Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunti di procedura civile, Schemi e mappe concettuali di Diritto Processuale Civile

Riassunti del libro di Luiso, volume 2

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2017/2018

Caricato il 22/09/2018

valentina-d-arasmo
valentina-d-arasmo 🇮🇹

4.3

(44)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunti di procedura civile e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1. IL PROCESSO DI COGNIZIONE DI 1° GRADO Processo ordinario e processi speciali La tutela dichiarativa è impartita tramite il processo di cognizione, di cui vi sono il modello ordinario e quelli speciali, come quello del lavoro o in materia di sanzioni amministrative o di locazioni. Quello ordinario trova applicazione per tutte le controversie per le quali non sia previsto un rito speciale. Funzione del processo dichiarativo Anziché di tutela giurisdizionale di cognizione, si parla di tutela giurisdizionale dichiarativa, poiché consistente nella dichiarazione dei comportamenti leciti e doversi di 2 o più soggetti circa un bene della vita protetto e garantito dall’ordinamento. Tale tutela prende il nome dalla sua parte strumentale e non dall’effetto prodotto poiché la maggior parte del processo è dedicata alla raccolta degli elementi necessari ad orientare la decisione. Struttura del 2° libro del codice La disciplina di tale processo è nel 2° libro del c.p.c., e nel c.c. ci sono alcune norme sulle prove. È diviso in 4 titoli: 1) processo di 1° grado di fronte al tribunale, 2) processo di cognizione di 1° grado di fronte al giudice di pace (differenze di disciplina), 3) impugnazioni 4) processi speciali di lavoro e delle locazioni. Fasi del processo dichiarativo Il processo si divide in 3 momenti: introduzione, trattazione e decisione. Nell’introduzione vi sono gli atti per individuare l’oggetto del processo: la situazione sostanziale della quale si chiede la tutela e la tutela richiesta. La trattazione serve ad acquisire gli elementi necessari per la decisione: elementi di fatto, di diritto e l’istruzione probatoria, necessaria quando si debba accertare il modo di essere dei fatti storici introdotti. Nella fase decisoria l’organo giurisdizionale emette il provvedimento con cui dà o nega la tutela richiesta, determinando le regole di condotta per le parti in relazione alla situazione sostanziale protetta e alla tutela richiesta. 2. LA CITAZIONE Funzione È l’atto introduttivo del processo di cognizione ordinario e individua l’oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela e la tutela richiesta, inoltre porta la domanda giudiziale a conoscenza di almeno altri 2 soggetti: colui contro il quale la tutela è richiesta (convenuto) e il giudice. Contenuto È costituita dall’editio actionis, che individua l’oggetto ed è la proposizione della domanda, e dalla vacatio in ius, che consente di portare la domanda a conoscenza degli altri soggetti. Può contenere elementi della trattazione, come l’allegazione di fatti inutili ad individuare il diritto e attività relative all’istruttoria. Forma La forma è regolabile dal legislatore in maniera varia. Vi sono 2 forme di atti introduttivi del processo: la citazione, quella del rito ordinario, e il ricorso, adottata in alcuni riti speciali, come quello del lavoro. Le differenze non riguardano il contenuto ma il fatto che la citazione è notificata prima alla controparte e poi depositata nella cancelleria del giudice, mentre per il ricorso accade l’inverso. Elementi Secondo l’art. 163 gli elementi della citazione sono: l’indicazione del tribunale al quale la domanda è rivolta; l’indicazione delle parti: attore, convenuto e, se è un processo con più parti, anche le altre; l’indicazione della cosa oggetto della domanda, cioè il petitum (quanto richiesto); l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi, in particolare dei documenti che offre in comunicazione; l'indicazione del procuratore della procura, qualora sia stata già rilasciata; l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione. L'atto di citazione completo è sottoscritto dall’avvocato dell’attore ed è notificato al o ai convenuti. Petitum Si può intendere: quello immediato, il provvedimento che si chiede al giudice; e quello mediato, la situazione sostanziale dedotta in giudizio. Causa petendi È la fattispecie costitutiva del diritto e nel processo ha ruolo diverso a seconda che si tratti di diritti autoindividuati, che dato che hanno come elementi di identificazione il soggetto, il bene e il tipo di utilità garantita, la causa petendi non è un loro elemento di indentificazione; o eteroindividuati, che si identificano anche, oltre che dai soggetti e dall’utilità garantita, tramite la fattispecie costitutiva, la causa petendi, poiché al moltiplicarsi delle fattispecie costitutive si moltiplicano i diritti. Dunque, la citazione deve enunciare la causa petendi, se si tratta di diritto eteroindividuato, altrimenti l’atto è nullo; non è necessaria se dedotto in giudizio è un diritto autoindividuato. La causa petendi rileva, in entrambi i casi, anche come elemento della trattazione, cioè ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda di merito. Conclusioni Sono l’individuazione del contenuto del provvedimento richiesto al giudice: che si dichiari incompetente, che accolga o rigetti la domanda, che disponga l’assunzione di una certa prova, ecc. Per quanto riguarda i rapporti fra domanda giudiziale e conclusioni, la parte dell’atto introduttivo contenente l’editio actionis non può essere modificata nel corso del processo, mentre gli altri elementi possono essere integrati e modificati. Con riferimento ad un diritto autoindividuato, la causa petendi, allegata nella citazione, può essere modificata nel corso del processo perché non produce la modificazione del diritto fatto valere, mentre quella di un diritto eteroindividuato non può essere acquisita e/o modificata perché comporterebbe una modificazione del diritto fatto valere. Anche le conclusioni possono essere modificate, ma senza che si modifichi l’oggetto del processo. L’omessa esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda comporta vizio della citazione a causa della mancata individuazione del diritto fatto valere solo per i diritti eteroindividuati. Per ritenere riferibile la nullità comminata per una citazione che non contenga l’allegazione della causa petendi anche ai diritti autoindividuati bisognerebbe concludere che i vizi dell’editio actionis si verifichino anche allorché sia individuato il diritto fatto valere: conclusione esclusa dal regime della sanatoria dei vizi dell’editio actionis. L’allegazione dei fatti costitutivi del diritto autoindividuato, non effettuata nell’atto introduttivo, è possibile ai sensi dell’art.. 183 V. Sanatoria per rinnovazione o integrazione Se vi è nullità della citazione con riferimento all’editio actionis la sola costituzione del convenuto non basta a sanare tale nullità; nè l’identificazione del diritto può provenire dal convenuto stesso: non è legittimato a sostituirsi all’attore nell’individuare il diritto che questi vuol far valere. La sanatoria può provenire solo da un’attività dell’attore, il quale integri la propria domanda individuando la situazione sostanziale controversa. Dunque, se il convenuto è contumace, il giudice dispone la rinnovazione della citazione, integrata con gli elementi carenti dell’editio actionis. Se il convenuto è presente l’attore deposita una memoria contenente le integrazioni. La sanatoria conseguente ai vizi dell’editio actionis non ha efficacia retroattiva: gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono dalla rinnovazione della citazione (se il convenuto è contumace) e dalla notificazione di tale atto, o dall’integrazione della domanda (se il convento è costituito), cioè dal deposito, notificazione o scambio della memoria, a seconda del meccanismo di comunicazione della memoria. La sanatoria è irretroattiva per necessità, finché resta indeterminato il diritto fatto valere, non è possibile che operino gli effetti sostanziali e processuali della domanda, perché non si saprebbe a quale diritto riferirli. La sanatoria ha come sola conseguenza la salvezza degli atti di impulso processuale e il risparmio della fase decisoria volta a chiudere il processo in rito. L’ipotesi in cui l’attore non ottempera all’invito del giudice di rinnovare la citazione, o di integrarla non è espressamente regolata. Nel caso di mancata rinnovazione della citazione, sembra possibile applicare la disposizione nell’art. 164, in quanto la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione sono una delle vie per chiudere in rito il processo ormai viziato quanto ad un presupposto processuale. Nel caso di mancata integrazione, il processo non può giungere ad una decisione di merito; bisogna solo individuare lo strumento tecnico con il quale chiuderlo. L’estinzione del processo non sembrerebbe a prima vista utilizzabile, in quanto l’art. 307 non prevede, come causa di estinzione, l’omessa integrazione di una domanda. Ma tale integrazione è una rinnovazione della citazione sotto altra veste, sicché non pare azzardato ricollegare anche alla sua omissione l’estinzione del processo. 4. LE DIFESE DEL CONVENUTO Facoltà concesse al convenuto in risposta alla domanda dell’attore. Comparsa di risposta L’attività del convenuto è prevista negli artt. 166 e 167. Egli si difende attraverso una comparsa di risposta, atto speculare della citazione. La comparsa di risposta manca necessariamente della vocatio in ius, e dell’editio actionis, a meno che non contenga a sua volta una domanda. Se, con essa, non si propongono nuove domande, o non si manifesta l’intenzione di chiamare in causa terzi, è un atto che appartiene solo alla trattazione. Alcune attività devono essere, a pena di decadenza, contenute in essa, altre invece, possono sia esservi inserite, sia essere compiute nel successivo corso del processo: art. 183. Difese in rito Si distinguono le difese in rito (sulla correttezza del processo) da quelle in merito (sulla fondatezza della domanda). Il convenuto per prima cosa può rilevare i vizi del processo che ne impediscono la decisione di merito: vizi attinenti ai presupposti processuali. Tale rilevazione, come regola generale, può essere fatta valere anche dopo, nel corso del processo, tranne i casi eccezionali in cui il difetto del presupposto processuale non è rilevabile anche d’ufficio, in cui vale la regola opposta: il convenuto deve sollevare la questione di rito, a lui riservata, nella prima difesa utile, cioè nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. Difese in merito Il convenuto può proporre delle difese che si distinguono in: difese semplici, se il convenuto contesta, in fatto o in diritto, quanto affermato dall’attore, ed eccezioni, quando il convenuto introduce in giudizio dei nuovi fatti storici impeditivi, modificativi o estintivi del diritto vantato dall’attore. Le eccezioni si dividono in quelle rilevabili solo dalla parte (in senso stretto) e quelle rilevabili anche dalla parte (in senso lato). Mezzi di prova È un altro possibile elemento della comparsa di risposta: come l’attore con l’atto introduttivo può richiedere mezzi di prova o produrre documenti, così il convenuto con la comparsa di risposta può richiedere mezzi di prova o produrre documenti. Le mere difese, le eccezioni e le prove possono essere compiute anche nell’ulteriore corso del processo, tranne le eccezioni in senso stretto, che, a pena di decadenza, vanno proposte nella comparsa di risposta. Egli deve, a pena di decadenza, dichiarare la volontà di chiamare in causa un terzo, in forma innovativa (proponendo una domanda nei suoi confronti) o non innovativa (per farlo partecipare in via adesiva al processo e vincolarlo al futuro giudicato). E deve proporre le domande riconvenzionali, che aumentano l’oggetto del processo: avremo un processo con cumulo oggettivo poiché i diritti fatti valere sono più, anche se il processo rimane unico. Entrambe vanno inserite nella comparsa di risposta. Domanda riconvenzionale La domanda riconvenzionale e la chiamata in causa sono gli strumenti processuali con i quali si propone una nuova domanda. La principale differenza fra la loro è che: la prima, essendo diretta nei confronti di chi è già parte del processo, non contiene la vocatio in ius; la seconda, essendo diretta nei confronti di chi ancora non è parte, contiene la vocatio in ius, per la necessità di instaurare il contradditorio. Chiamata in causa del terzo Il convenuto deve, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta manifestare la volontà di chiamare in causa un terzo, anche se la chiamata è non innovativa: la parte non propone, nei confronti del terzo, una domanda che ha ad oggetto la situazione che la lega a costui, lo chiama a partecipare al processo solo per rendergli opponibile la sentenza. L’art. 269 stabilisce che il convenuto, che intenda chiamare in causa un terzo, oltre a dichiararlo nella comparsa di risposta, deve chiedere al giudice lo spostamento della 1° udienza per poter citare il terzo nel rispetto dei termini dell’art. 163 bis. Il provvedimento di spostamento dell’udienza consente al convenuto di avere a disposizione un tempo sufficiente per assegnare al chiamato i termini di difesa dell’art. 163 bis, non vi è necessità di chiederlo se il convenuto ha a disposizione i tempi tecnici necessari per citare il terzo a comparire, cioè per notificargli la citazione per la chiamata in causa lasciandogli il termine a difesa prescritto. Nonostante talvolta la Cassazione vada di diverso avviso, il giudice non ha alcun potere di valutare l’opportunità della chiamata in causa: è un provvedimento vincolato. Il simultaneus processus serve ad evitare il contrasto teorico di decisioni, per questo il giudice non ha alcun potere discrezionale in proposito. Infine, sempre nella comparsa di risposta, il convenuto deve inserire le sue conclusioni, ciò che egli chiede al giudice. Anch’esse possono essere modificate nel corso del processo. Nullità della domanda riconvenzionale La nullità della domanda riconvenzionale (per quanto attiene all’editio actionis, poiché è priva della vocatio in ius) può essere sanata come quella della citazione, mediante il deposito di una memoria, contenente gli elementi carenti. Come per la citazione, la sanatoria non ha efficacia ex tunc: la domanda riconvenzionale si considera proposta a tutti gli effetti dal momento in cui è compiuto l’atto integrativo. 5. LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO Costituzione in giudizio Dopo la notificazione della citazione, entrambe le parti devono costituirsi in giudizio, cioè presentarsi al giudice. I termini per la costituzione sono, per l’attore, 10 giorni dalla notificazione dell’atto introduttivo, per il convenuto, 20 giorni prima dell’udienza di comparizione. Se le notificazioni sono più di una, l’attore deve lo stesso costituirsi entro 10 giorni dalla prima notificazione, depositando copia della citazione. Se la citazione è notificata a più persone, l’originale dev’essere inserito nel fascicolo entro 10 giorni dall’ultima notificazione. Restano a carico del convenuto le decadenze relative agli atti che egli deve compiere con la comparsa, cioè la proposizione delle eccezioni processuali e di merito in senso stretto, delle domande riconvenzionali e la chiamata in causa di terzi. Se, invece, nessuna delle parti si costituisce, il giudice non sa niente della causa. L’art. 171 rinvia all’art. 307, che stabilisce che il processo entra in uno stato di quiescenza per 3 mesi, che decorrono dal termine ultimo per la costituzione in giudizio del convenuto. Entro 3 mesi ciascuna delle parti può riassumere la causa, il processo riprende e si considera pendente a tutti gli effetti dalla citazione originaria. La riassunzione determina non l’apertura di un processo nuovo, ma la prosecuzione di quello vecchio. La pendenza del processo è subordinata ad una condizione risolutiva: se entro 3 mesi il processo non viene ripreso, allora si estingue definitivamente; altrimenti prosegue con decorrenza dall’atto introduttivo. violazione dei criteri per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, non determina la nullità dei provvedimenti adottati. 6. LA PRIMA UDIENZA Trattazione della causa Funzione della citazione è di contenere la domanda giudiziale, quindi di individuare l’oggetto del processo. La comparsa di risposta è l’atto con il quale si può ampliare il processo oggettivamente e/o soggettivamente (tramite la domanda riconvenzionale e la chiamata in causa, innovativa o meno, del terzo).Per stabilire se, come e in quali limiti si può incidere sul contenuto della citazione e della comparsa di risposta in ordine all’individuazione dell’oggetto del processo, all’allegazione dei fatti, ed all’attività istruttoria, si usa l’art. 183. Principio di preclusione L’art. 183 reintroduce le preclusioni del rito del codice del ’42, eliminate con la riforma del ’50, e dal rito del lavoro nel ’73. Nel processo civile tale meccanismo è stato reintrodotto nel 1990, ritoccato nel ’95 e modificato nel 2006. Il processo, strutturato secondo le preclusioni, è caratterizzato dalla divisione della fase di trattazione: un primo momento dedicato all’allegazione dei fatti ed alle richieste istruttorie, e un secondo dedicato alla prova di quelli, fra i fatti allegati, che siano controversi; così il processo, giunto allo stadio successivo, non può regredire a causa dell’introduzione di altri elementi della fase antecedente. Il principio di preclusione può essere attuato in modo più o meno elastico, e la scansione fra le varie fasi può o meno essere anche formalmente separata da un provvedimento del giudice. Vi sono vari modelli di struttura della fase iniziale del processo: nel processo del lavoro le allegazioni e le richieste istruttorie devono essere effettuate contemporaneamente, ed in linea di massima possono essere contenute nei soli atti introduttivi; ulteriori allegazioni e prove sono ammissibili solo come replica alle difese avversarie ed ai rilievi officiosi del giudice e mai come ius poenitendi, cioè novità non giustificate dall’attività della controparte e del giudice. Il principio di preclusione è stato reintrodotto per fissare fin dall’inizio le questioni controverse. Lo scopo è stato perseguito senza rinunciare ai benefici dello svolgimento dialettico del processo, cioè con la consapevolezza che solo l’effettiva attuazione del contradditorio può consentire di giungere ad una decisione che sia il meno possibile divergente dalla realtà sostanziale. Nella fase di trattazione propria del rito ordinario, è stata abbandonata la versione rigida del principio di preclusione propria del diritto del lavoro, e la fase in cui si acquisiscono al processo i fatti controversi è separata da quella dedicata all’acquisizione delle istanze istruttorie e dei documenti. Inoltre, nella 1° udienza di trattazione sono possibili acquisizioni ulteriori, rispetto al contenuto degli atti introduttivi, consistenti in domande ed allegazioni e che si ricollegano a 2 diversi presupposti. Novità ammissibili Da un lato, vi sono le nuove acquisizioni che discendono dall’attuazione del contradditorio, cioè costituenti la replica all’esercizio di poteri processuali altrui: fenomeno disciplinato dall’art. 183 co. 5 pt. 1. Il co. 4 prevede che, nella dialettica attuazione del contradditorio, entri anche, come soggetto attivo, il giudice. Dall’altro lato, vi sono le nuove acquisizioni che non si ricollegano alla dialettica processuale, cioè che configurano uno ius poenitendi della parte: fenomeno disciplinato dal co. 5 ult. pt., che consente l’incondizionata precisazione e modificazione delle domande, allegazioni e conclusioni. L’art. 183 co. 1 e 2 disciplina l’attività relativa alle questioni di rito. Secondo il co. 1 il giudice verifica la regolarità del contradditorio e provvede a dare le disposizioni idonee per l’integrazione del contradditorio nelle ipotesi di litisconsorzio necessario; per la sanatoria delle nullità della citazione e della domanda riconvenzionale; per la sanatoria dei difetti per la sanatoria dei difetti di capacità e rappresentanza tecnica e dei vizi di notificazione della citazione. Il co. 2 prevede che, disposta la sanatoria, il giudice fissa una nuova 1° udienza, in cui, se il vizio risulterà sanato, il processo potrà proseguire verso la decisione di merito; altrimenti, dovrà chiudersi in rito tramite la dichiarazione di estinzione. L’elencazione dell’art. 183 co. 1 conferma il principio in virtù del quale il giudice, di fronte ad un vizio sanabile, non deve chiudere immediatamente il processo con sentenza in rito, ma deve dare le disposizioni idonee per la sanatoria. Quanto descritto non costituisce l’unico oggetto della 1° udienza. Oggetto della 1° udienza sono tutte le attività attinenti alle questioni processuali potenzialmente idonee ad assorbire la trattazione nel merito della causa. Il giudice, quindi, deve occuparsi non solo delle questioni sopra indicate, ma anche di tutte quelle attinenti agli altri presupposti processuali, in modo da evitare che si passi alla trattazione del merito, quando sussistono vizi processuali (sanabili o meno), ostativi alla decisione di merito. Interrogatorio libero La riforma del 2006 ha fatto venir meno l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, che in base all’art. 185, ha luogo solo se vi è richiesta congiunta delle parti. La riforma ha anche eliminato l’obbligatorietà dell’interrogatorio libero: il giudice vi procederà solo se e quando lo riterrà opportuno. Novità derivanti dallo svolgimento dialettico del processo I poteri delle parti, alla 1° udienza di trattazione, possono essere distinti in 2 gruppi: 1) repliche alle allegazioni, domande e deduzioni operate dalla controparte, e rilievi officiosi del giudice; 2) ius poenitendi, cioè le novità che non trovano giustificazione nell’attuazione del principio del contradditorio, in quanto non sono conseguenza dell’attività posta in essere dalla controparte e dal giudice. Il 1° gruppo di poteri è disciplinato dalle prime 2 frasi del co. 5: a) l’attore può proporre una domanda di accertamento incidentale o una reconventio reconventionis allorché il convenuto abbia contestato l’esistenza del diritto pregiudiziale, o, rispettivamente, abbia introdotto in giudizio, in via di domanda o di eccezione, una situazione sostanziale ulteriore rispetto a quella individuata con la citazione; b) l’attore può chiamare in causa il terzo, indicato dal convenuto come il vero titolare del diritto o dell’obbligo dedotti in giudizio; può anche chiamare in garanzia il terzo, quando il convenuto, in via riconvenzionale, chieda l’accertamento di un proprio diritto incompatibile con quello dedotto in giudizio dall’attore e tale quindi che, se fatto valere in via principale, avrebbe consentito la chiamata in garanzia; c) l’attore può, di fronte ad una nuova domanda del convenuto, allegare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto introdotto in tal modo in giudizio. L’attore può in generale, oltre che proporre domande ed eccezioni, compiere ulteriori allegazioni di fatti, quando queste costituiscono la replica alle difese del convenuto o ai rilievi officiosi del giudice. E questo non solo in riferimento alle eccezioni del convenuto ma anche con riferimento ai fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore. Quanto visto finora vale anche e specularmente per il convenuto. Questi deve poter replicare alle novità legittimamente introdotte in giudizio dall’attore in 1° udienza, attraverso la spendita di poteri processuali simmetrici. Novità derivanti dall’esercizio dei poteri officiosi Il principio del contradditorio riguarda le parti e il giudice, che deve farlo osservare. L’art. 183 ripropone il dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. La sua rivitalizzazione è necessaria conseguenza dell’adozione del principio di preclusione, che non comporta la rinuncia ai benefici che derivano dalla dialettica processuale. La compressione, nella fase iniziale del processo, delle allegazioni e delle richieste istruttorie, rende ancor più necessaria la partecipazione attiva del giudice, per evitare che la decisione della controversia, per via delle preclusioni, non rispecchi la realtà sostanziale. Con riferimento alla quaestio facti, un’eccezione, rilevabile e rilevata d’ufficio, può legittimare l’introduzione di novità nel processo, finanche la proposizione di nuove domande. Per quanto attiene alla quaestio iuris, le parti devono essere poste in grado di introdurre in giudizio le opportune novità, allorché il giudice segnali loro quella che, a suo avviso, è la corretta ricostruzione in diritto della fattispecie della situazione sostanziale fatta valere. Quando ad es., si dica rilevante per la decisione un fatto che le parti hanno trascurato, perché erroneamente convinte della sua irrilevanza. L’attiva partecipazione del giudice al dialettico svolgimento del processo gli impone di indicare alle parti, fin dalla 1° udienza di trattazione, quale sia, a suo avvisto, la corretta impostazione in diritto della controversia; le parti possono, sulla base di tale indicazione, operare le opportune modifiche alle loro difese, e introdurre in giudizio quei fatti, la cui allegazione era stata omessa nell’erroneo convincimento della loro irrilevanza. La riforma del 2009 ha stabilito espressamente che, se la questione rilevata d’ufficio non è sottoposta all’esame delle parti, la sentenza è nulla. Ius poenitendi L’art. 183 prevede anche, nell’ultima parte del co. 5, un ius poenitendi sganciato dallo svolgimento dialettico del processo, cioè consente di introdurre novità non giustificate dalle difese della controparte e dai rilievi d’ufficio del giudice. Le parti possono in ogni caso precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni. Fra le attività ammesse si deve escludere la proposizione di domande nuove e di eccezioni in senso stretto, che possono essere proposte, in sede di 1° udienza di trattazione, solo se dipendono dalle attività compiute dalla controparte o dai rilievi officiosi, e questa evenienza è esclusa nell’ottica dello ius poenitendi. Precisazione Si ha precisazione allorché la parte esplicita quanto già contenuto nelle sue precedenti difese. La precisazione delle domande e delle eccezioni consiste nell’allegazione dei fatti secondari. Modificazione Per il 2° gruppo di casi, essi si verificano principalmente allorché il giudice omette, in 1° udienza, di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, delle quali ritiene opportuna la trattazione. Anche tale attività del giudice è essenziale al corretto svolgimento del contradditorio. Se il giudice ritarda nell’indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio, ciò consente alle parti di fare tardivamente quanto è conseguenza della tardiva attività del giudice. In base all’art. 101 co. 2, il giudice che fonda la sua decisione su una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta alle parti, emette un provvedimento nullo. Principio di acquisizione Al di là dei casi visti non sembra possibile un’allegazione di fatti nell’ulteriore svolgimento del processo. Ciò non significa che il giudice non possa porre a fondamento della decisione anche i fatti che emergono da atti legittimamente acquisiti al processo. L’acquisizione dei fatti al processo può provenire sia dalle allegazioni delle parti sia da ogni altra attività che sia legittimamente compiuta, a condizione che non si tratti di fatti costitutivi che identificano un diverso diritto (eterodeterminato) o di eccezioni in senso stretto: perché in entrambi i casi è necessaria una manifestazione di volontà della parte, che non può più essere emessa una volta decorso il termine ultimo per compierla. Nell’ulteriore corso del processo resta possibile modificare le conclusioni solo in ordine a quei punti che non presuppongono un’alterazione nè del diritto fatto valere né dei fatti allegati. Tardività delle domande e delle allegazioni Non esiste un criterio generale per stabilire la rilevabilità d’ufficio o meno del vizio consistente nel compimento di un atto processuale al di là del termine previsto. La qualificazione del termine come posto nell’interesse della controparte o nell’interesse pubblico è solo un’etichetta usata a posteriori per giustificare una scelta presa sulla base di considerazioni di opportunità, o di personali opzioni ideologiche sui rapporti fra pubblico e privato nella giurisdizione. In giurisprudenza e dottrina prevale l’opinione, secondo la quale è opportuno che la violazione delle norme che pongono le preclusioni sia rilevabile anche d’ufficio e non sia superabile dalla volontà della controparte, e che qualifica le preclusioni come poste nell’interesse pubblico. Richieste istruttorie Le attività istruttorie (relative ai mezzi di prova) possono essere già compiute con gli atti introduttivi, in base agli artt. 163 e 167. Ma, se pure nelle occasioni sopra indicate le parti non compiono attività istruttoria, ciò non determina alcuna preclusione. La prima preclusione che si incontra è quella prevista dall’art. 183 co. 6 n. 2: è in occasione della 2° memoria che le parti devono, a pena di preclusione, effettuare l’attività istruttoria che non abbiano già compiuto in precedenza. Il contenuto della memoria al n. 3 è limitato alle sole indicazioni di prova contraria. Perciò, le prove non richieste e i documenti non prodotti con quella al n. 2 non possono essere richieste e prodotti poi. L’espressione prova contraria indica le prove che hanno ad oggetto gli stessi fatti già oggetto di altra prova. Ma può avere anche un significato più ampio, nel senso che con essa si può intendere l’allegazione di un fatto ostativo degli effetti giuridici del fatto oggetto della prova principale e la contestuale deduzione delle prove ad esso relative. Ciascuna parte avere obiezioni circa l’ammissibilità, la rilevanza e l’efficacia delle prove richieste con la memoria di cui al n. 3. L’art. 183 co. 7 stabilisce che il giudice decide sulle istanze istruttorie o in udienza o con ordinanza pronunciata fuori udienza. Niente impone di ritenere che l’udienza, nella quale il giudice emette l’ordinanza istruttoria, sia necessariamente l’udienza di trattazione ex art. 183. È quindi possibile che il giudice, dopo che le parti abbiano depositato le memorie di cui al co. 6, anziché pronunciare l’ordinanza istruttoria, fissi una nuova udienza per discutere delle istanze istruttorie avanzate. Ammissione delle prove La parte che voglia spendere più mezzi di attacco o di difesa deve farli valere, in via alternativa o cumulata, tutti insieme nella fase introduttiva del giudizio. Ad es., l’attore che abbia chiesto la dichiarazione di nullità del contratto deve anche chiederne la risoluzione, se vuole che il giudice la esamini, perché nell’ulteriore corso del processo non sarà possibile all’attore proporre questa ulteriore domanda. Ma il giudice, di fronte alle richieste istruttorie che necessariamente riguardano tutti i fatti controversi, non necessariamente deve ammetterle ed assumerle tutte in blocco. Egli può assumere le prove relative ad alcuni fatti, ad es. la nullità del contratto, e riservarsi l’ammissione delle altre all’esito dell’assunzione di quelle relative alla nullità. Calendario del processo Il provvedimento, con il quale il giudice ammette le prove, contiene anche il calendario delle udienze successive, destinate allo svolgimento dell’attività istruttoria, e la fissazione dell’udienza in cui saranno precisate le conclusioni. Poiché all’udienza di precisazione delle conclusioni decorrono i termini per la pronuncia della sentenza, è in teoria possibile sapere, fin dall’inizio e del processo, quando avrà fine. Se, invece, non vi è da svolgere attività istruttoria, è subito fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni. Il calendario è stabilito dal giudice dopo aver sentito le parti e tenendo conto delle caratteristiche della controversia e della necessità di assicurare la ragionevole durata del processo. Può essere modificato dal giudice, anche ad istanza di parte, quando vengono ad esistenza gravi motivi sopravvenuti. Il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario può costituire fonte di responsabilità disciplinare del giudice e dei difensori delle parti, se è ingiustificato. Rimessione in termini La riforma del ’90, con l’art. 184 bis, aveva introdotto uno strumento generale di recupero e superamento delle decadenze maturate: se la parte dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile, il giudice istruttore la rimette nei termini ai sensi dell’art. 294 co. 2 e 3: cioè assume le prove sull’impedimento e, se queste danno esito positivo, con ordinanza rimette la parte in termini. La rimessione in termini di una parte consente all’altra di compiere tutte le attività che costituiscono la replica a quelle che vengono compiute in virtù della rimessione in termini. La riforma del 2009 ha abrogato l’art. 184 bis e ne ha trasferito il contenuto nell’art. 153 co. 2. La diversa collocazione della norma è rilevante per l’ambito di applicazione dell’istituto. La sua collocazione nella parte del codice dedicata alla trattazione della causa induceva la giurisprudenza ad escludere la sua applicazione ai termini per proporre la domanda ed ai termini per impugnare: cioè, ai termini esterni al processo. La nuova collocazione nel libro I, all’interno della norma dedicata ai termini perentori, consente l’applicazione dell’istituto ai termini per impugnare. Più incerto è affermarne l’applicazione anche ai termini per proporre la domanda, che sono termini extraprocessuali, e come tali tendenzialmente estranei all’art. 153. A favore delle soluzione estensiva si potrebbe addurre la giurisprudenza unanime, che applica la l. n. 742/1969, sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, anche ai termini per la proposizione della domanda, quando costituisca l’unico rimedio per far valere un certo diritto in un certo termine. Proposta di transazione o conciliazione Il d.l. 69/2013 ha introdotto un nuovo strumento volto a perseguire una risoluzione consensuale della controversia, disciplinato dall’art. 185 bis. Il giudice istruttore può suggerire alle parti una soluzione transattiva o conciliativa della controversia, tenendo conto della natura del giudizio, del valore della controversia e dell’esistenza di questioni facile soluzione di diritto. La proposta può essere fatta in tutto il corso della trattazione: dalla 1° udienza fino all’esaurimento dell’istruttoria. La proposta del giudice non ha niente a che fare con la mediazione: chi è fornito del potere decisorio non può essere mediatore, inoltre la proposta ha contenuto aggiudicativo, cioè prende in esame le pretese giuridiche delle parti, mentre la mediazione prescinde da chi ha ragione e da chi ha torto, e si basa sui bisogni e gli interessi delle parti. La mediazione imposta dal giudice e la proposta del giudice sono compatibili ed utilizzabili entrambi nell’ambito dello stesso processo. Law proposta può essere fatta solo quando nel processo è stata acquisito ciò che serve per valutare, anche sommariamente, ragione e torto. Le parti accetteranno la proposta del giudice se si convinceranno che è per loro più conveniente l’assetto negoziale proposto piuttosto che una sentenza,. La mancata accettazione della proposta può avere conseguenze sulle spese processuali ai sensi degli artt. 91, 92 e 96. 7. L’ATTIVITÀ DEL GIUDICE ISTRUTTORE Secondo l’art. 176 i provvedimenti del giudice istruttore, salvo che la legge disponga diversamente, hanno la forma dell’ordinanza. Essa è uno dei 3 provvedimenti che può prendere un giudice, oltre a decreto e sentenza. Ordinanze del giudice istruttore Le ordinanze del g.i., se pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano esserlo. Se, invece, l’ordinanza è pronunciata fuori udienza, dev’essere portata a conoscenza dei legali delle parti costituite. L’ordinanza può essere pronunciata fuori udienza in virtù dell’istituto della riserva ex art. 186, che prevede che di norma il giudice emette le proprie ordinanze in udienza, ma può riservarsi di pronunciare l’ordinanza nei 5 giorni successivi all’udienza, quando ha necessità di studiare meglio la questione, prima di emettere l’ordinanza. Quando si riserva scioglie la riserva con ordinanza emessa fuori udienza. Ordinanze non modificabili né revocabili Le ordinanze hanno la funzione di far svolgere il più correttamente possibile la trattazione della causa e con esse il g.i. disciplina l’acquisizione al processo di tutti gli elementi utili per la fase decisoria. In generale, esse sono dal g.i. modificabili e escluso dalle prove acquisite in corso di causa, il giudice deve ritenerlo inesistente. Se viceversa la pacificità del fatto attenesse alle allegazioni, un fatto pacifico dovrebbe essere ritenuto esistente/inesistente ancorché vi fosse agli atti la prova della sua inesistenza/esistenza. Causa documentalmente istruita Un’altra ipotesi di causa matura per la decisione si ha quando vi sono fatti controversi, ma provati attraverso una prova documentale. L’art. 187 parla di assunzione di mezzi di prova: le prove documentali non si assumono, ma si acquisiscono al processo attraverso la produzione del documento, cioè attraverso il deposito dello stesso agli atti. La causa, ove istruita documentalmente, non ha bisogno di assunzione di mezzi di prova, perché la prova documentale non rientra tra quelle che si assumono. Mancata attività istruttoria delle parti e poteri istruttori di ufficio Un’ulteriore ipotesi di causa matura per la decisione, non frequente, è: vi sono fatti controversi, non istruiti documentalmente, però nessuna delle parti chiede l’assunzione di mezzi di prova, né vi sono mezzi di prova ammissibili d’ufficio, in concreto utilizzabili. Infatti, ove vi siano mezzi di prova disponibili d’ufficio e in concreto utilizzabili, il giudice deve assumerli. Pertanto, quando vi sono fatti controversi e le parti non richiedono mezzi di prova, la causa è matura per la decisione solo se non vi sono in concreto mezzi di prova disponibili d’ufficio. Quando la causa è matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, la trattazione è abbreviata: se il giudice è particolarmente solerte e gli avvocati non sono pigri, la causa può passare in decisione fin dalla 1° udienza. Quindi tutta la trattazione si può esaurire in una sola udienza. 8. LE QUESTIONI PRELIMINARI E PREGIUDIZIALI Rimessione in decisione ad istruttoria non completa L’art. 187 co. 2 e 3 prevede una rimessione al collegio per la decisione anche se la causa non è totalmente istruita, quando vi sia una questione preliminare o pregiudiziale e se vi siano mezzi di prova da assumere. È necessario ipotizzare: che vi siano fatti controversi; che in relazione a questi siano state avanzate richieste istruttorie (o vi siano prove disponibili d’ufficio); che quindi non sia stato raccolto tutto il materiale rilevante per la decisione, e tuttavia il g.i., anziché dar corso alle richieste istruttorie, decida di non compiere affatto, o di interrompere l’istruzione probatoria, e di rimettere la causa di decisione. Se, al contrario, la causa è completamente istruita, o non ha bisogno di istruzione probatoria, o non vi sono prove richieste dalle parti né disponibili d’ufficio, il giudice può solo rimettere la causa in decisione. La rimessione in decisione su questione preliminare o pregiudiziale si verifica anche quando la decisione è monocratica, non solo collegiale, perché la scelta che deve effettuare il giudice è uguale in entrambi i casi. Questioni preliminari di merito La causa ha bisogno di essere istruita, sono state avanzate richieste istruttorie, tuttavia il giudice ritiene di non procedere affatto, o di interrompere l’istruttoria: secondo l’art. 187 co. 2, ciò accade quando vi è una questione di merito avente carattere preliminare tale che la decisione di essa può definire il giudizio. Bisogna individuare i casi in cui è possibile decidere una causa non totalmente istruita. Il giudice accoglie la domanda, quando ritiene integrata la fattispecie costitutiva e ritiene inesistenti tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi; viceversa, rigetta la domanda, quando manca anche uno solo dei fatti costitutivi o è presente anche uno solo dei fatti impeditivi, modificativi, estintivi. Anche una causa non totalmente istruita può essere matura per la decisione. L’attività istruttoria ancora da compiere può risultare superflua e quindi il giudice non la deve svolgere. Raggiunta sufficiente certezza dell’esistenza di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo o dell’inesistenza di un fatto costitutivo, l’esito della controversia è scontato: si ha il rigetto nel merito della domanda. Tutta l’ulteriore attività istruttoria che il giudice dovesse svolgere non cambierebbe il contenuto della decisione. La causa è matura per decisione. Lo scopo della norma è di risparmiare attività inutile. In realtà anche nella rimessione su questione preliminare la causa è matura per la decisione: l’ulteriore svolgimento di attività istruttoria sarebbe superfluo, non incide sul contenuto della decisione. Delibazione del g.i. Ogni elemento della fattispecie costitutiva ed ogni eccezione costituiscono, in astratto, una questione preliminare di merito; tuttavia, la causa è in concreto matura per la decisione solo se il giudice ritine che la questione preliminare dev’essere risolta in modo tale da definire il giudizio. Bisogna distinguere un’astratta potenzialità di definire il giudizio da una concreta e attuale potenzialità di definizione del giudizio, che si ha quando quell’elemento deve considerarsi esistente o inesistente: cioè quando la questione preliminare dev’essere risolta in modo tale da rendere superflua l’ulteriore istruttoria. Dunque, una rimessione su questione preliminare è diretta verso un rigetto della domanda; per l’accoglimento della domanda bisogna, invece, completare l’istruzione su tutta la fattispecie (elementi costitutivi ed eccezioni). Il g.i. se ritenesse la questione preliminare in concreto inidonea alla definizione in giudizio, non rimetterebbe la causa in decisione. Infatti, il collegio, se riterrà che la prescrizione non si è verificata, dovrebbe valutare, per decidere la causa, gli altri elementi della fattispecie, che però non sono stati istruiti. La rimessione al collegio su questione preliminare presuppone il mancato completamento dell’istruttoria. Se l’istruttoria è terminata, la rimessione al collegio non è più una scelta, ma è l’unica via percorribile dal g.i. Questioni pregiudiziali di rito Condizione per potere decidere nel merito è la sussistenza di tutti i presupposti processuali positivi e l’assenza di tutti quelli negativi. Tutte le questioni attinenti ai presupposti processuali sono quindi in astratto idonee a definire il giudizio; in concreto idonei sono solo la mancanza o il vizio di un presupposto processuale positivo, o la presenza di un presupposto processuale negativo. In tal caso è inutile compiere l’attività istruttoria sul merito: attività che non sarebbe comunque utilizzata per la decisione. Il g.i. rimette la causa in decisione solo quanto ritiene carente o viziato il presupposto processuale positivo; o quanto ritiene esistente il presupposto processuale negativo. Se è invece sollevata, dalle parti, una questione attinente ad un presupposto processuale, questione che però il giudice ritiene infondata, egli accantona la questione pregiudiziale e dispone che essa sia decisa unitamente al merito. Se, il giudice, di fronte ad una eccezione, ad es., di incompetenza, rimette subito la causa in decisione e in quella sede si dovesse ritenere l’eccezione infondata, o l’organo decidente ha già in mano tutti gli elementi per decidere del merito; o, non essendo la causa istruita nel merito, essa deve tornare in istruttoria, e allora si è svolta un’attività (la fase decisoria) inutile. Dalla fase decisoria esce una sentenza che non è definitiva, lo costringe a rimettere la causa in istruttoria, affinché si completi la raccolta del materiale necessario per la sentenza definitiva. Se il giudice ritiene erroneamente di essere competente, completa l’istruttoria; quando poi, in sede di decisione, si dichiara incompetente, si perde l’istruttoria sul merito che è stata inutilmente svolta. Se, al contrario, il g.i. ritiene erroneamente di essere incompetente, rimette subito la causa in decisione senza completare l’istruttoria; quando, in quella sede, si dichiara competente, poiché non ha gli elementi necessari per decidere il merito, dovrà rimettere in istruttoria e si sarà svolta inutilmente una fase decisoria. Nella causa ci saranno 2 fasi decisorie: la 1° sulla questione di competenza, poi la causa ritorna in istruttoria; una volta completata, la causa passa di nuovo in decisione e sarà emessa la sentenza definitiva. Rapporti tra rito e merito Vi è, di solito, un ordine di pregiudizialità: la questione di rito viene prima di quella di merito. La correttezza del processo condiziona la bontà del risultato processuale: se non sono rispettate le regole del processo, la pronuncia di merito è inaffidabile, perché non è stata raggiunta secondo le regole che l’ordinamento si è dato. L’art. 187 co. 3 evidenzia che la pregiudizialità fra rito e merito è incondizionata solo al momento della decisione, è solo qui che il giudice, dovendo affrontare questioni di rito e di merito, deve decidere prima quelle di rito, e solo di fronte ad un certo esito ella decisione può passare all’esame nel merito. La pregiudizialità non sussiste in sede di trattazione, se sorgono questioni di rito, non è obbligatorio procedere alla loro trattazione prima di procedere alla trattazione di quelle di merito. Spetta al g.i. condurre il processo secondo il canone dell’economia processuale, in modo da non svolgere attività inutile. Se sorge una questione di rito, il g.i. valuta: se la ritiene fondata, è inutile istruire il merito e rimette la causa in decisione; se la ritiene infondata, è inutile investirne subito il collegio, perché rinvierebbe la causa al g.i. per completare l’istruttoria. Processo monocratico Anche il giudice monocratico può dover scegliere fra la prosecuzione dell’istruttoria e la decisione immediata di una questione pregiudiziale o preliminare. Dinanzi ad una questione astrattamente pregiudiziale o preliminare, il giudice istruttore deve valutarne la concreta idoneità a definire il giudizio. All’esito di tale valutazione, o prosegue nell’istruttoria o rimette la causa in decisione. Quanto la decisione della causa è collegiale, la scelta del giudice istruttore la causa passa al collegio oppure rimane dinanzi a lui. Ma se la decisione della causa è monocratica, può essere incerto se l’opinione espressa dal giudice istruttore circa l’inidoneità in concreto (quindi l’infondatezza) della questione pregiudiziale o preliminare costituisca una mera delibazione oppure una vera e propria decisione della questione, che dà luogo ad una sentenza non definitiva. Ciò potrebbe indurre la parte ad impugnare subito il provvedimento: impugnazione che diviene necessaria ove si tratti di questione di l’ordinanza, quando la decisione della causa è complessa, e comporta quindi un suo impegno rilevante in termini di tempo. La funzione dell’ordinanza, infatti, è di anticipare la tutela quando la decisione è poco impegnativa, quindi veloce. Sentenza Dopo la pronuncia dell’ordinanza possono verificarsi 3 diversi eventi: 1) il processo prosegue verso la sentenza, che è in ogni caso sostitutiva dell’ordinanza. È necessario che la controparte, entro 30 giorni dalla pronuncia dell’ordinanza o dalla sua comunicazione, notifichi all’istante e poi depositi in cancelleria un ricorso, nel quale manifesta la sua volontà di ottenere la sentenza (novità della riforma del 2006). Prima, l’inerzia della controparte comportava il dovere del giudice di pronunciare la sentenza; oggi, è previsto che la controparte debba attivarsi se vuole ottenere la sentenza. Una volta pronunciata la sentenza, se conferma solo in parte l’ordinanza, gli effetti prodotti da questa si mantengono nei limiti in cui siano sostituiti dagli effetti della sentenza. Per gli effetti prodotti dall’ordinanza non confermati dalla sentenza, la controparte può chiedere e il giudice, con la sentenza, deve disporre la restituzione delle somme pagate o delle cose consegnate o rilasciate. Tale contromisura riequilibra la posizione delle parti e chiude la controversia. Altrimenti colui che ha ragione con la sentenza non avrebbe titolo per farsi restituire subito quanto infondatamente dato sulla base dell’ordinanza, e costui dovrebbe proporre una domanda di restituzione in un separato processo. Estinzione 2) Il processo si estingue. L’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. L’efficacia di sentenza, e quindi l’impugnabilità, non sono limitati a quanto dispone l’ordinanza, ma anche… a quanto non dispone, nelle ipotesi in cui il giudice abbia accolto solo in parte l’istanza. L’ordinanza è impugnabile secondo le rispettive soccombenze, sulla base delle regole ordinarie. Inerzia 3) La parte intimata (il soggetto contro cui è emessa l’ordinanza) può rimanere inerte. Decorsi 30 giorni da quando egli ha avuto conoscenza dell’emanazione dell’ordinanza, questa acquista efficacia di sentenza impugnabile, come nel caso dell’estinzione del processo. L’intimato non può contrastare l’efficacia esecutiva dell’ordinanza: essa non è modificabile, né revocabile dal giudice che l’ha emessa, se non in sede di pronunzia della sentenza. L’intimato, però, può appellare l’ordinanza che ha acquisito efficacia di sentenza e chiedere l’inibitoria. Dopo le modifiche della riforma del 2006, l’intimato può proporre appello immediato contro l’ordinanza senza prima rinunciare alla pronuncia della sentenza. Il meccanismo della trasformazione dell’ordinanza in sentenza è nell’esclusiva disponibilità dell’intimato; e, come pure nel caso dell’estinzione del processo, questa trasformazione ha luogo anche se l’ordinanza accoglie solo parzialmente l’istanza. Infatti, l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza, e non sull’oggetto dell’ordinanza. L’istante, quindi, nel chiedere l’ordinanza sa che, in caso di accoglimento, anche solo parziale, della propria istanza, la controparte potrà chiedere o meno la pronuncia della sentenza con conseguente appellabilità immediata dell’ordinanza. Processo cumulato L’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruttoria non è utilizzabile nel processo cumulato, se non previa separazione del cumulo. Ciò sia per ragioni testuali che funzionali. Il giudice, quando pronuncia l’ordinanza, deve liquidare le spese: ma la liquidazione non è possibile se l’intera materia del contendere non è esaurita dall’ordinanza; se restano, quindi, altre domande non coinvolte nell’ordinanza in questione. Lo scopo dell’istituto è di semplificare la conclusione del processo: sorgerebbero complicazioni ove se ne ammettesse l’utilizzabilità anche in caso di processo cumulato. Soprattutto, l’ordinanza non è utilizzabile quando riguarda una domanda (di condanna) dipendente da altra domanda: poiché per la decisione della dipendente è determinante quella della pregiudiziale, non è possibile prescindere dalla decisione della principale. I problemi si pongono quando si ricade nelle ipotesi previste dall’art. 279 n. 5, cioè quei casi in cu il giudice emette una sentenza definitiva per una delle cause cumulate, separandola dalle altre. In questo caso, sciogliendosi il cumulo, la pronuncia dell’ordinanza non va incontro a inconvenienti di sorta. 10. L’ISTRUZIONE PROBATORIA Attività istruttoria L’attività istruttoria ha luogo se le parti non danno, implicitamente o esplicitamente, una comune versione dei fatti storici allegati, o se si tratta di diritti indisponibili, o se la causa non è documentalmente istruita. Il documento è un mezzo di prova, ma nel processo civile non è acquisita attraverso uno speciale procedimento, ma è presentata dalla parte al giudice, per acquistarla non serve svolgere un’attività istruttoria particolare. Prove precostituite e prove costituende Le prove precostituite esistono già fuori dal processo, sono acquisite al processo con la loro produzione. Le prove costituende devono, invece, essere formate nel processo. Si pongono problemi diversi nell’ipotesi in cui si tratta di acquisire una prova precostituita e quella di costituire nel processo una prova costituenda. Prova Se vi sono dei fatti, allegati dalle parti, che è necessario provare, occorre fornire al giudice gli strumenti per sapere se i fatti allegati sono effettivamente venuti ad esistenza. Lo strumento, per acquisire quel tanto di certezza che serve per affermare l’esistenza o meno dei fatti storici allegati, è dato dalle prove. La prova è lo strumento idoneo a convincere il giudice della verità di quanto affermato dalle parti nel processo. Tipicità della prova Gli strumenti probatori sono tipici: sono solo quelli previsti dal legislatore. Il legislatore prevede tutti i mezzi di prova astrattamente idonei, pertanto il principio di tipicità delle prove di fatto non esclude strumenti probatori che potrebbero essere utilmente utilizzati, ma esclude quei mezzi che, secondo la communis opinio, non sono attendibili. Ad es., la chiromanzia non è ritenuta una prova attendibile. I mezzi di prova si possono distinguere in 3 categorie, a seconda del modo in cui si giunge a dimostrare nel processo l’esistenza del fatto allegato. Vi sono le prove dirette; le prove indirette o rappresentative; e le prove critiche o presuntive o indiziarie. Prove dirette Prove dirette sono quelle attraverso le quali il giudice percepisce direttamente il fatto allegato con i propri sensi. Tra il fatto storico e la percezione del giudice non vi sono strumenti intermedi, è direttamente percepito dal giudice. Es. l’ispezione. I mezzi di prova diretti sono utilizzabili solo qualora il fatto da provare sia permanente e rilevante nella sua attuale esistenza, non quando il fatto rilevante non sia attuale. Prove rappresentative Prove indirette o rappresentative sono quelle in cui tra il fatto storico e la percezione del giudice c’è uno strumento rappresentativo: il giudice percepisce il fatto tramite una rappresentazione dello stesso che può essere contenuta in un oggetto o può consistere nella narrazione di un soggetto. es. il documento, la testimonianza o le dichiarazioni delle parti. Essa è l’unica utilizzabile per dimostrare che un certo fatto storico si è verificato nel passato. Problema è la sua attendibilità, cioè la capacità rappresentativa del mezzo di prova. Prove critiche o indiziarie La prova critica o indiziaria può avere ad oggetto alternativamente fatti primari, che integrano direttamente la fattispecie del diritto dedotto in giudizio, o fatti secondari, che non la integrano direttamente, ma dai quali si può giungere, tramite un ragionamento presuntivo ad affermare l’esistenza o l’inesistenza dei fatti che integrano la fattispecie. La prova indiziaria si chiama prova critica, perché comporta un ragionamento critico del giudice. Abbiamo un fatto storico primario e uno secondario, che si ricollegano tramite il ragionamento del giudice. Ma il fatto secondario, che si pone alla base del ragionamento del giudice, dev’essere provato tramite i normali mezzi di prova: una volta provato, su di esso si innesta il ragionamento attraverso il quale il giudice può dichiarare l’esistenza o l’inesistenza del fatto primario, che è rilevante per la decisione della controversia. Quindi la prova critica non è un 3° tipo di prova, ma unisce la prova di un fatto, raggiunta con i normali mezzi di prova diretti o rappresentativi, con un ragionamento del giudice che consente di desumere dall’esistenza del fatto secondario, provato ma di per sé irrilevante, l’esistenza o l’inesistenza del fatto primario, che è rilevante per la decisione, in quanto integra un elemento della fattispecie. Fatti notori Ove un fatto non sia pacifico, dev’essere oggetto di istruzione probatoria; ma vi sono casi in cui ciò non è necessario. Questo accade per i fatti notori, previsti dall’art. 115 co. 2. Notori sono quei fatti che rientrano nella comune esperienza, dei quali il giudice è a conoscenza non per averne una cognizione personale, ma perché egli li conosce come qualunque cittadino. Sono notori i fatti che rientrano nel comune patrimonio di tutti i soggetti di una certa società in un certo momento storico. Massime di esperienza impugnative dell’art. 238 c.c. (ad es. disconoscimento di paternità). Dunque, non è possibile contestare la situazione in via incidentale. Pertanto le presunzioni legali assolute, che ammettono prova contraria, si distinguono in 2 categorie: quelle che ammettono solo certi tipi di prova, e quelle che possono essere combattute solo proponendo un’apposita domanda. Presunzioni legali semplici Le presunzioni legali semplici dispensano da qualunque tipo di prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. La presunzione legale semplice inverte l’onere della prova. Al verificarsi del presupposto previsto dalla norma, quello che di norma è un fatto costitutivo diventa un’eccezione; l’eccezione diventa fatto costitutivo. Se l’eccezione diventa fatto costitutivo, sarà l’attore a doverlo provare e non il convenuto; e viceversa. Quindi il rischio della mancata prova passa dall’una all’altra parte a seconda della modificazione che la presunzione produce nella struttura della fattispecie. Le presunzioni legali semplici sono un fenomeno frequente. L’art. 2054 c.c. considera come fatto impeditivo (eccezione) l’elemento colpa o dolo che, nell’art. 2043 c.c. è un fatto costitutivo. Se si tratta di un danno conseguente alla circolazione dei veicoli, la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento è composta dal fatto e dal danno. La presenza della colpa non è più fatto costitutivo, ma la mancanza di colpa fatto impeditivo. Un altro esempio è costituito dalla presunzione di possesso intermedio, prevista dall’art. 1142 c.c. Le presunzioni legali semplici costituiscono uno dei meccanismi con cui il legislatore ripartisce il rischio della mancata prova. Presunzioni semplici Le presunzioni semplici sono definite dall’art. 2727 c.c. come le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad uno ignoto. La presunzione è il ponte logico, che il giudice istituisce tra il un fatto provato, ma irrilevante e uno non provato, ma rilevante (perché elemento della fattispecie). Le prove presuntive o indiziarie non per forza hanno efficacia probatoria inferiore alle altre. L’efficacia della prova presuntiva sta nella forza della deduzione che lega il fatto noto a quello ignoto. L’alibi, ad es., è una prova indiziaria forte perché la regola della non ubiquità non è soggetta a smentite. Altri tipi di ragionamento presuntivo sono più deboli. Ad es., la caduta da una certa altezza di norma produce delle lesioni; ma talvolta no. Nelle presunzioni semplici l’inferenza fra il fatto noto e quello ignoto è istituita dal giudice, sulla base di una regola che non è legale, ma tratta dalla massima d’esperienza. L’inferenza si basa anche sulle nozioni di natura tecnica e scientifica. Le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti: il giudice deve stare attento alla scelta della regola di esperienza. Poiché la regola di inferenza dev’essere attendibile, il giudice deve esplicitare quale è la regola che lo porta dal fatto noto a quello ignoto, in modo che sia possibile controllare l’effettiva esistenza della massima d’esperienza in quella certa società, in quel certo tempo. Le presunzioni devono per forza essere più di una, se il nesso inferenziale è forte, anche una sola presunzione è sufficiente. Limiti alla utilizzabilità delle presunzioni semplici Ci sono limiti normativi all’utilizzazione delle presunzioni semplici: non possono essere usate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni. Quando un fatto incontra limiti nella prova testimoniale, gli stessi limiti valgono anche per la prova presuntiva. È una regola legale di ammissibilità di una prova. Limiti legali di ammissibilità si pongono per tutte le prove, tranne forse che per quelle dirette come l’ispezione, che non ha limiti di ammissibilità, ma solo di rilevanza. Iniziativa istruttoria officiosa L’iniziativa per l’acquisizione delle prove nel processo può provenire dalle parti o dal giudice. Secondo l’art. 115 la regola è che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove acquisite al processo su iniziativa delle parti (compreso il p.m.); l’eccezione sono i casi, previsti dalla legge, in cui il giudice può assumere prove anche di sua iniziativa. I poteri istruttori d’ufficio sono tutti predeterminati dalla legge: l’ispezione di cose e di persone; la richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione; la testimonianza de relato (art. 257 co. 1: quando un testimone, nella sua deposizione, indica un altro soggetto che è a conoscenza dei fatti di causa, il giudice può d’ufficio sentire come testimone questo soggetto); l’esibizione in giudizio delle scritture contabili dell’imprenditore; il giuramento suppletorio. Tutto ciò vale per i processi a decisione collegiale, viceversa, per quelli a decisione monocratica con l’art. 281 ter si ampliano i poteri di iniziativa istruttoria del giudice. Oltre ai mezzi di prova indicati, il giudice istruttore può disporre d’ufficio la prova testimoniale al di là dei limiti previsti dall’art. 257 co. 1. Non è necessario che la notizia dell’esistenza di un terzo a conoscenza dei fatti di causa provenga da un testimone, basta che provenga da qualunque atto legalmente acquistato al processo, anche dalle allegazioni effettuate dalle parti. Il giudice può usare i propri poteri istruttori per provare l’esistenza di fatti allegati dalle parti; non ha poteri di allegazione d’ufficio. Infatti, quando il processo ha ad oggetto diritti indisponibili (per i quali vi è particolare interesse alla completezza delle allegazioni), il processo è integrato con la partecipazione del p.m., che ha potere di allegazione. Il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori solo rispetto a fatti già allegati. Quando l’iniziativa istruttoria proviene dalla parte, con un solo atto essa può compiere una duplice attività: l’allegazione del fatto e, contemporaneamente, la richiesta istruttoria che ha ad oggetto il fatto allegato. La parte ha il potere di allegazione e quello istruttorio; il giudice ha solo il potere istruttorio. Inoltre, il giudizio di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi di prova, cui ciascun mezzo di prova è soggetto, per i mezzi di prova costituendi, precede l’assunzione della prova. Ammissibilità della prova Il giudizio di ammissibilità riguarda i limiti che l’ordinamento pone all’utilizzazione di determinati mezzi di prova. Tali limiti riguardano sia il fatto da provare, sia lo strumento probatorio; alcuni mezzi probatori (confessione, giuramento) sono utilizzabili solo se il diritto è disponibile; la prova testimoniale, trova un limite nella natura del fatto da provare (contratto e pagamento). Il limite giuridico alle volte discende da ragioni cogenti per il legislatore, cioè da esigenze di coerenza con la disciplina sostanziale della situazione oggetto del processo; altre volte, invece, da ragioni di opportunità, quindi hanno natura processuale. Rilevanza della prova Il giudizio di rilevanza si basa sulla qualificazione giuridica del fatto che si vuole provare. Rilevante è quel fatto storico che integra un elemento della fattispecie del diritto fatto valere in via diretta o indiretta, cioè come fatto base su cui svolgere un ragionamento presuntivo. Alcuni elementi della fattispecie sono dimostrabili solo tramite un ragionamento presuntivo, cioè una prova indiretta, ad es. gli stati psicologici e i fatti negativi. Il giudizio di rilevanza è effettuato sulla base della ricostruzione della fattispecie, che avviene in via definitiva solo al momento della decisione; se il giudizio di rilevanza è anticipato rispetto alla decisione, esso è fondato su una valutazione ipotetica, perciò poi la valutazione potrà essere diversamente operata. Rilevante non è mai il mezzo di prova, ma il fatto oggetto della prova. Mentre, l’ammissibilità è una qualificazione giuridica che investe talvolta il mezzo di prova e talvolta il fatto da provare, la rilevanza investe solo il fatto da provare. Valutazione di ammissibilità e rilevanza Il giudizio di ammissibilità e rilevanza è effettuato in momenti diversi, a seconda che si tratti di prove precostituite o prove costituende, in ent5rambi i casi è strumento di economia processuale. Le prove precostituite sono soggette al giudizio solo al momento della decisione. Farebbe perdere tempo la preventiva valutazione di ammissibilità e rilevanza, piuttosto che consentire la libera acquisizione della prova precostituita agli atti di causa, salvo poi non utilizzarla per la decisione, se inammissibile o irrilevante. Mentre, le prove costituende devono essere costruite, dunque, il giudizio di ammissibilità e rilevanza è preventivo rispetto all’acquisizione delle prove al processo, per evitare un’inutile spendita di attività processuale, se le prove risulteranno poi inammissibili o irrilevanti; il giudice deve anticipare ipoteticamente il giudizio di ammissibilità e rilevanza, giudizio che poi effettuerà in sede di decisione. L’anticipazione della valutazione può portare ad un contrasto di opinioni, tra le 2 valutazioni prevale quella emessa in fase decisoria, non in istruttoria. Se non è stata assunta una prova, erroneamente ritenuta inammissibile o irrilevante, in sede decisoria viene emessa un’ordinanza con cui se ne dispone l’assunzione. Se, viceversa, è stata assunta una prova erroneamente ritenuta ammissibile e rilevante, in sede decisoria la prova non è usata. Principi generali dell’assunzione probatoria Alcune norme del c.p.c. si applicano a tutti i mezzi di prova, salve le peculiarità di ciascuno di essi: - Art. 202: con quest’ordinanza, il giudice fissa il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione. - Art. 206: all’assunzione dei mezzi di prova, le parti possono assistere di persona, non solo tramite i difensori. - Art. 207: dell’assunzione dei mezzi di prova deve farsi un processo verbale. La verbalizzazione fissa con efficacia di prova legale l’attività compiuta, consentendo anche il controllo in sede di impugnazione. - Art. 207 ult. co.: la norma richiama l’art. 116 co. 2, e per il testimone richiama la libera valutabilità della prova. Il giudice deve trarre, dall’assunzione della prova, gli elementi per la valutazione della sua attendibilità. Uno di questi elementi è il contegno del testimone. Se sorgono questioni nel corso dell’assunzione della prova l’art. 205 prevede che sia il giudice a deciderle, salva la possibilità delle parti di riproporre la questione al momento della decisione, secondo la regola generale dell’art. 178 co. 1. - Art. 209: il giudice dichiara chiusa l’istruttoria quando ha assunto tutti i mezzi di prova, o quando ravvisa superflua, per i risultati già raggiunti, la prosecuzione dell’assunzione. Tale potere va esercitato solo quando non vi sono dubbi che dati di fatto rilevanti ai fini della decisione. Si realizza, così, il contradditorio ed il giudice può non seguire le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio ove si convinca, sulla base delle considerazioni dei consulenti tecnici di parte, che il consulente tecnico ha commesso degli errori o ci sono delle lacune nella sua opera. La nomina del consulente tecnico avviene con ordinanza del g.i., come per gli altri mezzi istruttori. 12. LA PROVA DOCUMENTALE: PROFILI GENERALI La prova documentale è acquisita al processo non tramite un sub-procedimento, che si apre con un’ordinanza del giudice, il quale ne valuta preventivamente l’ammissibilità e rilevanza, e che prosegue con gli atti necessari alla sua acquisizione, ma attraverso la sua pura e semplice produzione agli atti di causa. Nozione La semplice acquisibilità della prova documentale agli atti di causa è determinata dalla sua struttura. Il documento è qualunque oggetto che fornisce la rappresentazione di un fatto storico, anche quando questa rappresentazione dev’essere tratta dall’oggetto attraverso un procedimento che necessita di uno strumento. Oltre allo scritto, sono documenti anche le rappresentazioni meccaniche (foto, nastri, documenti elettronici). Contenuto Per la sua struttura, talvolta la prova documentale costituisce la rappresentazione immediata del fatto storico; talaltra costituisce la rappresentazione di una prova del fatto storico. Quindi la prova documentale può fornire la prova immediata del fatto, oppure la prova di una prova del fatto. Efficacia probatoria L’efficacia probatoria del fatto narrato è diversa a seconda del contenuto della prova documentale. Il documento è il supporto che può contenere o la rappresentazione immediata del fatto, o la rappresentazione del fatto mediata da un’ulteriore prova: in tal caso, per stabilire cosa vale il documento dal punto di vista probatorio, bisogna vedere la caratteristica e la qualificazione giuridica della prova contenuta nel documento. Se il documento contiene la dichiarazione di un soggetto, esso prova che la dichiarazione è stata resa; per stabilire, però, se ciò che è oggetto della dichiarazione può ritenersi provato, occorre vedere chi ha reso la dichiarazione, a chi è stata resa, in che contesto, etc.; cioè occorre applicare le regole che disciplinano l’efficacia probatoria della dichiarazione. Si può così arrivare alla conclusione che i fatti provati attraverso il documento non sono rilevanti, il fatto provato con il documento non ha in sé valore probatorio. 13. SEGUE: L’ATTO PUBBLICO Nozione L’atto pubblico è la prima prova documentale da esaminare. L’art. 2699 c.c. stabilisce le condizioni in presenza delle quali un documento può definirsi atti pubblico. Esso deve farsi con le richieste formalità, ove l’atto pubblico non valga come tale per una serie di carenze (ad es. incompetenza del pubblico ufficiale o mancanza delle formalità prescritte), se l’atto è sottoscritto dalle parti, ha l’efficacia probatoria di una scrittura privata, nella quale si converte. In secondo luogo dev’essere formato da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo in cui esso è formato. Non sono atti pubblici, però, tutte le attestazioni effettuate da un pubblico ufficiale. Tali attestazioni possono essere contrastate con qualunque mezzo di prova, senza dover usare la querela di falso, necessaria per attaccare un atto pubblico. Atti pubblici sono solo quelli in cui il pubblico ufficiale esercita la funzione primaria di accertamento dei fatti, e non anche gli accertamenti strumentali all’esercizio di funzioni diverse. Il notaio; il segretario comunale in certe materie; il cancelliere che forma il verbale della causa o attesta che un certo giorno la sentenza è stata depositata in cancelleria; l’ufficiale giudiziario che attesta di aver notificato un atto; sono soggetti che hanno come funzione primaria quella di accertamento; tutti gli altri soggetti non formano atti pubblici, perché esercitano una diversa funzione primaria. La Corte di cassazione adotta una nozione ampia di pubblico ufficiale, e quindi di atto pubblico. Per la giurisprudenza è pubblico ufficiale ogni soggetto munito di pubbliche funzioni, e sono atti pubblici tutti gli accertamenti da lui effettuati nello svolgimento di tali funzioni. La giurisprudenza pone il confine fra l’atto pubblico che forma pubblica fede (contrastabile solo con querela di falso), ed atto pubblico che non ha pubblica fede (contrastabile con qualunque prova), nella circostanza che quanto attestato dal pubblico ufficiale sia o meno frutto di un suo apprezzamento. Nel 1° caso l’atto ha pubblica fede, nel 2° no. Efficacia L’efficacia dell’atto pubblico è disciplinata dall’art. 2700 c.c. Esso fa piena prova, cioè ha l’efficacia di una prova legale. L’attendibilità di quanto risulta dall’atto pubblico è prevalutata dal legislatore in senso positivo di modo che il giudice non possa ritenere non attendibile quello che ha attestato il pubblico ufficiale. L’atto pubblico fa piena prova circa: a) La provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato: il giudice non può porre in dubbio che il pubblico ufficiale abbia formato quel documento. Ciò non significa che il documento faccia piena prova anche della qualità di pubblico ufficiale del soggetto che lo ha formato. Se un qualunque soggetto redige un atto autoattribuendosi la qualifica, ad es., di notaio, non è che, solo per questo, si rende necessaria la querela di falso per contestare che il rogante sia effettivamente notaio. Affinché la provenienza del documento del soggetto che lo ha rogato sia coperta dalla pubblica fede, occorre che quel soggetto sia effettivamente pubblico ufficiale: i presupposti di efficacia dell’atto pubblico stanno fuori dalla pubblica fede che gli è attribuita, e quindi per negarne la sussistenza non è necessaria la querela di falso. Estrinseco e intrinseco b) Di tutto ciò che è avvenuto di fronte al pubblico ufficiale. L’atto pubblico fa pubblica fede dell’estrinseco, cioè di tutto ciò che il pubblico ufficiale può attestare che sia avvenuto in sua presenza, o che lui ha compiuto. In presenza del pubblico ufficiale possono essere anche rese dichiarazioni delle parti, cioè l’intrinseco. L’atto pubblico accerta in maniera che il soggetto ha reso la dichiarazione, ma la verità di ciò che è stato dichiarato non è coperta da pubblica fede. Il pubblico ufficiale non può attestare che sia vero quello che le parti gli hanno dichiarato. Se si tratta di una dichiarazione di scienza, il fatto dichiarato si considera pienamente provato se la dichiarazione ha la caratteristica di una prova legale; se, invece, ha la caratteristica di una prova libera, vale come prova libera; se, infine, non è prova, allora non vale niente. La dichiarazione resa è attestata con identica efficacia, solo che resta attestato solo che la dichiarazione è stata resa, e non la veridicità del suo contenuto. Perché il fatto dichiarato possa considerarsi provato, occorre valutare la dichiarazione secondo le regole normali: stabilire cosa accadrebbe se la dichiarazione fosse resa di fronte al giudice. L’atto pubblico serve solo a dimostrare che la dichiarazione è avvenuta: non ve ne sarebbe bisogno se la dichiarazione fosse resa di fronte al giudice. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico, sostenendo, ad es., di non aver mai reso la dichiarazione in esso attestata, deve usare la querela di falso, perché l’affermazione contrasta con quanto attestato dal notaio. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico sostenendo, ad es., che il contratto è simulato, non serve la querela per falso, perché l’affermazione non contrasta con quanto attestato dal notaio, non urta con la pubblica fede dell’atto. Quindi, per contrastare l’intrinseco, occorre usare gli strumenti normali che l’ordinamento prevede. Se si tratta di dichiarazioni di fatti a sé favorevoli, la controparte non ha bisogno di contrastarle, perché non costituiscono prova. Se si tratta di dichiarazioni confessorie, il dichiarante può contrastarle nei limiti in cui la legge consente la revoca della confessione. Querela di falso Per contrastare l’estrinseco invece si deve usare la querela di falso, che serve per contrastare ciò che dall’atto pubblico è attestato con efficacia di prova legale. La querela di falso è un processo sui generis perché, per regola generale, oggetto del processo sono situazioni sostanziali. Invece l’oggetto della querela di falso è la genuinità di un atto pubblico, quindi un fatto, non un diritto. Falso ideologico e falso materiale Al documento si possono imputare 2 tipi di falsità: il falso ideologico ed il falso materiale. Si ha falso ideologico quando si afferma che il pubblico ufficiale ha attestato fatti diversi da quelli avvenuti in sua presenza. L’atto nasce già infedele alla realtà che rappresenta. Si ha falso materiale quando l’atto nasce genuino, mentre successivamente ne viene alterato il testo. Del falso ideologico è responsabile il pubblico ufficiale, mentre nel falso materiale l’alterazione materiale può provenire anche da soggetti diversi. La disciplina del falso in atto pubblico è contenuta nel codice penale, agli artt. 476 ss. In via principale La querela di falso si propone in via principale o in via incidentale. Si ha querela di falso in via principale quando il processo ha ad oggetto immediato ed esclusivo la falsità dell’a tto. Non serve attendere che il documento sia usato per poter proporre querela di falso: può essere proposta anche in via preventiva. In tal caso, la domanda si propone con citazione davanti al tribunale, che è competente per materia. In via incidentale contumace non sa che è stata prodotta; la scrittura privata può considerarsi come riconosciuta solo dopo che sia stata notificata al contumace una copia del verbale dell’udienza, in cui si dà atto della produzione della scrittura. Se il contumace resta tale, il giudice può porre la scrittura a fondamento della sua decisione. In ogni caso, se il contumace si costituisce in un momento successivo, può sempre disconoscerla all’atto della sua costituzione. Autenticazione L’autenticazione della sottoscrizione si ha quando essa è apposta in presenza di un pubblico ufficiale, il quale ha previamente identificato il soggetto che sottoscrive. Il pubblico ufficiale attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da un soggetto della cui identità egli è certo; ciò dà certezza della sottoscrizione, quindi il contenuto della dichiarazione è imputabile al soggetto che appare averla sottoscritta. La scrittura privata, sebbene autenticata, rimane tale, e quindi non è soggetta al regime degli atti pubblici. L’autenticazione, invece, è un atto pubblico: se l’interessato vuole sostenere di non aver sottoscritto l’atto, deve usare la querela di falso. Verificazione Se la parte, contro cui è prodotta una scrittura privata non autenticata, la disconosce tempestivamente, si può giungere ad un giudizio di verificazione, il 3° meccanismo che dà certezza della genuinità della sottoscrizione. Secondo l’art. 216, la parte che voglia usare una scrittura privata disconosciuta deve chiederne la verificazione. In via principale Vi può essere un processo di verificazione in via principale: si può proporre un’autonoma domanda, avente come solo oggetto quello di verificare la sottoscrizione della scrittura privata. Ciò quando la parte dimostra di avervi interesse, quando gli è utile che la scrittura privata abbia una sottoscrizione certa. La parte ha interesse all’accertamento della sottoscrizione prevalentemente nelle ipotesi in cui la scrittura privata è soggetta a trascrizione o più in generale a pubblicità. Infatti, la trascrizione può essere fatta solo ove l’atto da trascrivere sia o un atto pubblico, o un atto con sottoscrizione autenticata o verificata. Lo stesso vale per l’iscrizione, ad es., di un’ipoteca. L’art. 216 ult. pt., prevede che, se è proposta verificazione in via principale e la controparte si costituisce e riconosce la propria sottoscrizione, le spese del processo vanno a carico dell’attore; se non la riconosce, le spese sono imputate secondo la regola della soccombenza. Il riparto delle spese processuali segue il principio della causalità: le spese vanno a carico di colui che ha reso necessario l’intervento giurisdizionale. In via incidentale La verificazione può essere chiesta in via incidentale, come incidente sorto in un processo, avente un diverso oggetto. La verificazione in via incidentale non è un processo distinto da quello da cui nasce, ma una fase processuale interna ad esso, per la quale è competente il giudice adito con la domanda iniziale; non vi è sospensione del processo perché la verificazione è una fase istruttoria interna ad un unico processo. Oggetto del processo di verificazione non è una situazione sostanziale ma è un documento, in particolare l’imputabilità di una prova documentale. Come nella querela di falso l’oggetto è la genuinità dell’atto pubblico, così nella verificazione della scrittura privata l’oggetto è la provenienza della sottoscrizione. Processo di verificazione Il processo di verificazione si svolge tramite la consulenza tecnica di un perito calligrafo e attraverso le scritture di comparazione. Occorre procurarsi delle sottoscrizioni che provengono dal soggetto cui si imputa la sottoscrizione del documento e comparare la sottoscrizione con quelle da lui apposte in altri documenti, tramite un’indagine calligrafica, per stabilire se quella provenga dallo stesso soggetto da cui provengono le altre. Se manca l’accordo delle parti nell’individuazione delle scritture di comparazione, il giudice individua quelle di altri documenti riconosciuti o accertati con sentenza o con atto pubblico. Se mancano le scritture di comparazione, l’art. 219 stabilisce che la parte, che nega di aver sottoscritto la scrittura, scriva sotto dettatura. Il consulente tecnico può dettargli delle frasi, che lui scrive in sua presenza in modo da avere delle scritture di comparazione da usare. Se la parte rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura da verificare può considerarsi come riconosciuta. La verificazione è chiusa con sentenza che, una volta passata in giudicato, dà certezza che quella sottoscrizione proviene o meno dal soggetto che appare averla apposta al documento. Quando non si può giungere alla fine del processo di verificazione, cioè ad un giudizio di genuinità o meno della sottoscrizione, la scrittura privata non ha alcun effetto, perché non vi è certezza della sua imputazione. Efficacia L’art. 2702 c.c. afferma che la scrittura privata fa piena prova, sottolineando così che essa è una prova legale: il giudice (di fronte ad una scrittura riconosciuta, autenticata o verificata) deve credere alla provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta. Come nell’atto pubblico, ciò che è coperto da efficacia di prova legale è la provenienza delle dichiarazioni, quindi l’estrinseco dell’atto. Per quanto concerne l’intrinseco, la scrittura privata, come l’atto pubblico, è una prova che può contenere svariate cose. Se contiene dichiarazioni di volontà consente di stabilire che la parte ha realmente assunto quell’impegno negoziale. Se contiene dichiarazioni di scienza, fa piena prova della provenienza di tali dichiarazioni. Se è una dichiarazione di scienza di natura confessoria (la parte dichiara fatti a sé sfavorevoli) è coperto, a livello di prova legale, anche il contenuto intrinseco della dichiarazione, e la scrittura privata costituisce la prova legale di un’altra prova legale. Il giudice è doppiamente vincolato: a ritenere che la dichiarazione è stata resa da quella parte; che ciò che la parte dichiara è vero, perché si tratta di fatti a lei sfavorevoli. Ma se, nella scrittura privata, la parte dichiara fatti a sé favorevoli, rimane accertato, a livello di prova legale, che la parte ha reso quella dichiarazione; però la veridicità dei fatti narrati non è ricavabile dalla scrittura, perché la dichiarazione non ha efficacia probatoria. Querela di falso La scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni sin a querela di falso: il documento, la cui sottoscrizione è genuina, potrebbe essere stato falsificato (falso materiale). Mentre contro l’atto pubblico è possibile solo la querela di falso, perché la provenienza delle dichiarazioni è accertata, contro la scrittura privata è ammissibile il disconoscimento e/o la querela di falso che incidono su 2 profili diversi: il 1° incide sull’imputabilità del documento, la 2°sulla falsità del documento. Anche per la scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, come per l’atto pubblico, non è necessaria la querela di falso, quando si voglia contrastare l’intrinseco. Essa serve solo per contrastare ciò che è provato con efficacia di prova legale. Data certa Non è detto che la scrittura riporti la data; ma se lo fa, anche la data è accertata con efficacia di prova legale, solo fra le parti fra le quali forma prova. Le scritture private sono opponibili ai terzi solo se hanno data certa, cioè se è certo che la scrittura è stata formata in quella certa data. L’esigenza che la scrittura privata abbia data certa rispetto ai terzi nasce dalla possibilità della retrodatazione. Perché la scrittura privata abbia data certa, occorre che si verifichi una delle ipotesi previste dall’art. 2704 c.c.: 1) La scrittura può essere autenticata. Con l’autenticazione il notaio attesta che la sottoscrizione è stata apposta da un certo soggetto in un certo giorno. In questo modo si ha la certezza sia della provenienza che della data, fino a querela di falso, in quanto anche il notaio può fare autenticazioni retrodatate. 2) La scrittura può essere registrata. La registrazione si attua presentando un doppio originale dell’atto all’ufficio del registro, il quale percepisce l’imposta relativa, timbra uno degli originali e l’archivia, e restituisce alla parte l’altro con l’attestazione che quel certo giorno è stata effettuata la registrazione dell’atto. 3) Può sopravvenire un evento che dà certezza che la scrittura non possa essere stata formata dopo, come la morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno dei sottoscrittori. 4) La scrittura può essere riprodotta in un atto pubblico; ad es., il notaio attesta, nel redigere un atto pubblico, che gli è stata presentata una certa scrittura con un certo contenuto. 5) Può verificarsi un altro fatto che stabilisca l’esistenza, in un certo giorno, del documento. Le ipotesi dell’art. 2704 non sono tassative. Sono altresì idonei tutti quei fatti da cui risulti sufficientemente certa la data di sottoscrizione del documento. Ad es., la produzione di un documento in giudizio, ove tale produzione sia attestata dal cancelliere, basta ad attribuirgli data certa, in quanto prova che, nel giorno in cui è stato prodotta, la scrittura privata esisteva. È invece discusso se il timbro postale apposto sulla scrittura privata sia sufficiente a conferire alla stessa data certa. Il timbro postale di per sé non garantisce che la scrittura sia già stata formata al momento in cui il foglio è stato spedito. Quietanza La ricevuta di pagamento che il creditore rilascia al debitore, o quietanza di pagamento, è una dichiarazione scritta con il quale il creditore afferma di aver ricevuto il pagamento. La data certa delle quietanze può essere fornita con ogni mezzo di prova, tenuto conto delle circostanze. Il giudice deve prima valutare se nella normalità di svolgimento di quel rapporto si usa rilasciare la quietanza con o senza data certa. Ci dev’essere una valutazione preventiva di verosimiglianza del fatto che sia stata rilasciata una quietanza senza data certa. 15. SEGUE: LE ALTRE PROVE DOCUMENTALI Telegramma conformità all’originale, la fotocopia si presume rappresentare correttamente l’atto fotocopiato, ed ha la stessa efficacia dell’atto rappresentato. Il disconoscimento dev’essere effettuato nella prima difesa successiva al momento, in cui la fotocopia è stata prodotta in giudizio. Il disconoscimento fa sì che l’atto perda la propria efficacia probatoria. Dopodiché, o quegli stessi fatti si provano con altri mezzi di prova; o si produce l’originale da cui quella fotocopia è stata tratta. Secondo la giurisprudenza, invece, il giudice può accertare la conformità della fotocopia all’originale attraverso altri mezzi di prova, ed anche mediante le presunzioni. La produzione di fotocopie in giudizio è usuale nella prassi, l’incertezza sulla genuinità della fotocopia (per il disconoscimento di controparte), comporta, finché tale incertezza perdura, l’inutilizzabilità della fotocopia come prova. Atti di ricognizione Secondo l’art. 2720 gli atti di ricognizione e di rinnovazione sono previsti in relazione a rapporti di durata molto lunga e hanno lo scopo di rinnovare il titolo originario. Quelli espressamente previsti sono 2: quello dell’art. 969 c.c. che, in tema di enfiteusi, stabilisce che il concedente può richiedere la ricognizione del proprio diritto, da chi si trova in possesso del fondo enfiteutico, 1 anno prima del compimento del ventennio. L’enfiteusi può durare molto a lungo, e ogni 20 anni è prevista la possibilità di riconfermare il titolo del rapporto; quello dell’art. 1870 c.c., il quale, in tema di rendita perpetua, stabilisce che il debitore della rendita o di ogni altra prestazione annua che debba o possa durare oltre i 10 anni deve fornire a proprie spese al titolare, se questi lo richiede, un nuovo documento, trascorsi 9 anni dalla data del precedente. Anche qui 1 anno prima della scadenza si può chiedere la rinnovazione del documento. Non bisogna confondere gli atti di ricognizione con la ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. Questa è un meccanismo processuale di semplificazione della fattispecie, ma non un meccanismo probatorio. L’art. 2720, nel disciplinare l’efficacia degli atti di ricognizione e di rinnovazione, introduce una nuova ipotesi di prova legale perché afferma che l’atto di ricognizione o di rinnovazione fa piena prova delle dichiarazioni contenute nel documento originale, che può essere combattuta solo producendo l’originale per accertare che vi è stato un errore nella ricognizione o nella rinnovazione. L’atto di ricognizione accerta in maniera piena il contenuto dell’atto originale. È possibile distruggere tale efficacia solo producendo l’originale e constatando che vi è stato un errore nella ricognizione. Quando l’atto di ricognizione contrasta con l’originale, prevale l’originale: regola opposta a quella della consecuzione dei contratti, secondo la quale il contratto successivo modifica quello anteriore. La regola è inversa, perché l’atto di ricognizione ha efficacia non dispositiva, ma probatoria, è una dichiarazione di scienza e non di volontà. In mancanza di produzione dell’atto precedente, si ritiene che quello che è stato accertato dopo sia conforme a quello che era il contenuto originario dell’atto. Produzione Vediamo come le prove documentali sono acquisite al processo, per essere usate dal giudice per la decisione. Il meccanismo più semplice di acquisizione della prova documentale è la sua produzione, che si ha inserendo il documento nel proprio fascicolo e dandone atto o nel verbale di udienza (se il documento è prodotto in corso di causa), o negli atti introduttivi o in altri atti scritti eventualmente formati nel corso del processo (se il documento è prodotto in occasione della formazione di tali atti scritti). Principio di acquisizione Una volta che il documento è stato prodotto, esso è acquisito al processo, e la parte che lo ha prodotto non lo può più ritirare senza il consenso di tutte le altre. È una manifestazione del principio di acquisizione. Una volta acquisito un documento agli atti di causa, può essere usato per provare, nei limiti della sua disciplina, qualsiasi fatto. Può essere usato sia a favore che contro colui che ha prodotto il documento. Se viene prodotto in giudizio un documento che prova un fatto favorevole alla parte che lo ha prodotto, ma anche un fatto favorevole alla controparte, il giudice può trarre dal documento la prova di entrambi i fatti. Però, la tecnica del processo può imporre talune precauzioni: nel processo civile i documenti sono conservati nel fascicolo di parte, e questo può essere ritirato al momento del passaggio della causa in decisione ed è restituito dal cancelliere alla parte quando è stata pronunciata sentenza definitiva; può quindi accadere che il fascicolo non sia più depositato, ed in tal modo il documento prodotto non sia più agli atti di causa. La parte, che voglia avvalersi del documento prodotto dalla controparte, deve farne precauzionalmente una copia da produrre per l’eventualità che la controparte non depositi il proprio fascicolo perché, ad es., rimane contumace in appello. A questo deposito non osta il divieto di produzione di nuovi documenti, perché in realtà il documento non è nuovo essendo già stato prodotto in precedenza. Laddove, invece, come nel processo tributario, i documenti prodotti dalle parti sono custoditi nel fascicolo d’ufficio, di tale precauzione non vi è bisogno. Esibizione Per la produzione di un documento bisogna averne la materiale disponibilità, in modo da poterla depositare agli atti di causa. Se fosse nel possesso o della controparte o di un terzo, l’acquisizione al processo mediante produzione non può aver luogo. Però, tramite l’esibizione, i documenti in possesso della controparte o dei terzi possono essere acquisiti al processo. L’esibizione, diversamente dalla produzione, è l’attività, non della parte che vuole usare il documento, ma di un altro soggetto, che può essere la controparte o un terzo. L’esibizione può essere disposta solo se la parte, che la richiede, non può acquisire il documento e produrlo in causa. L’istituto non può sopperire all’inerzia ingiustificata della parte. L’art. 210 prevede che il giudice possa ordinare, su istanza di parte, all’altra parte o ad un terzo, di esibire in giudizio un documento, di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. L’esibizione incontra gli stessi limiti, che l’art. 118 stabilisce per l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo. L’esibizione è ordinata se essa può compiersi senza grave pregiudizio per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti nel c.p.c. Affinché possa essere ottenuto l’ordine del giudice occorre, ove ciò sia contestato, che la parte istante dimostri il possesso della cosa da parte di colui a cui sarà rivolto l’ordine di esibizione; se questi nega di possedere la cosa, occorre che l’istante dimostri che la possiede; altrimenti l’esibizione non può essere ordinata. L’art. 210 non prevede alcuna conseguenza per l’ipotesi in cui l’obbligato non ottemperi all’ordine di esibizione. Si ritiene applicabile l’art. 118 co. 2: il giudice può trarre argomenti di prova dall’ingiustificato rifiuto della parte; al limite può considerare come provati i fatti che si volevano dimostrare attraverso quel documento. Se invece rifiuta il terzo, si ritiene richiamabile ll’art. 118 ult. co.: al terzo può essere irrogata una sanzione pecuniaria. L’art. 211 prevede che il terzo possa essere sentito o in via preventiva (prima che sia ordinata l’esibizione) o in via successiva (il terzo può, dopo l’ordine di esibizione, proporre opposizione contro l’ordinanza di esibizione, facendo valere le ragioni ostative all’ordine di esibizione). Se il giudice si convince che l’ordine di esibizione non doveva essere dato, perché l’opposizione del terzo è fondata, revoca l’ordinanza di esibizione, che è un’ordinanza istruttoria, perciò modificabile e revocabile dal giudice che l’ha emessa ai sensi dell’art. 177. Richiesta di informazioni alla P.A. Un istituto a metà strada tra la prova documentale e la prova costituenda è la richiesta di informazioni alla P.A., disciplinata dall’art. 213, che stabilisce che, fuori dei casi degli artt. 210 e 211, il giudice può richiedere d’ufficio alla P.A. informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione, che è necessario acquisire al processo. L’art. 96 disp. att. c.p.c. prevede che la P.A. risponda per iscritto con un atto che contiene le informazioni e che è allegato agli atti di causa. Gli atti e documenti dell’Amministrazione riguardano l’attività istituzionale della P.A., sono quindi provvedimenti amministrativi. Il giudice non può delegare all’amministrazione il compimento di indagini, ma può richiedere il risultato di indagini già autonomamente compiute. La richiesta di informazioni deve riguardare l’attività istituzionale dell’ente, non le conoscenze personali dei dipendenti, i fatti di cui il singolo funzionario sia a conoscenza. In questi casi, il funzionario può eventualmente essere sentito come testimone. Il valore delle informazioni dipende dal tipo di attività della P.A., alla quale esse si riferiscono: non hanno efficacia di prova legale (a meno che la funzione dell’attività pubblica sia quella di fornire atti muniti di pubblica fede, come gli atti di stato civile), perché non sono atti pubblici, hanno solo particolare attendibilità perché provengono dalla P.A., superabile con una prova contraria, senza necessità della querela di falso. Circa l’utilizzabilità della richiesta di informazioni alla P.A., esiste una doppia lettura dell’art. 213. La più diffusa in dottrina e giurisprudenza, interpreta l’espressione fuori dai casi previsti dagli artt. 210 e 211, in senso avversativo: se e è possibile ricorrere all’esibizione, non sarebbe ammessa l’utilizzazione della richiesta di informazioni alla P.A. Secondo tale lettura, la richiesta di informazioni alla P.A. si aggiunge all’esibizione in tutti i casi in cui la parte non è in grado di procurarsi da sola il documento. Nella 2° lettura tale espressione significa che il documento, oltre che attraverso gli strumenti previsti dagli artt. 210 e 211, può essere acquisito anche attraverso lo strumento dell’art. 213. Questa lettura si fonda sul potere d’ufficio del giudice di richiedere le informazioni. Quanto ai rapporti fra la richiesta di informazioni alla P.A. e l’accesso ai documenti amministrativi, tramite quest’ultimo strumento la parte può accedere e farsi rilasciare copia di un documento amministrativo. Al contrario, di fronte ad una richiesta di informazioni, la P.A. non invia al giudice un documento, ma una nota contenente le informazioni. 16. LA PROVA TESTIMONIALE Nozione L’art. 2725 disciplina la prova testimoniale dei contratti che esigono la forma scritta. Nei contratti con forma scritta ad substantiam, la forma scritta è un requisito di efficacia del contratto. I contratti con forma scritta ad probationem devono essere provati per iscritto, però sono validi ed efficaci anche se stipulati oralmente, per cui la forma scritta è solo un limite alla prova. Contratti con forma scritta ad probationem sono, ad es., l’assicurazione e la transazione. Se il contratto ha la forma scritta ad probationem non è possibile usare la prova testimoniale, ma è possibile usare altre prove, come, ad es., la confessione o il giuramento; cosa non possibile per il contratto con forma scritta ad substantiam. Quando il contratto ha forma scritta ad probationem la prova del contratto è sottoposta alla più rigida disciplina dell’art. 2725 e non a quella degli artt. 2721 e ss. Forma scritta ad substantiam Per i contratti con forma scritta ad substantiam, la forma è requisito di validità e di efficacia del contratto. Secondo l’art. 2725 si può usare la prova testimoniale in relazione ad un contratto con forma solenne solo quando la parte dimostra di aver perduto il documento senza sua colpa. L’esclusione della prova testimoniale, per i contratti che hanno forma scritta ad substantiam, è ricollegata all’irrilevanza della prova testimoniale. Si afferma che l’esclusione della prova testimoniale dipende dalla considerazione per cui se si chiedesse di dimostrare per testimoni che un contratto, avente forma scritta necessaria, è stato stipulato in forma orale si chiederebbe di provare un contratto nullo, non produttivo di effetti, e quindi si avrebbe una prova irrilevante. In realtà, se fosse un problema di irrilevanza, basterebbe provare che il documento è venuto ad esistenza, tutt’al più che è stato perduto, non servirebbe dimostrare anche che il documento è stato perduto senza colpa della parte. Questo ulteriore elemento (che impone la prova dell’incolpevole perdita del documento) significa che ci si mantiene nella logica dell’esclusione della prova testimoniale dei contratti, ma in una forma più rigida. Onere di predisporre e custodire la documentazione Il legislatore onera le parti di predisporre la documentazione scritta dei contratti, ma rende più elastica la disciplina con la possibilità di ammettere la prova testimoniale del contratto ai sensi degli artt. 2721 e 2723. Al contrario per la prova testimoniale dei contratti aventi forma scritta, ad substantiam o ad probationem, vale la stessa ratio ma la disciplina è più rigida, oltre a predisporre la prova scritta la deve anche custodire; se perde colpevolmente la prova scritta, la prova testimoniale non è ammissibile. Se quella scritta viene meno per colpa delle parti, non può essere sostituita dalla prova testimoniale. Se l’onere di conservare la documentazione è stato adempiuto e il documento si è perso, è ammessa la prova testimoniale, avente ad oggetto che il contratto è nato con la forma scritta (quando la forma è ad substantiam) e che il documento si è perso dopo senza colpa. La ratio rientra quindi in quella più generale dei limiti alla prova testimoniale dei contratti. Deduzione della prova testimoniale La prova testimoniale dev’essere dedotta mediante l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti formulati per capitoli di prova. Soggetti che non possono testimoniare Non tutti possono deporre come testimoni. Fermo restando che le parti non possono testimoniare, anche altri soggetti non possono rendere testimonianza, secondo quanto disposto dagli artt. 246-249 c.p.c. Incapacità L’art. 246 esclude coloro che hanno un interesse in causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al processo: coloro rispetto ai quali si sarebbe potuto realizzare il simultaneus processus ai sensi degli artt. 103 ss. Quindi, sono incapaci a testimoniare i titolari di una situazione sostanziale, connessa con quella oggetto del processo in modo tale da legittimare la loro partecipazione al processo, sotto qualsiasi veste. Divieto L’art. 247 escludeva la testimonianza dei parenti e affini, partendo dal presupposto della loro inattendibilità, in quanto non imparziali e portati a favorire la parte a cui sono legati. La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma, nella parte in cui pone un divieto assoluto alla testimonianza dei parenti ed affini. Pertanto, il coniuge, i parenti, gli affini, etc., possono essere sentiti dal giudice come testimoni, salva la valutazione della loro attendibilità, in relazione alla quale il giudice terrà conto che il testimone legato da parentela o affinità ad una delle parti è portato a presentare le cose in maniera non imparziale. Inoltre, la Corte costituzionale si è rifiutata di estendere la valutazione di incostituzionalità anche all’art. 246, in quanto ha affermato che i soggetti che hanno titolo a partecipare al processo, ancorché non formalmente parti, tuttavia lo sono dal punto di vista sostanziale, perciò la loro dichiarazione non può valere come testimonianza. Minori di 14 anni Stessa dichiarazione di incostituzionalità ha subito l’art. 248, che affermava che i minori di 14 anni possono essere sentiti solo quando la loro audizione è resa necessaria da particolari circostanze. Essi non prestano giuramento. La norma conferma che la testimonianza è una dichiarazione di scienza: ammette la testimonianza di chi ha più di 14 ma meno di 18 anni, quindi non avendo la disponibilità dei diritti, non può emettere manifestazioni di volontà, ma solo dichiarazioni di scienza. Se la testimonianza fosse una dichiarazione di volontà, non potrebbe essere resa dal minorenne. La Corte costituzionale ha affermato l’incostituzionalità dell’esclusione: secondo la ratio dell’art. 248, il testimone infraquattordicenne è inattendibile, quindi non dev’essere sentito. Tale valutazione però, secondo la Corte, dev’essere fatta dal giudice volta per volta. Testimoni tenuti al segreto Vi sono poi dei soggetti che hanno facoltà di non testimoniare (art. 249): sono i testimoni indicati negli artt. 200, 201 e 202 c.p.p. (segreto professionale, d’ufficio, di stato, etc.) ed in altre norme. Intimazione ai testimoni La presenza del testimone all’udienza fissata per l’espletamento della prova testimoniale si verifica o perché il testimone si presenta spontaneamente, o perché viene invitato a presenziare a quell’udienza. La parte predispone l’intimazione prevista dall’art. 2500, e l’ufficiale giudiziario notifica, ai testimoni ammessi dal giudice, un invito a comparire. In alternativa, può essere l’avvocato ad effettuare l’intimazione ai testi ammessi mediante raccomandata, fax o posta elettronica certificata. Se la parte non fa intimare i testimoni, e questi non compaiono, il giudice dichiara la decadenza della prova testimoniale. Assunzione dei testimoni L’assunzione dei testimoni avviene previo loro giuramento, poi il testimone dichiara le proprie generalità e i propri rapporti con le parti; quindi viene interrogato sui capitoli di prova che il giudice ha ammesso. Testimone di riferimento Gli artt. 252 e 253 prevedono che il giudice e le parti, possono chiedere al testimone le informazioni relative agli elementi che valgono a valutarne l’’attendibilità. Se uno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il g.i. può disporre d’ufficio che siano chiamate a deporre: si tratta del teste di riferimento. Ove poi si tratti di un processo a decisione monocratica, l’art. 281 ter consente al giudice istruttore di disporre d’ufficio la prova testimoniale anche quando la notizia dell’esistenza di un terzo a conoscenza dei fatti di causa provenga non da un altro testimone, ma dalle allegazioni effettuate dalle parti. Testimonianza scritta Ove le parti ed il giudice siano d’accordo, è possibile raccogliere la testimonianza anche per scritto, anziché in udienza nel contradditorio delle parti. Il procedimento è regolato dagli artt. 257 bis c.p,c. e 103 bis disp. att. c.p.c. Da quando è entrata in vigore la norma, risulta una sola sentenza edita. 17. LA CONFESSIONE Nozione L’art. 2730 c.c. definisce la confessione come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Per stabilire se la dichiarazione della parte ha natura confessoria, bisogna individuare il criterio per valutare quando un fatto è sfavorevole e quando non lo è,. In realtà i fatti storici sono un elemento neutro. Per determinare la portata confessoria di una dichiarazione, bisogna collocare il fatto dichiarato nella struttura della fattispecie del diritto dedotto nel processo. Si deve vedere se il fatto dichiarato integra l’esistenza o l’inesistenza di un fatto costitutivo, oppure di un’eccezione. Se colui, che fa valere il diritto in giudizio, dichiara l’esistenza di un fatto costitutivo o l’inesistenza di un’eccezione, la dichiarazione è a lui favorevole, per cui non integra una confessione. Colui che fa valere il diritto in giudizio rende una confessione se dichiara l’inesistenza di un fatto costitutivo o l’esistenza di un’eccezione. Facendo riferimento a colui contro il quale il diritto viene fatto valere, il discorso si inverte, perché costui rende dichiarazioni a sé favorevoli, quindi non confessorie, quando dichiara l’inesistenza di un fatto costitutivo se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice. Invece la confessione stragiudiziale resa alla parte o al suo rappresentante ha efficacia di prova legale. La confessione è una dichiarazione rivolta ad una persona determinata, non al pubblico, in quanto o è resa nel processo (pertanto alla controparte) o, se stragiudiziale, alla controparte o ad un terzo. Diviene rilevante il soggetto a cui la dichiarazione è resa, dipendendo da ciò la diversa efficacia della confessione. Revoca Secondo l’art. 2732 la revoca della confessione può aver luogo solo per errore di fatto o violenza. Errore di fatto è l’errore nella manifestazione della volontà: errore ostativo. Non basta l’errore oggettivo, la diversità della realtà storica rispetto a quella nella dichiarazione confessoria, bisogna dimostrare l’errore soggettivo del confitente nel momento in cui è stata resa la dichiarazione, cioè che, quando è stata resa la confessione, la volontà di chi l’ha resa era diretta a dichiarare certi fatti e ne sono stati dichiarati altri. Solo in tal caso può essere revocata l’efficacia probatoria della confessione. Lo stesso discorso anche se più diretto, vale per la violenza. La confessione è un atto in cui rileva la volontà del comportamento. Quando si rende una confessione è irrilevante il perché lo si faccia, o quale scopo o effetto giuridico si voglia raggiungere; rileva che il soggetto tenga volontariamente il comportamento dichiarativo. In ciò consiste l’animus confitendi che è richiesto per l’efficacia della confessione. Ciò spiega la differenza di efficacia probatoria fra la confessione resa alla parte e quella resa ad un terzo. La confessione è un comportamento, in cui rilevano violenza ed errore di fatto, e che tuttavia è essenzialmente riconducibile al regime di un atto giuridico in senso stretto. Confessione stragiudiziale La confessione può essere giudiziale o stragiudiziale. La confessione stragiudiziale è resa fuori dal processo. Essa è una prova che a sua volta dev’essere provata, perché il fatto rappresentativo (la dichiarazione confessoria) è un fatto extraprocessuale e dev’essere dimostrato al giudice. Se la confessione è giudiziale, il giudice la percepisce con i suoi sensi. Se la confessione è consacrata in un documento, è provata tramite la produzione o l’esibizione del documento. Se, però, non è contenuta in un documento, occorre acquisirla al processo tramite altri mezzi di prova. L’art. 2735 co. 2 pone dei limiti alla prova testimoniale della confessione. La confessione trova i medesimi limiti che trova la prova diretta del fatto confessato: s incontra dei limiti nella prova testimoniale; la confessione ha ad oggetto la dichiarazione di un fatto; gli stessi limiti che tale fatto incontra nella prova testimoniale diretta, li incontra anche nella prova testimoniale della confessione che lo riguarda. La prova testimoniale della confessione, che ha ad oggetto un certo fatto, è allora ammessa alle stesse condizioni della prova testimoniale diretta di tal fatto. Confessione giudiziale La confessione giudiziale è resa in giudizio e può essere spontanea o provocata mediante interrogatorio formale. La confessione spontanea può essere contenuta in qualunque atto del processo che proviene dalla parte direttamente. Le dichiarazioni fatte dal difensore tecnico della parte non sono confessioni, perché quest’ultimo non ha il potere di disporre del diritto, oggetto del processo. Il fatto confessato è un fatto provato. Non danno luogo a confessione le dichiarazioni che la parte rende in sede di interrogatorio libero. Interrogatorio formale La confessione può essere provocata mediante interrogatorio formale, mezzo di prova costituendo, strumento con cui si cerca di acquisire al processo la confessione della parte. Esso dev’essere richiesto dalla tramite l’individuazione dei fatti, oggetto dell’interrogatorio, attraverso articoli separati e specifici, come per la prova testimoniale. Il giudice di fronte alla richiesta di interrogatorio formale, deve valutarne l’ammissibilità e la rilevanza. La valutazione di ammissibilità viene effettuata con riferimento ai presupposti di efficacia della confessione. Quindi l’interrogatorio formale non è ammissibile, se l’eventuale confessione, che si raggiunga in ordine al fatto, oggetto dell’interrogatorio, non ha efficacia, ad es., perché si deduce un interrogatorio formale in relazione a diritti indisponibili: la confessione su diritti indisponibili non è efficace, quindi anche l’interrogatorio formale, che tende a raggiungere una confessione su fatti che si riferiscono a diritti indisponibili, non è ammissibile. Per la rilevanza: è rilevante l’interrogatorio formale il cui oggetto è un fatto che, in via diretta o indiretta (tramite il meccanismo presuntivo), integra un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo. L’ammissione dell’interrogatorio formale avviene con ordinanza istruttoria del g.i., con la quale è fissata anche la data di espletamento dell’interrogatorio. All’udienza deve comparire personalmente la parte. Se la parte compare, gli vengono letti gli articoli, formulati in senso sfavorevole alla parte che risponde. Se la parte risponde si alle domande, rende una confessione. Nell’interrogatorio formale la parte non ha l’obbligo di dire la verità, la dichiarazione di fatti non veri non è sanzionata (invece il testimone deve dire la verità). Se, quindi, la parte risponde positivamente, si ha una confessione giudiziale. Se, invece, risponde negativamente, la prova è fallita. L’interrogatorio formale non ha raggiunto alcuna efficacia probatoria, perché la dichiarazione di fatti a sé favorevoli non ha efficacia probatoria. Se, infine, la parte non si presenta, o presentandosi rifiuta di rispondere, senza un giustificato motivo, il giudice, al momento della decisione, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. 18. IL GIURAMENTO Nozione Il nostro ordinamento conosce 3 forme di giuramento. Si distinguono giuramento decisorio e suppletorio, poi vi è una sottospecie del suppletorio che è quello estimatorio. Quello decisorio è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. Si ricava dall’art. 2736 che esso si integra in 2 atti distinti, che provengono da 2 parti diverse: il deferimento del giuramento, ad opera di una parte, e un atto successivo, la prestazione del giuramento, ad opera della controparte. Se manca il preventivo atto di deferimento, la dichiarazione non ha alcun valore probatorio. Mezzo di prova Qualcuno nega che il giuramento possa essere un mezzo di prova. Il giuramento può essere costruito in 2 modi diversi. Anzitutto può essere visto come un mezzo di prova, con cui si arriva all’accertamento di un fatto storico, fermo restando, però, che vuoi la qualificazione giuridica del fatto storico oggetto del giuramento, vuoi l’accertamento di altri fatti storici al di là di quello oggetto del giuramento escono dall’ambito di efficacia del giuramento. Una volta accertato il fatto storico, resta da qualificare tale fatto secondo le norme di diritto sostanziale; ed in secondo luogo resta possibile affiancare al fatto oggetto del giuramento la prova di altri fatti storici che valgono in un qualche modo a modificarne l’efficacia giuridica. Strumento di decisione L’art. 2736 n. 1 è sempre stato interpretato dalla giurisprudenza come condizione di ammissibilità del giuramento: esso è ammissibile solo se esaurisce completamente ogni questione controversa in quel processo; è decisorio se da esso e solo da esso dipende la decisione totale o parziale della causa. È utilizzabile solo quando, una volta deferito, al giudice resti solo da accertare se sia stato prestato giuramento. Se la parte ha giurato vince la causa, altrimenti, perde. In quest’ottica, esso non è un mezzo di prova come gli altri, ma un mezzo sostitutivo della decisione; formalmente ha ad oggetto fatti, ma in sostanza ha efficacia decisoria. Oggetto Il giuramento ha per oggetto uno o più fatti, ma tale oggetto deve avere la caratteristica della decisorietà, tale da esonerare il giudice da qualunque altra indagine che non sia quella di stabilire se il giuramento è stato o meno prestato. La sua efficacia è tale che qualunque altro elemento di fatto o di diritto che valga a contrapporsi a ciò che si accerta con il giuramento non è più rilevante nel processo. Se in un processo ci sono più fatti controversi, il giuramento non può avere ad oggetto solo alcuni di essi, perché non sarebbe decisorio. Il giuramento deve avere ad oggetto tutti i fatti, che sono controversi nel momento in cui viene deferito. Dopo il deferimento, nessun altro fatto può essere allegato o contestato. Disponibilità oggettiva e soggettiva Mentre per la confessione, atto unilaterale, la capacità soggettiva si riferisce al soggetto che confessa, per il giuramento, costituito da una fattispecie complessa, composta da deferimento e prestazione, ci si chiede in capo a chi deve sussistere la disponibilità soggettiva. Può essere che per una sola delle parti sussistano limiti soggettivi alla disposizione del diritto, essendo questo disponibile oggettivamente. In tal caso ci si chiede se l’atto di disposizione è il deferimento o la prestazione, e quindi se le condizioni dell’art. 2737 devono sussistere in capo a chi deferisce il giuramento o a chi è chiamato a prestarlo. L’atto dispositivo è il deferimento, quindi capace soggettivamente di disporre dev’essere colui che deferisce il giuramento. Il meccanismo decisorio viene innescato dal deferimento: chi deferisce compie l’atto di disposizione del diritto, chi giura fa una semplice dichiarazione di scienza a cui è costretto in virtù del deferimento operato dalla controparte. Quindi se, in un processo che ha ad oggetto un diritto disponibile, una parte ha limitata capacità dispositiva ed un’altra ha piena capacità dispositiva, la 1° può prestare il giuramento, ma non deferirlo, la 2° può sia deferirlo che prestarlo. Fatto illecito In caso di pluralità di parti facoltativa, la prestazione del giuramento da parte di uno dei litisconsorti e la mancata prestazione da parte di altri, porta ad una prestazione disomogenea delle cause: le parti che hanno giurato vinceranno, quelle che non hanno giurato soccomberanno. Ciò è possibile, perché sono tollerate decisioni difformi trattandosi di cause parallele, che non postulano una decisione unitaria. Deferimento Il deferimento del giuramento è disciplinato dall’art. 233 c.p.c.: è un atto che non rientra nei poteri del difensore legale. Esso dev’essere deferito dalla parte o da un procuratore munito di mandato speciale, con la specificazione del potere di deferire il giuramento. Dev’essere deferito in articoli separati in modo chiaro e specifico: dev’essere articolato in un’espressione verbale che contenga l’affermazione o la negazione del fatto decisivo e con una formulazione favorevole a colui che giura. Se l’attore giura su un fatto costitutivo, ne deve giurare l’esistenza; se giura su un’eccezione, deve giurare l’inesistenza del fatto. L’inverso per il convenuto. Riferimento Colui che si vede deferito il giuramento, oltre che giurare o meno, può anche riferire il giuramento. Ciò significa rimandarlo a colui che ha deferito il giuramento, mettendo in bocca alla controparte l’affermazione del contrario di quella che era la formula del giuramento. Se il giuramento è stato deferito sull’esistenza di un fatto, viene riferito sulla sua inesistenza; se è stato deferito sull’inesistenza di un fatto, viene riferito sulla sua esistenza. Con l’inversione della formula, colui al quale il giuramento è riferito si trova a giurare su un fatto che è a lui favorevole, in quanto, invertendo il senso della formula, ciò che era sfavorevole diventa favorevole, e viceversa. Secondo l’art. 234 c.p.c., il riferimento è possibile finché la parte, a cui il giuramento è stato deferito, non abbia dichiarato di essere pronta a giurare. Il giuramento non può essere riferito se il fatto non è comune ad entrambe le parti, altrimenti il deferente si troverebbe a giurare su un fatto non suo. Giurare, quindi, non è atto di disposizione, ma riferire il giuramento lo è, perciò, per riferirlo, occorre la capacità soggettiva di disporre. Può darsi che la parte abbia la capacità di giurare, ma non di riferire il giuramento. Revoca Il giuramento può essere anche revocato. Colui che ha deferito, o riferito, il giuramento può revocarlo finché la controparte non ha dichiarato di essere pronta a prestare giuramento. L’art. 236 c.p.c. prevede che, se il giudice nell’ammettere il giuramento ne modifica la formula, la parte, che lo ha deferito, può revocarlo. Ammissione Il giuramento, come tutte le prove costituende, è soggetto alla valutazione di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice. La rilevanza riguarda la decisorietà: l’oggetto del giuramento dev’essere tale per cui, una volta avuto il giuramento, resti solo da stabilire se sia stato prestato. Se ci sono più fatti controversi, il giuramento su uno solo non è decisorio: bisogna che li coinvolga tutti. Nelle cause riservate alla decisione del collegio, l’ammissione del giuramento è fatta dal g.i. se tra le parti non sorge controversia sull’ammissibilità o la rilevanza del giuramento; altrimenti il g.i. rimette al collegio la decisione circa l’ammissione del giuramento. L’ordinanza che ammette il giuramento è notificata alla parte personalmente. L’art. 237 c.p.c. parla di ordinanza del collegio, però anche l’ordinanza del g.i. va notificata personalmente. La ratio della notificazione personale non sta nel fatto che vi siano state contestazioni, me nelle conseguenze che ha la mancata prestazione del giuramento; e queste sono uguali vuoi che l’ordinanza sia pronunciata dal g.i. in assenza di contestazioni, vuoi che l’ordinanza sia pronunciata dal collegio in presenza di contestazioni. Assunzione Nell’ordinanza ammissiva del giuramento vengono fissati il giorno e l’ora per raccoglierlo. Ciò avviene in udienza come previsto dall’art. 238 c.p.c. La parte deve prestare giuramento personalmente e, dopo aver giurato, prosegue leggendo la formula predisposta dalla controparte. Se il giurante modifica la formula, il giuramento si considera non prestato, e il giurante soccombe. Se la parte non si presenta per giustificato motivo, il giudice dispone: fissa un’ulteriore udienza per il giuramento, anche fuori dalla sede giudiziaria. Giuramento suppletorio Esso è deferito dal giudice. Il suo presupposto è la semiplena probatio: prova semipiena, che presuppone che i fatti non siano pienamente provati, ma neppure sforniti di prova. Il giudice dovrebbe applicare, rigidamente, la regola sull’onere della prova, dovendo, ad es., ritenere come non provato il fatto provato a metà. Il che comporterebbe il rigetto della domanda, se la semiplena probatio si riferisce ad un fatto costitutivo o il rigetto dell’eccezione, se invece si riferisce ad un fatto impeditivo, modificativo o estintivo. Dunque la funzione del giuramento suppletorio è di evitare l’applicazione della regola sull’onere della prova, che impone di ritenere non provato un fatto che non è totalmente provato. Il giudice può sopperire alla parte mancante di prova, deferendo il giuramento suppletorio a quella delle 2 parti che ha provato di più, cioè a favore della quale il fatto è provato in misura maggiore. L’efficacia del giuramento e le sanzioni penali sono uguali al giuramento decisorio, ed è necessaria la disponibilità oggettiva e soggettiva del diritto oggetto del processo. Se la parte, cui è deferito il giuramento, giura, la prova si considera raggiunta, altrimenti no. Il giuramento suppletorio può essere deferito solo in fase decisoria e, nelle cause riservate al collegio, solo da questi. È una delle ipotesi eccezionali, in cui il potere di ammettere una prova non è del g.i., ma del collegio. Ciò dipende dalla funzione del giuramento: se esso serve ad integrare la prova non esaustiva di un fatto, la sussistenza di tale presupposto può essere accertata solo al momento della decisione; perciò solo il collegio, in quel momento, valutando tutte le prove raccolte potrà, in ordine ad un fatto provato a metà, deferire il giuramento alla parte che ha provato di più. Prima della fase decisoria, non può essere riferito. Perciò i comportamenti possibili sono: o la parte, cui il giudice ha deferito il giuramento, giura e vince, o non giura ed perde. Giuramento estimatorio Una sottospecie di giuramento suppletorio è quello d’estimazione. Gli artt. 2736 n. 2 ult. pt. c.c. e 241 c.p.c. vanno collegati con l’art. 1226 c.c., sulla valutazione equitativa del danno. L’art. 1226 parla in generico del risarcimento del danno, mentre le altre norme parlano del valore della cosa domandata. Esse presuppongono che la parte abbia preventivamente dimostrato il suo diritto sulla cosa domandata, che questa non possa essere consegnata e che non sia suscettibile di valutazione (ad es. perché andata distrutta). Il giudice deve determinare il valore massimo entro il quale egli sarà poi vincolato ad attribuire, a colui che ha prestato il giuramento, la somma di denaro che la parte ha giurato corrispondere al valore della cosa. Se la parte, giurando, indica un valore superiore a tale limite, il giudice non è vincolato oltre il limite massimo. 19. L’ISPEZIONE, L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE, IL RENDICONTO Ispezione L’ispezione, secondo l’art. 258, può avere ad oggetto cose o persone, ed è una prova diretta, perché attraverso essa il giudice entra in contatto immediato con il fatto storico rilevante in causa. Non ci si deve chiedere se è prova libera o prova legale, non c’è valutazione di attendibilità da effettuare, non essendo un mezzo rappresentativo; il giudice percepisce il fatto immediatamente. Secondo l’art. 118, l’ispezione deve apparire indispensabile per conoscere i fatti di causa, dev’essere l’unico mezzo per accertarli; non può essere disposta se comporta gravi danni per la parte o per il terzo, o la violazione di un segreto d’ufficio. Questi limiti riguardano le ispezioni di persone, e di norma non si applicano a quelle di di cose, se non in casi marginali. L’ispezione di cose di norma non produce un grave danno alla parte o al terzo, altrimenti torna applicabile l’art. 118 e l’ispezione non è possibile. L’ispezione è un mezzo di prova disponibile d’ufficio, il giudice vi può ricorrere anche senza l’istanza di parte. Il giudice deve procedere personalmente all’ispezione, altrimenti verrebbe meno la natura di prova diretta. Ma, nel caso di ispezione di persone, può nominare un consulente tecnico perché vi proceda. Ma, in tal caso, più che un’ispezione si ha una consulenza tecnica con funzione istruttoria. Se la parte rifiuta l’ispezione della propria persona o della propria cosa, il giudice può valutare tale comportamento come argomento di prova, quindi, insieme ad altre prove, può ritenere esistente il fatto che si voleva provare tramite l’ispezione. Se invece si rifiuta il terzo, questi è soggetto ad una sanzione pecuniaria. Esperimento giudiziale Gli esperimenti giudiziali non sono una prova diretta, ma presuntiva. Il giudice, per accertare se un fatto si è verificato in un dato modo, può ordinare che si proceda alla sua riproduzione, facendone eventualmente eseguire la registrazione. Se, ad es., in un incidente stradale, la parte afferma che si è verificato perché, date le caratteristiche della strada, non ha potuto evitare una particolare manovra, il giudice può fare l’esperimento per vedere se quella manovra era necessaria. È prova presuntiva perché il giudice non entra in contatto con il fatto storico rilevante, ma con la sua riproduzione, e sulla base della regola di esperienza deduce, dalle modalità con le quali il fatto si è verificato durante l’esperimento, il modo in cui si è verificato il fatto storico rilevante. Rendimento dei conti Il rendimento dei conti ha, per un verso caratteristiche di mezzo istruttorio e per un verso può essere oggetto di un’autonoma e separata domanda. L’obbligo di rendiconto i fatti successivi a tale udienza possono essere posti a fondamento di una nuova domanda. In secondo luogo, è rilevante per determinare la soccombenza delle parti, che serve per stabilire la legittimazione ad impugnare. Per sapere se una parte è soccombente e quindi legittimata ad impugnare, occorre far riferimento alla tutela che ha chiesto al momento della precisazione delle conclusioni. Con la precisazione delle conclusioni, le parti non possono effettuare nuove allegazioni, produrre nuovi documenti e chiedere l’assunzione di nuovi mezzi di prova, però possono modificare le conclusioni quando ciò non comporta nuove allegazioni o nuove richieste istruttorie: ad es., possono modificare in più o meno la somma richiesta, o il tipo di tutela richiesto. Le parti devono riproporre tutte le questioni che il g.i. ha risolto con ordinanza, e che non debbano essere affrontate d’ufficio in sede decisoria. Senza l’esplicita riproposizione al collegio, il collegio non può riprendere in esame le questioni che il g.i. ha risolto con ordinanza, tranne che non si tratti di questioni da decidere con sentenza ai sensi dell’art. 279 co. 2. Non è obbligatorio che le parti modifichino o precisino le conclusioni prese in precedenza. Se la parte non precisa le conclusioni, si intendono confermate le ultime conclusioni formulate. Comparse conclusionali Con l’udienza di precisazione delle conclusioni, la causa passa alla fase di decisione. Il g.i. si spoglia del potere sulla causa, che viene acquisito dal collegio, di fronte al quale si svolgono le successive attività processuali. Tali attività consistono, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla precisazione delle conclusioni, nello scambio delle comparse conclusionali, che costituiscono l’illustrazione delle ragioni in fatto e in diritto di ciascuna delle parti. Queste non possono modificare le conclusioni, ma contenere liberamente nuovi profili di diritto: nella comparsa si può impostare diversamente dal punto di vista di diritto la controversia, purché tale impostazione in diritto non presupponga l’allegazione in giudizio di fatti nuovi. Memorie di replica Le parti, dopo le comparse conclusionali, possono scambiarsi anche le memorie di replica alle comparse conclusionali. Il collegio deve emettere la decisione entro 60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Se una delle parti lo chiede nella precisazione delle conclusioni, e lo ribadisce entro il termine per il deposito delle memorie di replica, si fa luogo alla discussione orale della causa. Discussione orale Nella discussione si ha la relazione che il g.i., che partecipa al collegio come relatore, da delle questioni proposte, che devono essere decise dal collegio. Poi i difensori discutono la causa di fronte al collegio. Deliberazione La deliberazione della sentenza avviene in segreto della camera di consiglio, e di essa non vi è traccia nel processo verbale. I 3 giudici discutono fra loro la causa, senza la presenza né delle parti, né del cancelliere, né di altri soggetti. La decisione avviene affrontando le questioni nell’ordine logico; viene presa a maggioranza dei voti e, una volta raggiunta, viene steso il dispositivo della sentenza, che è la statuizione che il collegio emette. Dispositivo Anche il dispositivo rimane non conosciuto, nel processo di rito ordinario non viene reso pubblico immediatamente. Esso non ha alcuna efficacia né rilevanza esterna. Motivazione Di norma, ma non necessariamente, è il g.i. che stende la motivazione della sentenza; può accadere che, se il g.i. è andato in minoranza nella votazione, la motivazione sia affidata ad altro componente del collegio. La motivazione della sentenza è depositata in cancelleria; viene dattiloscritta, se necessario, dal personale ausiliario, poi l’originale della sentenza è firmato dal presidente e dall’estensore: il 3° giudice non firma. Se estensore è il presidente, firma solo lui. Pubblicazione Viene depositato l’originale così formato in cancelleria, il cancelliere vi appone data, timbro e la propria firma: la sentenza è stata pubblicata. Compiuto l’iter di formazione della sentenza, essa viene ad esistenza ed è pubblica: chiunque, volendo, può prenderne cognizione e richiederne copia. La fase decisoria di fronte al g.i. è analoga, ma non vi è la camera di consiglio e la sentenza è sottoscritta solo dal giudice che l’ha pronunciata. Decisione orale Il g.i. può anche decidere la causa oralmente: sia la discussione della causa sia la pronuncia della sentenza, completa di motivazione e dispositivo, avviene in forma orale. Tale modalità è stata pensata con riferimento ai casi in cui la decisione non è complessa. La sentenza, pronunciata in forma orale, è trascritta nel verbale del processo, ed una copia del verbale è inserito nella raccolta delle sentenze di quell’ufficio giudiziario. La sentenza si intende pubblicata con la lettura, e da quel momento decorre il termine lungo per l’impugnazione. Non c’è comunicazione del cancelliere alle parti costituite dell’avvenuta pubblicazione della sentenza. 21. LE ORDINANZE EMESSE IN SEDE DI DECISIONE Vediamo i provvedimenti emessi in sede di decisione dal collegio. Se la decisione è monocratica, i provvedimenti sono emessi dal g.i. che ha gli stessi poteri che ha il collegio in quelle a decisione collegiale. Ordinanza collegiale istruttoria L’art. 279 co. 1 prevede le ipotesi in cui il giudice pronuncia ordinanza senza pronunciare sentenza, in quanto provvede solo sull’istruttoria della causa. Tale provvedimento è un’ordinanza istruttoria a tutti gli effetti. L’art. 280 prevede che, con tale ordinanza, il collegio deve fissare l’udienza di fronte al g.i. per la prosecuzione del processo: cioè per l’assunzione del mezzo di prova che il collegio ha ammesso con la sua ordinanza istruttoria. L’ordinanza del collegio non è modificabile né revocabile da parte del g.i. perché l’art. 177 co. 2 stabilisce che le ordinanze sono modificabili e revocabili dal giudice che le ha pronunciate; quindi questa può essere modificata e revocata non dal g.i., ma dal collegio, quando la causa gli torna per la decisione. Se la decisione è monocratica, l’ordinanza è emessa dallo stesso g.i. e quindi è da lui modificabile e revocabile. Riapertura della trattazione In conseguenza dell’ordinanza, la causa torna nella fase di trattazione e, se si tratta di causa a decisione collegiale, il g.i. è reinvestito di tutte le sue funzioni. Il fatto che, dopo la precisazione delle conclusioni, la causa torna in istruttoria, rende necessaria una seconda precisazione delle conclusioni, le preclusioni correlate alla prima precisazione delle conclusioni si perdono. Anche i limiti temporali del giudicato hanno come referente la seconda udienza di precisazione delle conclusioni, e non più la prima. Rinnovazione delle prove Ulteriore contenuto possibile dell’ordinanza collegiale è quello dell’art. 281: il collegio, se incerto circa la valutazione o il contenuto dei mezzi di prova acquisti dal g.i., può disporne la ripetizione di fronte a sé. Così, la causa non torna in istruttoria, ma rimane in sede decisoria; la rinnovazione dei mezzi di prova è solo un modo di svolgersi della fase di decisione, e restano fermi gli effetti della precisazione delle conclusioni, non ce ne sarà una seconda. L’art. 281 si applica solo alla riassunzione di prove già assunte, non all’assunzione di prove nuove, che devono essere assunte in sede di trattazione. Se il collegio ritiene necessario assumere prove nuove, deve rimettere la causa in istruttoria. La stessa disciplina vale per le cause a decisione monocratica. Nella pratica, la facoltà di rinnovare l’assunzione delle prove non è mai stata utilizzata. Competenza L’art. 279 stabilisce che il collegio pronuncia ordinanza quando decide solo questioni di competenza. Qui, peraltro, l’ordinanza ha gli stessi effetti della sentenza. Questioni rilevate di ufficio L’art. 101 co. 2 impone al giudice, che vuole fondare la sua decisione su una questione rilevata d’ufficio, e fino a quel momento non segnalata alle parti, di riservare la decisione e di assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie relative alla questione indicata nell’ordinanza. Ciascuna delle parti potrà addurre argomenti per convincere il giudice che la questione rilevata di ufficio debba essere decisa in un modo o in un altro. Una volta realizzato il contradditorio sulla questione rilevata d’ufficio, il collegio pronuncerà sentenza tenendo conto di quanto dedotto dalle parti. Tuttavia, la realizzazione del contradditorio sulla questione può comportare la pronuncia di un’ordinanza collegiale, con rimessione della causa in istruttoria. La questione rilevata d’ufficio può giustificare l’allegazione di nuovi e diversi fatti, e lo svolgimento di attività istruttoria. La parte potrà, nella sua memoria, allegare un fatto reso rilevante dalla questione rilevata d’ufficio ed effettuare la relativa attività istruttoria. In tal caso, il collegio non potrà pronunciare sentenza, ma dovrà rimettere la causa in istruttoria per dare sfogo alle deduzioni delle parti. L’art. 101 co. 2 qualifica nulla la sentenza, emessa senza che sia stato attuato il principio del contradditorio, senza il completamento dell’istruttoria, dev’essere ritenuta idonea a definire il giudizio. Se il giudice non fosse convinto che quella questione dev’essere decisa in modo tale da definire il giudizio, allora non rimetterebbe la causa in decisione, ma completerebbe l’istruttoria. Ma la sua prognosi può rivelarsi sbagliata, così nasce la sentenza non definitiva sulla giurisdizione. Il giudice, deve emettere una sentenza di contenuto processuale (con cui si dichiara fornito di giurisdizione), e tale sentenza è non definitiva perché occorre pronunciare anche sul merito; non essendo stata effettuata l’istruttoria sul merito, deve accoppiare alla sentenza non definitiva sulla giurisdizione un’ordinanza di rimessione della causa in istruttoria, perché si faccia l’istruttoria sul merito che è stata omessa. Se, però, in sede di decisione si ritiene che la prescrizione non si è verificata, si deve esaminare le altre questioni rilevanti, cioè i fatti costitutivi e le altre eccezioni, eventualmente proposte, per decidere se accogliere o rigettare la domanda. L’istruttoria relativa a tali ulteriori elementi della fattispecie, però, non è stata effettuata, perché il g.i. l’ha ritenuta superflua, in quanto l’eccezione di prescrizione era fondata, e quindi la domanda doveva essere rigettata. Egli, allo stato, non è in grado di emettere una sentenza definitiva: deve prima effettuare attività istruttoria. Si ha, così, una sentenza non definitiva di merito (con cui si accerta che la prescrizione non si è verificata), accoppiata ad un’ordinanza con cui di rimette la causa in istruttoria per assumere le prove sugli altri elementi della fattispecie, che non sono stati istruiti. Genesi L’emanazione di sentenze non definitive nasce da un’erronea prognosi del giudice: ritenendo di essere incompetente, che mancasse la giurisdizione, che fosse carente un’altra condizione per la pronuncia di merito, che invece era possibile; o che il diritto fosse prescritto, che il credito non fosse scaduto, che vi fosse un’altra questione preliminare di merito fondata, che invece in sede decisoria era stata ritenuta infondata. Se il g.i. avesse ben valutato la fondatezza della preliminare o della pregiudiziale, avrebbe istruito totalmente la causa. Oggetto L’oggetto delle sentenze non definitive non coincide con l’oggetto della domanda, quindi del processo. Non si può chiedere, come unico oggetto della domanda, la tutela che impartisce una sentenza non definitiva. La portata precettiva di una sentenza non definitiva di rito consiste nella dichiarazione che il giudice adito ha giurisdizione o competenza sulla domanda proposta, o che sussiste la capacità processuale di una parte, che non esiste un precedente giudicato, etc. La domanda, però, deve avere come contenuto minimo necessario la richiesta di tutela giurisdizionale per una situazione sostanziale. Lo stesso vale per le sentenze non definitive di merito. Non vi può essere una valida domanda con cui ci si limita a chiedere la dichiarazione che il diritto non è prescritto, che il pagamento non si è avuto, etc. Non si può chiedere l’accertamento di un elemento della fattispecie, ma la tutela giurisdizionale del diritto. A causa di erronee valutazioni del g.i., si arriva ad una sentenza con contenuto anomalo, che non esaurisce la domanda giudiziale e non definisce il processo. Rapporti con la sentenza definitiva Diversa è la posizione delle parti in ordine alle sentenze definitive e non. La sentenza definitiva chiude il processo di fronte al giudice adito, dà o rifiuta la tutela giurisdizionale richiesta e vede una parte vittoriosa ed una soccombente. Contro la sentenza definitiva sono esperibili i mezzi di impugnazione. Le sentenze non definitive non chiudono il processo di fronte al giudice; esse sono accoppiate ad un’ordinanza che rimette la causa in istruttoria. Essa determina una soccombenza teorica, che ha ad oggetto la sola questione pregiudiziale o preliminare decisa. L’emanazione di una sentenza non definitiva, di rito o di merito, non impedisce che chi ha avuto torto sulla non definitiva possa poi avere ragione sulla definitiva in modo pieno. La portata precettiva della non definitiva è assorbita da quella definitiva non perché, con la sentenza definitiva, si operi una modifica o una revoca della non definitiva (il giudice non può riesaminare le questioni che ha già deciso con sentenza), ma perché la definitiva ha una portata precettiva tale da assorbire gli effetti negativi della non definitiva. Lo stesso discorso vale, in modo ancor più netto, per le non definitive di rito, perché la sentenza definitiva di merito dà una tutela maggiore di quella che il convenuto avrebbe avuto se la questione, oggetto della non definitiva, fosse stata decisa in senso opposto, e quindi fosse stata a lui favorevole. Con la definitiva di merito il giudice non riesamina la questione della giurisdizione: anzi, tiene per fermo di avere giurisdizione, e rigetta nel merito la domanda. Il soccombente sulla non definitiva ha la scelta fra l’impugnazione immediata della stessa e la riserva di decidere, quando sarà emessa la sentenza definitiva, se impugnare o meno la non definitiva. Impugnazione immediata Conseguenze ed effetti di ciascuna alternativa: A) Se il soccombente sulla non definitiva decide di appellarla immediatamente, possono accadere 2 cose: 1) proseguono in contemporanea 2 processi con lo stesso oggetto, ma 2 diversi ambiti di cognizione: nel processo di appello si conosce solo della questione che ha dato luogo alla non definitiva; in quello di 1° grado tutte le altre questioni diverse da quella decisa con la sentenza non definitiva. Gli esiti vanno però fra loro coordinati, perché la pronuncia che emette il giudice d’appello ha potenzialmente lo stesso oggetto della sentenza definitiva, emessa dal giudice di 1° grado. Entrambe decidono del diritto, oggetto del processo, seppur esaminando questioni diverse. Il coordinamento avviene tramite l’art. 336 co. 2 (effetto espansivo esterno); 2) la duplicazione dei processi può essere evitata sospendendo il processo di 1° grado, in base all’art. 279 co. 4. Una volta che il giudice d’appello si sia pronunciato, se la sentenza non definitiva è confermata, ripartirà l’istruttoria di 1° grado sulle ulteriori questioni, diverse da quelle già decise. Se, al contrario, la sentenza non definitiva è riformata, il processo di 1° grado non è più ripreso, diviene inutile. Passaggio in giudicato B) Se il soccombente sulla non definitiva omette ogni attività, la sentenza passa in giudicato e la questione, decisa con quella, non può essere riesaminata né dal giudice che l’ha emessa né in sede di impugnazione. Riserva C) Il soccombente può porre riserva di impugnazione. In realtà, nel nostro sistema non esiste un istituto generale che prevede la possibilità di riservare l’impugnazione della sentenza non definitiva ma esiste solo la riserva di appello. Per quanto riguarda il ricorso per cassazione, l’art. 360 co. 3 prevede che la sentenza non definitiva non è immediatamente ricorribile in cassazione; il ricorso avverso tale sentenza può essere proposto, senza necessità di riserva, quando venga emessa una sentenza definitiva (o parzialmente definitiva). Con riferimento al regolamento di competenza, vale la disciplina opposta: non essendo prevista una riserva di regolamento di competenza, la parte rimasta soccombente rispetto ad una pronuncia di sola competenza ha 2 alternative: o impugnarla immediatamente con il regolamento di competenza o non impugnarla affatto e farla passare in giudicato. Non può riservarsi la scelta di proporre il regolamento di competenza una volta emessa la sentenza definitiva, perché rispetto al regolamento di competenza non è previsto l’istituto della riserva. Riserva di appello L’istituto della riserva di appello è regolato dall’art. 340, il quale prevede che, contro la sentenza non definitiva e quella di condanna generica, l’appello può essere differito (la parte può riservarsi di proporre appello), purché la riserva sia effettuata, a pena di decadenza, nel termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la 1° udienza di fronte al g.i. successiva alla comunicazione della sentenza. Se l’udienza di prosecuzione del processo si svolge dopo che è scaduto il termine per appellare, la riserva dev’essere fatta nel termine per appellare, quindi nel termine più breve. Se, invece, l’udienza si svolge prima della scadenza del termine per appellare, la riserva dev’essere fatta entro tale udienza. Scioglimento della riserva La riserva si scioglie quando in quel processo venga impugnata una successiva sentenza, che questa sia la definitiva o che venga emessa un’altra non definitiva che sia impugnata. Alla 1° sentenza che viene impugnata, dev’essere impugnata anche la sentenza per la quale è stata fatta riserva, altrimenti quest’ultima passa in giudicato. Se contro una sentenza non definitiva qualcuno ha fatto riserva e altri ha impugnato, la riserva non può mantenersi e bisogna che sia sciolta, può esserlo quando viene impugnata una successiva sentenza nel corso dello stesso processo; ma può accadere che non ne vengano emesse altre, perché il processo si estingue. Estinzione del processo L’art. 129 co. 3 disp. att. c.p.c. prevede che, se il processo si estingue, la sentenza di merito contro la quale fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui il provvedimento che pronuncia l’estinzione diventa definitivo. Comincia a decorrere il termine per impugnare la sentenza non definitiva in relazione alla quale sia stata fatta la riserva; termine di 30 giorni se la non definitiva è stata notificata, o di 6 mesi se non lo è stata. L’art. 129 co. 2 disp. att. c.p.c. prevede lo scioglimento della riserva solo per la non definitiva di merito e non anche di rito perché le sentenze di rito non definitive perdono effetti se il processo si estingue. Nel processi che si aprirà con la riproposizione della domanda, quella pronuncia non avrà alcun effetto: se il giudice ha detto “sono competente” e il processo si estingue, non c’è bisogno di sciogliere la riserva, perché quella pronuncia non sarà vincolante quando la domanda verrà sentenza di condanna generica, il processo prosegue per la quantificazione, se la domanda coinvolge sia l’an che il quantum. Se la domanda riguarda solo l’an, allora si ha una sentenza definitiva, ed occorre instaurare un altro processo per la quantificazione. Nel primo caso, invece, la sentenza di condanna generica è equiparata ad una sentenza non definitiva. Riserva di appello La norma sulla riserva d’appello (art. 340) fa riferimento anche alla sentenza prevista dall’art. 278. Infatti, la sentenza di condanna generica rientra nella logica delle sentenze non definitive: chi è soccombente sulla condanna generica potrebbe poi essere vittorioso sulla sentenza di liquidazione. Il convenuto, vittorioso sulla definitiva, vede assorbito da questa il pregiudizio che riceve dalla sentenza di condanna generica. Ecco la logica della riserva: mi riservo la possibilità di impugnare la sentenza di condanna generica all’esito del processo perché, se vinco sulla definitiva, allora non ho più interesse a coltivare la questione sull’an. Alla sentenza di condanna generica si applica la disciplina vista per le sentenze non definitive: riserva, impugnazione immediata, passaggio in giudicato; nel caso di impugnazione immediata, biforcazione del processo, sospensione del processo sul quantum o contemporanea prosecuzione dei 2 processi, raccordo tramite l’art. 336 co. 2 etc. Riserva di ricorso per cassazione Mentre, la sentenza non definitiva è soggetta ad un diversificato regime di impugnabilità a seconda che si tratti di appello o ricorso per cassazione, la sentenza di condanna generica è suscettibile di ricorso immediato in cassazione o di riserva. La riserva di ricorso in cassazione è disciplinata dall’art. 361 (come l’art. 340). Sia la riserva d’appello che la riserva di ricorso in cassazione possono essere fatte, all’udienza di prosecuzione della causa, con dichiarazione orale da riportare nel verbale di causa o con dichiarazione scritta su foglio separato da allegare al verbale di causa; o con atto notificato ai procuratori delle altre parti costituite: l’avvocato del soccombente notifica la riserva agli avvocati delle altre parti. Quest’ultima modalità è l’unica possibile quando la 1° udienza di trattazione va al di là del termine per proporre l’impugnazione. Provvisionale Quando il giudice abbia appurato che, in ordine al quantum, nonostante ci sia bisogno ancora di attività istruttoria per completare la quantificazione, esiste già la prova per una certa quantità, egli può emettere la provvisionale, disciplinata dall’art. 278 ult. co. Su istanza di parte il giudice può condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova. 24. LA SENTENZA IN CASO DI PROCESSO CON CUMULO OGGETTIVO Se sono state proposte più domande, il processo ha più oggetti. Il giudice può decidere con un’unica sentenza tutte le domande proposte: art. 277 co. 1. Ma, se alcune delle cause sono mature per la decisione ed altre no, perché devono ancora essere istruite, si può giungere alla decisione solo di alcune. Ciò ha luogo in 2 ipotesi. Separazione delle cause 1° ipotesi: in base all’art. 279 n. 5 il collegio dispone la separazione delle cause prima di deciderla. Si ha un esplicito o implicito provvedimento di separazione delle cause, a cui segue la decisione di quelle mature e la rimessione in istruttoria di quelle non mature. 2° ipotesi: in base all’art. 277 co. 2, è necessaria, per la decisione solo di alcune delle domande, l’istanza di parte. Il giudice decide alcune delle domande e per le altre rimette in istruttoria, senza un provvedimento di separazione. Una fattispecie simile è prevista dall’art. 709 bis per la separazione e dall’art. 4 co. 12 della l. 898/1970 per il divorzio. Quando la vicenda segue le tracce dell’art. 279 n. 5, cioè quando si ha separazione, le sentenze emesse sono definitive, perché la separazione comporta la creazione di tanti processi quanti sono i gruppi di cause separate. In sede decisoria si opera quella separazione, che poteva essere fatta già in sede istruttoria: l’art. 279 n. 5 richiama gli artt. 103 e 104, e afferma che i poteri, esercitati dal collegio in sede decisoria, sono gli stessi che le norme indicate attribuiscono al g.i. Inoltre, il richiamo agli artt. 103 e 104 consente di circoscrivere il fenomeno ai soli casi nei quali il cumulo di cause può essere sciolto. Poiché siamo in presenza di una sentenza definitiva, rispetto ad essa non trova applicazione la tecnica della riserva di impugnazione: o si impugna subito o la sentenza passa in giudicato. Sentenza parzialmente definitiva Le sentenze previste dall’art. 277 non sono né definitive né non, ma sono chiamate parzialmente definitive. La sentenza esaurisce in maniera completa la richiesta di tutela relativa ad una domanda, e rispetto a questa la sentenza è definitiva, perché la successiva sentenza, relativa ad una diversa domanda, non è in grado di assorbirne la portata precettiva, come accade per le sentenze non definitive. La pronuncia, che verrà emessa al termine del processo, potrà di fatto modificare le conseguenze dannose che la prima sentenza ha arrecato al soccombente, ma non potrà assorbirne gli effetti sul diritto oggetto della prima sentenza. Rapporti con la sentenza definitiva Qualunque cosa accada con la pronuncia definitiva, non potrà neutralizzare quanto è stato deciso in ordine al diverso diritto sostanziale, oggetto della sentenza parzialmente definitiva. Il pregiudizio che arreca la sentenza parzialmente definitiva è tale per cui in nessun modo può essere rimosso dalla pronuncia definitiva, che statuisce su di una differente situazione sostanziale; e se anche la parte, soccombente sulla parzialmente definitiva, è vittoriosa sulla definitiva, ciò non toglie valore alle risultanze della prima pronuncia. Riserva di impugnazione Per le sentenze parzialmente definitive non vi è la stessa ratio alla base della riserva di impugnazione per le sentenze non definitive, perché è inutile aspettare una sentenza successiva che non annullerà la portata precettiva della parzialmente definitiva. Esiste, però, anche un’altra soluzione, che si fonda su una diversa argomentazione. Nell’economia del processo cumulato, la parte può valutare la decisione della controversia nella sua globalità, e può accontentarsi dell’esito complessivo della lite, in quanto su una domanda è rimasta vittoriosa e su un’altra è rimasta soccombente. L’impugnazione incidentale, ancorché relativa ad una domanda diversa da quella oggetto dell’impugnazione principale, può essere proposta anche quando vi sia stata acquiescenza, o siano già decorsi i termini per impugnare in via principale il capo relativo a tale domanda. Si parla di impugnazione incidentale tardiva. Se ciò vale per le impugnazioni incidentali, lo stesso criterio deve valere anche per la possibilità di riservarsi l’impugnazione delle parzialmente definitive. Se la valutazione della soccombenza va fatta in relazione alle singole domande decise, la parte soccombente sulla parzialmente definitiva deve, se non vuol perdere il potere di impugnare, esercitarlo immediatamente, anche se non è ancora in grado di valutare l’esito complessivo della controversia. Questo comporta la moltiplicazione delle impugnazioni, anche in ipotesi in cui l’impugnazione potrebbe essere evitata; se la sentenza fosse stata unica, la parte avrebbe valutato l’esito complessivo della lite, e quindi magari non avrebbe impugnato. Invece, il frazionamento della decisione delle più cause in più sentenze costringerebbe la parte ad un’impugnazione precauzionale, non potendo aspettare l’esito finale della controversia, pena la perdita della facoltà d’impugnare la sentenza parzialmente definitiva. L’inconveniente viene meno, se si ritiene che la sentenza parzialmente definitiva sia riservabile. Si consente, così, alle parti di attendere la decisione di tutte le domande proposte, e di valutare l’esito della controversia nella sua globalità. L’opinione, che ammette la riserva di impugnazione nei confronti delle sentenze parzialmente definitive, è confermata dalla nuova formulazione dell’art. 361 co. 1, il quale prevede la riserva di ricorso per cassazione nei confronti delle sentenze che decidono una o alcune delle domande senza definire l’intero giudizio. Si tratta di quelle sentenze parzialmente definitive. Se è possibile la riserva di ricorso per cassazione, perché non dovrebbe esserlo anche la riserva di appello. 25. GLI EFFETTI DELLA SENTENZA Efficacia dichiarativa Si tripartiscono gli effetti della sentenza in effetti di accertamento, costitutivi ed esecutivi, e si distinguono gli effetti della sentenza di accertamento e costitutiva da quelli della sentenza di condanna. Gli effetti della sentenza di condanna si producono dal momento in cui il legislatore attribuisce efficacia esecutiva alla sentenza. Si distingue un’esecutività in senso lato (l’efficacia della pronuncia in genere), ed una in senso proprio (l’efficacia della pronuncia di condanna). Le sentenze di condanna sono sempre immediatamente efficaci, in qualunque grado siano emesse. Si discute invece del momento in cui divengono efficaci le sentenze di accertamento e costitutive: l’opinione prevalente ritiene che lo divengono quando passano in giudicato formale; un’opinione minoritaria ritiene che siano immediatamente efficaci, fin da quando sono state pronunciate. L’effetto della sentenza di merito è individuare le regole di condotta che disciplinano i comportamenti di 2 o più soggetti, con riferimento ad un bene della vita giuridicamente protetto. In ciò si esplica la funzione giurisdizionale dichiarativa, e sotto questo profilo la sentenza di condanna non differisce dagli altri tipi di sentenza, anch’essa detta regole di comportamento. L’essere titolo esecutivo non è un effetto ricollegabile alla funzione dichiarativa, pertanto, che la sentenza di condanna abbia efficacia esecutiva niente ci dice in ordine ai suoi effetti dichiarativi. Per ricavare il momento in cu la sentenza acquista efficacia: cioè, in cui le regole di condotta, individuate nella sentenza, divengono vincolanti per i soggetti destinatari. In generale, una sentenza, purché valida, cioè conforme alle prescrizioni della normativa processuale, è vincolante dal momento della sua pubblicazione: quando si perfeziona il La costituzione è l’attività con cui una parte si presenta in giudizio ed acquisisce la possibilità di compiere gli atti processuali. La contumacia presuppone l’avvenuta acquisizione della qualità di parte.. Chi non ha la qualità di parte non può essere contumace. Ad es., i terzi, che possono intervenire nel processo, non sono contumaci, perché non hanno assunto la qualità di parte, e la assumono nel momento in cui si costituiscono, effettuando l’intervento. Al contrario, il terzo, chiamato a partecipare al processo, diviene contumace se non si costituisce. La qualità di parte si acquisisce, sia per l’attore sia per il convenuto, con la notificazione della citazione: l’aver effettuato o l’esser stati destinatari della notificazione di un atto introduttivo o di un atto di chiamata in causa. La nozione di parte individua 3 fenomeni distinti: parte come titolare della situazione giuridica dedotta in giudizio (in senso sostanziale); parte come soggetto destinatario degli effetti degli atti processuali (in senso processuale); parte come colui che può compiere atti nel processo, essendo o meno destinatario degli effetti di questi atti (in senso formale). La contumacia è dichiarata rispetto alla parte in senso processuale ma dipende da un comportamento della parte in senso formale. Ciò discende dalla nozione di costituzione: la costituzione è l’attività con cui chi ha assunto la qualità di parte manifesta la volontà di voler spendere quei poteri che in astratto l’ordinamento attribuisce a ciascuna parte. L’instaurazione del contradditorio e la costituzione sono 2 fenomeni diversi: l’instaurazione del contradditorio è finalizzata all’assunzione della qualità di parte e viene prima della costituzione, perché realizza l’astratta possibilità di difesa, mettendo il soggetto evocato in giudizio in grado di difendersi. La costituzione è la concreta realizzazione della difesa; il soggetto, messo in grado di difendersi attraverso l’instaurazione del contradditorio e tramite l’assunzione della qualità di parte, decide di usare in concreto quei poteri che l’ordinamento prevede in astratto a favore di colui che è parte del processo. Assenza Assente è colui che, essendosi costituito, non partecipa ad un’attività processuale. L’assenza presuppone l’avvenuta costituzione della parte: la costituzione esclude la contumacia. Se la parte costituita diserta il processo, in tutto o in parte (non si presenta ad una, alcune o tutte le udienze), non è contumace ma assente. Una volta che la parte si è costituita, non si applicano più le norme del procedimento in contumacia, la parte costituita è considerata presente a tutte le attività che vengono effettuate. L’art. 176 co. 2 stabilisce che le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi. L’eventuale assenza alle attività del processo non comporta alcuna modificazione delle regole ordinarie; la parte costituita e poi assente si considera presente a tutte le attività svolte nel processo. Valutazione della contumacia La contumacia non rileva ai fini della possibilità di emettere pronunce di merito: quindi la costituzione delle parti non integra un presupposto processuale. Non è necessario, per poter emettere una pronuncia di merito, che tutte le parti si costituiscano, ma solo che il contradditorio sia instaurato. La contumacia non incide sul merito della decisione, essa non comporta l’accoglimento della domanda (se contumace è il convenuto) o il rigetto della domanda (se contumace è l’attore). Il giudice accoglie la domanda se gli risulta integrata e provata la fattispecie costitutiva ed assente ogni fatto modificativo, impeditivo o estintivo; la rigetta, invece, se gli risulta non integrata la fattispecie costitutiva o presente un fatto modificativo, impeditivo o estintivo. La contumacia costituisce una ficta litis contestatio. La parte contumace non si difende attivamente, quindi è più improbabile che esca vincitrice dalla controversia. La contumacia non è valutata negativamente, tranne le ipotesi di inattività ricollegate a singoli istituti, come la mancata risposta all’interrogatorio libero, all’interrogatorio formale, o la mancata prestazione del giuramento. Inoltre, la parte contumace può presentarsi a rendere interrogatorio formale o a prestare giuramento, senza bisogno di costituirsi nel processo. La disciplina della contumacia è rivolta a favore del contumace. Ma dal 1942 la situazione è mutata. Da un lato, la disciplina derogatoria a favore del contumace si è accentuata in modo eccessivo; dall’altro, la rigida applicazione del principio per cui la contumacia costituisce una ficta litis contestatio, ha condotto a risultati grotteschi. La dottrina più recente si è chiesta il motivo che giustifica un trattamento di favore del contumace, e se non sia più opportuna una disciplina che dia rilievo al fatto che, non costituendosi, la parte manifesta disinteresse per il processo. Contumacia di tutte le parti 1) Né attore né convenuto si costituiscono in giudizio. In tal caso, il giudice non viene a conoscenza del processo. L’atto, con cui l’ufficio giudiziario viene portato a conoscenza della causa, è l’iscrizione a ruolo, per effettuare la quale occorre che la parte, che l’effettua, si costituisca in giudizio. Se non c’è iscrizione a ruolo, l’ufficio non sa della pendenza della la causa, che rimane quiescente per 3 mesi, che decorrono dal termine ultimo di costituzione del convenuto, dunque dal 20° giorno antecedente l’udienza indicata nella citazione. Entro 3 mesi la causa può essere riassunta. La riassunzione si differenzia dall’atto introduttivo perché non contiene una domanda, ma è un atto di impulso processuale, con cui si rimette in moto un processo che si è inceppato. La riassunzione può essere compiuta da qualsiasi parte del processo. Se il processo non è tempestivamente riassunto si estingue. Se, invece, è riassunto, prosegue e si considera pendente, a tutti gli effetti, fin dalla proposizione della domanda introduttiva. Gli effetti sostanziali e processuali della domanda rimangono fermi alla notificazione della citazione originaria, non seguita dalla costituzione delle parti. Assenza di tutte le parti 2) Le parti sono entrambe costituite ma nessuna compare di fronte al giudice nella 1° udienza. Secondo l’art. 181 co. 1, il giudice deve fissare un’altra udienza, e la cancelleria deve comunicarne ai difensori delle parti costituite la data. Se anche a tale udienza le parti sono assenti, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo. La stessa disciplina è prevista dall’art. 309 per le ipotesi in cui le parti costituite siano assenti nelle udienze successive alla prima. L’art. 309 richiama l’art. 181 co. 1. Assenza dell’attore 3) Tutte e 2 le parti sono costituite ma l’attore, in 1° udienza, è assente. Il convenuto può tacere, oppure chiedere che si proceda in assenza dell’attore. Se il convenuto chiede ciò il processo va avanti normalmente; l’attore è come se fosse presente. Se invece tace, il giudice fissa una nuova udienza che viene comunicata all’attore; se anche a tale udienza l’attore è assente, o il convenuto chiede che si proceda in assenza dell’attore e il processo va avanti normalmente, o ancora una volta tace, e il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo. L’art. 181 co. 2 si applica solo alla 1° udienza, non a quelle successive. Se l’attore è presente alla 1° udienza, il processo si avvia normalmente; quand’anche l’attore rimanga assente alle udienze successive, non si applica il meccanismo dell’art. 181 co. 2. L’assenza del convenuto costituito non presenta, invece, problemi particolari. Contumacia dell’attore 4) L’attore non è costituito (art. 290. L’attore ha notificato la citazione, ma non si è poi costituito, mentre si è costituito il convenuto, che ha iscritto la causa a ruolo. La contumacia dell’attore è possibile per la tecnica di instaurazione del processo che, nel rito ordinario, avviene tramite la notificazione dell’atto introduttivo alla controparte e poi attraverso l’iscrizione della causa a ruolo. Non può verificarsi contumacia dell’attore ove il processo è introdotto dal ricorso, anziché dalla citazione. Il ricorso realizza una tecnica introduttiva del processo che consiste nel deposito dell’atto introduttivo nella cancelleria del giudice, che fissa l’udienza di comparizione con un decreto in calce al ricorso, una copia del quale viene notificata al convenuto. Il 1° atto processuale, di fronte al giudice, è il deposito del ricorso, cui segue l’iscrizione della causa a ruolo. Se, per effettuare il deposito, è necessaria la costituzione, nei processi che iniziano con ricorso non si può avere la contumacia dell’attore. Se l’attore è contumace, il convenuto o dichiara in 1° udienza di voler andare avanti in contumacia dell’attore; o non chiede che si proceda in contumacia dell’attore, e si ha la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del processo. Contumacia del convenuto 5) La contumacia del convenuto pone una questione pregiudiziale che non esiste per la contumacia dell’attore. L’attore, che ha notificato la citazione, è a conoscenza della pendenza del processo, essendo stato lui a compiere l’atto introduttivo dello stesso. Non altrettanto può dirsi per il convenuto, la mancata costituzione del quale può realizzare una contumacia volontaria oppure una contumacia involontaria. Contumacia volontaria Si ha la contumacia volontaria quando il convenuto, nei cui confronti il contradditorio è stato regolarmente instaurato, ritiene, con decisione libera, di non difendersi attivamente in quel processo, cioè non intende spendere quei poteri defensionali che l’ordinamento gli garantisce a livello costituzionale con l’art. 24 Cost. In questa ipotesi di contumacia, si ha l’applicazione delle norme sulla contumacia degli artt. 292 ss. Contumacia involontaria Si ha contumacia involontaria quando il contradditorio nei confronti del convenuto non è stato regolarmente instaurato. Poiché l’instaurazione del contradditorio è una condizione per la pronuncia di merito, il processo è viziato quanto ad un presupposto processuale. Alla base della decisione di rimanere contumace, c'è una valutazione della parte, che ritiene che, in relazione a quella situazione sostanziale dedotta in giudizio, non ha interesse a difendersi: gli sta bene anche rimanere soccombente. Per il rispetto del diritto di difesa, devono essere notificati al contumace tutti gli atti, che contengono domande nuove, perché in relazione al diverso oggetto del processo dev’essere messo in grado di valutare ex novo se ha interesse a costituirsi. Per quanto riguarda i provvedimenti istruttori, la disciplina non è ragionevole, in quanto non vi è alcun motivo che giustifichi la loro notificazione al contumace. Questi non ha da compiere alcuna valutazione ex novo, perché il contumace ha già deciso che, in relazione al diritto fatto valere, non ha interesse a difendersi. Non si vede perché debbano essere portati a conoscenza del contumace: l’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale, quella che ammette il giuramento, ed il verbale con cui si da atto della produzione del documento, e non l’ordinanza con cui si ammette la prova testimoniale o quella con cui si dispone la consulenza tecnica. Non c'è una logica nella scelta. Ma soprattutto non ha senso portare a conoscenza del contumace i mezzi istruttori, perché questi non alterano l’oggetto della lite, rispetto al quale il contumace ha già deciso di non difendersi. Il contumace può comunque costituirsi in ogni momento della causa, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni (finché il processo si trova in fase istruttoria). Costituzione tardiva del contumace Il contumace, che si costituisce tardivamente, deve accettare il processo nello stato in cui si trova. Egli può compiere tutti gli atti processuali che avrebbe potuto fare se fosse stato costituito fin dall’inizio. Quindi gli atti che sono preclusi in quel momento alla parte costituita sono preclusi anche al contumace; gli atti che sono possibili in quel momento alla parte costituita sono possibili anche al contumace. Vi è però un’eccezione: il contumace può sempre disconoscere le scritture private che sono state prodotte, anche se è trascorso l’ultimo momento utile per il disconoscimento (cioè la 1° udienza o la 1° risposta successiva alla produzione: art. 214). L’art. 294 ult. co. deve intendersi implicitamente abrogato dalla riforma del 1990. Rimessione in termini Con la rimessione in termini il contumace è abilitato a compiere attività che per lui sarebbero precluse. Essa si può avere quando vi è una nullità dell’atto introduttivo o della sua notificazione; oppure quando la parte dimostra che la sua contumacia è dovuta a causa a lei non imputabile. Per la mancata costituzione per causa non imputabile, si valuta, volta per volta, quand’è che sussiste una causa non imputabile. L’art. 294 co. 2 stabilisce che il giudice ammette la prova dei fatti che hanno prodotto l’impedimento, assume la prova di questi fatti e, se li ritiene provati, rimette il contumace in termini. Il provvedimento è dato con ordinanza; la questione, comunque decisa con ordinanza (sia nel concedere la rimessione in termini sia nel negarla), è poi riproponibile al momento della precisazione delle conclusioni ex art. 178 co. 1. Se la questione è riproposta, in sede di decisione il giudice la riesamina e la decide con sentenza, impugnabile attraverso i normali mezzi di impugnazione. Forti dubbi aveva suscitato, prima della riforma del 1990, l’ipotesi di rimessione in termini correlata alla nullità della citazione o della notificazione. L’art. 294 sembrava richiedere, oltre alla nullità della notificazione o della citazione, per la rimessione in termini, anche il fatto che il contumace dimostrasse che la nullità della notificazione o della citazione gli aveva impedito di avere conoscenza del processo. Oggi nel caso di nullità della citazione, l’art. 164 prevede che, quando si avveda della nullità della citazione, il giudice debba fissare una nuova 1° udienza, e ciò anche se il vizio dell’atto introduttivo non ha impedito al convenuto di venire a conoscenza della pendenza del processo: altrimenti, la notificazione non è nulla. 28. LA SOSPENSIONE Nozione La sospensione è un arresto della sequenza degli atti processuali, il processo entra in uno stato di quiescenza ma con la prospettiva di poter essere ripreso; si attende qualcosa che consenta di proseguirlo. Le ipotesi di sospensione sono suddivisibili in 3 gruppi. Innanzitutto vi è la sospensione propria, prevista dall’art. 295. Sospensione concordata Altra ipotesi di sospensione del processo è quella concordata, su istanza delle parti, prevista dall’art. 296. Fu introdotta come strumento per ottenere una pausa del processo utile, ad es., nelle ipotesi di trattative tra le parti, oggi è desueta perché, tra un’udienza e l’altra, decorrono di solito più di 3 mesi: basta il rinvio all’udienza successiva per avere una dilazione maggiore di quella massima ottenibile con la sospensione concordata. Sospensione impropria Le ipotesi di sospensione impropria sono disciplinate in altre norme processuali. La sospensione propria presuppone 2 processi che hanno 2 oggetti diversi; invece quella impropria riguarda tutte quelle ipotesi in cui, nel processo in corso, se ne innesta un altro, che ha ad oggetto una questione relativa alla domanda oggetto del 1°, e la pendenza del 2° produce la sospensione del 1°. Il processo che determina la sospensione dell’altro ha ad oggetto non la tutela di una situazione sostanziale, ma una questione relativa all’unica situazione sostanziale dedotta in giudizio. Quindi nella sospensione propria vi sono 2 litispendenze, in quella impropria una. Il provvedimento che dispone una sospensione impropria non è impugnabile con il regolamento di competenza, come lo è quello che dispone una sospensione propria. Principali ipotesi di sospensione impropria: 1) L’art. 48 co. 1 prevede che, i processi relativamente ai quali è proposto il regolamento di competenza devono essere sospesi. Oggetto del regolamento di competenza è la decisione di una questione processuale (la competenza del giudice adito), che è deferita ad un altro giudice (la Corte di cassazione) e in attesa di tale decisione il processo originario rimane sospeso; 2) L’art. 367 co. 1 dice possibile la sospensione del processo quando è proposto il regolamento di giurisdizione. La questione di giurisdizione è deferita alla Corte di cassazione; 3) L’art. 52 co. 3 in tema di ricusazione del giudice, determina la sospensione del processo originario, in attesa della decisione della questione processuale incidente; 4) Gli artt. 313 e 355 prevedono che, ove sia proposta querela di falso di fronte al giudice di pace o alla corte di appello, si sospende il processo dinanzi a quei giudici, in attesa della decisione della querela di falso per cui è competente il tribunale; 5) Se il giudice deve applicare una norma che sospetta di incostituzionalità, rimette la questione alla Corte costituzionale con ordinanza, che sospende il processo fino alla decisione della Corte. La questione, oggetto del processo costituzionale, non potrebbe costituire l’oggetto di un processo proposto in via principale, perché non ci si può rivolgere direttamente alla Corte costituzionale; 6) Se sorge questione su una norma contenuta in un atto dell’UE, la loro interpretazione vincolante è affidata alla Corte di giustizia dell’UE, alla quale i giudici nazionali rimettono la questione relativa all’interpretazione, per assicurare uniformità di applicazione nei diversi Stati; 7) Le ipotesi in cui è impugnata immediatamente la sentenza non definitiva e il giudice, di fronte al quale prosegue il processo, su richiesta delle parti sospende l’ulteriore istruttoria in attesa della pronuncia sulla sentenza non definitiva; 8) L’art. 398 co. 4 prevede che se contro la stessa sentenza è proposto sia il ricorso per cassazione sia la revocazione, il processo di cassazione può essere sospeso fino alla definizione della revocazione. Poiché la stessa sentenza è fatta oggetto di 2 mezzi di impugnazione contemporaneamente, uno di essi può avere la priorità. Quindi, nella sospensione impropria lo stesso processo continua in un’altra sede, in relazione ad una questione di fatto o di diritto, rilevante per la decisione dell’unico oggetto della controversia. Sospensione propria o necessaria In base all’art. 295 vi è una controversia dalla cui definizione dipende la decisione di altra controversia. Bisogna vedere che tipo di rapporto esiste fra l’oggetto del processo a valle (quello da sospendere) e l’oggetto del processo a monte (quello la cui decisione influisce sull’altro), affinché la definizione dell’uno possa influire sulla decisione dell’altro. Nella sospensione propria sono pendenti di fronte a giudici diversi 2 controversie, con 2 diversi oggetti. Per sapere a che condizioni la decisione della 2° dipende dalla definizione della 1°, bisogna vedere quali sono i tipi di connessione fra l’oggetto del 1° processo e quello del 2°. Connessione per pregiudizialità-dipendenza Si ha connessione per pregiudizialità-dipendenza quando l’esistenza di una situazione sostanziale è fatto costitutivo o comunque elemento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale. Accertamento incidentale Il rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra i 2 diritti è il presupposto anche dell’accertamento incidentale, disciplinato dall’art. 34. Se, dedotto in giudizio il diritto dipendente, sorge tra le parti contestazione circa l’esistenza del diritto pregiudiziale, il giudice si limita a conoscere del diritto pregiudiziale senza decidere di esso con efficacia di giudicato, a meno che non vi sia una domanda delle parti o un’espressa previsione di legge rivolta ad ottenere una pronuncia con efficacia di giudicato anche sul diritto pregiudiziale. Se ciò accade il processo da semplice (con un unico oggetto) diviene cumulato (con oggetto 2 situazioni sostanziali: quella pregiudiziale e quella dipendente). Il giudice deciderà della situazione dipendente tenendo conto di quello che avrà deciso della situazione pregiudiziale. La fattispecie è la stessa prevista dall’art. 295 (la situazione sostanziale pregiudiziale e quella dipendente sono entrambe dedotte in giudizio); però il coordinamento fra le 2 decisioni è raggiunto non con la sospensione, ma con il simultaneus processus; con un unico processo si decide sia della situazione pregiudiziale sia di quella dipendente. Perché si abbia la diritto alla restituzione o al risarcimento. Il fatto-reato può però essere rilevante anche in domande diverse ad quelle sopra considerate. Il c.p.p., pur prevedendo l’efficacia, in sede civile, della sentenza penale che accerta un reato o un fatto, che sono elemento della fattispecie di un diritto soggettivo, non ha, se non in piccola parte, seguito la 2° scelta del legislatore del ’30: non ha previsto in via generale la sospensione del processo civile tutte le volte in cui oggetto del processo penale sia un fatto-reato, il cui accertamento abbia potenzialmente efficacia vincolante nel processo civile. Così, ogni processo prosegue per conto proprio. Se poi la sentenza penale passa in giudicato in un momento in cui, nel processo civile, non sono ancora state precisate le conclusioni, l’accertamento, effettuato in sede penale, è recepito nel processo civile. Il rischio degli accertamenti contradditori è ritenuto non tanto grave da imporre la sospensione del processo civile in attesa di un accertamento penale, che può anche non arrivare. Domande risarcitorie e restitutorie C’è un’eccezione: il processo civile, nel quale sono fatti valere diritti risarcitori o restitutori, è sospeso in attesa dell’esito del processo penale in 2 ipotesi: a) Se si è avuta la costituzione di parte civile e poi è stata volontariamente revocata. La sospensione non si verifica quando la parte civile viene esclusa dal processo penale, perché il giudice ritiene che non ci siano gli estremi per costituirsi parte civile; b) Quando la domanda in sede civile è stata proposta dopo l’emanazione della sentenza penale di 1° grado. Il danneggiato dal reato, titolare del diritto restitutorio o risarcitorio, è rimasto inerte, non ha proposto né domanda in sede civile né si è costituito parte civile nel processo penale. Egli propone, in sede civile, la domanda risarcitoria o restitutoria dopo che è stata pubblicata la sentenza penale di 1° grado. Il processo civile è sospeso in attesa della sentenza definitiva penale. Nelle 2 ipotesi si ha l’efficacia della sentenza penale in sede civile, ma anche la sospensione del processo civile in attesa del giudicato penale. Inoltre, la sospensione opera solo per le domande restitutorie e risarcitorie: non quando il fatto reato è rilevante per diritti diversi. Diversi tipi di sospensione Bisogna distinguere fra la sospensione legale (il processo si arresta automaticamente al verificarsi della fattispecie prevista dalla legge) e giudiziale (l’arresto si produce in virtù del provvedimento del giudice, con il quale si dispone la sospensione del processo). All’interno della sospensione giudiziale, dobbiamo poi ulteriormente distinguere le ipotesi di sospensione a presupposti vincolanti da quelle che comportano una valutazione di opportunità del giudice. Quando la sospensione dipende da una valutazione di opportunità del giudice, essa è necessariamente giudiziale, in quanto può verificarsi solo in seguito al provvedimento con cui il giudice, valutando l’opportunità della sospensione, la dispone. Sospensione legale La sospensione legale si verifica automaticamente quando si completa la fattispecie sospensiva; il provvedimento del giudice è meramente ricognitivo di un effetto che si è già verificato. Se il giudice non sospende il processo quando se ne sono verificati i presupposti, gli atti compiuti dopo sono automaticamente nulli ex art. 298. Siccome la sospensione si verifica al maturarsi della fattispecie sospensiva, sia che il giudice ne prenda atto e quindi correttamente non vada avanti, sia che, sbagliando, vada avanti nel processo, le cose non cambiano. Si ha la sospensione legale a seguito della proposizione del regolamento di competenza; della rimessione alla Corte costituzionale; della rimessione alla Corte di giustizia dell’UE. Sospensione giudiziale Nelle ipotesi di sospensione ex art. 295, pur essendo il giudice vincolato ai presupposti previsti, e non avendo il potere di valutare l’opportunità della sospensione, tuttavia il provvedimento di sospensione è costitutivo dell’effetto sospensivo: esso è un elemento della fattispecie dell’effetto sospensivo. Pertanto, se il giudice, sbagliando, non sospende il processo, non si verifica l’effetto di cui all’art. 298: gli atti compiuti sono validi, nonostante che il processo dovesse essere sospeso, e non lo sia stato. Procedimento e provvedimento La rilevazione della fattispecie sospensiva, cioè dei presupposti in presenza dei quali il giudice deve emettere il provvedimento di sospensione, avviene anche d’ufficio, senza necessità dell’istanza di parte. Non hanno effetto eventuali accordi fra le parti per evitare la sospensione là dove l’ordinamento la prescrive, e viceversa. Affinché la sussistenza dei presupposti della sospensione possa essere rilevata d’ufficio, occorre che la pendenza del processo pregiudiziale risulti dagli atti di causa. Il provvedimento di sospensione è un’ordinanza del collegio o del g.i., a seconda che la causa sia o meno affidata alla decisione collegiale. Esso ha la forma di ordinanza perché non definisce il giudizio ex art. 279, quindi non assume la forma della sentenza. L’ordinanza che dispone la sospensione ex art. 295 (non anche quella che la nega o che dispone una sospensione diversa) è impugnabile con il regolamento di competenza. Ciò consente alla parte di far controllare subito dalla Corte di cassazione la sussistenza della fattispecie sospensiva, e, nel caso, far ripartire il processo erroneamente sospeso. Conseguenze della mancata sospensione Nelle ipotesi di sospensione legale l’effetto sospensivo si produce automaticamente e il provvedimento del giudice è meramente ricognitivo. Anche se manca tale provvedimento, gli atti compiuti successivamente al maturarsi della fattispecie sospensiva sono nulli, perché l’effetto sospensivo si è comunque prodotto. Rilevata la nullità in sede di impugnazione, gli atti dovranno essere rifatti ex novo. Nelle ipotesi di sospensione giudiziale, al contrario, se il processo non è sospeso, è il giudice dinanzi al quale è impugnata la sentenza ad emettere il provvedimento di sospensione non emesso dal giudice di 1 grado, sempre che, nel momento in cui pronuncia, siano ancora esistenti i presupposti per la sospensione. Effetti Gli effetti della sospensione sono previsti all’art. 298 co. 2. La sospensione interrompe i termini in corso, che ricominciano a decorrere ex novo dalla ripresa del processo. Durante la sospensione non possono essere compiuti atti del processo. Quelli compiuti dopo il provvedimento di sospensione (nella sospensione giudiziale) o dopo il maturarsi della fattispecie sospensiva (nella sospensione legale) sono nulli e devono, se del caso, essere compiuti di nuovo quando il processo riprende. L’impossibilita di compiere atti era processo trova 2 eccezioni: 1) riguarda la tutela cautelare ed prevista dall’art. 669 quater co. 2. Durante il processo sospeso possono verificarsi ipotesi in cui è necessario il ricorso alla tutela cautelare, che ha la funzione di tenere indenne la parte dalla conseguenze negative che si verificano nel tempo che occorre per lo svolgimento del processo, e quando è sospeso il tempo si dilata e aumenta il pericolo; 2) prevista dall’art. 48, che, in tema di regolamento di competenza (ipotesi di sospensione legale), stabilisce che il giudice del processo sospeso possa autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti. La norma è ritenuta applicabile a tutte le altre ipotesi di sospensione, sia legali che giudiziali. Il processo cautelare non fa parte del processo sospeso, è autonomo e parallelo: la possibilità di chiedere la tutela cautelare, quando il processo di merito è sospeso, si può riconoscere anche a prescindere dalla previsione dell’art. 669 quater co. 2. L’art. 48 riguarda invece gli atti del processo sospeso: soprattutto quelli di istruzione probatoria che si rendono necessari e indifferibili a causa della sospensione del processo (ad es., una consulenza tecnica su un immobile che si sta deteriorando). Riassunzione del processo La riassunzione del processo sospeso deve avvenire nel termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza sulla questione pregiudiziale o dalla cessazione dell’impedimento previsto dall’art. 75. La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 297, ove fa decorrere il termine per la prosecuzione del processo dalla cessazione della causa di sospensione, anziché dalla conoscenza che le parti abbiano avuto di tale cessazione. È incostituzionale che il termine possa decorrere anche nei confronti di soggetti, che non abbiano avuto conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza civile, amministrativa o penale o comunque del provvedimento del giudice penale che chiude il processo pregiudiziale. Se le parti del processo giudiziale sono le stesse di quello sospeso e sono costituite in giudizio, avranno conoscenza dell’emanazione del provvedimento che chiude quel processo; ma se fossero diverse, il termine decorre non da quando si è verificato l’evento che fa venir meno la causa di sospensione, ma da quando il soggetto interessato ne è venuto a conoscenza. Se il processo non viene riassunto nel termine previsto si estingue. Perché sia evitata l’estinzione basta che il ricorso per la prosecuzione del processo sia depositato, nei termini, presso la cancelleria del giudice. La Corte di cassazione ha stabilito nel 2012 che il termine previsto dell’art. 297 co. 1 (3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa) è il termine ultimo per evitare l’estinzione, ma che la causa sospesa può essere riassunta fin dal momento in cui è pronunciata la sentenza della causa pregiudiziale. Ove la controversia sospesa venga riassunta prima che sia passata in giudicato la sentenza sulla causa pregiudiziale, trova applicazione l’art. 337 co. 2. Pertanto, il giudice della causa dipendente, una volta che questa sia riassunta prima del passaggio in giudicato della sentenza che definisce la causa pregiudiziale, potrà valutare se mantenere la sospensione o procedere. Egli, se decide di procedere, non ha comunque il potere di riesaminare la questione pregiudiziale, ma deve accettare quanto statuito nella sentenza. Sicché, se questa è poi modificata in sede di impugnazione, trova applicazione l’art. 336 co. 2 e la sentenza emessa nella causa dipendente può essere automaticamente caducata. un evento interruttivo in tale periodo non ha alcuna incidenza, perché le parti non hanno atti da compiere, e quindi non c’è necessità di salvaguardare l’effettività del contradditorio. Se, però, la causa per un qualunque motivo non viene decisa con sentenza definitiva, si ritorna alla regola normale, perché ci saranno ulteriori fatti da compiere. Questo gruppo di fattispecie interruttive attiene alla parte o al suo rappresentante legale. Eventi che attengono al difensore L’art. 301 individua come eventi interruttivi che attengono al difensore la morte o la perdita del ius postulandi, cioè del potere di stare in giudizio in nome e per conto della parte, a causa della radiazione o sospensione dall’albo del difensore. Il difensore non potrà più compiere atti del processo. Non sono eventi interruttivi, per espressa previsione, la revoca della procura da parte del cliente o la rinuncia al mandato da parte del difensore, che sono atti volontari, dev’essere cura della parte munirsi di un altro difensore. Anzi, per la controparte il difensore è sempre tale, anche se il potere rappresentativo non esiste più, finché la parte interessata non abbia provveduto a sostituirlo. La cancellazione volontaria dell’avvocato dall’albo non determina l’interruzione del processo, perché discende da un comportamento volontario e va accomunata alla rinuncia alla procura. Gli eventi interruttivi, che si producono in capo al difensore, determinano l’interruzione automatica. Gli atti, eventualmente compiuti dopo il verificarsi dell’evento interruttivo sono nulli. Se gli eventi si verificano dopo la chiusura della discussione, non hanno rilevanza. Vale la considerazione per cui, se non vi sono più atti da compiere, è inutile interrompere il processo; salvo che non vi sia pronuncia di una sentenza definitiva. Ripresa del processo L’ordinamento prevede 2 meccanismi di ripresa: prosecuzione e riassunzione. La prosecuzione si verifica quando l’iniziativa è presa dalla parte, in relazione alla quale si è verificato l’evento interruttivo. Nella riassunzione, invece, l’iniziativa è presa dalla controparte. Nel caso di prosecuzione si ha la costituzione volontaria della parte interessata, mentre, nella riassunzione, è necessario un atto di riassunzione del processo, che contenga la vocatio in ius del soggetto, che avrebbe potuto spontaneamente proseguire il processo. Successione nel processo Per individuare i soggetti che devono costituirsi per proseguire il processo o nei cui confronti dev’essere riassunto, si distingue a seconda dei vari eventi interruttivi. Se l’evento interruttivo consiste nella morte della persona fisica, si applica l’art. 110: il processo è proseguito da o riassunto nei confronti del successore universale. Per l’estinzione della persona giuridica, l’art. 2504 bis c.c., per fusione e incorporazione, dispone che la società risultante o incorporante proseguono in tutti i rapporti, anche processuali, in corso. Per la cancellazione delle società, trattandosi di evento volontario, non rientra nella finalità dell’interruzione. In base all’art. 303 co. 2 entro l’anno dalla morte, l’atto di riassunzione può essere notificato nell’ultimo domicilio del defunto, collettivamente e impersonalmente a tutti gli eredi: è un vantaggio per la controparte, perché non deve individuare nominativamente gli eredi della parte morta, né notificare l’atto di riassunzione a ciascuno di essi nella loro residenza o domicilio. Spetta agli eredi, se vogliono, costituirsi in giudizio. Parti non individuate Quella appena vista è l’unica ipotesi in cui un soggetto diventa parte del processo senza essere individuato. Se gli eredi non si costituiscono, anche la sentenza, eccezionalmente, non ha la caratteristica propria delle sentenze: la concretezza, cioè l’individuazione nominativa dei destinatari delle regole di condotta in essa contenute. La sentenza pronuncia nei confronti degli eredi di Caio, si dovrà stabilire in altra sede chi siano. Acquisto o perdita della capacità e del potere rappresentativo Nel caso di perdita di capacità della parte la prosecuzione o la riassunzione sono effettuate da parte e nei confronti del rappresentante legale. Nel caso di acquisto della capacità, la prosecuzione o la riassunzione sono effettuate da e nei confronti del soggetto che ha acquistato la capacità. Nel caso del mutamento del rappresentante legale il processo va proseguito o riassunto da e nei confronti del nuovo rappresentante legale. Nel caso di morte o perdita dello ius postulandi del difensore si distingue: la prosecuzione avviene con la nomina di un nuovo rappresentante tecnico, l’atto di riassunzione va notificato alla parte personalmente. Prosecuzione La prosecuzione avviene tramite la costituzione in giudizio, come prevede l’art. 302; essa si può avere anche prima che l’interruzione sia dichiarata. Ad es., una parte costituita muore: alla 1° udienza dopo la morte si costituiscono gli eredi per proseguire il processo. Riassunzione L’atto di riassunzione è disciplinato dall’art. 125 disp. att. c.p.c.; con esso non si propone una domanda, ma è un atto di impulso processuale, perciò può essere compiuto da una qualunque parte interessata a rimettere in moto il meccanismo. La riassunzione del processo ha gli stessi effetti della prosecuzione; una volta notificato l’atto di riassunzione, il processo prosegue dal punto in cui era rimasto al momento dell’interruzione (ma i termini iniziano a decorrere di nuovo per intero). Se, in conseguenza dell’evento interruttivo, si è prodotto anche il venir meno della parte si ha anche una successione nel processo ex art. 110. Se, invece, la parte muore e al suo posto subentrano gli eredi, si ha la successione nel processo. Estinzione Se il processo non viene tempestivamente riassunto o proseguito, si ha l’estinzione. Il termine perentorio per riassumere il processo è di 3 mesi, che, secondo l’originario art. 305 decorrono dall’interruzione. Quando l’interruzione ha luogo in seguito a dichiarazione del difensore, il termine decorre da un evento che è noto alle parti; mentre, nei casi di interruzione automatica l’interruzione si verifica a prescindere dal fatto che sia resa nota nel processo; ed allora si poteva verificare un’estinzione misteriosa del processo: misteriosa perché il termine per riassumere la causa decorreva da un evento che poteva essere ignoto alle parti del processo. A seguito degli interventi della Corte costituzionale, si distingue: il termine per la prosecuzione o la riassunzione del processo decorre, nelle ipotesi di interruzione automatica, dalla conoscenza dell’evento interruttivo; mentre, nelle ipotesi di interruzione dichiarata o certificata dall’ufficiale giudiziario il termine decorre dalla dichiarazione o certificazione (perché l’interruzione non avviene automaticamente, ma è ricollegata ad un evento percepibile dalle parti del processo, quindi i 6 mesi decorrono da tale momento). Per salvare il termine basta il deposito del ricorso in riassunzione; l’attività successiva può essere compiuta anche oltre i 3 mesi. 30. L’ESTINZIONE L’estinzione è l’ultima delle vicende anormali che riguardano il processo. L’estinzione ha 2 radici: la rinuncia agli atti, disciplinata dall’art. 306, e l’inattività delle parti, disciplinata dall’art. 307. Rinuncia agli atti Rinunciando agli atti si rinuncia all’attività compiuta in quel processo e alla richiesta di tutela giurisdizionale. L’art. 310 stabilisce che l’estinzione del processo non estingue l’azione: la domanda resta riproponibile. Essa ha effetti diretti solo processuali, non incide subito sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio. Tutto ciò che incide sul merito non è una rinuncia agli atti o non è solo quella; essa attiene solo al processo, non incide direttamente sul merito e consente la riproposizione della domanda. Vi possono essere effetti indiretti dell’estinzione del processo sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio. La rinuncia agli atti deve provenire da chi ha proposto la domanda, e dev’essere accettata dalle parti costituite che hanno interesse alla prosecuzione del processo. Talvolta, quindi, basta la rinuncia agli atti dell’attore per estinguere il processo; talaltra la rinuncia agli atti dell’attore dev’essere accettata dalle altre parti. Questa 2° ipotesi presuppone che le altre parti siano costituite e che abbiano interesse alla prosecuzione del processo. Accettazione delle altre parti Le parti costituite hanno interesse alla prosecuzione del processo quando possono aspettarsi dal giudice un provvedimento che abbia effetti per loro più favorevoli dell’estinzione. L’interesse delle altre parti alla prosecuzione del processo si ha quando si sono difese solo nel merito della causa, proponendo difese di merito incondizionate; così, la prosecuzione del processo potrebbe portare ad un rigetto nel merito della domanda dell’attore, che per le altre parti, è più favorevole dell’estinzione (in quanto l’estinzione consente all’attore la riproposizione della domanda; il rigetto nel merito no, poiché si forma il giudicato). Le altre parti non hanno interesse alla prosecuzione del processo quando si sono difese solo in punto di rito, chiedendo al giudice di dichiarare l’impossibilità di giungere ad una pronuncia di merito. Se le altre parti hanno sollevato eccezioni relative ai presupposti processuali, tali che, se accolte, si avrebbe una sentenza di rito, allora non hanno interesse alla prosecuzione del processo, perché gli effetti dell’estinzione sono identici a quelli della sentenza di rito. Si giunge alla stessa conclusione quando le altre parti si siano difese sia in rito che in merito, perché l’ordine con cui il giudice deve esaminare le questioni di rito e di merito non è disponibile dalle parti: il giudice deve esaminare, al momento della decisione,
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved