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Riassunti delle dispense dei Saggi di Enrico Ghezzi per l'esame di Teorie del cinema, Dispense di Teoria Del Cinema

- Enrico Ghezzi, Il mezzo è l'aria - Enrico Ghezzi, "Guy Debord con(tro) il cinema", introduzione a Guy Debord - Dispensa: pagine scelte da Enrico Ghezzi, Paura e desiderio. Cose (mai) viste 1974-2001 - Dispensa: pagine scelte da Enrico Ghezzi, Cose (mai) dette. Fuori orario di Fuori orario - Nicole Brenez, "Montaggio intertestuale e forme contemporanee del riuso nel cinema contemporaneo", Cinémas / Revue d’études cinématographiques (vol. 13, n. 1-2, automne 2002, p. 49–67) Per esame teorie del cinema, voto 30L, riassunti utilizzati sia per la redazione dell'elaborato che per l'esposizione verbale all'esame.

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 01/06/2024

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Scarica Riassunti delle dispense dei Saggi di Enrico Ghezzi per l'esame di Teorie del cinema e più Dispense in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! Cose (mai) dette Giglio infranto Il testo discute una riflessione sulla guerra, in particolare utilizzando l'immagine della Bosnia come simbolo di conflitti senza confini definiti, sempre più complessi e frattali. Viene citato il film "Guai ai vinti" di Raffaello Matarazzo, che rappresenta la guerra attraverso un melodramma famigliare, mettendo in scena un incubo infantile con immagini serene ma minacciate dalla guerra imminente. La guerra viene così trasformata in un dramma emotivo all'interno del nucleo familiare. Sergio Grmek Germani cura un evento chiamato "La notte di domani", che propone una serie di film e immagini per esplorare la distanza tra spettatore e realtà bellica, sottolineando l'impossibilità di essere veramente "in diretta" con la guerra, una condizione acuita dalla sovrabbondanza di informazioni visive contemporanee. Germani suggerisce che questa distanza è inevitabile e costituisce una parte essenziale del modo in cui percepiamo la guerra. Infine, si afferma che il cinema, come la guerra, è una battaglia di segni e immagini, dove ogni fotogramma combatte con il precedente, creando un'illusione di continuità. Il messaggio è che, attraverso questa sovrapposizione continua di visioni e immagini, si attraversano confini minimi che rendono possibile qualsiasi guerra. Buona visione. Hotel des apolides Il testo esplora l'idea del cinema come arte apolide, ossia senza confini geografici o culturali definiti. Questa caratteristica, considerata accidentale in passato, è ora centrale. Il cinema hollywoodiano è esempio di cinema apolide, ma il vero apolide è quello che non ha un set fisso, come nei film "Othello" di Orson Welles, "Calendar" di Atom Egoyan e "Paris, Texas" di Wim Wenders. Orson Welles con "Othello" rappresenta l'apolide per eccellenza, girando in luoghi diversi e in tempi differenti. Egoyan esplora l'apolidicità attraverso il tempo, enfatizzando come il vero spazio del cinema sia temporale e non geografico. Wenders, invece, con "Paris, Texas" e altri lavori, rappresenta un cinema apolide per scelta, immerso nell'osservazione visiva. Il cinema di Wenders, negli anni '80, insieme a quello di Bernardo Bertolucci, ha raggiunto il culmine dell'apolidicità. Il film "Fino alla fine del mondo" di Wenders è citato come un esempio di cinema che attraversa vari luoghi senza confini definiti, rappresentando un viaggio nel cinema stesso. Il cinema apolide, quindi, non solo esiste fuori dai confini geografici, ma anche come esperienza temporale e visiva, dove lo spazio è vuoto ma significativo, simile ai "non- luoghi" di Wenders. Buona visione. Per Angelo Humouda Il testo riflette sulla figura di Ferdinando Scarfiotti, celebre scenografo recentemente scomparso, noto per lavori in film come "American Gigolo" e quelli di Bertolucci come "L'ultimo imperatore" e "Il tè nel deserto". Si sottolinea come Scarfiotti abbia trasformato il set in un elemento essenziale e affascinante del cinema post-moderno, più significativo dell'immagine stessa. Successivamente, si ricorda Angelo Humouda, un personaggio apolide e cinefilo ossessionato, famoso per aver creato una cineteca itinerante negli anni '70, trasportando pellicole in un pulmino Volkswagen per proiettare film in tutta Europa. Humouda è lodato per la sua dedizione nel diffondere il cinema, nonostante le difficoltà tecnologiche e la diffusione delle videocassette che rendevano obsoleta la sua iniziativa. Il testo conclude riflettendo sull'importanza della conservazione delle immagini e del cinema. Si sottolinea che, sebbene sia cruciale conservare il cinema, le immagini devono anche essere lasciate morire per mantenere il loro valore autentico e essere ricordate nel loro colore originale. Buona visione. The last command Nel 1928, Joseph von Sternberg produce "The Last Command", un film basato su un aneddoto di Ernst Lubitsch. Lubitsch, maestro del cinema, passò con successo dal muto al sonoro, utilizzando la parola come un'economia di immagini. In contrasto, von Sternberg complicò il potere visivo del cinema, facendo in modo che l'immagine avesse la stessa complessità del discorso verbale. Il film inizia su un set hollywoodiano e si sviluppa in un flashback che narra la storia di un generale russo pre-rivoluzionario. La parte storica è stilisticamente più pesante e iperbolica, mentre le scene sul set sono più realistiche. Il film termina con la morte dell'attore protagonista, che muore simbolicamente due volte: nel racconto e sul set, in un gioco di ruoli tra servo e padrone. La scena finale svela la macchina da presa, mostrando il set e sottolineando la natura illusoria del cinema. Questo mette in luce come il cinema non possa mai pienamente rendere conto della propria finzione senza negarla. Sternberg avrebbe probabilmente apprezzato l'era dei videoclip elettronici, dove la finzione può essere ulteriormente esplorata e manipolata. La riflessione si conclude con l'idea che tutti siamo attori in un gioco di finzione che ci coinvolge profondamente. Buona visione. Fuori orario pasolini Pasolini, sospeso tra la profezia e il martirio omosessuale, rischiava di essere ridotto a un semplice interprete della realtà del dopoguerra italiano. Considerava il cinema come "semiologia della realtà", una forma di linguaggio autonomo e anticipatore. La sua coscienza disperata riconosceva il cinema come un iceberg, con la parte visibile sempre piccola e sfuggente. Pasolini, selvaggio nel linguaggio ma colto culturalmente, investiva significati complessi nelle immagini, ma si scontrava con l'inevitabile automaticità del cinema. Il suo film definitivo, "Salò o le 120 giornate di Sodoma", rappresenta un'apocalisse fredda. Pasolini è paragonabile a Beckett e Burroughs per il tentativo di fondere carne e letteratura, creando una percezione di uomo mutante. La scelta di Totò, emblema di un cinema cinico e mutante, sottolinea la sua forza culturale. Pasolini, più utile come fantasma che oltrepassa la fragilità del cinema, rimane un autore che ha cercato di competere con la potenza visiva del cinema. profonde, portando lo spettatore a riflettere sull'essenza delle cose attraverso una visione concreta e diretta. Violent Cop "Violent Cop" è il primo film di Takeshi Kitano, un noto comico giapponese e autore di pamphlet, che si è affermato come regista di un cinema pulp e intenso. Kitano, che inizialmente doveva solo recitare nel film, ha assunto la regia e creato un'opera con uno stile visivo sorprendente e un'ambientazione che mescola il western con l'urbanità. Il film esplora una violenza corporea e astratta, e Kitano emerge come una figura enigmatica nel panorama cinematografico. Il suo stile combina ferocia e tenerezza, creando un cinema unico che ha continuato a sviluppare in altri film come "Sonatine". Masculin Féminin "Masculin Féminin" di Godard esplora la compresenza dei linguaggi e delle parole in una generazione, quella dei figli di Marx e della Coca-Cola. Il titolo viene utilizzato per una notte dedicata all'ambiguità sessuale nel cinema, un tema che il cinema celebra con forza a differenza del teatro. Film come "Glen or Glenda" di Ed Wood, noto per il suo travestitismo, esemplificano questa ambiguità. Wood, con il suo cinema di serie Z, distrugge le convenzioni narrative tradizionali, invitando il pubblico a co-costruire il film. La notte si conclude con una riflessione sull'ossessione della differenza sessuale e su come il cinema possa turbare profondamente il pubblico, come dimostrato dal recente "Madame Butterfly" di David Cronenberg. Passion. Le travail et l’amour "Passioni" è una soap opera italiana trasmessa su una rete Fininvest, che esplora tematiche come lavoro, amore, carriere e sentimenti. In parallelo, viene presentato "Passion", un film di Jean-Luc Godard che, nel suo sottotitolo "Le travail et l'amour" (Il lavoro e l'amore), riflette la complessità delle soap opera, trattando anch'esso temi come lavoro, amore e passione. Godard, attraverso una narrazione frammentata, mostra la complessità del cinema, dove ogni scelta narrativa è un atto morale. Il suo film si distingue per la fusione di immagini e suoni, rendendo ogni fotogramma una composizione visiva intricata. "Scénario de Passion", un video realizzato da Godard dopo il film, enfatizza la sceneggiatura come un processo continuo, rivelando la natura intrinseca del cinema come arte in perenne evoluzione. Cinema fermo? "Scarlet Street" di Fritz Lang, noto per il suo titolo evocativo che richiama il peccato e la passione, è un film che esplora la complessità del crimine e del denaro come tematiche centrali. Lang, nel ruolo di attore in "Il disprezzo" di Jean-Luc Godard, si confronta con la nozione del fuori campo come spazio di azione criminale. Il film tratta il concetto di autore nell'arte, mostrando come l'identità possa essere fluida e manipolata. Edward G. Robinson, nel ruolo principale, rappresenta l'artista che vende la sua opera, evidenziando il tema della passione nell'arte e nel cinema di Lang, caratterizzati da una struttura chiusa e geometrica. "Scarlet Street" introduce una programmazione notturna dedicata ai rapporti tra cinema e pittura, esplorando opere di Paradjanov, Straub-Huillet e Godard, che utilizzano la pittura come ispirazione per rivoluzionare il concetto di cinema e movimento. King Vidor e il cuore capitale King Vidor, che quest'anno compie cent'anni, è celebrato per i suoi film che riflettono l'età del cinema stesso. Spesso considerato un narratore classico del cinema americano, Vidor è in realtà un innovatore che esplora le contraddizioni della vita e della società. I suoi film, come "Il molto onorevole Mr. Pulbam", "L'uomo venuto da lontano", "La folla" e "Street Scene", mostrano individui che si confrontano con forze sociali più grandi di loro. "La fonte meravigliosa", con Gary Cooper, rappresenta un'ulteriore esplorazione delle tensioni tra individualità e società. Vidor, attraverso le sue opere, mostra come il cinema possa essere una forma di resistenza e sperimentazione, incarnando un cinema "bigger than life" che sfida le convenzioni sociali e cinematografiche. La sua carriera iniziò con la ripresa di un ciclone a Galveston, simbolizzando il suo impegno a catturare la forza del cinema come mezzo di espressione e trasformazione. Ghezzi - Debord Il testo esamina il ruolo del cinema nel rendere visibile ciò che è invisibile, focalizzandosi sull'atto di non vedere. Con il cinema, per la prima volta, l'uomo ha potuto vedersi con gli occhi chiusi, dormiente o sognante, un’esperienza inedita rispetto alla pittura o alla fotografia. Questo concetto si estende all'idea che il cinema accelera il movimento del mondo e lo rende familiare, già visto. Si menzionano registi come Duchamp e Warhol, che hanno esplorato il tema della visione e del non-vedere, con un riferimento particolare a Kubrick e al suo "Eyes Wide Shut", che allude alla possibilità cinematografica di rivedersi con gli occhi chiusi. Si parla anche di registi come Sokurov, Monteiro e Carpenter, che hanno affrontato il punto di vista del morto o del fantasma. Guy Debord è citato come il primo cineasta a filmare non solo l'invisibile, ma il concetto stesso di filmare l'invisibile, soprattutto nel suo primo film, che utilizza l'assenza di immagini per creare un effetto paradossale di trionfo dell'immagine. Questo è paragonato al "Citizen Kane" di Welles, ma visto come il suo opposto. La pubblicazione italiana delle opere cinematografiche di Debord è stata curata da Alice Debord ed Elisabetta Sgarbi, con una retrospettiva a Venezia del 2001. Subito dopo la Mostra, l'11 settembre 2001, il mondo ha assistito alla distruzione dello skyline di Manhattan, un evento che ha reso evidente la fragilità delle immagini spettacolari. L'autore, Enrico Ghezzi, riflette sull'incompletezza della messa in onda di queste opere su Rai 3, sottolineando come il cinema di Debord sfida la distinzione tra realtà e immagine, vita vera e falsa, e si inserisce in un contesto di lotta contro la separazione e la malinconia del riconoscimento. Debord è visto come un pensatore e un cineasta che agisce attraverso il cinema, dissolvendo il progetto nel momento stesso della sua realizzazione. Il cinema di Debord, con la sua capacità di trasmettere e autorizzare se stesso, rappresenta una sfida costante all'immagine e al suo godimento, giocando con il dualismo tra occhi aperti e chiusi, in un continuo braccio di ferro tra visione e invisibilità. Paura e desiderio Alla memoria (dello scrivere di cinema) La descrizione si apre con l'immagine di un uomo in camicia bianca, forse nel deserto o in una prateria desolata, che cammina verso di noi con una sella in mano. Man mano che si avvicina, si rivela essere l'attore Paul Newman. Una voce fuori campo lo interroga, facendogli alzare le mani mentre lui guarda verso l'alto, schermandosi dal sole. Questa scena, sebbene i dettagli sfuggano, è ricordata come la prima immagine significativa del cinema di Arthur Penn, un'icona di isolamento che emerge dal nulla, diventa chiara e poi si confonde di nuovo. Il testo riflette sull'evoluzione della critica cinematografica e sulla democratizzazione dell'accesso ai film. Una volta limitata a pochi privilegiati con moviole costose, oggi chiunque può rivedere i film facilmente grazie ai videoregistratori e alle cassette. Questo cambiamento solleva interrogativi sulla necessità della critica tradizionale, che aspirava alla dignità delle critiche letterarie e artistiche ma era spesso ostacolata dalla difficoltà di accedere ai testi. La critica cinematografica ha sempre cercato di definire e nobilitare la qualità della propria mediazione, confrontandosi con le ambiguità intrinseche dei film. Tuttavia, la possibilità di vedere e rivedere i film a casa potrebbe minare l'autorità tradizionale della critica, poiché tutti possono accedere e studiare i film come fanno i critici. La critica sopravvive come istituzione, ma deve confrontarsi con un pubblico che ora ha accesso diretto ai testi e può formarsi opinioni autonome. La centralità dell'autore nel giudizio critico è messa in discussione, e il testo filmico diventa un feticcio in un contesto dove la visione condivisa rende meno rilevanti le esclusività critiche. Il testo esplora l'idea che i nuovi modi di circolazione e riproduzione dei film, come la televisione e il videotape, abbiano avvicinato i film agli spettatori, mettendo in crisi il ruolo tradizionale del critico cinematografico. La critica si trova a confrontarsi con testi frammentati e aperti a manipolazioni, riflettendo una libertà "nuova" nei confronti dei film stessi, che sembrano sempre più rielaborabili e meno definiti. In sintesi, il testo riflette su come la democratizzazione dell'accesso ai film stia trasformando la critica cinematografica, mettendo in discussione la sua autorità e spingendola a confrontarsi con un pubblico più autonomo e informato. Voglio la testa di Garcia Il testo discute i temi centrali e l'evoluzione stilistica nei film di Sam Peckinpah, concentrandosi principalmente su "Pat Garrett & Billy the Kid" e "Bring Me the Head of Alfredo Garcia". Originariamente, "Pat Garrett & Billy the Kid" doveva essere narrato dal punto di vista di Pat Garrett, che sarebbe stato ucciso all'inizio del film, ma le modifiche della produzione hanno cambiato questa visione. In "Bring Me the Head of Alfredo Garcia", la testa di un morto diventa il centro narrativo, simile a un Graal Il testo discute il metodo di analisi cinematografica di Rossellini, sottolineando una scelta deliberata di rinunciare all'uso della moviola e all'analisi dettagliata delle singole sequenze, per favorire invece una comprensione più ampia e spontanea del suo cinema. Si evidenzia come le inquadrature di Rossellini, spesso considerate trascurate o affrettate, risultino invece memorabili e profondamente influenti senza ricorrere a un montaggio elaborato. Si riflette sul dibattito intorno al "realismo" di Rossellini, sottolineando che la sua specificità sta nel rendere disturbante ciò che di solito passa inosservato, non attraverso artifici espressionistici o eccessi di realtà, ma tramite una visione che rifiuta il controllo totale del materiale filmico. Questo approccio lo distingue dai registi che cercano un controllo completo sulla significazione del film. La "televisione" di Rossellini viene intesa come un'anticipazione del suo modo di vedere lontano e di sperimentare, già evidente nei suoi film degli anni '50. Il suo cinema non è riconoscibile nei singoli fotogrammi, ma nel modo in cui gestisce i tempi e la durata delle inquadrature, piuttosto che nella costruzione figurativa. Rossellini rifiuta di preparare un oggetto-cinema già costruito e difeso, accettando la casualità e lavorando su di essa. Questo gli permette di realizzare opere uniche come "Europa 51" e "La paura", che sfuggono alla categorizzazione tradizionale e risultano difficili da analizzare con metodi convenzionali. In sintesi, il cinema di Rossellini è descritto come un sogno che si offre allo spettatore, un cinema che sogna il reale senza voler essere un sogno o una realtà imposta. Cinema a pezzi Steven Spielberg ha recentemente "ripreso in mano" il suo film "Incontri ravvicinati del terzo tipo", un grande successo di tre anni fa, per creare una "Special Edition". Questa versione include una dozzina di minuti sostituiti e alcune nuove scene aggiunte, utilizzando sia materiale scartato del 1977 sia scene girate ex novo. La "Special Edition" è già disponibile negli Stati Uniti e arriverà presto anche da noi. Questo intervento di Spielberg è sorprendente, considerando la sua marginalità e secondarietà apparente, poiché introduce nel cinema moderno l'arte del ritocco, un'idea che sembrava dimenticata. Questo fenomeno si inserisce in un contesto più ampio degli anni '80, in cui si osserva un cambiamento nel modo in cui il testo filmico viene trattato. Fino ad oggi, le modifiche ai film erano spesso imposte da enti produttivi o censori, e il cinema ha sempre dimostrato la capacità di sublimare tali interventi nelle visioni pubbliche. Tuttavia, ora sembra emergere una tendenza dove gli stessi autori, specialmente i registi-produttori americani come Spielberg, Coppola e Lucas, prendono in mano la revisione dei loro lavori, anche dopo la loro pubblicazione. Questo porta a una riflessione sulla stabilità del testo filmico e sulla possibilità di continui cambiamenti e adattamenti, influenzati dalle reazioni del pubblico e dalle esigenze di mercato. Spielberg, con la sua "Edizione Speciale", ha modificato il finale del film, evidenziando una nuova fase in cui il cinema non è più un prodotto finito, ma un'opera in continua evoluzione, riflettendo un potere e una responsabilità aumentati per i registi- produttori. Questo fenomeno segna un allontanamento dalla concezione tradizionale del film come testo narrativo chiuso, aprendo la strada a nuove forme di fruizione e manipolazione da parte del pubblico e dell'industria. Davanti alla macchina da presa non ci sarà più “qualcosa” da riprendere. Il cinema muore di effetti speciali Il cinema, come definito dal dizionario Devoto-Oli, è un'arte basata sul trucco, o artificio, per creare effetti illusori. Ogni operazione di ripresa o montaggio cinematografico rappresenta un trucco. Bazin ha dimostrato che il cinema instaura un effetto di realtà attraverso la riproduzione tecnica di immagini in movimento, consentendo diverse forme di illusioni e manipolazioni visive. Gli spettatori possono riconoscere i vari gradi di finzione, anche se i corpi umani sullo schermo restano moralmente "intoccabili". Gli effetti speciali hanno fatto grandi progressi, con il corpo umano al centro dell'attenzione. Film come "Berlin Alexanderplatz" e "The Empire Strikes Back" esplorano i limiti dell'illusione cinematografica. Il cinema contemporaneo si interroga sulla distinzione tra realtà e finzione, con tecniche sempre più sofisticate che sfumano i confini tra il reale e l'illusorio. La produzione di immagini completamente simulate tramite calcolatori è una possibilità futura, spingendo il cinema verso un'iporealtà dove il confine tra realtà e illusione diventa sempre più indistinguibile. L’incantesimo della copia imperfetta In un'aula universitaria a Padova, la proiezione di "2001: Odissea nello spazio" in superotto trasforma l'esperienza cinematografica, facendo apparire il film come un documento d'epoca. La copia imperfetta del film evoca una visione primitiva e affascinante, diversa dall'originale perfetto di Kubrick. Questo esempio sottolinea come il cinema, nonostante gli sforzi per preservare le opere nella loro forma originale, sia soggetto a continue modifiche e reinterpretazioni. La produzione cinematografica è inevitabilmente influenzata da fattori economici e temporali, rendendo ogni copia un caso particolare nell'evoluzione dell'opera. La televisione e le nuove tecnologie di riproduzione modificano ulteriormente i film, spesso accorciandoli o alterandoli. La memoria del cinema è quindi frammentata e in continua evoluzione, con ogni copia che porta con sé una versione diversa dell'opera. Questa dinamica sottolinea la fragilità del testo cinematografico e l'importanza del contesto culturale nella visione e interpretazione dei film. Fog: cinema nella nebbia John Carpenter nel film "The Fog" usa la nebbia come un protagonista atmosferico per celare le carenze di realismo e coerenza narrativa, mantenendo il fascino onirico e artificioso tipico del suo stile. La nebbia copre la debolezza psicologica dei personaggi e la mancanza di verosimiglianza, utilizzando citazioni cinefile e riferimenti mitici per creare un'atmosfera affascinante e misteriosa. La storia, pur fantastica e leggendaria, si svolge in un tempo e spazio ben definiti, riflettendo la tendenza di Carpenter a situare il suo cinema in un contesto mitico e a-realistico, dove l'importanza della forma visiva supera quella dei contenuti di genere. Alien: lo spazio, l’interno, il cancro Stanley Kubrick ha ridefinito il genere della fantascienza con "2001: Odissea nello spazio", rendendolo più realistico e concentrato sull'ambiente interno dell'astronave piuttosto che su mondi fantastici. Questo approccio, simile a un poliziesco o documentario, ha influenzato successivi film come "Black Hole" e "Alien" di Ridley Scott, che esplorano il tema dell'intrusione all'interno di un'astronave. Scott evita l'introspezione kubrickiana, concentrandosi invece su una minuziosa messa in scena di una minaccia interna, simile a un cancro, che distrugge progressivamente l'equipaggio e l'astronave stessa, trasformando l'avventura fantascientifica in una metafora del deterioramento fisico. Buchi, trucchi: il verosimile onirico e la “televisione” di Alfred Hitchcock L'articolo esplora il cinema di Hitchcock attraverso una conversazione basata su ricordi di scene piuttosto che su una rigorosa analisi dei film. Viene evidenziata la qualità onirica delle immagini hitchcockiane, caratterizzate da una meticolosa preparazione e una significazione immediata. Hitchcock è descritto come un cineasta che evita il sapere profondo o nascosto, concentrandosi sulla superficie visiva e sull'immediatezza delle sue sequenze. Il suo cinema, democratico e non autoritario, offre una visione che include il pubblico in un'esperienza visiva comune, evitando la complessità e la totalità tipiche di altri autori come De Palma o Demme. Scanners, struttura della paura. L’incubo di sentirsi ascoltati Il nuovo film di David Cronenberg, "Videodrome", conferma il regista come un cineasta moderno grazie alla scelta di temi e trame contemporanei. In precedenza, con "Scanners", Cronenberg aveva esplorato il concetto di individui con potenti capacità telepatiche e il loro impatto sulla psiche e sul corpo umano. In "Videodrome", Cronenberg continua a indagare il corpo come luogo dell'orrore e della narrazione cinematografica. La violenza e gli effetti speciali sono centrali, creando tensione e paura costanti. L'approccio di Cronenberg è meno raffinato ma più diretto rispetto ad altri registi come De Palma, focalizzandosi sulle strutture della paura e sull'uso del corpo come veicolo narrativo principale. Rolling Godard simpatia per il diavolo Nel contesto di un ufficio Rai, viene proposto l'acquisto di "Sympathy for the Devil", un film di Jean-Luc Godard del 1968, erroneamente ricordato come datato 1974. Il film è una rappresentazione straordinaria del rock e dei Rolling Stones, catturando l'energia e la frammentazione del genere musicale. Le riprese in studio mostrano la creazione della canzone "Sympathy for the Devil" e includono scene di attivismo politico, pornografia e interviste, unendo musica e commento sociale. Il film offre una visione unica del rock come somma di singoli elementi, con una particolare attenzione alla dinamica del gruppo, specialmente tra Mick Jagger e Keith Richards. Godard utilizza una tecnica di ripresa continua per rivelare i dettagli della produzione musicale, rendendo il film un'importante testimonianza del processo creativo dei Rolling Stones. Specchio per il corpo senza radici La filosofia di Deleuze prende spunto da una frase di Hume, suggerendo che il pensiero potrebbe essere generato in modo organico, come la vegetazione, invece che solo tramite l'attività tecnica dell'uomo. Questo concetto di proliferazione organica e combinatoria caratterizza tutti i suoi lavori, rompendo e superando continuamente i sistemi precedenti. Negli anni '70, con Guattari, Deleuze sviluppa l'idea del rizoma, un modello che privilegia la connessione e l'espansione orizzontale piuttosto che la radice singola. Il cinema diventa un riferimento costante per Deleuze, offrendo una piattaforma ideale per il suo pensiero che si espande senza confini definiti. Deleuze vede il cinema come una forma d'arte che rispecchia la struttura del suo pensiero filosofico, fatto di frammenti e connessioni multiple. La sua analisi del cinema è una sorta di tassonomia delle immagini e dei segni, che si configura come una storia del tempo e delle immagini in movimento. Questo approccio non è tanto una teoria, ma un modo di parlare il cinema, esplorandone il movimento e la durata in modo diretto e coinvolgente. The changing man "Zelig" è un film unico nel panorama cinematografico di Woody Allen, capace di svelare l'essenza del suo cinema in modo nudo e crudo. Questo film non è più cinematografico degli altri, ma rappresenta un'alternativa radicale, spostando il focus dal profilmico (la comicità tipica di Allen) al metafilmico. La narrazione di "Zelig" va oltre il semplice film, configurandosi come un progetto geniale ma incompleto, che sembra non trovare una forma definitiva o una durata adeguata. Allen, attraverso "Zelig", esplora la mutevolezza delle identità e delle forme cinematografiche, evocando riferimenti culturali e storici che arricchiscono la trama e offrono uno spunto di riflessione sulla natura del cinema stesso. Il film si pone in continuità con altre opere ambiziose come "Shining" e "The Elephant Man", pur soffrendo la costrizione della misura hollywoodiana del lungometraggio. L’oriente è verde Nel film "Furyo", Nagisa Oshima si immerge nel colore verde, evocando un'atmosfera di ambiguità e desiderio. Questa scelta cromatica ricorda "Querelle" di Fassbinder, ma mentre quest'ultimo si concentra su una teatralità ossessiva, "Furyo" mantiene una libertà di movimenti e un'umanità più sfumata e incerta. Il film, ambientato in un campo di prigionia, è meno chiuso e più inquietante, esplorando desideri oscuri e dinamiche di potere. Oshima, che aveva precedentemente evitato il verde nei suoi film, qui lo abbraccia, creando un'opera che si confronta con la realtà e la sua rappresentazione cinematografica. "Furyo" è un film complesso e intellettualmente provocante, che sfida le convenzioni del genere e riflette sull'integralità dell'immersione cinematografica. Pro-memoria per un oblio L'estratto esamina il tema del cinema attraverso una lente complessa e stratificata, con un focus su "Citizen Kane" di Orson Welles. L'autore discute come il film esplora l'immagine e il mito attraverso l'idea della rottura: per comprendere o raccontare un sogno, bisogna svegliarsi o tradirlo. La sequenza iniziale di "Citizen Kane", con la palla di vetro che cade e si infrange, simboleggia la rottura di un'immagine mitica, suggerendo che solo infrangendo l'involucro possiamo tentare di raccontare la vera essenza, che è il nulla. Si esplora poi il cinema della Nouvelle Vague, analizzando come registi come Godard, Truffaut e altri abbiano attraversato e reinterpretato il cinema americano. La loro relazione con il cinema americano è descritta come una storia d'amore complessa, piena di fraintendimenti e desideri. La Nouvelle Vague ha preso ispirazione da registi americani, ma ha anche cercato di creare un proprio stile distintivo. La distanza tra i cineasti della Nouvelle Vague e il cinema americano è percepita come una fonte di ispirazione e conflitto. L'autore osserva come i cineasti della Nouvelle Vague abbiano cercato di costruire la propria memoria cinematografica, spesso in reazione a ciò che non amavano del cinema europeo tradizionale. Anche se il cinema americano è stato una fonte di ispirazione, non è mai stato un rapporto di semplice filiazione, ma piuttosto di scoperta e reinvenzione. Il testo conclude riflettendo sull'evoluzione del cinema, riconoscendo come la Nouvelle Vague, pur essendo ormai storia, continui a influenzare e dialogare con il cinema contemporaneo. Il grande sonno Il testo racconta la vicenda di un autore isolato in campagna, che ha dimenticato l'ultimo numero della rivista "Il Falcone Maltese". L'autore ricorda i tempi in cui scriveva per la rivista, negli anni '70, con particolare nostalgia per un suo articolo chiamato "Il fantarazzo", che combinava il regista Matarazzo con la fantascienza. Il ricordo del lavoro sulla rivista è collegato a un periodo di fervente attività creativa, discussioni e sperimentazioni con altri collaboratori, tra cui Carlo Bocci, Marco Giusti e altri. Si discuteva di cinema e si producevano contenuti in un clima di amicizia e passione, sebbene con alcune difficoltà economiche e organizzative. In quei tempi, la rivista stava cercando una nuova periodicità e modalità di pubblicazione, passando anche alla stampa in offset, più costosa. Gli autori sperimentavano con l'anonimato per mettere in risalto le differenze stilistiche tra i vari contributori. Nonostante la disomogeneità, erano uniti da una passione condivisa per il cinema, che discutevano ovunque, dagli autobus ai telefoni. Il numero successivo della rivista, dopo uno particolarmente teorico e significativo, non fu mai pubblicato a causa di problemi finanziari e organizzativi, ma era rimasto importante per il gruppo. Si evoca una scena culturale vivace e dinamica, con l'autore che riflette sulla nostalgia per quei tempi, in cui il cinema e la scrittura rappresentavano un campo di sperimentazione continua e di fervente scambio intellettuale. L'ultimo numero in preparazione, contenente l'articolo "Il fantarazzo", andò perduto in un'alluvione, il che lo rendeva una sorta di cimelio mai pubblicato, ma comunque significativo per l'autore e i suoi colleghi. Miracle Worker Il testo analizza la visione cinematografica non in termini di rappresentazione di realtà ma come un processo che avviene internamente al soggetto. Contrappone l'approccio di David Lynch, che abbraccia l'incertezza e la distorsione nella visione, a quello di altri registi visionari come Kubrick, Boorman, Herzog e Tarkovskij, i quali invece cercano di spingere l'occhio dello spettatore oltre i limiti convenzionali per mostrare nuove prospettive. Lynch, con il suo lavoro su "Dune" e altre opere, crea un'esperienza cinematografica che non chiude il discorso ma lo amplifica e lo disturba, riflettendo su un mondo caotico e misterioso. Questa visione è presentata come una sfida al tradizionale voyeurismo del cinema, spostando l'attenzione dall'oggetto visto alla complessità della percezione stessa. Vite d’azzardo a L.A. Il testo descrive un inseguimento frenetico tra poliziotti senza divise, indistinguibili dagli inseguiti, in cui le differenze tra le parti diventano irrilevanti. Utilizzando rari teleobiettivi, il film di William Friedkin ("Vivere e morire a Los Angeles") offre una visione che fonde primo e secondo piano, creando una superficie unica e ricca di dettagli visivi. Il protagonista William Petersen, chiamato Chance, si muove in un mondo dominato dal denaro falso, e la sua ossessione lo conduce a una morte inevitabile. Il film esplora il sottile confine tra legalità e illegalità, utilizzando un montaggio dinamico e una colonna sonora moderna per intensificare l'esperienza visiva. Friedkin crea un mondo dove le linee tra bene e male, polizia e criminali, si confondono, culminando in un finale che evidenzia l'ambiguità e la complessità della vita. La Magnifica Ossessione - a posteriori Il testo riflette su "La magnifica ossessione", un programma televisivo che si estende per oltre quaranta ore, senza essere mai concluso o completamente manifestato. A Salso, si propone un "resto" di questo programma, non come scarto, ma come ciò che rimane e continua a esistere. Questo programma recupera frammenti televisivi contaminati dal cinema, creando un magazzino di contenuti incompiuti. L'autore descrive l'incertezza e la complessità della programmazione, con confusione tra lingue e segmenti mancanti. "La magnifica ossessione" sfida le convenzioni televisive, mescolando cinema e TV, e ponendo domande sulla durata e l'essenza del cinema stesso. A Salso, si cerca di colmare le lacune, continuando l'esperimento con nuove aggiunte e recuperi, dimostrando che il progetto è ancora vivo e in evoluzione. Spostamenti L'autore si sente estraneo e marginalizzato nel processo produttivo, privo di un ruolo chiaro come produttore o regista, e descritto come un consulente vago. Egli osserva come la televisione sia dominata da un'economia politica del tempo e del desiderio, momento di alta tensione emotiva, con personaggi che sembrano emergere da un sogno, e per il suo approccio stilistico unico che mescola tragedia e farsa. Dal grande al piccolo schermo Il testo esplora l'impatto delle videocassette (VHS) sulla fruizione del cinema, descrivendole come oggetti d'arte minimali che rendono i film accessibili a casa. Il VHS permette la distribuzione e la visione privata dei film, alterando l'esperienza cinematografica tradizionale della sala. Nonostante i difetti come la bassa definizione e l’erosione della durata, le videocassette offrono nuove possibilità di visione e manipolazione dei film. Si discute anche del fenomeno del restauro e della colorizzazione dei film classici, evidenziando come la videocassetta abbia democratizzato l’accesso alla storia del cinema. La diffusione dei VHS ha cambiato la relazione tra spettatore e film, permettendo una forma di possesso e di cura personale dei testi cinematografici. Senza schermi Il testo riflette sulla trasformazione del cinema attraverso l’uso delle videocassette e la distribuzione domestica. La videocassetta ha modificato profondamente l’esperienza cinematografica, integrandosi con la televisione e aprendo nuove modalità di fruizione e manipolazione dei film. La possibilità di vedere e rivedere i film a casa ha portato a una riformulazione dei testi filmici e ha alimentato un mercato di edizioni critiche e restauri. La videocassetta rappresenta un ponte tra il passato del cinema e il futuro dell’interattività e della realtà virtuale, influenzando la percezione del tempo e dello spazio nei film. L'autore conclude che il cinema, anche nella forma della videocassetta, è parte del continuo processo di evoluzione tecnologica e culturale, che riflette le trasformazioni della società stessa. All work and no play Il testo esplora la relazione complessa e spesso contraddittoria tra cinema e sogno, citando autori come Jean Vigo e Henri Langlois. Vigo percepisce il cinema come qualcosa di distante dal sogno, benché lo catturi. Langlois, invece, vede il cinema come una forma d'arte che sfugge alle limitazioni di formato. Il cinema è descritto come un'arte che intrappola il presente in un'immagine definita e compatta, ma che, nonostante ciò, è sempre in movimento, in evoluzione, inafferrabile come un sogno. L'autore riflette anche sulla scrittura cinematografica come un atto di memoria, dove il processo di scrittura e filmare sono atti di continua citazione e ripresa, immergendosi in una dimensione atemporale. La televisione è vista come un medium che tenta di prendere il posto del cinema, ma con risultati limitati. La riflessione finale riguarda la natura stessa dell'immagine filmica e il suo rapporto con la realtà, suggerendo che il cinema, come la vita, è un continuo gioco tra realtà e finzione, tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. Stravedere Il testo discute l'impatto del cinema e di altre innovazioni tecnologiche del 1895 (come la radio e i raggi X) sulla percezione del tempo e dello spazio. L'invenzione dei fratelli Lumière è vista come una catastrofe che altera la distinzione tra vita e morte, amore e odio, rendendo tutto simultaneo e interconnesso. Il cinema trasforma il mondo da ornamento della gloria divina a uno specchio per l'uomo. La visione cinematografica è descritta come una tensione tra immagine e visione, rendendo impossibile vedere la realtà in modo lineare. La storia dell'arte viene reinterpretata come una serie di fotogrammi fissi, un cinema immobile, mentre la televisione completa il cinema portandolo fuori dalla storia in un flusso continuo di immagini. Il tempo viene così agglutinato in una visione simultanea di migliaia di immagini, creando un senso di eternità istantanea. Questo processo di visione continua e inarrestabile rende impossibile cogliere veramente il tempo, trasformando la nostra percezione della realtà e del virtuale. Fine della durata Il testo riflette sull'impatto e sull'eredità di Guy Debord, intellettuale e teorico della "Società dello spettacolo", in seguito alla sua morte. L'autore inizia esprimendo un senso di inganno alla notizia della morte di Debord, paragonandola alla sospetta scomparsa di Moana Pozzi. Debord, afflitto da una malattia debilitante, si è probabilmente suicidato, ponendo fine alla propria esistenza. La sua opera del 1967, "La società dello spettacolo", denunciava il capitalismo come una macchina che aliena la vita reale, trasformandola in una rappresentazione spettacolare e superficiale. Il testo enfatizza la profeticità dell'opera di Debord, che aveva già denunciato la perdita di autenticità nella vita quotidiana. Debord, con la sua analisi radicale, aveva svelato il funzionamento del potere come invisibile e segreto, lontano dalla comprensione comune. L'autore sottolinea la rilevanza continua del pensiero di Debord, particolarmente in un'epoca in cui il potere politico appare sempre più illusorio e inerte. La morte di Debord suscita una riflessione sull'amore per la vita, visto come una nostalgia per qualcosa di mai realmente avvenuto ma profondamente desiderato. L'autore conclude con un'analisi del presente, confrontando l'eredità intellettuale di Debord con le esperienze contemporanee, come il pentimento di Carlo Freccero riguardo al suo coinvolgimento nel mondo televisivo. Il testo termina con una riflessione sul conflitto interiore e la lotta per mantenere l'autenticità in un mondo dominato dall'illusione e dal controllo. Di(s)soluzioni e dissolvenze.. Il brano affronta la complessità e le sfide della critica cinematografica, ponendo una riflessione profonda sulla natura del testo cinematografico e il ruolo del critico. Inizia osservando come i testi cinematografici non siano completamente accessibili ai critici nelle stesse condizioni materiali e temporali in cui lo sono per il pubblico, costringendo così il critico a narrare e analizzare un testo sempre passato e già trasformato dalla memoria e dall'esperienza personale. Il testo prosegue evidenziando le difficoltà storiche nel conservare e trascrivere film, rendendo arduo il compito di costruire una "storia del cinema". Questo vincolo è stato spesso ignorato, sostituendo il debito verso la storia della propria visione con un carico di dati e informazioni sul film stesso. Il cinema, infatti, richiede di essere visto per essere capito, e la memoria visiva è fondamentale. Adriano Apra, citato nel testo, sostiene che la critica cinematografica più influente oggi si fa in televisione, con Beniamino Placido come esempio di critico che, pur avendo visto meno film, riesce a comunicare efficacemente grazie alla sua acutezza e persuasività. La critica cinematografica, dunque, è descritta come un campo dove tutti si possono autorizzare a parlare, dato che il cinema è accessibile sia a chi vede mille film all'anno sia a chi va al cinema una volta al mese. Il cinema è presentato come un mezzo espressivo privo di specificità intrinseca, capace di essere vissuto in mille modi diversi, riflettendo la varietà della vita stessa. Il testo esplora poi l'evoluzione della critica cinematografica nell'era della televisione e della videoregistrazione, dove l'accesso ai testi cinematografici è diventato più facile per tutti, non solo per i critici. Questa democratizzazione dell'accesso ai film delegittima la figura del critico cinematografico tradizionale, che non ha più il monopolio della conoscenza e della memoria dei film. L'autore conclude con una riflessione sulla dissoluzione delle gerarchie tradizionali tra spettatore, critico e autore. In un contesto in cui il cinema è frammentato e disperso, la critica cinematografica deve adattarsi a nuovi metodi di analisi e approccio ai testi, affrontando la sfida di mantenere la rilevanza in un panorama mediatico sempre più complesso e sfaccettato. Montaggio intertestuale e forme contemporanee del riuso nel cinema contemporaneo (Brenez) I. Il riuso Il riuso è una pratica onnipresente nella storia dell'arte, particolarmente nel cinema, che si manifesta in due forme principali: 1. Riuso intertestuale:  Definizione: Consiste nell'imitazione di un'opera originale nella sua interezza o in alcuni suoi aspetti.  Esempi:  Excursion dans la lune (1909) di Segundo de Chomon, rifacimento del film di Méliès del 1902.  Psycho (1999) di Gus Van Sant, reinterpretazione del film di Hitchcock del 1960.  Prototipi: Specialmente presente nei film di Hitchcock, dove registi come Van Sant cercano uno stato amorfo del riuso, mentre Brian DePalma esplora dimensioni latenti e estensive del film originale. 2. Riciclo:  Variazione analitica: Studio plastico differenziale, come in "Tom Tom the Piper's Son" di Ken Jacobs.  Sintesi di montaggio alternato e variazione analitica: Riflessione sulla dimensione storica delle immagini, come nei lavori di Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi. Un'opera monumentale che sintetizza questi usi è "Tom Tom the Piper's Son" di Ken Jacobs, che combina elegia, critica, analisi strutturale e materiologica. Alcuni film importanti nel contesto del found footage sono oggi scomparsi, come "Photogénie mécanique" di Jean Grémillon e "Le Monde en parade" di Eugen Deslaw. Il mezzo è l’aria Enrico Ghezzi esordisce esprimendo il suo scetticismo riguardo alla comunicazione moderna. Sottolinea come, nella vita quotidiana, ci si scontri frequentemente con comunicazioni insoddisfacenti e mancanti. Questo deficit non è solo un problema di quantità, ma anche di qualità: la comunicazione moderna spesso si rivela superficiale e artificiale. Un esempio lampante è il Festival di Sanremo, un evento che non comunica nulla di sostanziale ma che riesce a coinvolgere milioni di spettatori, creando un senso di comunità. Ghezzi approfondisce l'esempio del Festival di Sanremo, definendolo un fenomeno potentemente interattivo e un grande evento comunitario. Nonostante la sua apparente vacuità, Sanremo è un'occasione per la collettività di sentirsi unita. L'evento non riguarda tanto le canzoni o la musica, ma piuttosto la partecipazione di massa, che diventa una sorta di rituale contemporaneo. Questa partecipazione collettiva ha una valenza religiosa e nichilistica, rappresentando un'alternativa alla rete telematica. Ghezzi critica le promesse non mantenute della tecnologia, in particolare riguardo alla comunicazione istantanea. Nonostante le tecnologie moderne come i computer e Internet, la comunicazione digitale spesso delude le aspettative di velocità e immediatezza. Egli paragona l'attesa di risposte digitali alla ricerca tradizionale in biblioteca, evidenziando come le promesse di istantaneità si scontrino con la realtà di tempi di attesa che risultano insopportabili. Il testo si arricchisce di riflessioni filosofiche, con citazioni di autori come Thoreau e Kafka. Thoreau si interrogava sull'utilità della velocità nelle comunicazioni, mentre Kafka rifletteva sull'impossibilità di completare anche le azioni più semplici nel breve tempo della vita. Queste riflessioni mettono in luce la tensione tra il desiderio di velocità e la complessità della comunicazione umana. Ghezzi esplora la natura della televisione e del cinema come mezzi di comunicazione. Egli critica il fatto che le immagini televisive e cinematografiche siano scarsamente percorribili e manipolabili. La comunicazione per immagini è diventata dominante, ma la sua effettiva comprensione e manipolazione rimangono limitate. La proliferazione di immagini sintetiche e la manipolazione digitale pongono nuovi problemi etici e legali, sollevando dubbi sulla veridicità e sull'autenticità delle immagini. Ghezzi introduce il programma televisivo "Blob", da lui ideato, come esempio di critica e riflessione sulla comunicazione e la televisione. "Blob" utilizza frammenti di trasmissioni televisive montati in modo da creare associazioni nuove e spesso ironiche. Il programma smonta e rimonta la realtà televisiva, offrendo uno sguardo critico e dissacrante sui contenuti e sui messaggi veicolati dai media. Attraverso questo collage di immagini, "Blob" invita gli spettatori a riflettere sulla manipolazione delle informazioni e sulla costruzione della realtà operata dalla televisione. Guardando al futuro, Ghezzi prevede che la comunicazione sarà sempre più influenzata dalla realtà virtuale e dalla manipolazione delle immagini. Tecnologie come la realtà virtuale e i videotelefoni rivoluzioneranno il modo in cui interagiamo con le immagini, permettendoci di avere esperienze più immersive e interattive. Tuttavia, questa evoluzione solleva anche interrogativi riguardanti la natura della realtà e il nostro rapporto con essa. In conclusione, Enrico Ghezzi offre una riflessione critica e complessa sulla comunicazione moderna. Egli mette in discussione l'efficacia e l'autenticità della comunicazione di massa, esplorando le sue contraddizioni e le sue implicazioni filosofiche. La tecnologia, pur promettendo velocità e immediatezza, spesso non riesce a mantenere queste promesse, lasciandoci in un limbo di attese e frustrazioni. La televisione e il cinema, con la loro proliferazione di immagini, rappresentano un nuovo orizzonte di comunicazione che però rimane difficile da decifrare e manipolare completamente. Il programma "Blob" emerge come un tentativo di decostruire e criticare la comunicazione televisiva, stimolando una riflessione più profonda sui media e la realtà che essi rappresentano. Ghezzi si rifà alle teorie situazioniste di Guy Debord, secondo cui la società contemporanea è caratterizzata da un'immensa accumulazione di spettacoli. Le immagini, pur essendo parte integrante del mondo, possiedono un potere misterioso che può illuderci, manipolarci, e rappresentare la realtà in modo distorto. La loro manipolabilità permette di inventare storie attorno a esse, cambiando il loro significato e utilizzo. Ghezzi sottolinea come le immagini siano limitate nel tempo e nello spazio, mentre la nostra esperienza del mondo è continua e senza interruzioni. Questo crea una scissione tra il mondo reale e le sue rappresentazioni visive. Il montaggio, secondo Ghezzi, è un'operazione meccanica fondamentale nella storia del cinema. Riferendosi ai teorici sovietici come Ejzenstejn e Vertov, afferma che il montaggio è il passaggio da una sezione spaziale a un'altra e che il vero potere del montaggio risiede nella sua capacità di aprire infinite possibilità narrative. Durante il processo di montaggio, il tecnico deve abbandonarsi alle immagini, sfruttando il potere di modificarle, interromperle e torturarle, creando così un'illusione di creatività. Negli anni '70, dopo l'esperimento di Tele Biella, le piccole televisioni via etere pullulavano di individui che creavano una televisione "di grado zero", improvvisata e continua. Questo fenomeno rifletteva la necessità di riempire il palinsesto a tutte le ore. Ghezzi critica la mancanza di una televisione aperta e continua, come la CNN o Videomusic, che sarebbero concettualmente più avanzate. Tuttavia, egli sostiene che la televisione, essendo già stata completamente sperimentata, dovrebbe dissolversi. Il cinema in televisione diventa automaticamente immagine televisiva. Ghezzi vede il grande cinema in TV come un momento importante, poiché la televisione cambia il rapporto di grandezza tra spettatore e immagine, rendendolo più intimo e colloquiale. Egli rifiuta l'idea di un linguaggio separato per il cinema e la televisione, vedendo invece un linguaggio indeterminato e ampio dell'immagine. Questo linguaggio è influenzato dalla consapevolezza di essere sempre in un set virtuale, che modifica il modo di comunicare e di percepire la realtà. La televisione ha la capacità di comunicare incessantemente, ma questo comporta un accesso difficile e limitato. Ghezzi argomenta che comunicare fa male, e in un certo senso, il male fa comunicare. La mancanza stessa è ciò che spinge alla comunicazione. La televisione, essendo la parodia di se stessa, riflette una comunicazione distorta che si estende anche alle relazioni personali, rivelando una perversione intrinseca nella comunicazione di massa. Periodi che non tornano Ghezzi riflette sulla difficoltà di comunicare, evidenziando come le parole e i pensieri siano spesso incompleti e temporanei. La paura di esprimersi in modo parziale e frammentario è centrale nel suo discorso, così come il timore che ciò che si è detto venga perso nel tempo. Egli usa la metafora dei "periodi che non tornano" per descrivere queste espressioni incomplete e mai definitivamente recuperabili, come labirinti di pensieri lasciati in sospeso. La paura si manifesta anche nel timore di essere parodici o inadeguati, portando a una continua autocritica e incertezza. La televisione è descritta come una piazza vuota, un luogo dove il traffico politico- economico non riesce a intaccare il quadro antropologico rappresentato. Ghezzi osserva che la TV italiana, anche in un momento specifico come il 27 ottobre 1997, è ricca di segnali che mostrano quanto sia già cambiata e sfugga alla nostra comprensione. La televisione sembra allontanarsi senza mai essere stata completamente raggiunta o vissuta, un fenomeno che evoca il rischio di essere espropriati del suo significato da tecnici e politici. Ghezzi parla della morte di Lady Diana (Lady D.) come un evento televisivo che si ripete in un ciclo perfetto di spettacolo. Questo evento, insieme ad altri come la morte di Versace e Madre Teresa, rappresenta la necessità di una religiosità "soft" e new age, contrapposta all'integralismo. La televisione diventa un luogo di nostalgia per l'autenticità perduta, un mezzo che riflette il desiderio di qualcosa di più reale ma che si allontana sempre di più dalla nostra esperienza diretta. La televisione è vista come un mezzo in continua evoluzione, che si fonde con il virtuale e il telematico. Ghezzi descrive la TV come un sistema tecnico-spettacolare che diventa sempre più simile a un'illusione spaziale, un cosmo allucinatorio simile a una bottiglia di Moebius dove tutto si perde e si ritrova continuamente. La TV, nonostante la sua natura sfuggente, permette ancora di percepire una mancanza del reale, un vuoto che il virtuale non potrà mai colmare completamente. Ghezzi conclude che la televisione rappresenta un paradosso: è onnipresente eppure sempre insufficiente, un mezzo che permette di vedere tutto ma allo stesso tempo di non comunicare nulla. La TV diventa un simbolo della nostra incapacità di raggiungere una vera comunione o comunità, un sacramento vuoto che non può essere amministrato da nessuno. La vera essenza della televisione è il suo essere un vuoto che non possiamo mai completamente riempire o comprendere, un medium che ci lascia sempre desiderare di più. Blob
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