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Riassunti dettagliati dei capitoli 4-5-8 del Manuale., Schemi e mappe concettuali di Geografia Economica

"Geografia Economica. Mercati, imprese, ambiente e le sfide del mondo contemporaneo" di Francesco Dini, Patrizia Romei, Filippo Randelli.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2019/2020

Caricato il 29/05/2023

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Scarica Riassunti dettagliati dei capitoli 4-5-8 del Manuale. e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Geografia Economica solo su Docsity! Geografia Economica. Mercati, imprese, ambiente e le sfide del mondo contemporaneo. Capitolo 4. La geoeconomia delle risorse 4.1 Le risorse: concetti, definizioni e tipologie Le risorse sono un aspetto fondamentale della Geografia economica e delle attività produttive in generale. Il termine “risorsa” racchiude una pluralità di significati (in quanto spazia dalle risorse naturali alle risorse umane, al patrimonio storico ed artistico fino alle risorse immateriali dell’informazione e delle comunicazioni): in economia infatti le risorse, assumono un valore di mercato nel momento in cui vengono impiegate nel processo produttivo, entrando così in gioco il rapporto tra domanda e disponibilità delle risorse. L’ uso delle risorse energetiche ambientali è rimasto stabile fino all’avvento dell’industrializzazione, periodo in cui la domanda di materie prime in Occidente, ha iniziato a crescere sempre di più ed è stata soddisfatta con le importazioni dai Paesi del Sud del mondo. Il reale salto nel consumo di risorse naturali è avvenuto dalla metà del ‘900 con la spinta della crescita demografica e dell’affermarsi della società dei consumi di massa. → In ogni sistema economico l’uso delle risorse è finalizzato alla realizzazione del modello di sviluppo dominante ed il sistema dei prezzi assegna il valore alle risorse. Se invece di massimizzare i rendimenti, puntassimo ad uno sviluppo sostenibile, le risorse sarebbero utilizzate per migliorare l’efficienza economica. Seguendo il criterio dei limiti delle risorse, una prima macro-distinzione da fare è quella tra risorse materiali e risorse immateriali. 1. Le risorse materiali incontrano il limite ecosistemico sia nei consumi sia nella capacità di rigenerazione. Seguono una distribuzione legata alle diverse caratteristiche ecosistemiche. 2. Le risorse immateriali invece tendono ad accumularsi nel corso della storia umana e sono principalmente illimitate (es. tecnologia, cultura ecc…). Fino agli anni ’70 dominava il paradigma dell’economia neoclassica: essa vedeva le risorse come tendenzialmente illimitate postulandone la perfetta sostituibilità, così da adottare una concezione statica dell’ecosistema. Questa visione escludeva a priori gli effetti e le conseguenze delle interazioni fra il sistema economico e il sistema ecologico. Con l’emergere della questione ambientale e del nuovo paradigma dello sviluppo sostenibile, si affermarono nuove ipotesi secondo cui l’ambiente è soggetto ad alterazioni. Le modifiche dell’ambiente non sono più di scala locale o nazionale, ma sono diventate globali; dietro alle ipotesi degli economisti-ecologisti c’è una concezione sistemica e dinamica che sancisce: 1 a. l’economia è un sub-sistema aperto, inserito in un ecosistema chiuso; b. le risorse non sono perfettamente sostituibili. Herman Daly sostiene che finora abbiamo considerato il capitale naturale come un bene illimitato, ma ciò è una valutazione antieconomica. All’interno delle risorse materiali si distingue tra risorse a base naturale (biotiche o abiotiche) e risorse sociali. L’insieme delle risorse a base naturale può essere considerato il capitale naturale che ogni generazione può utilizzare per le attività di produzione che a loro volta dipendono dal livello tecnologico raggiunto e dai modelli di consumo adottati dalle società in ogni epoca storica. Le risorse naturali abiotiche o materie prime minerarie, possono essere considerate come uno stick che rappresenta l’intera quantità delle materie prime esistenti e utili per le attività socio-economiche, per questo si parla di risorse limitate o non rinnovabili. Tali risorse sono composte dalle fonti energetiche fossili (carbone, petrolio, gas) e dai minerali metallici (ferro, rame, zinco) e non metallici (argilla, pietre, zolfo); esse costituiscono la base essenziale di ogni attività produttiva. Le risorse naturali biotiche costituiscono la base biologica, sono caratterizzate dalla capacità di rigenerarsi, per questo motivo sono definite rinnovabili. Quindi, quand’è che una materia prima diventa una risorsa? Sono le condizioni tecnico-economiche, i cicli economici, il grado di sviluppo e le politiche che “creano” le risorse. Esse sono quindi un concetto dinamico che varia al mutare dello sviluppo tecnologico, dei nuovi bisogni e dei consumi delle persone. Quindi, la trasformazione da materia prima a risorsa è totalmente reversibile. In economia, possiamo definire “risorse naturali” quella parte di materie che viene utilizzata nel processo produttivo, che dipende dalle interazioni di almeno 3 fattori: 1. Il livello di conoscenza scientifica e tecnologica raggiunto dalle società nel corso del tempo; 2. L’organizzazione territoriale ed economica esistente; 3. Il livello dei prezzi delle risorse. Le riserve costituiscono un sottoinsieme delle risorse disponibili determinate di volta in volta dalla situazione economica, dalla tecnologia e dalle scelte politiche di ogni Paese. → Le risorse sono parte delle materie esistenti nell’ecosistema terrestre, la trasformazione da materia a risorsa è un processo dinamico nel tempo, è reversibile e dipende dal livello di sviluppo tecnologico delle società. → Le riserve, invece, sono parte delle risorse che, in base a considerazioni e a scelte politiche e/o economiche, non vengono estratte. Per stimare le dimensioni delle riserve occorre conoscere un insieme di variabili: 2 questi motivi i paesi utilizzano i combustibili fossili, l’energia cinetica proveniente dall’acqua e dal vento e anche l’energia atomica per ottenere l’energia elettrica necessaria per far funzionare il sistema economico globale. L’estrazione, la distribuzione e la produzione di elettricità dalle risorse fossili ha trasformato i processi produttivi, meccanizzando e innovando l’industria, l’agricoltura, i servizi e il commercio. Dal punto di vista geoeconomico, la produzione e il consumo energetico si presentano profondamente differenziati su scala globale: la domanda di energia si è evoluta seguendo criteri diversi a seconda del grado di sviluppo economico raggiunto. Un consistente contributo alla crescita del fabbisogno energetico globale proviene dalla Cina e dagli Stati Uniti che sono al primo e al secondo posto per quantità prodotta e per livelli di consumo energetico. → L’energia è il motore non soltanto dell’economia, ma dell’intera società mondiale, il consumo viene utilizzato come indicatore della crescita economica e dello sviluppo sociale. Attualmente il consumo di energia globale si presenta ancora fortemente alimentato dalle risorse esauribili fossili, la loro estrazione e raffinazione copre oltre 85% del consumo energetico mondiale. 4.2.1 La transizione energetica I combustibili fossili si formano in particolari condizioni geo-fisiche attraverso lente alterazioni della biomassa terrestre,. Le società preindustriali utilizzavano come fonti energetiche l’acqua, il vento e il legname, oltre al lavoro umano e animale; ma dalla rivoluzione industriale in poi vi è stata una progressiva sostituzione delle risorse e delle fonti energetiche rinnovabili con quelle non rinnovabili (carbone, idrocarburi). Le moderne società industriali, infatti, dipendono dalla continua e crescente estrazione di risorse fossili non rinnovabili. → Per transizione energetica si intende il passaggio da una fonte energetica ad un’altra, la precondizione per avviare questo cambiamento è l’incremento della domanda di energia che spesso dipende dall’aumento demografico. Le fasi di passaggio hanno portato profondi cambiamenti nel sistema produttivo e nel sistema sociale poiché ad ogni fonte energetica dominante, corrisponde un modello di crescita economica, di produzione, di consumo e di tecnologia. L’attuale modello di sviluppo economico è caratterizzato dalla produzione industriale, dal consumo di massa, dalla globalizzazione delle reti di trasporto, dall’espansione urbana. Le grandi trasformazioni della società sono state quasi sempre precedute da nuovi modi di produrre e consumare energia. Le statistiche mostrano la rapida crescita dell’estrazione e del consumo di combustibili fossili dagli inizi dell’Ottocento ad oggi, crescita trainata prima dal carbone e poi dal petrolio. In parallelo procede anche la crescita 5 delle emissioni inquinanti dei gas effetto serra che alterano il clima. Quando le fonti energetiche fossili bruciano, ossidano il carbonio e producono anidride carbonica. In tutto ciò, il gas naturale è la fonte energetica fossile che inquina di meno. Uno dei modi più rapidi per ridurre le emissioni di gas effetto serra è quello di ridurre il consumo energetico, migliorando l’efficienza in termini di risparmio energetico nei vari settori produttivi e nelle famiglie; altre azioni possono essere la riqualificazione energetica delle abitazioni e il riciclo. I cambiamenti climatici e l’allarme lanciato da tempo dall’IPCC indicano che la direzione da seguire è quella della progressiva decarbonizzazione dell’economia. 4.3 Le risorse energetiche fossili Le fonti energetiche esauribili comprendono i minerali combustibili come il carbone, il petrolio, il gas, l’uranio e il torio ( per l’energia nucleare). I combustibili fossili e l’elettricità hanno trasformato il mondo con l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la globalizzazione dei mercati creando reti e interdipendenze geo-economiche sempre più complesse. 4.3.1 Il carbone e il gas naturale Il carbone è un combustibile solido che deriva dalla trasformazione e decomposizione dei resti di antiche foreste fossili, è composto da carbonio, idrogeno e ossigeno; per la sua formazione occorrono milioni di anni. L’uso del carbone risale all’antichità, ma la crescita esponenziale dell’attività estrattiva è iniziata nel XIX secolo. Il carbone viene utilizzato come materia prima anche nel settore siderurgico, per la produzione di ghisa e acciaio e dalle industrie chimiche. Le risorse e le riserve mondiali di carbone sono piuttosto consistenti e sono distribuite nelle regioni temperate del mondo nell’emisfero settentrionale. Il gas naturale è composto da idrocarburi (composti organici che contengono carbonio e idrogeno) gassosi formatisi in milioni di anni, i più utilizzati sono il metano e l’elio. Fino ad oggi il gas naturale è stata l’ultima fonte fossile ad essere utilizzata per produrre energia, la sua estrazione e produzione ha avuto inizio verso la fine degli anni ‘70, il suo impiego massiccio si è accompagnato alla costruzione di gasdotti che possono essere terrestri o nei fondali marini. Il crescente consumo di gas è stata una risposta alla continua domanda di prodotti energetici a scala globale. Il gas naturale è il combustibile fossile che inquina di meno a parità di resa energetica. In Europa l’approvvigionamento di gas naturale arriva dall’Algeria, dalla Libia, dalla Russia e dal Mare del Nord. La geografia dei luoghi di estrazione e di consumo è dominata da pochi paesi tra cui USA, Cina, Iran, Giappone e Canada; i principali paesi produttori sono anche i principali paesi consumatori di carbone. 6 4.3.2 Il petrolio Il petrolio è un insieme di sostanze naturali che si trovano associate in natura alle rocce sedimentarie e derivano dalla trasformazione e decomposizione di sostanze organiche, esso è una miscela di idrocarburi liquidi e il suo utilizzo pratico è antichissimo poiché veniva utilizzato come impermeabilizzante per le imbarcazioni e per le strade. L’estrazione del petrolio iniziò verso la fine dell’Ottocento, il primo pozzo petrolifero fu quello in Pennsylvania nel 1859, poi in Texas e in California, seguiti da Iran, Iraq, Messico, Venezuela e Siberia. La crescente domanda di petrolio ha contribuito all’introduzione delle innovazioni nell’industria, l’avvento dell’automobile nei dei trasporti, ed inoltre, la domanda ha contribuito a far diventare il petrolio la fonte energetica dominante dal ‘900 ad oggi. Infatti, ancora oggi, il petrolio rappresenta la principale fonte di energia mondiale, anche se il consumo ha iniziato a ridursi lentamente dal 1973 (primo anno dello shock petrolifero) a differenza del ritmo di estrazione e produzione che continua comunque ad aumentare. La risorsa del petrolio è distribuita in maniera disomogenea tra i paesi del mondo, pertanto è necessario distinguere tra: 1. i luoghi di estrazione e produzione; 2. le reti di distribuzione (terrestri o marittime); 3. i luoghi di consumo. I più importanti luoghi di estrazione e produzione su scala globale sono: 1. Stati Uniti: l’estrazione petrolifera è concentrata in alcuni stati come il Texas, New Mexico, Alaska. Dopo anni di rallentamento grazie alla nuova tecnica estrattiva dello shale oil, la produzione americana è sensibilmente aumentata. 2. Medio Oriente: Arabia Saudita, Iran, Iraq, Emirati Arabi Uniti. 3. Russia: principalmente localizzati in Siberia. 4. America Latina: con il Venezuela, il Brasile e il Messico. 5. Africa: Nigeria, Algeria, Angola e Libia. 6. Europa: con scarsi giacimenti petroliferi, la maggior parte sono off-shore e situati nel mare del Nord (Norvegia e Inghilterra). L’offerta dei prodotti energetici è determinata dal prezzo di mercato e per quanto riguarda il petrolio da fine anni ‘80 è il petrolio europeo, denominato Brent, a servire da riferimento totale; l’altra tipologia di petrolio è quello americano, denominato WTI. Il prezzo del petrolio risente di molteplici fattori: l’andamento della domanda, incertezza e rischi geopolitici, invenzioni e innovazioni tecnologiche, speculazioni finanziarie e conflitti. Durante gli anni ‘70 vi furono due shock petroliferi mondiali: il primo nel 1970-1971, fu causato da un insieme di crisi delle multinazionali petrolifere dell’epoca e per l’azione dell’OPEC, nato nel ‘60 come cartello dei Paesi produttori di petrolio per regolare la produzione e il prezzo. Il secondo shock fu verso la fine del 1978 con la rivoluzione iraniana 7 É utile considerare i difetti tecnici delle risorse rinnovabili: 1. Il primo deriva dal fatto che le risorse rinnovabili hanno bisogno di ampi spazi per produrre gli elevati livelli di energia di cui abbiamo bisogno. Questo limite può venir meno, però, se si considera che ogni territorio ha un proprio potenziale energetico locale da rinnovabili e la produzione potrebbe avvenire in piccoli impianti direttamente sul luogo di consumo. 2. Il secondo dell’energia rinnovabile è che la sua produzione si manifesta in modo intermittente nel tempo a causa della variabilità giornaliera, stagionale e climatica della fonte primaria che è il sole. Di questo difetto soffrono meno l’idroelettrico e la biomassa, esso può comunque essere risolto diversificando le fonti e migliorando le capacità di accumulo, oggi limitate e costose. 3. Il terzo limite deriva dal fatto che le rinnovabili più promettenti producono direttamente energia elettrica, ma rimane scoperto il settore dei trasporti che oggi è il principale responsabile delle emissioni di gas climalteranti. L’ostacolo che ha ostacolato finora lo sviluppo delle rinnovabili è stato il loro costo di produzione che non poteva competere con una risorsa come il petrolio. L’aumento del prezzo greggio ha aperto scenari nuovi per le fonti di energia rinnovabile, che oggi iniziano ad essere competitive anche sui costi. Oggi è quindi necessario avere una reale alternativa al dominio dei combustibili fossili, sia per risolvere i problemi ambientali, che per continuare in futuro ad avere larga disponibilità di energia a costi contenuti. Alcuni ritengono che l’idrogeno sia il migliore sostituto del petrolio, anche per le implicazioni che potrà avere sul settore dei trasporti. 4.5.1 Energia eolica L’energia eolica è una fonte rinnovabile che utilizza l’energia cinetica del vento convertendola in energia che può essere utilizzata per la produzione di energia elettrica prodotta grazie agli aerogeneratori che possono essere di piccola, media, grande o grandissima taglia. Un impianto eolico tipico è costituito dalla wind-farm composta da aerogeneratori disposti sui crinali delle colline, collegati a una linea che li raccorda alla rete locale e nazionale. Un’altra tipologia è quella offshore, cioè costruita in mare, essa rappresenta un’utile sostituzione per i Paesi costieri densamente popolati. La Danimarca nel 2017 ha stabilito un nuovo record (43,7%) di copertura del proprio fabbisogno di energia elettrica con l’eolico. Occorrono appositi studi per individuare le aree più adatte allo sfruttamento di questa fonte energetica, massimizzando i rendimenti degli impianti. La potenza eolica installata nel mondo è cresciuta in modo accelerato negli ultimi anni, gli stati con la maggior potenza eolica installata nel 2017 sono: Cina,Stati Uniti, Germania, India, Spagna, UK. L’Italia nel 2017 aveva una capacità di energia eolica installata pari a 9,7 GW e una produzione annua che rappresentava il 5,2% del fabbisogno nazionale di energia elettrica. 10 4.5.2 Energia solare termica Il solare termico è una tecnologia usata da decenni per la produzione di acqua calda a fini sanitari, riscaldamento, essiccazione, sterilizzazione, dissalazione e cottura cibi. Esistono due tipi di riscaldamento ad energia solare: 1. Riscaldamento a energia solare passiva: gli edifici possono essere utilizzati come collettori (camera solare), l’aria che viene scaldata dal sole può essere evacuata dalla camera solare e può poi essere utilizzata per il riscaldamento dell’ambiente. 2. Riscaldamento a energia solare attiva: il calore assorbito dal collettore solare può essere utilizzato per riscaldare acqua potabile e per il riscaldamento dell’ambiente o della pavimentazione. Il solare termico attivo è oggi una realtà estremamente vantaggiosa e si può coprire circa il 70% del fabbisogno di acqua calda sanitaria di una famiglia, i collettori solari termici vanno però considerati integrativi rispetto alle tecnologie tradizionali capaci di fornire direttamente solo parte dell’energia necessari all’utenza. L’impianto di maggiore potenza, il Solana Generation Station, è entrato in servizio nel 2013 in Spagna ed ha una potenza di 280 MW. 4.5.3 Energia fotovoltaica La radiazione solare può essere convertita direttamente in energia elettrica sfruttando l’effetto fotoelettrico-fotovoltaico nei materiali semiconduttori. I raggi solari vengono catturati da dispositivi elettrici che provvedono a trasformare l’energia luminosa direttamente in potenza elettrica. L’invenzione delle celle fotovoltaiche risale al XIX, ma il suo utilizzo si ha solo con lo sviluppo della fisica dello stato solido e con l’introduzione del modello a bande dei semiconduttori. Quando una cella fotovoltaica è esposta alla luce, i fotoni che possiedono energia sufficiente sono capaci di generare cariche che danno luogo ad una corrente elettrica. La tecnologia più collaudata è quella a base di silicio, che è presente in tutte le rocce e quindi largamente disponibile. Il silicio deve essere purificato e trasformato, ed è un processo costoso, anche se si è assistito ad una riduzione del 50% negli ultimi 10 anni. Gli incrementi più elevati nella potenza installata sono stati quelli del Giappone, Stati Uniti e Germania, grazie ai programmi di incentivazione statali; il paese però che ha il maggiore incremento è la Cina questo grazie alla diminuzione del prezzo di vendita dei pannelli e un’efficace politica di incentivazione con premi di produzione. In Italia l’Enel ha installato diverse centrali fotovoltaiche, il mercato ha vissuto un forte rallentamento fino al 2006, che si è ripreso a partire dal 2008, oggi l’Italia è il quinto paese per capacità installata ed il quarto se si considera la capacità pro capite. I pannelli fotovoltaici non hanno impatti negativi sull’ambiente ad esclusione della fase di produzione delle celle in cui si utilizzano materie prime e alla fine del ciclo di vita del prodotto con lo 11 smaltimento dei prodotti utilizzati, nella fase di esercizio infatti non si registra alcun impatto se non quello visivo. I limiti allo sviluppo di massa di questo dispositivo sono oggi solamente gli eccessivi costi di produzione, anche se è da mettere in evidenza una forte diminuzione nel corso degli ultimi anni. 4.5.4 Energia da biomassa La radiazione solare dà luogo ad un processo di trasformazione dell’energia luminosa in energia chimica. L’energia chimica delle piante viene accumulata in esse sotto forma di composti chimici del carbonio, sostanza determinante in questo processo è la clorofilla. Da qui si capisce l’elevato valore ambientale, che oltre a produrre biomassa per l’alimentazione, elimina parte dell’anidride carbonica nell’atmosfera e la trasforma in ossigeno. L’energia chimica prodotta dalle piante può essere trasformata al fine di produrre energia, i possibili utilizzi a fini energetici della biomassa possono essere due: 1. combustione per la produzione di energia termica ed elettrica; 2. trasformazione industriale per la produzione di combustibili liquidi e gassosi. Fino a metà dell’Ottocento, le biomasse fornivano la quasi totalità dell’energia utilizzata nel mondo; dopo un periodo il cui uso a fini energetici era stato accantonato, oggi con gli elevati costi dei combustibili fossili e il rischio del loro esaurimento, la biomassa è tornata ad essere una valida alternativa alle fonti convenzionali. 4.5.5 La produzione di biocarburanti La materia vegetale può essere modificata chimicamente mediante processi industriali al fine di ricavare combustibili liquidi e gassosi (biodiesel, bioetanolo e gas metano). Il biodiesel ha origini vegetali ed è in grado di sostituire il diesel di origine petrolifera; il bioetanolo è un combustibile liquido raffinato con un elevato contenuto energetico sempre di origine vegetale, esso può essere utilizzato come additivo al gasolio (5-10%), miscela nelle benzine (10-85%) o sostituto delle benzine (100%). Con l’innalzamento del prezzo del petrolio, la produzione di biocarburanti è stata incentivata, tuttavia la trasformazione di prodotti agricoli in biocarburanti ha creato delle tensioni sui mercati dei prodotti alimentari oltre ad aumentare la deforestazione soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Per tale motivo non è pensabile sostituire i carburanti fossili con i biocarburanti. Diverse sono le prospettive se si trasformano biomasse in esubero in grandi quantità oppure in materiali di scarto come gli olii esausti. 12 legato ovviamente alla crescita demografica e alla parallela espansione dell’agricoltura, così come dell’industria e delle altre attività economiche. Nel corso del Novecento la popolazione mondiale è poco più che triplicata mentre il consumo di acqua dolce è sestuplicato. Pur essendo una risorsa rinnovabile l’acqua dolce è scarsa in molte aree del mondo, soprattutto nelle aree abitate e urbanizzate, la situazione è aggravata dall’intensificarsi di fenomeni come l’inquinamento delle falde acquifere e la loro salinizzazione che sono sempre più frequenti. La distribuzione ineguale dell’acqua disegna una geografia dove il continente americano è quello più ricco di risorse idriche seguito dall’Asia, l’Europa e l’Africa. I paesi con scarsità idrica sono quelli del Nord Africa, Africa Subsahariana e Medio Oriente. Nel valutare il fabbisogno idrico occorre tenere in considerazione prima di tutto la pressione demografica, ma anche il livello di sviluppo economico e il grado di urbanizzazione giocano un ruolo determinante nelle dinamiche dei consumi di acqua di un Paese del mondo. Senza dimenticare che se la disponibilità di acqua sulla terra è rimasta invariata, sono comunque aumentati i consumi, un valido indicatore per misurare il volume di acqua necessario per produrre beni e servizi della popolazione è l’impronta idrica proposta da Hoekstra che considera le caratteristiche quantitative e qualitative del consumo in un bacino idrologico. Si divide in due componenti: 1. l’impronta idrica della produzione, cioè il volume complessivo di acqua prelevata dalle risorse idriche nazionali utilizzato per produrre beni e servizi; 2. l’impronta idrica totale dei consumi che comprende il volume totale di acqua impiegato per produrre beni e servizi effettivamente consumati all’interno del Paese. Le strategie e le azioni politiche per aumentare la disponibilità idrica sono: a) desalinizzare, una scelta adottata da molti Paesi mediorientali piuttosto costosa; b) attingere dagli acquiferi fossili profondi; c) costruire canali per trasportare l’acqua su lunghe distanze; d) rigenerare le acque reflue; e) ridurre gli sprechi e le perdite di acqua. Oggi lo stress idrico si estende e si aggrava rapidamente colpendo vaste aree del mondo e interi Paesi alle prese con fenomeni difficili da gestire come la siccità e la desertificazione e i cambiamenti climatici, ma anche con l’andamento del consumo e il peggioramento della quantità dei bacini idrici legato all’impiego di pesticidi, fertilizzanti e prodotti chimici con conseguenze sugli ecosistemi e sulla popolazione intera. Oltre alla distribuzione non omogenea delle risorse idriche a scala globale altre cause possono concorre a determinare una crisi idrica ad esempio la cattiva gestione, gli sprechi, l’inquinamento, le guerre e la crescita demografica. Si stima in più che ogni giorno nel mondo vengono scaricate nei corpi idrici circa 2 milioni di tonnellate di rifiuti spesso non trattati. 15 Le alterazioni provocate dagli eccessivi prelievi idrici possono avere ripercussioni molto gravi; le conseguenze dell’inquinamento idrico sono sempre più numerose, come il fenomeno delle piogge acide che bruciano le foglie degli alberi a causa della presenza nell’acqua di sostanze acide derivanti dal consumo crescente di combustibile fossile e dalle attività umane. Oltre ai danni diretti all’ecosistema, vi sono danni per la salute umana legati ai livelli di tossicità degli alimenti coltivati, agli edifici e al patrimonio storico-artistico, che può essere corroso dall’acido solforico. Ma anche negli oceani l’inquinamento ha assunto dimensioni globali e preoccupanti; plastica e sostanze sintetiche contaminano gli oceani e alterano la catena alimentare, la maggior parte della plastica scaricata in mare proviene dai fiumi. A questi ritmi si stima che entro il 2050 l’insieme della plastica presente nei mari sarà superiore a quello dei pesci, i prodotti di plastica monouso che utilizziamo comunemente e le reti da pesca rappresentano il 70% dei rifiuti marini. I problemi causati riguardano anzitutto la saluta umana e poi anche i costi ambientali ed economici. 4.8 Le foreste e i servizi ecosistemici Le foreste offrono servizi ecosistemici vitali; i vantaggi e i benefici che gli essere umani ottengono dagli ecosistemi vegetali sono molteplici: utilizzano i prodotti come regolatori della qualità dall’aria, dei cicli idrologici, dell’erosione, del clima e come beni immateriali. In breve, i servizi ecosistemici contengono la dimensione economica, ambientale e sociale, i tre principi ordinatori dello sviluppo sostenibile. Boschi e foreste sono ecosistemi complessi colmi di biodiversità. Oggi le foreste coprono circa il 31% della superficie terrestre, ma sono in continua diminuzione a causa del disboscamento motivato da un insieme convergente di esigenze economiche: estendere gli ettari coltivabili (colture agricole); commercio del legname; materia prima per numerose attività industriali. É anche vero che il taglio degli alberi fa parte della storia dell’umanità e questo spiega la quasi scomparsa di foreste primigenie nel mondo. La gestione e il controllo dei boschi e delle foreste dipendono dalle scelte e dalle politiche messe in atto nei territori, la loro importanza è legata al legname che è stata la materia prima più utilizzata, necessaria per costruire abitazioni, strumenti di lavoro, mezzi di trasporto, oltre ad essere la fonte energetica dominante fino all’Ottocento. Ciò che è cambiato dalla seconda metà del secolo scorso, è il livello di pressione esercitato dalla crescita demografica sulla massa vegetale, un’intensità che si è concentrata in un arco di tempo breve mentre nello spazio è passata da impatti locali-regionali a impatti globali. La maggiore espressione è stata bilanciata dalla sensibilizzazione dell’opinione pubblica verso la protezione dell’ambiente che ha favorito il diffondersi di parchi e aree protette, che oggi coprono il 10% delle foreste e di una legislazione che tutela attivamente i boschi; infatti alla Conferenza di Rio de Janeiro è stata sottoscritta da 155 Stati la dichiarazione sulla 16 diversità biologica e sono stati enunciati i principi per la tutela delle foreste. La deforestazione legata all’attività antropica è una delle principali cause della perdita di biodiversità; le foreste svolgono un ruolo importantissimo nel cambiamento climatico, la biomassa verde immagazzina quasi la metà del carbonio attraverso la fotosintesi. L’IPCC sostiene che con la deforestazione e il conseguente cambio di uso del suolo le emissioni lorde di carbonio globale aumenteranno sensibilmente. 4.9 Le risorse demografiche La popolazione può essere considerata come una risorsa per l’intera società: per il sistema economico, in quanto forza lavoro per tutte le attività produttive e in quanto consumatori di beni e servizi prodotti; per il sistema sociale nella sua dimensione culturale; per il sistema politico. Inoltre la popolazione è alla base di ogni processo di trasformazione dell’ambiente naturale. In un territorio rappresenta uno degli elementi fondativi dello Stato assieme al territorio stesso e alle leggi. Quando la popolazione cresce in maniera più rapida, essa può esercitare pressioni sull’ecosistema, sulle risorse esauribili e rinnovabili e sul territorio. Il punto di vista geopolitico considera la popolazione un fattore fondamentale in relazione dinamica con l’economia, le istituzioni politiche interne e internazionali, i trasporti e le comunicazioni. Le condizioni ambientali e la disponibilità di spazio agricolo, la disponibilità idrica ed energetica hanno posto dei vincoli alla crescita della popolazione, rendendola dipendente dall’ambiente naturale e dalla disponibilità di risorse. Già Malthus aveva ipotizzato che la crescita demografica, se non controllata, potesse aumentare in progressione arrivando a incontrare il limite dato dalla produzione di cibo. Il dibattito tra la logica dei rendimenti crescenti e la logica contrapposta (che correla sviluppo economico e crescita demografica) rimane tuttora aperto. Infatti, le relazioni tra pressione demografica e sviluppo economico non sono lineari, la popolazione da variabile dipendente dello sviluppo economico, diventa la variabile indipendente. → Erlich sottolineava le interdipendenze tra risorse, crescita demografica e pressioni sull’ecosistema, evidenziando lo stretto legame tra popolazione, economia e ambiente e la necessità di preservare la quantità e la qualità delle risorse naturali. Nella crescita della popolazione influiscono anche le politiche demografiche adottate dai singoli paesi, volte a controllare le nascite per ridurre o aumentare la pressione demografica anche in relazione al livello di sviluppo economico raggiunto. É stato nel rapporto Brundtland Our Common Future del 1987 che i temi della popolazione, dello sviluppo economico e dell’ambiente sono stati collegati e pensati in maniera integrata e non più separata. Storicamente il ritmo di crescita demografica è stato lento e ineguale fino al ‘700, poi a partire dalla rivoluzione industriale e tecnologica, sostenuta dall’abbondante produzione energetica della seconda metà Ottocento, la crescita ha assunto ritmi più veloci alimentando una fase di espansione demografica in Europa e in Nord America e poi nel 17 sposta verso il settore secondario (terza fase), fino a quando la maggior parte della popolazione è occupata nel settore terziario (quarta fase). Mano a mano che i paesi attraversano le fasi della transizione demografica, la piramide della popolazione cambia forma, riducendo la base e quindi il peso delle classi di età giovanili a favore delle classi di età centrali. Le ultime due piramidi di età sono un modello economico industriale/post industriale, con una popolazione che vive nelle aree urbane ad alta densità. Le dinamiche geo-demografiche instaurano processi di azione-retroazione con i sistemi economici e sociali attraverso cambiamenti che riguardano: a. la domanda e l’offerta di beni e servizi; b. il livello quali-quantitativo dei consumi e degli investimenti; c. i caratteri del mercato del lavoro; d. i flussi di mobilità della popolazione. La globalizzazione attuale in parte eredita le forme di concentrazione e della mobilità del passato estendendo e accelerando i processi migratori interni e internazionali. 4.11 I flussi migratori I flussi migratori hanno fatto parte della storia dell'umanità e la motivazione di fondo rimane quella di migliorare le condizioni di vita. → Nella Dichiarazione dei Diritti Umani (1948) si afferma il diritto alla mobilità sia interna che internazionale tra vari Paesi. Si individuano due grandi tipi di migrazioni: Internazionali e interne ai singoli paesi. Il termine migranti comprende gli emigranti e gli immigrati internazionali. Le migrazioni possono essere temporanee (lavoratori stagionali), di breve (3 mesi - 1 anno) o di lungo periodo (più di anno). Un’ulteriore distinzione è quella tra migranti regolari, irregolari e rifugiati: - Regolari: sono coloro che possiedono le condizioni di ingresso vigenti nello Stato di arrivo; - Irregolari: sono coloro che non possiedono le condizioni di ingresso. - Rifugiati: sono coloro che, in base alla Convenzione di Ginevra, si trovano costretti ad abbandonare il loro paese poiché perseguitati per la razza, la religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale. - Vi sono poi i profughi costretti ad abbandonare le loro case a causa di calamità naturali o per cambiamenti climatici. 20 La gestione delle migrazioni moderne, che va dalla scoperta delle Americhe fino ad oggi, non è lineare ma è fatta di ondate migratorie ognuna con modalità specifiche diverse. 1. Il primo periodo, che inizia con la scoperta dell’America e termina all’inizio della rivoluzione industriale, viene definito come il periodo pre-industriale o mercantile delle migrazioni, poiché segnò l’inizio delle migrazioni transoceaniche dall'Ue verso i paesi coloniali. Tali migrazioni contribuirono a popolare due nuovi continenti, e insieme abbassarono la pressione demografica del Vecchio continente. 2. Il secondo periodo inizia nell’Ottocento e termina alla fine della prima guerra mondiale: l’Europa è esportatrice diretta di migranti oltre che verso le Americhe anche verso l’Oceania. L’avvio delle politiche migratorie restrittive da parte di alcuni stati, la crisi economica del ’29 e la seconda guerra mondiale fermarono i flussi migratori internazionali. 3. Nel terzo periodo il ciclo dell’emigrazione si inverte, nei Paesi europei la transizione demografica entra nella fase della maturità e la popolazione rallenta la crescita. Negli anni ’70 del ‘900 si chiude il lungo ciclo di crescita demografica e dell’emigrazione di massa. 4. Si apre un nuovo ciclo nel quale i Paesi europei sono diventati meta dei flussi migratori, passando da esportatori di manodopera a importatori. L’Italia in particolare si trasforma da paese di emigrazione a paese di immigrazione nel ’73 quando il saldo migratorio è diventato positivo. Le migrazioni hanno assunto un rilievo globale per intensità dei flussi e per gli effetti sul sistema economico e sociale dei Paesi poiché vengono coinvolti non soltanto i Paesi di partenza e quelli di arrivo ma anche i Paesi di transito lungo le rotte migratorie. Il miglioramento delle reti di trasporto e la riduzione del costo hanno ampliato i bacini di emigrazione/immigrazione anche se sono stati regolati con politiche restrittive e selettive. Negli ultimi decenni le migrazioni sono diventate una forza di cambiamento, il processo di globalizzazione e la diffusione delle reti di trasporto hanno facilitato la forte accelerazioni delle migrazioni e la loro crescente diffusione spaziale. Nelle motivazioni a emigrare si considerano sia i fattori che incidono nella decisione di lasciare il proprio paese di origine sia i fattori di attrazione che influiscono nella scelta del nuovo paese. Il fattore di attrazione prevalente era quello della richiesta di manodopera per il settore agricolo da parte dei nuovi Paesi, mentre quello di esplosione dipendeva dalla fame di terre. Nel ‘900 era stata la diffusione dell’industrializzazione a richiedere manodopera, affiancata dal settore terziario. L’esistenza di grandi divari nel livello di sviluppo continuerà ad alimentare la mobilità migratoria mondiale. In generale, le migrazioni internazionali hanno acquistato pesi nei paesi dove il saldo naturale tende a 0, la natalità è bassa e 21 l’invecchiamento avanza, il saldo migratorio positivo può allora riequilibrare il quadro demografico. Dal 1970 ad oggi i flussi migratori sono aumentati da 84,5 milioni agli attuali 271,6 milioni, un aumento decisamente rilevante,che se misurato in percentuale sulla popolazione mondiale significa un incremento dal 2,3 al 3,6%. Attualmente i principali paesi di immigrazioni sono: gli Stati Uniti, i paesi petroliferi del Golfo, Germania, Russia, Inghilterra, Francia, Canada, Australia, Italia e Spagna. Le migrazioni internazionali e le migrazioni interne, la distribuzione di primo arrivo e la redistribuzione dei migranti possono essere studiate a scala locale, regionale, nazionale e globale. Anche la mobilità agisce nel complesso sistema relazionale tra popolazione, territorio e sistema economico-sociale. Le teorie geografiche delle migrazioni sono quelle che correlano la mobilità al territorio, inteso come uno spazio organizzato, alle trasformazioni economiche e sociali. Una delle più antiche teorie sulle migrazioni è denominata push-pula (espulsione-attrazione), dove si spiegano i fattori di espulsione individuando nella scarsità di lavoro, nei bassi salari e nel basso livello dei servizi le motivazioni per emigrare. I fattori di attrazione che influiscono nella scelta dei Paesi di arrivo, caratterizzati da un sistema economico più forte, sono offerta di lavoro, salari più elevati e un maggior benessere sociale. Si tratta di una teoria che tende a semplificare i processi di fondo delle migrazioni internazionali, ma che comunque conserva la sua capacità esplicativa. La teoria centro-periferia aggiunge complessità alle migrazioni affermando che i flussi migratori intesi come forza lavoro, materie prime, il capitale e gli investimenti tendono a spostarsi dalle aree periferiche e marginali del mondo verso le aree centrali del mondo. Assume rilievo la teoria della transizione della mobilità di Zielinski che collega le migrazioni con le transizioni di fondo della popolazione. Zielinski ha proposto un modello dove il mutare delle direttrici migratorie segue e riflette le fasi di espansione, rallentamento e declino demografico dei processi di industrializzazione e del processo di urbanizzazione a scala mondiale. Nonostante le diverse tipologie di migrazioni, esse avvengono comunque simultaneamente, infatti le migrazioni dalle campagne verso le città, le migrazioni tra città piccole, medie e grandi coesistono e ancora dominano i flussi migratori interni ai singoli Paesi e internazionali. 4.12 Le risorse immateriali: informazione e comunicazione L’economia classica conosceva solo 3 fattori della produzione: la terra, il capitale e il lavoro Essi esaltavano quanto doveva essere combinato per realizzare il prodotto. Il prodotto era inaftti modesto, al contrario era molto buono se si adottavano le invezioni rese disponibili dalla rivoluzione industriale. Si inizierà così a parlare dell’importanza della tecnica, poi si conierà il termine tecnologia per designare i risultati del continuo progresso tecnico, e tutto questo verrà formalizzato in un quarto fattore della produzione, a volte definito tecnologia, a volta competenza a volte informazione. 22 restante componente biologica del pianeta che è componente essenziale di numerosi cicli naturali che ci mantengono in vita. Non c’è dubbio che il modello industriale abbia prodotto le modifiche al paesaggio e alle forme organizzative degli ecosistemi e del territorio nella storia del pianeta, ma anche quelle più rischiose provenute da una specie biologica. Queste modifiche si sono associate al miglioramento delle condizioni materiali di vita con la disponibilità di servizi prima inimmaginabili e persino con la capacità di guarire da un numero maggiore di malattie, da cui il clamoroso allungamento del tempo di vita. Con il mito del progresso si è idealizzata la certezza dell’ininterrotto miglioramento della condizione materiale umana. Questo impedirà per lungo tempo di accorgersi dei feedback negativi, dei rischi potenziali e più ancora dei limiti logici e naturali del nostro modello di sviluppo: nel migliore dei casi, essi verranno considerati come un prezzo modesto e accettabile per la modernizzazione garantita dall’industria. Una tale cecità percettiva inizia a incrinarsi negli anni ’60, quando la critica alla relazione fra sviluppo e ambiente cessa di costruire un argomento culturale di tipo elitario. Si andavano accumulando artefatti ed eventi paradigmatici di un diverso modo di leggere il modello industriale. Nel 1961 fu fondato il World Wildlife Fund (WWF), nel ’69 Friends of heart e nel ’70 Greenpeace, le prime grandi organizzazioni ambientaliste; nello stesso anno gli Stati Uniti vararono il NEPA (National Environmental Protection Act), la prima legge nazionale di tutela ambientale. La popolazione del modello sta aumentando non solo nelle aree che diventano più ricche, ma anche in quelle che non si sviluppano. Nel ’71 sarà il GATT, creato a Bretton Woods 1944 per liberalizzare il commercio internazionale, a dar vita alla commissione EMIT che avrebbe dovuto studiare gli effetti del traffico di merci sull’ambiente. (Bretton Woods → accordi commerciali e finanziari fra i paesi industrializzati). Il GATT non avrà alcun effetto pratico, ma questo è da imputare alla crisi globale, economica e politica. L’accumulo di eventi e artefatti paradigmatici fa sì che l’ambiente rientri fra gli argomenti di rilievo etico-politico e fa sì che il tema faccia il suo ingresso nell’agenda di attori. Il complesso d’insieme delle sollecitazioni produce l’iniziativa ambientale dell’ONU, che il 5 giugno 1972 convoca i Paesi del Mondo a Stoccolma per le UNCHE United Nations Conference on Human Environment, a cui rispondono 110 governi. Nel ’72 la decolonizzazione non è stata ancora terminata, la guerra fredda, l’apartheid e il rischio nucleare, portano drammatiche condizioni di sottosviluppo. I 26 Principi che rientrano nei 109 obiettivi del Piano d’azione di Stoccolma, si mostra la problematicità della strategia industriale di sfruttamento delle risorse e si indica la necessità di una profonda rielaborazione. La Conferenza mette di fatto in discussione l’intera organizzazione dell’economia mondiale, e non c’è da stupirsi che il suo output sia interlocutorio. Subito dopo la Conferenza, a seguito della guerra in Israele, i Paesi arabi trovano una coesione in sede OPEC, si accordano sulle rispettive quote di riduzione 25 dell’estrazione di greggio e ne quadruplicano il prezzo, innescando una gravissima crisi economica. La profonda crisi catalizzata dallo shock petrolifero somma con sè delicate problematiche economiche e politiche: i mercati industriali si sono bloccati e invece di produrre lavoro lo distruggono. La crisi economica e l’incapacità del mercato di fare il suo mestiere incidono con pesantezza sulla Guerra fredda, perché falsificano la promessa occidentale del crescente benessere associato al mercato e alle società aperte. La Guerra fredda entra nel suo periodo più critico e risolutivo, e i mercati industriali vengono ristrutturati per via tecnologica e organizzativa con la globalizzazione. Tutto questo ha l’effetto di sospendere per oltre un decennio il tema ambientale delle agende della politica. Così, il vero risultato di Stoccolma è l’istituzione dell’UNEP, il programma che da allora in poi ospiterà tutte le iniziative ambientali delle Nazioni Unite. 5.3 Lo sviluppo sostenibile e la sua triplice natura L’iniziativa ambientale dell’ONU riprende nell’83, quando la crisi economica entra in fase di superamento e gli Stati Uniti consolidano una diversa strategia di guerra fredda. Tutto ciò si traduce nella formazione della WCED (World Commission on Environment and Development) affidato a Brundtland. 4 anni dopo rilancia i temi di Stoccolma nel Rapporto Brundtland, individuando un triplice ordine di problemi generati dalle attività antropiche sull’ecosistema: 1. problema demografico; 2. problema energetico (emissione di gas e la crescita globale delle temperature); 3. problema politico (non esisteva alcuna figura istituzionale destinata all’ambiente). Così l’UNEP inizia i lavori per l’organizzazione di una conferenza dove questa discussione possa effettuarsi → si terrà a Rio de Janeiro nel 1992. Da qui prenderanno avvio le politiche ambientali a ogni scala, ci sarà la definizione e la promozione del concetto di sviluppo sostenibile. Oltre ad affermare la categoria di capitale naturale, ossia l’insieme delle risorse appropriabili presenti negli ecosistemi, questi studi mettevano in evidenza come le enormi asimmetrie nell’accesso alle risorse fra le varie popolazioni del mondo impedissero ogni possibile strategia di un loro intelligente utilizzo. La parte avanzata del mondo consumava ben oltre la capacità di resilienza del capitale naturale, mentre i paesi poveri del mondo altro non avevano che l’obiettivo di acquisire i livelli e i modelli di consumo del mondo avanzato; c’era quindi un gran bisogno di sviluppo, ma era indispensabile ripensarne misura e natura. Ma non era facile imporre un punto di vista così ad un mondo diseguale e affermato, era quindi necessario che l’ONU desse luogo a un’iniziativa politica associando al concetto di sviluppo l’aggettivo “sostenibile”. Il rapporto WCED si incaricò di farlo; il rapporto Brundtland diceva che “Sostenibilità è quel livello di sviluppo che si può perseguire senza 26 precludere alle generazioni future la possibilità di godere di un livello di sviluppo almeno analogo”. Lo spessore etico stava nell'equità intergenerazionale, la WCED nel formulare il concetto, non si limitò all’equità intergenerazionale, ma vi incardinò anche l’equità infragenerazionale (equità delle generazioni nel presente). Per la Commissione poteva essere sostenibile solo uno sviluppo capace di ridurre la forbice fra Paesi Ricchi e Paesi poveri, per un’esigenza sia etica sia tecnica. Per poter fare ciò era necessaria una convergenza verso modelli di produzione e consumo meno voraci e invasivi e una minor disuguaglianza distributiva → condizione necessaria per la condivisione delle strategie globali. Sotto la guida dell’UNEP si affrontava il problema del buco dell'ozono, il primo allarme venne dato nel ‘74. Nel ‘85 indicarono come responsabili gli alogenuri alchilici, gas utilizzati in numerosi processi industriali e poi rilasciati nell’atmosfera. Nel 1987 fu sottoscritto a Montreal in Canada, il protocollo di Montreal per studiare un accordo per la loro eliminazione. Era necessario che le pratiche umane non interferissero con gli equilibri dell’ecosistema e non turbassero i cicli naturali con i quali la natura ci assicura la vita. Ma dovevano esservi anche sostenibilità sociale e sostenibile economica, era necessario che le attività economiche assicurassero a tutti un’adeguata alimentazione, l’accesso all’acqua e ai principali servizi, l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria; solo avendo sostenuto questi tre requisiti lo sviluppo avrebbe potuto dirsi sostenibile. 5.4 Il Processo di Rio: dal 1992 fino ad oggi Il termine processo designa un’iniziativa che coinvolge numerosi stati e punta a ottenere un particolare obiettivo. Spesso il processo prende il nome dal luogo nel quale ha avuto inizio e questo è il caso del Processo di Rio il cui promotore è l’ONU e coinvolto nella sua totalità è l’intero sistema interstatale, con lo scopo di riconciliare l’attività umana con gli equilibri dell’ecosistema. É all’interno del processo di RIO che l’UNEP concentrerà i suoi sforzi per trasformare l’insostenibile modello che governa le attività antropiche in sviluppo sostenibile. É qui che verranno alla luce tutte le politiche ambientali che poi saranno affidate ai singoli Stati per la loro implementazione. In questo passaggio si è annidata la maggior parte delle difficoltà che hanno reso complicato e faticoso il percorso delle politiche ambientali che ha imposto il tema ambientale all’attenzione dei cittadini del mondo e lo ha iscritto nelle agende politiche dei vari Paesi. L’Unione Europea ha deciso di sostenere fortemente l’iniziativa dell’ONU e di adottarne tempestivamente le politiche, con il trattato di Maastricht nel 1992. L’Europa risentiva dei propri squilibri ambientali e aveva le risorse per farvi fronte. I cittadini europei sono ambientati a normative di notevole attenzione su uno spettro ampio di fattispecie ambientale; ma non è così nel resto del mondo. Negli Stati Uniti le politiche ambientali sono state fortemente condizionate dal dibattito politico e ultimamente hanno oscillato in coincidenza con il ciclo elettorale, venendo promosse dalle amministrazioni 27 richiamava a più obiettivi specifici, per un totale di 21. I 21 obiettivi costituivano l’attualizzazione e la ricalendarizzazione degli obiettivi inseriti dall’UNEP nell’Agenda 21 nel ‘92. Ciò non fu esaudito nella Conferenza di Johannesburg. Nella Dichiarazione del Millennio l’Onu individuò il 2015 come anno di raggiungimento degli obiettivi, in realtà il loro perseguimento ha seguito la strada come quella del Processo di Rio, incontrando ostacoli analoghi a quelli delle politiche ambientali. Per tali difficoltà, l’ONU decise di riformulare in modo più ampio gli obiettivi, sostituendoli nel 2015 con 17 SDG, che disarticolano gli obiettivi non raggiunti dell’Agenda 21 in 169 nuovi obiettivi contenuti nell’Agenda 2030, anno di scadenza pie il loro perseguimento. Mentre i MDG erano destinati ai Paesi in debito di sviluppo, i SDG pongono precisi obiettivi a tutti i Paesi della terra. 5.4.3 Le grandi Convenzioni ambientali : UNFCCC e CBD I due principali fattori di insostenibilità individuati dal Rapporto Brundtland generavano gravi problemi. La natura energivora del modello tradizionale di sviluppo e il fatto che la domanda di energia fosse soddisfatta con il ricorso a fonti inquinanti come il carbone e il petrolio stavano creando gravi minacce alla stabilità climatica e sembravano accentuare un trend di riscaldamento delle temperature medie iniziato nel XIX secolo. Questo appariva provocato dall’effetto serra, quindi dall’aumento della CO2. L’abbattimento delle foreste era una conseguenza dell’espansione del numero di uomini e della loro domanda di risorse. Altro problema furono gli OGM, che scacciavano dall’agricoltura di mercato le specie a minor produttività e ne provocavano la scomparsa. Si trattava di problemi che potevano essere affrontati solo alla scala dell’ecosistema globale e con un’iniziativa condivisa da tutti i popoli e da tutti i governi della Terra. L’UNEP si preparò per affrontare 3 grandi convenzioni che dovevano affrontare i temi del mutamento climatico, della perdita di varietà biologica e della diversificazione di spazi antropici. Nelle prime due convenzioni vennero sottoposte alla firma in occasione del vertice UNCED di Rio ‘92, per la terza invece venne istituita una commissione che portò alla firma due anni dopo. Si formò così il triplice sistema delle grandi Convenzioni ambientali dell’ONU: 1. La UNFCC (convenzione quadro sul mutamento climatico); 2. La UNCBD (convenzione sulla biodiversità); 3. La UNCCD (Convenzione sulla lotta alla diversificazione). 3) La UNCCD è quella che è stata implementata con maggiori difficoltà, nella COP13 di Ordos fu approvato il piano d’azione che delinea eventi di lungo periodo, in realtà possibili solo se vi saranno destinate adeguate risorse materiali, finanziarie e politiche. 2) La UNCBD è l’unica iniziativa ambientale proposta dall’ONU alla quale gli Stati Uniti si rifiutano di aderire. Ciò che non è accettabile per ogni governo degli Stati Uniti è che la Convezione a priori sovraordini la tutela della varietà biologica alle prerogative di mercato e 30 all’iniziativa individuale, ritenuti valori non negoziabili. Furono individuate 34 aree cieche (i Biodiversity Hotspot) e furono realizzate le protected areas. 1) Ma la convezione su cui l’ONU ha maggiormente investito le sue capacità d’iniziativa, le sue risorse e il suo peso politico è l’UNFCC. Dall’88 l’UNEP aveva creato lo IPCC, un gruppo di scienziati di varia specializzazione con l’obiettivo di ridare un punto di vista condiviso della comunità scientifica a proposito del mutamento climatico, del rischio di riscaldamento globale e del peso delle attività antropiche su questi processi. Anche a proposito del mutamento climatico non fu possibile nel ‘92 trovare un pieno accordo, tanto che quella firmata a Rio venne definita “quadro”, a significare la sua incompleta natura di cornice. Furono necessarie altre due conferenza tra il ‘95 e il ‘96 per rendere possibile la chiusura del negoziato che si realizzò a Kyoto ‘97 nella COP3, facilitata anche dal fatto che l’amministrazione degli Stati Uniti era cambiata con la presidenza Clinton e manifestava un diverso indirizzo nelle politiche ambientali; in quella sede vennero prese importanti decisioni strutturali: - l’obiettivo sarebbe stato di ottenere una riduzione globale delle emissioni gas della terra; - a questo fine veniva identificato un gruppo di 40 paesi industrializzati sui quali sarebbe ricaduto l’onere della diminuzione delle emissioni, paesi che avevano sperimentato processi di industrializzazione e considerati quindi responsabili del global warming. Era responsabilità dei paesi avanzati che consentissero anche ai paesi poveri di migliorare le loro performance di emissioni; - a questo fine venne estratto dai 40 paesi dell’Annex 1 un gruppo di 24 paesi ricchi, che avrebbero potuto finanziare la riduzione globale delle emissioni attraverso i meccanismi flessibili; - il mercato delle emissioni era lo strumento individuato per ottenere l’obiettivo della riduzione di emissioni, a ciascuno dei paesi Annex sarebbe stata consegnata una quantità di diritti di emissione pari al volume di emissioni consentito; sarebbe corrisposta una perdita economica solo in caso di inadempienza. - il protocollo prevedeva che i Paesi Annex 2 potessero dar vita a progetti di riduzione delle emissioni nei Paesi no-Annex 1. Ogni diminuzione certificata di emissioni avrebbe dato luogo a un credito di emissione a beneficio del paese. Il mercato delle emissioni sarebbe stato un incentivo per i governi a intervenire sulle proprie imprese, finanziando il trasferimento di cicli produttivi più puliti. I paesi Annex 2 ottennero un’ulteriore forma di meccanismo flessibile al fine di incrementare i propri diritti di emissione, aumentando la copertura verde un Paese aumentava l’abbattimento naturale delle emissione di CO2 generate e veniva compensato con equivalenti diritti di emissione. Questa complessa architettura non è mai entrata pienamente in vigore. 31 Mentre anno dopo anno le COP si susseguivano per negoziare soluzioni, la nuova amministrazione Bush uscì ufficialmente dal protocollo. Ne seguì un periodo di crisi fino al 2008, quando il Protocollo ufficialmente funzionò, ma si è trattato di un funzionamento imperfetto e parziale, anche per natura non vincolante dell’adesione ai meccanismi flessibili, in più l’impatto della crisi ha fatto il resto. Ne seguì l’iniziativa dell’UNFCCC nella COP 15 di Copenaghen 2009, vi era in America l’amministrazione Obama; perciò la UNFCCC chiese di iniziare a predisporre un nuovo protocollo che tenesse conto delle difficoltà e delle inefficienze del vecchio. Ma nonostante le sollecitazione di UNFCCC il sistema non si è mosso rapidamente e l’accordo fu trovato nel 2015 nella COP21 a Parigi, che rimanda al processo COP26 del 2020 e si pone come obiettivo di limitare a 2 grandi Celsius entro il secolo: l’aumento delle temperature rispetto al periodo preindustriale e che i target di riduzione non saranno fissati e imposti da UNFCCC ma autoassegnati e resi pubblici da parte di ogni paesi. Procedura con la quale la UNFCCC prende dolorosamente atto di quanto evidenziato da Kyoto, ossia della sua incapacità di imporre obiettivi che poi i Paesi osservino. 5.4.4 Le politiche europee per la sostenibilità L’Unione europea ha preso in tempo la decisione strategica di implementare le politiche ambientali sia perché a causa dell’industrializzazione si è già trovata di fronte alle dicotomie e alle problematiche degli impatti ambientali della produzione e della crescita, sia per acquisire nelle relazioni internazionali una leadership rispetto al tema della salvaguardia della casa comune. In realtà il Primo programma di azione comunitario per l’ambiente viene approvato nel ’73 e pensato in coincidenza con la Conferenza di Stoccolma. L’impegno per l’ambiente prosegue e si consolida nel corso degli anni ‘80 e poi negli anni ‘90 in coincidenza con il Processo di Rio e con l’iniziativa dell’ONU. Il secondo, terzo, quarto programma di azione comunitario per l’ambiente coprono i periodi 77-81, 82-87 e 87-92, ed hanno regolato i vari aspetti dell’iniziativa ambientale. Le politiche ambientali vengono ufficialmente comprese fra le politiche basilari dell’unione. I programmi successivi fino al settimo 2014-2020 assecondano e anticipano le proposte dell’ONU facendo proprio il concetto e le strategie di sviluppo sostenibile. L’Unione Europea per esempio ha deliberato nel 2003 l’istituzione EET, il mercato artificiale europeo delle emissioni, dove i titolari delle azioni delle singole imprese hanno l’obbligo di ridurre le emissioni. Attualmente il mercato è nella fase 3 2013-2020, che dovrebbe permettere la messa a regime, per essere sostituito dalla fase 4 2021-2030 che dovrebbe segnarne l’allargamento. Un ulteriore segno della vitalità con la quale l'UE gestisce la transizione alla sostenibilità è l’attenzione alla Circular Economy (economia circolare) che rappresenta una componente essenziale della Green Economy: è una chiave per affrontare il problema dei rifiuti, il cui smaltimento sta diventando uno dei servizi più gravi per i suoi rischi nel mondo 32 d) gli impatti indicano i cambiamenti significativi, le alterazioni reversibili e irreversibili degli ecosistemi (es. il cambiamento climatico); e) le risposte evidenziano in quale maniera le società e le istituzioni pubbliche affrontano i problemi ambientali e quali politiche di sostenibilità decidono di mettere in atto. 5.5.2 L’impronta ecologica Per analizzare e valutare l’impatto ecologico di una popolazione vengono utilizzati vari modelli di calcolo, uno di questi è quello dell’impronta ecologica (ecological footprint); questa stima la quantità di biosfera necessaria per rinnovare il flusso di materie prime che servono a fornire gli input alle attività economiche, individua la porzione di territorio necessaria per sostenere il sistema socio-economico misurata in ettari globali. Questo metodo, oltre a valutare il consumo di risorse e la produzione di rifiuti, consente di stimare il potenziale massimo naturale di produzione dell’ecosistema di riferimento e di confrontarlo con i consumi effettivi della popolazione ubicata sul territorio. Per le risorse energetiche esauribili si considera anche la biocapacità necessaria per assorbire la CO2 emessa nell’aria dal consumo energetico. Il calcolo dell'impronta ecologica comprende 6 attività economiche: 1. coltivazioni 2. allevamento 3. taglio di alberi 4. pesca 5. infrastrutture 6. utilizzo di combustibili fossili. Il deficit ecologico è la misura della differenza tra la capacità ecologica (patrimonio naturale) di una ragione o di un paese e la sua effettiva impronta ecologica (consumo di risorse naturali); ne deriva anche una stima della maggiore o minore dipendenza dal commercio estero. Troppo spesso si tende a dimenticare che non può esistere una crescita infinita su un pianeta finito. 35 Capitolo 8. Le ventuno sfide del XXI secolo Le procedure con cui le collettività umane estraggono utilità e possibilità di sopravvivenza dagli ambienti che le ospitano corrispondono al processo economico e quindi sono il dominio stesso della Geografia economica. C’è un carattere comune a tutte le tematiche discusse, ovvero che il XXI secolo sarà un passaggio molto importante nel percorso di sviluppo dell’Umanità. In questo secolo infatti vengono a scadenza numerosi processi che hanno dato forma all’economia, alla società e alla formazione degli interessi dell’era contemporanea. Quindi il modo in cui verrà gestito questo passaggio orienterà il futuro della nostra presenza sulla terra. La criticità del mutamento deriva dalla sua rapidità; la pressione sulle risorse sta crescendo con un’intensità e una rapidità tali da rendere fragili sia gli equilibri ecosistemi che quelli economici e politici; risulta perció necessaria una profonda revisione della nostra strategia di sfruttamento delle risorse e con essa il passaggio a un diverso regime biologico e a un diverso regime energetico. Un passaggio del genere inevitabilmente comporterà dei traumi: il nostro sistema coinvolge la modalità con cui siamo andati avanti fino ad oggi: organizziamo le nostre pratiche di interazione con le risorse attraverso l’economia di mercato capitalistica europea. Discutere di ciò richiederebbe la rinuncia ad ogni ideologismo, ma il tema del mercato è ancora oggi l’oggetto ideologico per eccellenza, ciò rende difficile concentrarsi sul tema principale ovvero se l’efficienza del mercato sia ancora utile nell’attuale contesto ecologico. Questo non consente più di esternalizzare i costi della riproduzione sociale scaricandoli sull’ambiente, né permette più di escludere dai benefici dello sviluppo economico larga parte della popolazione del pianeta. Tutto ciò solamente per motivi pratici: le strategie cooperative saranno necessarie per affrontare la crescente pressione sulle risorse e le modifiche agli attuali equilibri degli ecosistemi che si verificheranno e che sarebbe nostro interesse tentare di minimizzare. Nel nostro futuro non c’è solamente la questione ambientale da risolvere, ma anche quella legata all’impatto che l’evoluzione tecnologica avrà sui nostri assetti economici, sociali e politici. Vi saranno riportate successivamente le 21 sfide davanti alle quali si trova il XXI secolo, l’esito delle quali dipenderà dalla valutazione che ciascuno di noi darà ad esse, dalle scelte che farà e dai comportamenti che metterà in atto. 1. Popolazione La sfida più immediata e generale è quella della popolazione e della pressione esercitata da essa - destinata ad accrescersi a causa delle tendenze demografiche in atto - su ogni dimensione sensibile degli ecosistemi. La tecnologia potrà aiutarci ad affrontare i problemi derivanti dalla crescente domanda di risorse; la questione demografica risulta da 50 anni ancora priva di soluzione e non è più rinviabile poiché deve essere posta con urgenza in termini politici e culturali. 36 2. Agricoltura Altra sfida è quella di produrre cibo sufficiente a sfamare in modo realmente adeguato un gran numero di persone, riuscendo nel contempo a ridurre l’impatto che la produzione agricola, l’allevamento e lo sfruttamento delle biomasse a fini alimentari ha sull’ambiente. Anche in questo caso occorrerà interrogarci su quale modello di produzione e di gestione sia più opportuno adottare. 3. Alimentazione La precedente sfida porta con sé la sfida dell’alimentazione e il modello alimentare va riconsiderato poiché questa esigenza di buon senso incontra anche eccessi palesi in un modello alimentare patogeno che ha reso l’obesità una malattia sociale. Questa revisione entra perciò nell’agenda dell’immediato futuro. 4. Biodiversità Il modello che ne deriverà dovrà tutelare la diversità biologica, sia per l’esigenza che altre specie viventi non si estinguono per nostra mano, sia perché l’attuale varietà della vita garantisce l’insieme dei cicli naturali che rendono la Terra un ambiente ospitale per la nostra specie. La drastica espansione demografica, creando città, infrastrutture e coltivazioni ha sottratto all’altra componente della biosfera un numero enorme di ecosistemi e continua a farlo con enorme velocità. Dar vita a un nuovo regime biologico che non metta a rischio i servizi ecosistemi resi disponibili dall’attuale biodiversità è nostro vitale interesse. 5. Processi insediativi Un’altra sfida è relativa alle città e più in generale alle infrastrutture con cui abitiamo e utilizziamo lo spazio fisico. Ci stiamo dirigendo velocemente verso un mondo fatto di gigantesche città e di una popolazione distribuita nel modo più squilibrato che la storia umana ricordi. Rendere le città smart e sustainable è una sfida estremamente urgente, ma lo è altrettanto promuovere un’organizzazione territoriale meno squilibrata e più sostenibile, specie con riferimento alle aree più povere. 6. Acqua e reti idriche L’acqua è sempre più costosa, ma non scarsa nei Paesi avanzati; lo è invece nei paesi poveri. L’acqua è sempre stata una forte leva di potere ed è passata ad essere da bene libero a bene economico privatizzato, dato in concessione e sottoposto a tariffe e prezzi. C’è da interrogarsi sul modo in cui la scarsità di questa risorsa è stata finora gestita. 37 15. Les oligopoles se portent bien, merci! Agli inizi della globalizzazione, alcuni sostenevano che l’integrazione geografica dei mercati avrebbe portato più concorrenza e maggior democrazia economica. Una pubblicazione francese rispose con ironia che con essa gli oligopoli si trovavano benissimo; da allora la transizione verso oligopoli globali si è fatta veloce e lo sviluppo delle tecnologie propone scenari di ulteriore radicalizzazione. Di fronte a questa tendenza dobbiamo chiederci quanto sia desiderabile un mondo con un numero ridotto di grandissimi proprietari e quale regolazione dei mercati sia opportuna. 16. Digital divide in prospettiva globale La pervasività delle nuove tecnologie fa della geografia di internet la nuova geografia dello sviluppo economico. Ciò significa che le veloci innovazioni digitali lasciate senza governo, scaveranno un solco ancora più profondo tra economie avanzate e quelle arretrate. Così le sfide precedenti non avranno neanche la possibilità di essere poste se insieme non si pone quella del trasferimento tecnologico e della realizzazione di un sistema di condivisione di tecnologie e competenze. E vale ancora la pena di ricordare che eccessive disparità non convengono a nessuno, neppure a coloro che sembrano trarne vantaggio, perché conducono senza eccezione a crisi di sistema, economiche e ecologiche. 17. Disparità L’eccesso di disparità economiche e sociali è inefficiente ed è un danno per tutti. Sono i problemi ambientali degli ultimi decenni a rendere i differenziali geografici di sviluppo non convenienti per nessuno, serve infatti un’iniziativa globale; ma è illusorio pensare di stringere la collettività del mondo in un progetto comune se vi sono così tante disparità nelle condizioni materiali di vita. La sfida è quella di superare con urgenza queste disparità che provocano inevitabilmente danni sistemici. 18. Onu e governance mondiale Il ruolo guida dovrebbe spettare all’ONU che fin dalla sua sostituzione nel ’45 opera per assicurare indipendenza politica e sviluppo economico alle collettività uscite dalla colonizzazione. Il fatto che solo il primo dei due obiettivi sia stato raggiunto mostra che quel global deal di un’iniziativa talmente globale del sistema degli Stato è ancora di là da venire. Le gravi difficoltà dell’ONU nell’implementare le sue politiche di sostenibilità sociale, economica e ambientale sono lo specchio della mancanza di un progetto comune e condiviso. La sfida urgente è maturare le ragioni della convergenza intorno all’istituzione politica centrale del nostro mondo. 40 19. Stati uniti e Cina Se l’ONU non ha centralità è anche perché un’altra sfida secolare è già da tempo in corso e riguarda gli Stati Uniti e la Cina. La futura geografia economica del pianeta dipenderà dalla traiettoria economico-politica di questi due grandi stati, anche perché essi sono effettivamente in rotta di collisione: gli USA sono il primo garante dell’ordine economico, politico e valoriale occidentale che ha governato l’economia mondiale negli ultimi secoli, la Cina è leader simbolico di un mondo che emerge con dimensioni demografiche ed economiche sconosciute alle precedenti esperienze degli Stati-Nazione. La sfida vitale che questi due grandi Stati hanno di fronte è quella di riuscire a trattenere le relazioni - tese, competitive e problematiche - reciproche in un quadro al fine cooperativo. 20. Stagnazione secolare Da alcuni anni ci si interroga sull’ipotesi della stagnazione secolare, secondo la quale gli assetti tecnologici e organizzativi contemporanei non sarebbero in grado di dar luogo alla crescita assicurata dalle tecnologie elettromeccaniche del vecchio modo industriale. Vi è però anche l’ipotesi che questa difficoltà non sia strutturale ma dipenda dalla polarizzazione dei processi di accumulazione che la globalizzazione ha portato con sé a fronte della quale una contrazione della domanda su molti mercati pare inevitabile. Quindi, un’ulteriore sfida è quella di comprendere quali politiche siano necessarie per evitare, con la stagnazione secolare, la sofferenza dei mercati del lavoro e l’acuirsi della polarizzazione della ricchezza. 21. Collasso ambientale Quindi, anche per evitare la stagnazione secolare, è necessaria la politica ed essa sarà indispensabile per evitare il collasso ambientale, il quale deve essere inteso come il progressivo deterioramento della qualità ambientale degli ecosistemi che non si è capaci di arrestare e che quindi vede sempre più l’emergere di scarsità localizzate, di diseconomie e di conflitti. → In questo scenario poche o nessuna delle venti sfide che abbiamo elencato sono state affrontate e risolte. Non si tratta però di uno scenario improbabile, perché molti dei comportamenti che abbiamo messo in atto conducono a quella direzione. La sfida finale che segnaliamo è l’affrontare seriamente e discutere tutte le altre. ← 41
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