le possibili modifiche unilaterali da parte del datore di questa distribuzione son attenuate dalla previsione nei contratti collettivi di obblighi di consultazione-informazione. Lavoro straordinario-supplementare Il lavoro oltre l’orario normale è ‘straordinario’ — tolti i limiti della vecchia normativa (max 2h al gg e 12 settimanali), la legge stabilisce (derogabile x esigenze tecnico-produttive, forza maggiore, pericolo grave, o eventi particolari come mostre, ec) che il ricorso allo straordinario dev’esser concordato tra datore-lavoratore (lavoratore non va sovraccaricato) e non può eccedere le 250h annue; esso comporta la corresponsione di maggiorazioni retributive, il cui ammontare è rimesso alla contrattazione collettiva; in alternativa/aggiunta ad esse il lavoratore può usufruire di riposi compensativi (recezione prassi della ‘banca delle ore’: lavoratore mette da parte le ore di straordinario prestate x fruire quando ne ha bisogno come altre ore di riposo). È, invece, lavoro ‘supplementare’ quello eccedente il limite settimanale posto dalla contrattazione collettiva ma rientrante nel limite settimanale della legge: la distinzione aveva senso con la legislazione vecchia, ove c’era differenza tra orario settimanale legale (48h) e contrattuale (40h); ora che quello legale è 40h, seppur ‘multi-periodizzabili’, la nozione ha significato solo se la contrattazione collettiva ha previsto un limite più basso: in questa caso, le ore prestate dopo il raggiungimento del tetto max settimanale previsto dal contratto collettivo ed entro le 40 h saranno considerate lavoro supplementare e retribuite secondo quanto stabilito dal contratto collettivo. Lavoro notturno Il cc rinvia alla legge-contrattazione collettiva, prevedendo maggiorazioni retributive (rimesse alla fonte collettiva), pure per il lavoro notturno —. almeno 7h consecutive che comprendano l’intervallo tra 00:00-5:00; ‘lavoratore notturno’ è chi in questa periodo svolge almeno 3h (o quelle previste dal contr. coll.) del suo normale orario lavorativo; tutto ciò per almeno 80gg all’anno. La legge v’ha posto un limite preciso: non può superare le 8h in media nelle 24h, periodo ampliabile dalla contrattazione collettiva. Il datore che voglia usare lavoro notturno ha una serie di oneri procedurali in informazione-consultazione sindacale, e ha l’obbligo di far sottoporre i lavoratori interessati ad accertamenti sanitari periodici per verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro notturno. Vi sono, poi, divieti d’adibizione al lavoro notturno — quello per i minori è derogabile in casi eccezionali, mentre è inderogabile quello per le donne dalla gravidanza fino al compimento di 1 a del figlio; possono rifiutare il lavoro notturno i genitori di minore di 3 a, l’unico genitore di minore di 12 a, i genitori di minore adottato nei primi 3 a dall’ingresso in famiglia, il lavoratore che ha a carico un disabile. Tempo di non lavoro Data la necessità, per il lavoratore, di riposarsi e condurre una vita sociale, preoccupazione del legislatore ‘sociale’ fu pure il tempo di non lavoro. Nel fascismo si occupò parte di esso con l'Opera nazionale dopolavoro (momenti ricreativi, culturali, ludici, ec.). La normativa vigente prevede le pause di almeno 10 min quando l’orario di lavoro si protragga x +6h. I riposi son di 3 tipi: a) Giornaliero — 11h consecutive ogni 24h; ma il contratto collettivo può derogare la consecutività del riposo e la sua durata min; b) Settimanale — 24h ogni 7gg (di solito la domenica); questa periodo è cumulabile col riposo giornaliero, così da garantire 35h di riposo ogni settimana. Anche in questa caso vi sono deroghe: le 24h van calcolate come media in un periodo non superiore a 14gg; la regola non riguarda alcune categorie di lavoratori; la contrattazione collettiva può introdurre deroghe in peius. c) Annuale — sono le ferie e son retribuite. La loro durata min è 4 settimane, usufruibili x metà nell’anno in cui maturano e per la restante metà entro 18 mesi dall’anno di maturazione. Ne gode pure chi ha lavorato per meno di 1 a. La scelta del momento in cui il lavoratore può goderne è rimessa al datore, che deve tener conto delle esigenze dell’impresa, dell’interesse del lavoratore e del fatto che le ferie vanno usate in modo continuativo. La determinazione della loro retribuzione è lasciata alla contrattazione collettiva. Il diritto alle ferie è irrinunciabile: lo afferma la Cost (art 36) e la legge, quando riduce la possibilità di monetizzare le ferie non godute al sol caso della risoluzione del rapporto. Il lavoratore può richiedere la monetizzazione di eventuali ferie ulteriori attribuite dalla contrattazione collettiva. Di dubbia cost è l’art 24 d.lgs.151/15, che consente al lavoratore di cedere, a titolo gratuito, a un altro lavoratore dello stesso datore, le ferie da lui maturate per consentirgli di assistere figli minori bisognosi di cure. La giurisprudenza ha poi stabilito che la malattia contratta durante le ferie ne sospende la fruizione se impedisce il raggiungimento della finalità di riposo. Lavoro a tempo parziale e intermittente Il d.lgs.81/15 prevede 2 tipologie di contratti di lavoro con orario ridotto-flessibile. 1) Lavoro a tempo parziale (part-time, L.863/84) —. è ogni rapporto con un impiego orario inferiore alle 40h settimanale (o alla durata inferiore stabilita dalla contrattazione coll.), a prescindere dalla fissazione di un min di ora da lavorare o dall’entità min della riduzione di orario. La vecchia disciplina distingueva il part-time in: a) orizzontale (prestazione a orario ridotto per tutti i gg della settimana); b) verticale (prestazione giornaliera a orario completo ma per una sola parte della settimana, mese o anno); c) misto (combinazione dei 2 precedenti). La L. del 15 ha eliminato questa distinzioni, prevedendo la stessa disciplina per ogni modalità di lavoro part-time. Il ricorso al lavoro part-time deve avvenire in forma scritta, indicando la durata della prestazione e la collocazione dell’orario di lavoro. Il rapporto part-time può subire aumenti dell’orario di lavoro; questa lavoro ‘in più’ può essere: a. Supplementare —. compreso tra orario a tempo parziale concordato e tempo pieno; il datore può chiederne l’effettuazione rispettando quando previsto dal contratto collettivo, ma se manca non può chiedere al lavoratore più di 4 delle ore settimanali concordate. Il lavoratore può rifiutarsi solo x comprovate esigenze lavorative, di salute o familiari; b. Straordinario — eccede l'orario normale di lavoro; pure questa può essere richiesto al lavoratore; c. Derivante da ‘clausole elastiche’ -— son quelle pattuizioni che le parti individuali possono prevedere per iscritto, nel rispetto del contratto collettivo, per aumentare la durata della prestazione o variarne la distribuzione nel tempo; il datore deve chiederlo al lavoratore 2 gg prima del gg in questione e vi sono specifiche compensazioni per il disagio arrecato; il lavoratore ha comunque il diritto di ripensamento, ma solo per motivi di salute/familiari o se si tratta di studente non universitario. Mentre la vecchia disciplina dava alla contrattazione collettiva un ruolo importante nella flessibilizzazione del lavoro part-time, ora tutto è lasciato all’accordo individuale. Il contratto di lavoro part-time non può nascere senza il consenso del lavoratore (volontarietà). Si può pure, con accordo scritto tra le parti, trasformare il rapporto a tempo pieno in uno part-time (persone con gravi patologie hanno un vero diritto di fare ciò, e possono pure ritrasformarlo, in ogni momento, in lavoro a tempo pieno); i lavoratori che han fatto ciò hanno un diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni a tempo pieno. Il lavoratore part-time ha gli stessi diritti-tutele di quello a tempo pieno; la retribuzione e ogni trattamento economico-normativo è, però, in proporzione all’orario di lavoro svolto. 2) Lavoro intermittente (‘a chiamata’, job on call) - con questa contratto (determinato/indeterminato) il lavoratore si pone a disposizione del datore, che può decidere di usarne le prestazioni se-quando vuole. La legge ne propone 2 tipologie: a) Senz’obbligo di disponibilità — dipendente non è obbligato a rispondere alla chiamata; b) Con obbligo di disponibilità — lavoratore deve rispondere alla chiamata (salvo legittimi impedimenti); il datore deve corrispondergli, nei periodi in cui non effettua la prestazione, un’indennità (inferiore a una retribuzione, il cui ammontare è fissato dai con. coll.). Il ricorso a questa lavoro deve avvenire x esigenze individuate dai contratti collettivi o decreti ministeriali; al di fuori di questa esigenze, esso può essere concluso con persone -24/+55 a; tranne per i settori del turismo, pubblici esercizi e spettacolo ogni lavoratore non può prestare x lo stesso datore +400gg di lavoro in 3 a (limiti quantitativi); il datore deve informare le controparti sindacali ed effettuare comunicazioni alle competenti sedi ministeriali (limiti formali). Il lavoro intermittente è vietato per sostituire lavoratori in sciopero o in aziende non in regola circa i rischi di salute o interessate da cassa integrazione o licenziamenti collettivi. Il lavoratore intermittente, quando lavora, gode degli stessi diritti-tutele del lavoratore a tempo pieno; i trattamenti economico-normativi son parametrati in proporzione. l’autorizzazione amministrativa. Il lavoratore, pur esponendosi a sanzioni disciplinari, può rifiutare di sottoporsi alla perquisizione (sent.99/80). Indagini sulle opinioni e diritto alla riservatezza del lavoratore Il datore non può effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore o su fatti non rilevanti per la valutazione della sua attitudine professionale (art 8 SDL). Questa è un corollario della libertà d’opinione del dipendente, riaffermata dall’art 1, che coinvolge la materia del diritto alla riservatezza. Questa norma è stata originata dalla Stagione di ‘schedature’ (anni 50), nelle grandi fabbriche, dei dipendenti in base alle loro opinioni-comportamenti extra-lavorativi. Lo SDL tutela la sfera interna (intimità vita privata) esterna (comportarsi pubblicamente come vuole) della persona. Le indagini sulla sfera privata ‘intema’ son, però, consentite se son pertinenti alla valutazione delle attitudini professionali. La distinzione tra fatti rilevanti per la valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore e fatti riguardanti la sua vita privata è però delicata (difficile giudicare la rilevanza di una scelta di vita del lavoratore: es portare minigonna, avere piercing, frequentare locali gay, ec). La materia va poi raccordata con la normativa sul trattamento dei dati personali, disciplinata nel d.lgs.196/03 (emendato dal 101/18), che tutela coloro che hanno una banca dati (perciò pure datori), specie i loro dati particolari (0 ‘sensibili’: idonei a rivelare origine etnica, opinioni politiche, religiose, ec), che possono esser trattati solo col consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante della privacy; ma per quelli relativi al rapporto di lavoro non è richiesto il consenso del lavoratore, mentre di solito il Garante rilascia un’autorizzazione generale una tantum e non caso per caso. Potere disciplinare Il cc dava la possibilità, al datore, di applicare sanzioni disciplinari (proporzionate alla gravità dell’infrazione) se ravvisava una violazione, del lavoratore, degli obblighi di diligenza, obbedienza, e fedeltà. Questa sistema legittimava comportamenti arbitrari da parte del datore, perciò lo SDL ha revisionato questa materia. L’art 7 SDL procedimentalizza questa potere, condizionandolo all’osservanza di vari passaggi: le sanzioni possono applicarsi solo se c’è un ‘codice disciplinare’, affisso in luogo accessibile a tutti, che può promanare dagli accordi collettivi o, in assenza, può provvedervi l’imprenditore. Questa codice deve indicare quali siano i comportamenti sanzionabili e le sanzioni applicabili alla singola infrazione rispettando il prin proporzionalità tra condotta-sanzione. La norma prevede 4 tipi (non tassativi) di sanzioni (crescenti): rimprovero verbale, ammonizione scritta, multa fino a 4h di retribuzione, sospensione dal lavoro-retribuzione fino a 10gg. Sono vietate, oltre il licenziamento, sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (demansionamento, trasferimento geografico, ec). Per irrogare una sanzione il datore deve contestare l’addebito al lavoratore in forma scritta e in modo circostanziato (per consentirgli di difendersi e cristallizzare i fatti dell’addebito, cosicché non muteranno in un’eventuale futura sede giudiziale). Il datore non può comunque applicare la sanzione entro 5gg dalla contestazione dell’addebito, nel corso dei quali il lavoratore può esporre le sue ragioni. Tutto ciò non s’applica al mero rimprovero verbale, che interviene nell’immediatezza del comportamento negligente/inadempiente. In seguito il datore può decidere se irrogare o no la sanzione: in caso affermativo può pure aggravarla se c’è recidiva, ma solo se la nuova violazione è stata commessa entro 2 a dalla precedente). Il lavoratore può impugnare la sanzione rivolgendosi al giudice del lavoro, ricorrendo a procedure stragiudiziali previste dai contratti collettivi, o attivando (entro 20gg dall’applicazione della sanzione) la costituzione di un collegio arbitrale; il ricorso a questa ultima soluzione è incentivato dalla previsione, in tal caso, della sospensione della sanzione. RETRIBUZIONE Nei contratti a prestazioni corrispettive, l'obbligo principale del datore è retribuire il dipendente. Nel contratto di lavoro la corrispettività è peculiare rispetto agli altri contratti sinallagmatici (es talune ‘voci’ della retribuzione non son riferite a un certo lavoro svolto). La maggior parte della disciplina sulla retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva, nata proprio per sottrarre la fissazione delle tariffe salariali all’arbitrio della negoziazione individuale. Il contratto individuale ha, perciò, ruolo residuale (assicura trattamenti economico ‘premiali’ ai lavoratori con professionalità elevate). Fondamentale in materia è l’ art 36 Cost, che dà al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità- qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé-famiglia un’esistenza libera-dignitosa. Negli anni, comunque, la giurisprudenza ha ritenuto che una retribuzione proporzionata sia pure sufficiente a garantire una vita dignitosa: i min tabellari (retribuzione base) previsti dai contratti collettivi realizzino la retribuzione proporzionata (e sufficiente) ex art 36, e perciò son i min vincolanti per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria. È stata questa la strada italiana per assicurare a tutti i lavoratori un min retributivo, e non quella di fissarlo per legge; non è riuscito neppure il tentativo (Jobs Act) di delega (perché non è stata esercitata entro i 6 mesi previsti) al governo per l’introduzione di un compenso orario min, da applicare nei settori non regolati da contratti collettivi. Parità di trattamento retributivo Ci s’è poi interrogati sulla sussistenza, nell’ordin, di un prin parità di trattamento retributivo (se datore deve retribuire i lavoratori allo stesso modo o può attribuire ad alcuni somme ulteriori rispetto a quelle previste dal contratto collettivo). In dottrina prevale la soluzione che lo nega, perché il prin eguaglianza (art 3 Cost) sarebbe operante solo nei rapporti col potere pubblico e perché il criterio di proporzionalità (art 26 Cost) non potrebbe esser dilatato fino a negare la libertà economica dell’imprenditore. La giurisprudenza, a lungo, ha continuato a ritenere il datore legittimato a concedere a suo piacimento gratifiche-superminimi ai dipendenti. Sul punto è intervenuta la Corte cost (sent.103/89), che ha stabilito che le differenziazioni tra trattamenti retributivi tra dipendenti che offrono la stessa quantità-qualità del lavoro devono esser giustificate e comunque ragionevoli. La giurisprudenza successiva ha ridimensionato questa conclusioni, ribadendo l’insussistenza di un prin generale di parità di trattamento retributivo, ponendo come unici limiti alla discrezionalità imprenditoriale in materia la garanzia di un salario min e l’assenza di discriminazioni. L’interpretazione della norma 36 come a carattere ‘universale’ ha eliminato le ‘gabbie salariali’ (retribuzioni più basse in relazione all’area geografica, meridionale, ove operava l’impresa). La questione s’è riposta quando la crisi ha dato via all’esperienza dei ‘contratti di riallineamento’: accordi decentrati che, in alcune zone ad alto tasso di disoccupazione, han previsto trattamenti retributivi inferiori a quelli dei contratti collettivi nazionali, incentivati dalla legge nella misura in cui come contropartita è regolato il graduale riallineamento del trattamento dei dipendenti delle imprese interessate a quello previso dai contratti nazionali. In ogni caso, politiche salariali di questa tipo, x essere legittime, devono avere carattere d’eccezionalità-emergenzialità. Forme di retribuzione L’art 2099 cc ne elenca vari * A tempo — più diffusa e l’unità di misura è l’orario di lavoro. La retribuzione dell’operaio, pagato a giornata (salario), aveva un nome diverso da quella dell’impiegato, pagato a mese (stipendio); ma la distinzione non c’è più perché i contratti collettivi han fatto la ‘mensilizzazione’ per entrambi. Vale, poi, la regola della ‘post-numerazione’: pagamento avviene dopo prestazione (di solito fine mese). * A cottimo — misurata sulla quantità di lavoro prodotta in un certo tempo. Il sistema del cottimo ‘pieno’, usato agli inizi dell’industrializzazione e che si presta a pratiche di sfruttamento intensivo, è stato accantonato dalla contrattazione collettiva, scomparendo negli anni 70 (possibile solo nel lavoro a domicilio, in cui non è verificabile il tempo di lavoro). Da allora l’unico cottimo ammesso è il ‘misto’: insieme a una paga base calcolata a tempo, vien corrisposta un’integrazione ulteriore, calcolata sulla quantità di ‘prodotto’. Ma ormai è superato pure il sistema misto: come sistema d’incentivazione del lavoro, il cottimo era legato ad attività manuali, mentre ora prevalgono incentivi d’altro tipo, fondati sulla qualità del lavoro e benessere dell’impresa. * Partecipazione agli utili — dipendente retribuito in parte a seconda degli utili dell’azienda risultanti dal bilancio può controllarne la correttezza, ma non partecipa alla gestione dell’impresa. Coinvolgimento più pregnante si ha nel ‘azionariato operaio’: distribuzione di azioni dell'impresa ai dipendenti, che possono perciò esercitare controllo più incisivi, pur senza giungere a forme di cogestione. * Partecipazione ai prodotti — usata in settori particolari (agricoltura-pesca) con funzione incentivante: qui gli utili dell'impresa non son distribuiti in denaro, ma sotto forma di prodotti dei campi-mare. * Provvigione — sistema retributivo applicato ai lavoratori che trattano affari per conto del datore (es agenti-rappresentanti), che s’integra con una retribuzione min fissa, garantita a prescindere dal numero degli affari trattati/conclusi. * In natura — è solo un elemento integrativo del corrispettivo complessivo. L'attenzione gg si punta sui fringe benefits (benefici marginali), che costituiscono una parte importante del trattamento economico complessivo (es uso auto, cellulari, pc, ec); rispetto ad essi, talvolta son sorti dubbi sulla loro qualifica in termini retributivi (specie servizio di mensa: una L. ha affermato che non è retr. in natura). Voci retributive La contrattazione collettiva articola la retribuzione in una serie di voci intricate; infatti la busta paga indica: - Retribuzione base (‘min tabellare’) — corrisponde al valore della prestazione in relazione all’orario di lavoro e mansioni svolte; - Superminimi — somma al di sopra del min tabellare, attribuibile collettivamente/individualmente; nel 2° caso la giurisprudenza ritiene che, se con un successivo contratto collettivo aumenta la retribuzione, il superminimo verrà riassorbito nel nuovo livello retributivo. - Gratifiche - prima elargizioni liberale del datore, ora parte integrante della retribuzione. La più nota è quella natalizia (tredicesima). - Premi — son un incentivo, collettivo/individuale, dato al raggiungimento di un certo risultato da parte dell'azienda (premi produzione). - Indennità - compensano i disagi/necessità derivanti da certe condizioni ambientali (ind. di lavoro pesante, ec), modalità temporali (ind. di turno, ec), localizzazione della prestazione (ind. di trasferta, ec), specificità della mansione (ind. di funzione, ec). - Automatismi retributivi — maturano automaticamente col decorso del tempo: es scatti d’anzianità (aumenti percentuali della retr. ogni 2/3 a). Quello più importante era l’indennità di contingenza (ragguaglia valore retr. a aumento costo vita): nata postguerra, fu eliminata dal ‘accordo Amato (92) e ‘procollo Ciampi’ (93); il compito d’adeguare la retribuzione all’aumento dell’inflazione fu affidato ai periodici rinnovi contrattuali (ogni 2 a). Per mitigare gli effetti negativi dei ritardi di questa rinnovi, l’accordo del 93 previde l'indennità di vacanza contrattuale (maggiorazione retributiva da corrispondere una volta scaduto il contratto collettivo e in attesa del nuovo, rapportata al 30% del tasso d’inflazione programmato). L'accordo interconfederale del 09 ha modificato il sistema, prevedendo: a) rinnovo dei contratti ogni 3 a; b) ancoraggio al ‘Ipca’ (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito UE) determinato dall’Istat; c) copertura di scostamenti tra esso e inflazione; d) sostituzione dell’ind. vacanza contrattuale con un nuovo sistema. Nozione di retribuzione La giurisprudenza ha tentato di delinearla — a lungo ha dominato un orientamento ‘onnicomprensivo’: fa parte di questa nozione ogni emolumento che abbia i caratteri della corrispettività, determinatezza, continuità e obbligatorietà; quindi vi rientrava tutto, tranne i rimborsi spese. Questa teoria è stata criticata, perciò negli anni 80 la giurisprudenza ha mutato orientamento, dando spazio alla contrattazione collettiva per determinare gli elementi che entrano in questa nozione (es nella retribuzione del periodo feriale non rientrano i compensi x straordinario, lavoro festivo e notturno; la 13° rientra nella nozione di ‘retribuzione globale di fatto’, ma non le ulteriori mensilità aggiuntive, il cui inserimento è lasciato alla contrattazione collettiva, ec.). Questa orientamento ha ricevuto l’avallo del legislatore: L.402/96 afferma che non può individuarsi un concetto di retribuzione diverso da quello definito dai contratti collettivi. Trattamento di Fine Rapporto (TFR Parte della retribuzione è ‘conservata’ dal datore (o fondo pensione) e data al lavoratore solo alla fine del rapporto (retr. differita) — TFR (trattamento di fine rapporto), discendente dall’indennità d’anzianità (non spettava al lavoratore dimessosi/licenziato) che fu estesa (L.604/66) a tutti i casi di cessazione del rapporto. Essa era calcolata moltiplicando l’ultima retribuzione mensile per gli anni di servizio prestati dal lavoratore nell’azienda. Questa sistema non fotografava x bene il percorso del dipendente nell’azienda (considerava solo parte finale) ed era intollerabile in una realtà produttiva in crisi (anni 70). Dopo vari interventi, la L.297/82 ha novellato l’istituto, chiamandolo ‘TFR?: si calcola accantonando ogni anno una somma pari alla retribuzione annua (comprendente tutte somme, tranne rimborsi spese) +13.5 (coefficiente fisso, basato sul numero delle mensilità corrisposte in 1 a, non modificabile dalla contrattazione collettiva). Le quote di retribuzione annuale devono esser rivalutate ogni anno x garantirle vs inflazione, applicando un tasso fisso del 1.5% x i % dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat. Si ha, perciò, parità tra inflazione- rivalutazione se la 1° è al 6% (4 di 6 = 4.5 + 15 = 6); con un’inflazione maggiore si ha un recupero parziale dell’aumento del costo della vita, mentre con una più bassa la rivalutazione è maggiore dell’inflazione. Al temine del rapporto, al lavoratore spetta la somma di tutti gli accantonamenti rivalutati. Il lavoratore, con almeno 8 a d’anzianità, che debba affrontare spese sanitarie straordinarie o l'acquisto della 1° casa, può chiedere un’anticipazione parziale del tfr fino a un max del 70% del tfr maturato fino a quel momento. Il datore deve soddisfare le richieste fino al 10% degli aventi titolo, ed entro il 4% del totale dei dipendenti. Nel caso di cessazione del rapporto x morte del lavoratore, l’art 2122 cc dispone regole per la devoluzione del tfr ai superstiti. La tesi dominante vuole che questa attribuzione avvenga a titolo originario e non iure successionis, perché il tfr non è entrato nel patrimonio del lavoratore; ma non è convincente (infatti il lavoratore può disporre del tfr per testamento). È poi prevista, a tutela del credito dei lavoratori, l’istituzione presso l'Inps di un Fondo di garanzia (L.297/82), che si sostituisce al datore insolvente nel corrispondere il tfr. La L.296/06, infine, prevede che il lavoratore possa scegliere di destinare tutti (o parte) gli accantonamenti del suo tfr a forme pensionistiche complementari: alla fine del rapporto non riceve il tfr dal datore come somma una tantum, ma un trattamento pensionistico integrativo mensile dal fondo. Se il lavoratore, entro 6 mesi dall’assunzione, non manifesta di voler conservare gli accantonamenti presso il datore, si presume che li voglia destinare al fondo pensione (quello contrattuale se previsti per il suo settore d’appartenenza o FondInps). SICUREZZA SUL LAVORO Garantire sicurezza-salute dei lavoratori è un obbligo accessorio del datore. In realtà questa profilo è essenziale nel concetto d’impresa: esiste solo in quanto impresa sicura (es art 41 Cost: libertà d’iniziativa economica è subordinata al limite della ‘sicurezza’). La 1° tutela vs infortuni sul lavoro (L.80/1898) è degli inizi dell’industrializzazione. Il fascismo perfezionò la legislazione di tutela; poi l’art 2087 cc codificò l'obbligo del datore di garantire la sicurezza dei dipendenti. La Cost ha previsto il diritto dei lavoratori alla previdenza sociale, garantendogli mezzi adeguati alle loro esigenze in caso d’infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria. Negli anni 50 il problema della sicurezza sul lavoro fu affrontato, con molti decreti, in un’ottica volta alla riparazione del danno subito dal lavoratore e non alla sua prevenzione. Solo con lo SDL s’iniziò a ragionare in termini di tutela preventiva-collettiva: importanti son stati la domicilio, salvo giustificati motivi, per sottoporsi a controlli della struttura pubblica in apposite fasce orarie di reperibilità (10-12; 17-19), pena la decadenza del trattamento economico per i primi 10gg (e sanzioni disciplinari) Circa il trattamento economico, mentre la sospensione per infortunio copre allo stesso modo impiegati-operai, in quella x malattia c’è differenza tra le 2 categorie: gli operai han diritto a un’indennità, erogata dall’Inps ma anticipata dal datore, pari al 60% della retribuzione e decorrente dal 3/4°gg successivo all’evento; mentre gli impiegati han diritto al mantenimento della retribuzione a carico del datore. Altre cause di sospensione, relative a a)Tutela della salute (art 32 Cost) — assenze per sottoporsi a cure termali prescritte da un medico del servizio pubblico; assenze non retribuite del tossicodipendente per sottoporsi a programmi riabilitativi; permessi retribuiti x i donatori di sangue-midollo osseo. b)Tutela della famiglia (art 31 Cost) — congedo di 15gg per contrarre matrimonio e permesso di 3gg x morte/grave infermità del coniuge/parente stretto; entrambe son retribuite, mentre non lo è il periodo di congedo (non +2 a) x gravi-documentati motivi familiari. c)Difesa della Patria (art 52 Cost) - prin garanzia posto di lavoro e decorso dell’anzianità di servizio operano pure nel caso del servizio civile; vigente è l’ipotesi del richiamo alle armi per qualunque esigenza delle forze armate, retribuito con la differenza fra trattamento economico militare e stipendio. d)Partecipazione alla vita politico-sociale del Paese — art 31-32 SDL prevedono l’aspettativa non retribuita per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive; è poi prevista l'assenza dal lavoro retribuita per i dipendenti impegnati nei seggi elettorali; e)Attività sindacale (art 39-40 Cost) — oltre ai permessi per i dirigenti di RSA, la stessa tutela dei lavoratori eletti a funzioni pubbliche è estesa a quelli che ricoprono cariche sindacali; v’è poi la sospensione, non retribuita, per lo sciopero. f) Elevazione culturale-professionale (art 9, 33, 34 Cost) — art 10 SDL dà agli studenti lavoratori permessi retribuiti per sostenere gli esami; son possibili, poi, i ‘congedi per la formazione’, non retribuiti e volti al conseguimento di un titolo di studio, e i ‘congedi per la formazione continua’, retribuiti secondo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva e volti ad accrescere le competenze professionali lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Sospensione per motivi riconducibili al datore La sospensione può derivare pure da cause (es crisi settore, ristrutturazione impresa, ec) facenti capo alla sfera del datore, regolate dal legislatore per salvaguardare i rapporti di lavoro. L’imprenditore deve predisporre il ‘substrato reale’ della prestazione (quanto serve x suo corretto svolgimento da parte del dipendente: cooperazione all’adempimento). La mancata cooperazione (datore non riceve prestazione o non compie quanto serve perché debitore possa adempiervi) comporta la mora del creditore, la cui conseguenza x il lavoratore è il risarcimento del danno, che equivale al pagamento della retribuzione. Non rientra nella mora del creditore (ma legittimo esercizio del potere direttivo) il caso in cui il datore decida di tenere a disposizione il dipendente, pagandolo, ma senza farlo lavorare. Non vi rientrano neppure i casi d’ interruzione del lavoro dovuti a oggettiva impossibilità temporanea della prestazione x cause tecniche (es manca elettricità). ESTINZIONE DEL RAPPORTO Il rapporto di lavoro si può estinguere x: a. Scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato; b. Morte del lavoratore (perché prestazione infungibile); agli eredi spetta un’indennità uguale a quella di preavviso; di regola non incide, invece, sul rapporto la morte del datore perché l’impresa si trasferisce agli eredi; Risoluzione consensuale ex art 1372 cc; Impossib sopravvenuta della prestazione e x forza maggiore; Cause tassativamente previste dalla legge (es mancato rientro in azienda del lavoratore reintegrato); Recesso unilaterale mresaprn Recesso. È un atto unilaterale (parte manifesta volontà di porre fine al rapporto) e recettizio (ha effetto quando giunge a conoscenza della controparte). Quello proveniente dal datore si chiama ‘licenziamento, dal lavoratore ‘dimissioni’. La materia, fino agli anni 70, era regolata solo dal cc, che dettava una disciplina unitaria (non distingue tra licenziamento-dimissioni) costruita su 2 figure di recesso: 1) Libero -— ogni contraente comunica all’altro la sua volontà con un preavviso (no motivazione) da dare entro un termine previsto dalla contrattazione collettiva (0, in mancanza, dagli usi o secondo equità) per dare alla controparte un periodo per ovviare agli effetti della cessazione del rapporto; ma regge solo per il licenziamento (lavoratore deve cercare nuova occupazione). Durante il preavviso il contratto resta vivo: dipendente deve lavorare e datore retribuirlo. Invece di dare il preavviso, la parte recedente può porre subito fine al rapporto pagando alla controparte un’indennità sostitutiva, equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. 2) Per giusta causa — ogni contraente, senza preavviso o indennità sostitutiva, può sciogliere subito il rapporto se si verifica una causa che non ne consenta la prosecuzione (pure provvisoria). Questa sistema, basato sul trattamento paritario del recesso di entrambe le parti, è tutt'ora vigente, ma solo per giusta causa, nel caso di contratto a tempo determinato — in esso nessuna delle 2 parti può recedere anticipatamente, se non per giusta causa, sennò può esser motivo di richiesta di risarcimento dei danni da parte di chi ha subito il recesso. Nel contratto a tempo indeterminato, invece, dal 66 non si può più parlare di una disciplina unitaria x dimissioni- licenziamento perché la disciplina di questa ultimo ha preso un’altra direzione. Dimissioni. Nel rapporto a tempo determinato son possibili solo le dimissioni per giusta causa senza preavviso ex art 2119, mentre in quello a tempo indeterminato son possibili sia le dimissioni libere-immotivate, con preavviso/indennità sostitutiva, ex art 2118, che quelle per giusta causa. Se, nel rapporto a tempo indeterminato, il lavoratore rassegna le sue dimissioni per giusta causa (evento che non consente di tener vivo rapporto) dovrà ricevere l’indennità di preavviso dal datore a tit di sanzione. La volontà del dipendente manifestata con le dimissioni dev’esser espressa in modo libero. Negli anni la prassi s’è riempita di esperienze come le ‘dimissioni in bianco’ (le firma il dipendente all’assunzione, cosicché possa, poco desideroso d’assoggettarsi alla disciplina vincolistica dei licenziamenti, usarle quando vuole per liberarsi, semplicemente aggiungendovi una data). Per ovviare a questa pericolo il d.lgs.151/15 ha disposto che le dimissioni debbano essere effettuate (sennò inefficaci) per via telematica sul sito del Min.lav. Il lavoratore, comunque, ha il diritto di ripensamento (può revocare dimissioni entro 7gg dal loro invio). Licenziamento libero, per giusta causa o giustificato motivo Il sistema incentrato sul licenziamenti ad nutum (immotivato con preavviso) e ‘in tronco’ (senza preavviso motivato da giusta causa) era imperfetto. Si cercò, perciò, di rimediarvi con l'accordo interconfederale del 50, che dei vincoli al licenziamento. Ma i limiti d’efficacia soggettiva della contrattazione collettiva resero necessaria una soluzione legislativa, che fu trovata con la L.604/66, che limitava il licenziamento libero alle sole aziende -35 dipendenti e nei cfr di fasce residuali di lavoratori (dirigenti, domestici, ec). Al di fuori di questa ipotesi, la L. introduceva, a tutela del lavoratore, dei requisiti formali-sostanziali come condizioni di legittimità del licenziamento. Il datore può licenziare il dipendente in 2 modi, cioè x: 1.Giusta causa —. non consente, neppur provvisoriamente, la continuazione del rapporto: se l’imprenditore licenzia per giusta causa non deve dare preavviso al lavoratore, che lascia subito l'azienda. Integrano questa concetto gli inadempimenti gravissimi, del lavoratore, degli obblighi contrattuali o suoi fatti extralavorativi che rompono il vincolo fiduciario del rapporto (es cassiere banca che gioca d'azzardo). 2.Giusto motivo — introdotto dalla L.604/66, che ne prevede 2 tipi: a) soggettivo: determinato da un ‘notevole inadempimento degli obblighi contrattuali’, del quale va valutata la gravità: se è estrema può integrare giusta causa, se è meno grave, ma notevole, un giustificato motivo, se è ancora minore solo una sanzione disciplinare. Certo un fatto ritenuto dal datore una giusta causa può esser valutato dal giudice di minore gravità, tale comunque da integrare un giustificato motivo soggettivo. Il licenziamento per giusta causa, quindi, insieme a quello x giustificato motivo soggettivo dan vita al ‘licenziamento disciplinare’ (sanziona una condotta del lavoratore, soggetto al procedimento disciplinare). Dato che la giusta causa non consente la prosecuzione provvisoria del rapporto di lavoro, durante la procedura disciplinare il datore applica al lavoratore una sospensione cautelare retributiva fino alla fine della procedura di licenziamento. b) oggettivo: determinato da ‘ragioni inerenti all’attività produttiva, organizzazione del lavoro e suo funzionamento’. Son fatti che riguardano la vita dell’impresa, perciò prescindono da un comportamento del lavoratore (x questa è detto ‘licenziamento economico’). Con questa fattispecie l’art 41 Cost (libera iniziativa economica privata) entra nella disciplina del licenziamento: l'imprenditore è libero d’organizzare la sua impresa e perciò anche di licenziare in base alle sue esigenze aziendali. Il giudice deve verificare solo l’effettività di questa esigenze e il nesso di causalità tra esse e il licenziamento, non la correttezza-convenienza economica. La giurisprudenza, comunque chiede al datore di valutare sempre la possibilità di reimpiegare il dipendente in un’altra posizione, considerando il licenziamento economico un’ extrema ratio (solo se non vi son alternative). Secondo un orientamento successivo, nel giustificato motivo oggettivo rientrano pure delle vicende relative al lavoratore, che comportano un oggettivo impedimento all’attività aziendale (es carcerazione preventiva del lavoratore; ritiro patente a un autista; ec). Spesso i contratti collettivi tipizzano certi fatti/comportamenti come una giusta causa o giustificato motivo e la L.183/10 impone al giudice di tener conto di questa tipizzazioni. Forma del licenziamento Le regole sulla forma del licenziamento son poste dall’art 2 L.604/66, rivisto dalla L.92/12 -— anzitutto va intimato in forma scritta (pure sms) e contenere la specificazione dei motivi che lo han determinato (prima era data solo se richiesta dal lavoratore). Al licenziamento disciplinare s’applica la normativa prevista per le sanzioni disciplinari dall’art 7 SDL, che prevede la pubblicizzazione di un codice disciplinare e il preventivo contraddittorio tra le parti. Quello economico, invece, va preceduto da una comunicazione in sede amministrativa del datore, per poi partecipare a un tentativo di conciliazione; se fallisce, il datore può procedere al licenziamento; se ha esito positivo e prevede comunque la risoluzione del rapporto, il lavoratore licenziato gode dei benefici dell’assicurazione sociale per l’impiego e può esser affidato a un'agenzia di somministrazione. Sul punto, però, è intervenuto il Jobs Act: la nuova disciplina, che ha abrogato quella relativa al licenziamento economico (obblighi procedurali del datore) s’applica ai rapporti di lavoro instaurati dopo la sua entrata in vigore (15), mentre la precedente continua ad applicarsi ai rapporti già in essere. Impugnazione del licenziamento Il lavoratore che vuol contestare il suo licenziamento deve impugnarlo entro 60gg (pena decadenza) dalla ricezione della comunicazione. La giurisprudenza ammette che l’impugnazione, effettuabile con qualsiasi atto scritto, possa esser fatta pure dal sindacato/avvocato del lavoratore, ma perde efficacia se questa ultimo nei succ. 180gg non fa ricorso al giudice e non richiede una conciliazione. La L.92/12 ha introdotto un nuovo modello processuale (‘rito Fornero’) x le controversie in materia di licenziamento, x inserirle in una corsia preferenziale: si prevede una 1° fase a cognizione sommaria, che termina con un’ordinanza, e una 2° fase, a cognizione piena, che termina con una sent. Questa rito non s’applica ai licenziamenti successivi al 2015. L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o giustificato motivo di licenziamento spetta al datore (ribaltamento classica regola processuale: chi agisce in giudizio deve fornire la prova della giustezza della sua rivendicazione); il lavoratore deve dimostrare solo l’esistenza del licenziamento. Solo se è un licenziamento discriminatorio l’onere della prova tocca al lavoratore ricorrente. Licenziamento discriminatorio È stato previsto dall’art 4 L.604/66, poi sostituito dall’art 3 L.108/90 — il 1° alludeva al licenziamento per motivazioni ideologiche (politiche, sindacali o religiose); il 2° ha aggiunto al divieto le discriminazioni razziali, di handicap, età, sesso e orientamento sessuale. La tutela vs questa licenziamento s’estende pure ai dirigenti (per il resto licenziabili liberamente). Questa licenziamento è nullo a prescindere dalla motivazione; perciò va ricercato il motivo della dec del datore. Se il lavoratore lamenta la discriminatorietà del licenziamento, dovrà provarlo, anche solo allegando argomenti da cui è possibile presumere statisticamente la sussistenza di un motivo discriminatorio alla base del licenziamento comminato per altre ragioni. Le ipotesi di licenziamento discriminatorio sono tassative. La giurisprudenza ha, comunque, elaborato la contigua categoria del licenziamento determinato da motivo illecito, sanzionato con nullità (es comminato per ritorsione a lavoratore che ha agito in giudizio vs datore). Nullo è pure quello in frode alla legge, cioè volto ad eludere l’applicazione di una norma imperativa (es quello intimato nell’imminenza di un trasferimento d’azienda, seguito da riassunzione presso l’acquirente, per evitare l'applicazione delle tutele dell’art 2112). Tutela obbligatoria Vediamo ora le conseguenze del licenziamento illegittimo, inquadrando l’evoluzione degli istituti posti a tutela del lavoratore colpito da esso — la L.604/66 riconnetteva 3 gradazioni d’invalidità ai possibili vizi del licenziamento, che infatti poteva essere: 1) nullo, se discriminatorio; 2) annullabile, se carente di giustificazione; 3) inefficace, se carente dei requisiti di forma. Mentre quello nullo-inefficace comportavano la stessa conseguenza (nessun effetto), la L.604/66 intervenne sulle sanzioni da comminare a quello annullato perché privo di giusta causa o giustificato motivo; fu previsto un tipo di tutela obbligatoria: datore doveva riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato o pagargli una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, con libertà di risolvere il rapporto. In questa caso il licenziamento veniva semplicemente ‘monetizzato’: nel sistema della tutela obbligatoria, il licenziamento, pur dichiarato illegittimo, era comunque idoneo a risolvere il rapporto (dando risarcimento). Tutela reale Svolta in materia avvenne (70) con l’art 18 SDL — unificò gli effetti dei 3 tipi di licenziamento illegittimo: obbligavano il datore a ‘reintegrare’ il dipendente nella sua posizione e a risarcirgli i danni. Si realizzò, perciò, una tutela reale del posto di lavoro: il datore non poteva più scegliere di monetizzare il licenziamento, ma doveva reintegrare, perciò il licenziamento illegittimo non era idoneo a interrompere il rapporto, che continuava pure nel periodo tra l’intimazione del licenziamento e la sent che ordinava la reintegrazione; dopo questa, il rapporto riprendeva come se non si fosse mai interrotto (no riassunzione). Il datore doveva, poi, restituire al lavoratore le retribuzioni perdute tra licenziamento-reintegrazione, comunque in misura non inferiore a 5 mensilità (penale). Intoppo alla reintegrazione poteva venire dall’impossibilità di ottenere un’esecuzione specifica del relativo ordine: datore poteva, perciò, decidere di non reintegrare il lavoratore, pur continuando a pagargli la retribuzione. Coordinamento delle tutele Gli effetti delle 2 tutele, però, s’applicavano, non a tutti i licenziamenti, in base alle dimensioni dell’impresa — la tutela obbligatoria della L.604/66 operava x datori con +35 dipendenti, mentre la tutela reale dell’art 18 x datori con +15 dipendenti. Nelle aree non coperte vigeva ancora il licenziamento libero ex art 2118. L’esistenza di tutele Nel 41 la contrattazione collettiva creò la ‘cassa integrazione guadagni’ (cig) per garantire parte della retribuzione, versata dall’Inps, agli operai sospesi x involontarie-brevi interruzioni dell’attività lavorativa (al tempo dovute a GM). Fino agli anni 60, quindi, la cig garantiva il reddito in caso d’impossibilità non imputabile della prestazione (perché datore sarebbe stato libero di non dare retribuzioni); presupposto di questa strumento previdenziale, finanziato dalle imprese che ne potevano beneficiare, era la crisi dell’impresa. Col tempo la cig iniziò pure ad attenuare le conseguenze sociali della crisi con aiuti alle imprese per evitare licenziamenti di massa. Le L.1115/68-464/72 previdero il suo ‘intervento straordinario’ (cigs), non più autofinanziato (come ordinario: cigo) ma di gestione pubblica, perché la ripresa dell’attività poteva essere pure programmata (non solo involontaria) e lunga: crisi strutturali (no transitorie). Col diritto del lavoro dell’emergenza, la cigs mutò funzione: da un lato, estese l’intervento a ogni difficoltà dell’impresa (riorganizzazione, ristrutturazione, crisi, ec); dall’altro, le continue proroghe dell’intervento, favorite dall’assenza di limiti temporali, favorirono abusi (divenne strumento per scaricare la crisi, reale/presunta, sulla collettività). Intervento razionalizzatore fece la L.223/91 (fissò limiti temporali inderogabili), ma fu seguito da molti provvedimenti ‘in deroga’. Allora il riordino complessivo è intervenuto prima con la L.92/12, poi col d.lgs.148/15, che ha abrogato la legislazione previgente. Le ‘cause integrabili’, che legittimano il ricorso alla cigo sono: a) situazioni aziendali dovute ad eventi transitori non imputabili a impresa-dipendenti; b) situazioni temporanee di mercato. L’intervento della cigo ha una durata max di 13 settimane continuative, prorogabili trimestralmente fino a un max di 52 settimane. Per accedervi, il datore deve comunicare alla RSA/RSU e al sindacato rappresentativo l’intenzione di sospendere/ridurre l’orario, indicandone la prevedibile durata e numero dei lavoratori interessati. Dopo questa fase il datore può presentare domanda alla sede territoriale dell'Inps, che la valuta-ammette al finanziamento. La cigs, invece, è divenuta uno strumento di politica economica-sostegno alle imprese, cui si può accedere nei casi di: a) riorganizzazione aziendale; b) crisi aziendale (tranne cessazione azienda o suo ramo); c) contratto di solidarietà (contratto collettivo aziendale che ripartisce tra i dipendenti le riduzioni dell’orario di lavoro per riassorbire le eccedenze di personali, evitando licenziamenti). Questa intervento è limitato alle imprese +15 dipendenti, ma vi sono delle estensioni. La durata è 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio se la causa è la riorganizzazione aziendale o il contratto di solidarietà, in 12 mesi, anche continuativi, se la causa è la crisi aziendale. La fase procedurale è simile a quella della cigo: comunicazione al sindacato, poi la domanda viene presentata al Min.dl. e all’Ispettorato territoriale del lavoro competente, per la delibera di finanziamento. Regole comuni a cigo-cigs son previste circa gli aventi diritto all’integrazione (lavoratori subordinati, tranne dirigenti e lavoratori a domicilio, con un’anzianità di servizio di almeno 80gg); e la misura dell’integrazione (80% della retribuzione spettante per le ore di lavoro non prestate). La legge, invece, non dice nulla sui criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e modalità di ‘rotazione’ tra essi per distribuire i sacrifici: questa temi devono costituire oggetto dell’esame congiunto coi sindacati. Infine, per i settori esdusi dall’operatività della cig, in passato oggetto di ‘cig in deroga’ (abolite da rif Fornero), è prevista l’istituzione, con contrattazione collettiva, di ‘fondi di solidarietà bilaterali’: assicurano ai lavoratori di questa imprese una tutela in caso di riduzione/sospensione dell’attività. All’inerzia della contrattazione collettiva soccorre un ‘fondo d’integrazione salariale’, istituito presso l’Inps. Rapporti tra licenziamenti collettivi e cig Data la complessità degli interessi coinvolti nelle strategie datoriali (riguardano lavoratori-sindacato) e dato che il legislatore ha deciso di non occuparsene, la materia dei licenziamenti collettivi è stata a lungo regolata dalla contrattazione collettiva — 2 accordi interconfederali (50 e 65) obbligarono il datore che volesse ridurre il personale a instaurare col sindacato una procedura conciliativa e a procedere all’eventuale licenziamento nel rispetto di alcuni criteri di scelta. Dopo 2 condanne della CG, il legislatore intervenne con la L.223/91 (in vigore), che prevede 2 possibilità di licenziamento collettivo: 1) ‘in mobilità’: opera se l’impresa, durante il godimento della cigs, ritiene di non poter garantire il rimpiego a tutti i lavoratori sospesi; 2) ‘x riduzione di personale’: l'impresa agisce direttamente, senza che i licenziamenti siano preceduti da cigs — entrambe possono percorsi autonomamente: se l’impresa, ottenuta la cigs, s’accorge che vi son difficoltà superabili solo con la riduzione del personale, può fare il licenziamento collettivo; lo stesso può fare l’impresa che, dall’inizio, ravvisa la necessità di procedere a un ridimensionamento strutturale. Per avviare un licenziamento ‘x riduzione di personale’, la L.223/91 richiede la compresenza di alcuni requisiti, tipo che: a) l’impresa occupi +15 dipendenti; il d.1gs.110/04 estende le norme sui licenziamenti collettivi pure ai datori non imprenditori; b) nell’arco di 120gg essa intenda licenziare almeno 5 dipendenti in ogni unità produttiva o in più unità della stessa provincia; c) chela causa dell’operazione sia conseguenza di una riduzione/trasformazione di attività/lavoro; d) che questa intenzione sia, dall’azienda, manifestata preventivamente in forma scritta alle RSA/RSU e alle associazioni di categoria o, in mancanza di RSA/RSU, alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazional La procedura è la stessa x il licenziamento collettivo “in mobilità’ e ‘x riduzione di personale’ (nel 1° non serve che riguardi 5 lavoratori) —- l’imprenditore deve inviare una comunicazione scritta ai detti organismi sindacali, in cui vanno indicati i motivi tecnici, organizzativi o produttivi della riduzione del personale; i profili professionali del personale in eccedenza e di quello normalmente impiegato; i tempi d’attuazione del programma. Il sindacato può chiamare il datore a un esame congiunto della situazione per individuare strategie per scongiurare l’esubero o ridurre i licenziamenti; se l’esito è negativo, l’Ispettorato del lavoro territorialmente competente o il Min.lav. darà corso a un altro tentativo di conciliazione amministrativa. Il datore deve versare all’Imps una somma per ogni lavoratore che vuol licenziare, in misura maggiorata rispetto a quella prevista per i licenziamenti individuali (‘contributo d’ingresso’). Se fra le parti non interviene un accordo, l’importo di questa contributo è triplicato. Se, conclusa la procedura (non dovrebbe durare +75gg), resta la necessità d’intimare dei licenziamenti, l’imprenditore individua i lavoratori con dei criteri di scelta previsti dai contratti collettivi o dall’accordo sindacale raggiunto. In mancanza, deve rispettare i criteri dell’art 5: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive e organizzative. Oltre al divieto di criteri discriminatori, non si può licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale occupata nelle mansioni prese in considerazione. A ogni lavoratore interessato il licenziamento viene intimato individualmente in forma scritta e con preavviso, senza necessità di motivazione. I nominativi dei licenziati devono esser comunicati ai sindacati e alla parte pubblica. Non esistendo più dal 17 il diritto all’indennità di mobilità dei lavoratori così licenziati, questa possono solo accedere, se hanno i requisiti, all’assicurazione sociale per l’impiego. Il lavoratore può impugnare il licenziamento nelle forme-termini previsti per i licenziamenti individuali. Il giudice non può sindacare le scelte datoriali, ma può accertare la sussistenza della causa invocata, il nesso di causalità tra questa e i licenziamenti, il rispetto della procedura di mobilità e dei criteri di scelta dei lavoratori. Il rispetto della procedura ha gran rilievo nei licenziamenti individuali “a formazione progressiva’: se il datore, nell’arco d 120gg, effettua un 5° licenziamento per ragioni oggettive, e tutti son riconducibili alla stessa riduzione/trasformazione, questa riqualificherà pure i precedenti come licenziamenti collettivi, viziati però x mancato rispetto della procedura. Circa le sanzioni si distingue tra rapporti antecedenti-successivi il 7.03 — x i 1° vale l’art 18 SDL (riformato), perciò opera la tutela: a. reintegratoria forte in caso di violazione del requisito della forma scritta dell’atto di recesso individuale; b. reintegratoria debole in caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori; c. indennitaria forte in caso di violazione della procedura sindacale; Peri 2° vale l’art 10 d.lgs.23/15, perciò opera la tutela: a. reintegratoria forte in caso di violazione del requisito della forma scritta dell’atto di recesso individuale; b. indennitaria ‘crescente’, con risarcimento pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, con un min di 4 e max di 24 mensilità, in caso di violazione dei criteri di scelta o della procedura sindacale: Questa ultima normativa desta dubbi di incost, perché assoggetta a diversi regimi sanzionatori i destinatari di uno stresso licenziamento collettivo illegittimo, a seconda del mero dato temporale della loro assunzione. Il che potrebbe spingere i datori a favorire il licenziamento degli ultimi assunti (meno conseguenze negative). Ammortizzatori sociali Vari provvedimenti si sono occupati di essi: strumenti per attutire gli effetti della perdita del lavoro. Questa politiche in Italia seguono logiche assistenziali (welfare), preoccupandosi poco degli incentivi a trovare un nuovo posto di lavoro. Per anni è stato in vigore l’istituto ‘indennità di disoccupazione’ (r.d.1827/35): tutelava chi avesse perso il lavoro involontariamente, addossando allo Stato l’onere di pagare un’indennità per un periodo di tempo, permettendo al lavoratore di ricercare una nuova occupazione. Ma l’indennità, x 50 a, aveva livelli bassi (elemosina); allora la L.223/91 introdusse l’indennità di mobilità, che poteva seguire un esito negativo di un programma di cigs o un’autonoma procedura di licenziamento collettivo; essa era corrisposta per periodi di tempo variabili (di solito max 3 a), veniva calcolata in percentuale sul trattamento di cigs che il lavoratore aveva percepito e diminuiva gradatamente col tempo, per evitare che il lavoratore si adagiasse senza cercare lavoro. Questa ultimo veniva inserito in circuiti privilegiati di collocamento. Il sistema creava, però, una diversità di trattamento tra il lavoratore abilitato ad accedere all’indennità di mobilità e quello che doveva accontentarsi dell’indennità di disoccupazione — la L.92/12, allora, ha unificato le 2 indennità, introducendo la ‘assicurazione sociale per l’impiego’ (aspi) per i disoccupati involontari con almeno 1 a di contribuzione nei 2 a precedenti la disoccupazione (versione ridotta, ‘mini-aspi’, era garantita a chi vantasse almeno 14 settimane di contribuzione nell’ultimo a). Questa rif. ha, perciò, mutato le logiche dell’intervento pubblico da tutela assistenziale a tutela di ‘workfare’ (welfare attivo), in cui l’attribuzione delle provvidenze è condizionata all’inserimento del beneficiario in percorsi che favoriscano la ricerca attiva del lavoro. S'è poi abbandonato una logica assistenziale a favore di una previdenziale: riconoscere i benefici ai soli lavoratori che versassero i contributi e in proporzione ad essi. Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego (naspi) Il Jobs Act ha rimodellato l’aspi, ora detta naspi (‘nuova aspi’), sostitutiva dell’altra a partire dal 2017. Per beneficiarne serve: a) essere lavoratore dipendente; b) aver perso involontariamente il lavoro; c) aver versato contributi per almeno 13 settimane nei 4 anni precedenti la disoccupazione; d) aver manifestato sul portale telematico dell’Anpal la propria disponibilità a lavorare-partecipare alle misure di politica attiva; L’ammontare della nasci è calcolato in percentuale sulle ultime retribuzioni; si riduce progressivamente e dura la metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 a, comunque non oltre 24 mesi. La sua erogazione è condizionata alla partecipazione alle iniziative di ricerca attiva di lavoro. La legge dà un incentivo pure alla autoimprenditorialità: lavoratore, che vuol intraprendere una nuova attività in proprio, può richiedere l'erogazione in blocco della somma che gli spetterebbe come naspi. Il lavoratore disoccupato beneficiario della naspi viene inserito nel percorso delle politiche attive del lavoro: se vuol confermare il suo stato di disoccupazione deve stipulare il ‘patto di servizio personalizzato’ e adempierne gli obblighi (es fare corsi di formazione). Egli, a certe condizioni, può riscuotere un ‘assegno di ricollocazione’, graduato al suo profilo di ‘occupabilità’ e spendibile presso i centri per l’impiego per ricercare un nuovo lavoro. Un’indennità di disoccupazione particolare (discoll) è prevista pure per i collaboratori coordinati-continuativi che han perduto involontariamente il lavoro: data per certi requisiti reddituali-contributivi e condizionata alla partecipazione del collaboratore alle iniziative d’attivazione lavorativa. Reddito di cittadinanza Il legislatore ha preferito (L.92/12) un modello wokfare anche per affrontare la povertà dovuta alla crisi — d.lgs.147/17, per affrontare questa problema, introdusse il ‘reddito d’inclusione’ (rei): beneficio economico e vari servizi riconosciuti a famiglie in condizione d’indigenza, disponibili a seguire percorsi di reinserimento lavorativo- sociale. Questa fu poi abrogato dalla L.26/19 che ha istituito il ‘reddito di cittadinanza’ (rdc): beneficio economico per integrare il reddito di nuclei familiari che vivono al di sotto della soglia di povertà (fissata in €780 mensili), cui s’aggiungono misure non monetarie (es agevolazioni per uso trasporti, istruzione e salute) se emergono condizioni di esclusione sociale, disabilità, ec. Esso non può esser erogato x +18 mesi continuativi (ma è possibile un rinnovo). Il rdc è condizionato all’assolvimento di certi obblighi da parte dei beneficiari: i componenti maggiorenni del nucleo familiare, che non lavorino o non frequentino un corso di studi/formazione, devono dichiarare l'immediata disponibilità al lavoro e aderire a un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo-sociale. Una valutazione complessiva dei bisogni della famiglia porta alla stipula coi beneficiari del rdc di un ‘patto per il lavoro’, che comprende l’obbligo di accettare un’offerta di lavoro ‘congrua’, definita in dettaglio dalla legge in relazione alla distanza dal luogo di residenza, al numero di offerte rifiutare e all'ammontare della retribuzione. LAVORO E DIFFERENZA SESSUALE Pure all’interno della parte debole del rapporto (lavoratore subordinato) v'è uno squilibrio (diseguaglianza tra classi- categorie che ne fan parte), perciò il diritto del lavoro ha creato tutele ‘differenziate’ a favore delle categorie svantaggiate, divenendo così ‘doppiamente diseguale’ (esterno-interno rapporto). Tra questa categorie di lavoratori doppiamente svantaggiati la più importante x numero-peso specifico è quella delle donne. Le 1° preoccupazioni del legislatore nei cfr della donna, accumunata ai minori (‘mezze forze’), risalgono alla riv. industriale, quando la manodopera femminile era preponderante (XIX: in fabbrica 25% donne, 13% uomini) perché costava meno. La 1° L. (242/1902) sulla donna lavoratrice ridusse a 12h la durata della gg lavorativa, introdusse il divieto del lavoro notturno e accordò un congedo, non retribuito, per la maternità; la L.653/34 circondò di tutele il lavoro femminile; ma questa interventi comportarono l’espulsone delle donne. Nell’Italia repubblicana (art 37 Cost “donna lavoratrice ha stessi diritti-retribuzione del lavoratore”) è sorta una legislazione, a partire dalla L.903/77, volta a promuovere l’eguaglianza formale tra uomo-donna sul lavoro, ma dato il suo poco successo s’è scelto la strada della promozione concreta-attiva delle pari opportunità di lavoro, a partire dalla L.125/91, volta alla loro eguaglianza sostanziale. Attualmente il ‘TU sulla maternità-paternità’ (d.lgs.151/01) e il ‘codice delle pari opportunità’ (c.p.o.: d.lgs.198/06) raccolgono quasi tutta la materia — son normative diversificate a seconda del momento in cui son state emanate, ma omogenee quanto all’obiettivo di apprestare tutele alla donna lavoratrice, specie in relazione al suo ruolo familiare, che la rende più vulnerabile rispetto all'uomo. Tutela della lavoratrice Una delle 1° tutele dell’Italia repubblicana è il divieto di licenziamento a causa di matrimonio (L.7/63) -— per evitare che il datore si liberasse della dipendente che, sposandosi, sarebbe costata di più (per i suoi diritti di lavoratrice madre), considera nulle le ‘clausole di nubilato’ (rapporto si scoglie automaticamente col matrimonio) e presume avvenuto per causa di matrimonio il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo intercorrente tra la richiesta di Questa atti son annullabili perché c’è un termine di decadenza: vanno impugnati entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto. Ci si chiede, perciò, perché la norma preveda l’annullabilità, invece della più grave nullità, e tra le varie soluzioni prospettate, la maggioritaria vede nell’art 2113 un compromesso, utile a definire con immediatezza le situazioni giur connesse a un rapporto, non lasciandole ‘appese’ per troppo tempo, come accadrebbe con la nullità. Questa ricostruzione distingue tra momento genetico-funzionale di un diritto: l’inderogabilità si riferirebbe al 1°, con conseguente nullità ex art 1418 di ogni atto che devii la norma attributiva del diritto; l’indisponibilità al 2° che, entrato nel patrimonio del lavoratore, sarebbe disponibile, salvo che l’ordin ponga specifici limiti all'autonomia del soggetto. Accanto ai diritti disponibili (lasciati alle trattative tra datore-lavoratore: es superminimi), perché non derivanti da disposizioni inderogabili, esisterebbero, quindi, diritti assolutamente indisponibili (es al riposo settimanale), soggetti alla nullità ex art 1418 cc, e relativamente indisponibili, soggetti all’annullabilità ex art 2113. Tutti, invece, ritengono che l’art 2113 s’applica nei cfr dei soli diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore, mentre una rinuncia preventiva del lavoratore relativa a diritti futuri (es paga mese successivo) sarebbe assolutamente indisponibile, perciò nulla. Per la stessa logica che pone a base dell’invalidità dell’atto dismissivo lo stato di soggezione del lavoratore nei cfr dell’imprenditore, si prevede che le rinunce-transazioni che abbiano ad oggetto diritti relativamente indisponibili siano valide se effettuate in una conciliazione davanti al giudice o commissione costituita in sede amministrativa/sindacale o se siano state vagliate da una commissione di certificazione. Un orientamento unanime, infine, non ritiene parificabili alle rinunce-transazioni le ‘quietanze a saldo’, in cui il lavoratore, alla cessazione del rapporto, dichiara di non aver più nulla a pretendere dal datore: esse, essendo mere “dichiarazioni di scienza’, non sarebbero idonee a dar luogo a un negozio giur soggetto al termine d’impugnazione. Prescrizione Produce l’estinzione di un diritto se il titolare non lo esercita per il tempo stabilito dalla legge. Peri crediti di natura risarcitoria (es risarcimento per mobbing) o ipotesi particolari (es diritto alla qualifica professionale) il termine di prescrizione è 10 a. Per i crediti retributivi da lavoro, invece, è di 5 a. Per questa ultimi sarebbe prevista una prescrizione ‘presuntiva’ (voci retributive si presumono pagate se è decorso 1/3 anni, a seconda che si tratti di somma corrisposta con frequenza inferiore/superiore al mese), ma, dati gli obblighi formali del datore sul pagamento delle retribuzioni, questa prescrizione finisce per avere un rilievo ridotto. Problema della prescrizione estintiva dei crediti retributivi è il momento in ci inizia a decorrere — per la regola generale parte dal gg in cui il diritto può esser fatto valere; ma una decisione della Corte cost (66) mostrò che questa regola avrebbe costretto il dipendente ad agire vs l'imprenditore a tutela dei suoi crediti durante il rapporto, temendo perciò di esser licenziato; perciò concluse che la decorrenza doveva iniziare al momento della cessazione del rapporto. Ma nel 72 la Corte mostrò che l’entrata in vigore dell’art 18 SDL, col suo meccanismo di tutela reale vs licenziamenti illegittimi, aveva fatto venir meno la paura di perdere il posto; perciò se il lavoratore era un beneficiario della tutela reintegratoria, s’applicava la regola generale; se invece, non gli s’applicava l’art 18, sarebbe valsa la regola della sent. del 66. Questa doppio regime di decorrenza è durato fino alla rif. Fornero e Jobs Act — in nessuna delle 2 normative, gg vigenti, si può stabilire in anticipo se il lavoratore licenziato rientri tra i beneficiari della tutela reale del suo posto, che non è più ancorata a requisiti certi come quello della dimensione dell’azienda, ma dipende dalla tipologia del licenziamento intimato e in dei casi dalla discrezionalità del giudice. Essendo, perciò, eventuale la reintegrazione, parrebbe giusto far decorrere la prescrizione dei crediti di lavoro dalla cessazione del rapporto. Altri invece, osservando come la rif. Fornero abbia esplicitato come ipotesi di nullità, sanzionata con reintegrazione piena, quella del licenziamento per ritorsione, concludono per l'applicazione della regola generale, peraltro a prescindere dalle dimensioni dell’impresa perché la sanzione della nullità del licenziamento fondato su motivo illecito determinante è d’applicabilità generale. Va comunque precisato che la prescrizione può esser interrotta con qualsiasi atto idoneo a manifestare la volontà di non rinunciare al diritto da parte del lavoratore, che potrebbe pure limitarsi a scrivere una lettera al datore, entro il termine di prescrizione, senza attivare l’azione giudiziaria. La materia, dunque, è confusa-controversa: serve un intervento del legislatore/Corte. RAPPORTI DI LAVORO ‘SPECIALI’ Non esistendo un rapporto di lavoro ‘normale’, non esistono neanche quelli ‘speciali’ — la ‘specialità’ è servita agli studiosi per la classificazione di rapporti che hanno discipline peculiari circa, ad es, la forma dell’impresa (lav. associato), figura del datore (lav. domestico), luogo della prestazione (lav. a domicilio), esigenze d’ordine pubblico (lav. nautico), ec. Vediamo le più significative: Lavoro nautico — ha connotazione pubblicistica, fondata sull’interesse statale al traffico marittimo, sicurezza della navigazione e persone-beni connesse. Ai rapporti dell’area nautica s’applica il codice della navigazione; le altre regole in modo residuale. Il contratto d’arruolamento tra armatore e gente di mare (soggetti che s’imbarcano per lavorare a qualsiasi titolo/mansione), addetti ai servizi portuali e cantieri navali, risulta da un atto pubblico e suo presupposto è l’iscrizione della gente di mare in apposite matricole. Può essere a tempo indeterminato/determinato o x 1/+ viaggi (ultimi 2 non possono durare +1 a). La gente di mare è divisa in 3 categorie di personale: 1) di stato maggiore (comandante, ufficiali, ec) e di bassa forza (tecnici di bordo); 2) addetto ai servizi complementari di bordo (cuochi); 3) addetto al traffico locale (nell’area portuale). È un rapporto gerarchico tra comandante-equipaggio (arruolati x servizio nave). Circa le garanzie dello SDL, è prevista l’applicabilità di alcune norme e il rinvio alla contrattazione collettiva per l'applicazione di altre (sanzioni disciplinari e licenziamenti). Alla gdm è, inoltre, assicurata la retribuzione x sospensione del lavoro per malattia/lesione, ma non gli s’applica il d.lgs.66/01 sull’orario di lavoro. Disciplina speciale vige pure per la prescrizione dei crediti del lavoro: dura 2 a, ma decorre dalla cessazione del rapporto. La giurisprudenza poi ritiene che la contrattazione collettiva s’applica se ad essa rinviano le norme di diritto del lavoro marittimo-comune, che però non sono da essa derogabili, tranne che per la determinazione della retribuzione. Regole come quelle del lav. marittimo (tutela pubblicistica voli e persone-beni coinvolte) disciplinano il rapporto della ‘gente dell’aria’. Lavoro sportivo — L.91/81 regola il rapporto tra società sportiva e sportivo professionista (atleti, allenatori, preparatori che esercitano attività sportiva a titolo oneroso nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni). La L.160/19 promuove il professionismo femminile, concedendo l’esonero contributivo per 3 anni alle società che stipulano contratti di lavoro sportivo con donne. A questa rapporto s’applicano le norme lavoristiche compatibili (ferie, riposi settimanali, ec); ma vi son molte eccezioni — circa la qualificazione del rapporto: la L., x gli atleti, al posto dei tradizionali indici giurisprudenziali, instaura una presunzione di subordinazione; mentre il rapporto è autonomo se l’attività è svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva, se l’atleta non è vincolato a frequentare gli allenamenti, o se la prestazione non supera un certo orario di lavoro (8h sett., 5gg mens., 30gg ann.). L’assunzione avviene secondo un ‘contratto tipo’, predisposto ogni 3 a dalla federazione nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate, derogabile solo in melius. Le parti possono apporvi un termine non superiore a 5 a, e può esser pure ceduto da una società sportiva a un’altra prima della scadenza, a titolo oneroso, col consenso dello sportivo e secondo le modalità decise dalla federazione. La L.586/96 prevede un premio d’addestramento da parte della società attuale a quella ove l’atleta ha svolto l’ultima attività dilettantistica. Molte norme dello SDL (su potere di controllo, sanzioni, mutamento mansioni e licenziamenti) non s’applicano. Lavoro domestico — prestazione è resa nell'abitazione del datore, implicando perciò la convivenza con questa. La materia ha la sua fonte nella contrattazione collettiva di settore, ed eventuali pattuizioni tra parti son valide solo se in melius per il lavoratore. I lavoratori domestici (colf, baby sitter, giardinieri, ec) prestano, quindi, servizi per il funzionamento della vita familiare. Il lavoro svolto da parenti/affini del datore si presume gratuito. Il patto di prova non va stipulato per iscritto, ma se ne presume la sussistenza per i primi 8gg. L’orario di lavoro è regolato dal contratto collettivo: se il dipendente lavora per almeno 4h giornaliere ha diritto a un riposo di 1gg o di 2 mezze gg; le ferie spettano per non -8gg. La retribuzione può comprendere pure elementi in natura (vitto-alloggio), obbligatori per il lavoratore ammesso alla convivenza. Dall’inserimento del lavoratore nell’ambito della vita familiare deriva l’obbligo di tutela della sua salute-personalità e l'esclusione di questa lavoro dall’ambito d’applicazione della tutela vs licenziamenti: il datore può recedere dal rapporto in qualsiasi momento, senza giustificazione/preavviso (solo la lavoratrice domestica non può esser licenziata durante la gravidanza). Lavoro associato — si svolge con un contratto a causa associativa. In questa casi, dei connotati tipici della subordinazione (alienità ai risultati della prestazione o estraneità agli interessi dell'impresa) son molto sfumati. Spesso si trovava una prestazione di lavoro all’interno di un contratto d’ associazione in partecipazione in cui, in cambio di un apporto, l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa. Ma spesso questa contratto nascondeva un rapporto subordinato, in cui l’associante compensava l’associato con una quota degli utili derivanti dalla gestione dell’impresa. È, allora, intervenuta la legge, prima col d.lgs.276/03, che richiedeva una partecipazione effettiva dell'associato; poi con la L.92/12, che introduceva un tetto max di 3 lavoratori associati impegnati in una stessa attività, oltre il quale si presumeva la subordinazione di tutti gli associati; infine col d.lgs.81/15 l’apporto dell’associato non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro. Se, quindi, l’associazione in partecipazione non è più praticabile, resta viva quella del lavoro conferito dal socio di una cooperativa di produzione-lavoro. Pure questa sistema, però, ha subito mutamenti, che talvolta han mascherato da rapporto societario un rapporto subordinato. La L.142/01 ha, allora, ammesso che in capo al socio-lavoratore coesistano un rapporto associativo di tipo mutualistico e un rapporto di lavoro, che può esser prestato in forma subordinata/autonoma o altra forma. La cooperativa deve adottare un reg sulla tipologia dei rapporti di lavoro, che sarà elemento di valutazione nella qualificazione del rapporto di lavoro in questione. Se il rapporto viene qualificato ‘subordinato’, per il socio-lavoratore vigono comunque delle regole particolari: le principali riguardano il licenziamento (art 18 SDL non s’applica se col rapporto di lavoro cessa pure quello associativo), retribuzione (non dev’esser inferiore ai min previsti dalla contrattazione collettiva), diritti sindacali (son applicabili compatibilmente con lo stato di socio-lavoratore). S’applica pure la normativa sulla salute-sicurezza, relativa anche ai soci- lavoratori non subordinati. Infine, la giurisprudenza non esclude che il lavoratore subordinato possa esser pure socio della società sua datrice, sempre che la prestazione lavorativa non sia resa in adempimento del contratto sociale: l’attività, comunque, dev’esser prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio e, nel caso di società di capitali, il lavoratore non dev’esser unico azionista (o azionista ‘sovrano’).
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