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Riassunti di Procedura Civile, Dispense di Diritto Processuale Civile

Il file è un riassunto del manuale "Lineamenti del processo civile" per l'università di Tor Vergata. Il riassunto è completo di tutti i capitoli e paragrafi del manuale. Inoltre sono presenti anche le domande più frequenti per esercitarsi all'esame.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 19/12/2023

Rachelecosta
Rachelecosta 🇮🇹

4.3

(3)

9 documenti

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Scarica Riassunti di Procedura Civile e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Procedura civile – Lineamenti del processo civile italiano (9° edizione, 2023) INDICE Capitolo 1 – La giurisdizione tra costituzione e spazio giudiziario europeo Capitolo 2 – Il giusto processo Capitolo 3 – La giurisdizione nella costituzione: giudice ordinario, giudici speciali Capitolo 4 – La giurisdizione del giudice amministrativo Capitolo 5 – Soggezione del giudice alla legge e garanzia del controllo in Cassazione Capitolo 6 – Giurisdizione e processo Capitolo 7 – L’atto processuale Capitolo 8 – Capacità e rappresentanza processuale Capitolo 9 – La domanda giudiziale Capitolo 10 – giudice, pubblico ministero, organi ausiliari Capitolo 11 – Notificazione e comunicazioni Capitolo 12 – Pendenza del processo ed effetti della domanda Capitolo 13 – Competenza e giurisdizione nella dinamica del procedimento Capitolo 14 – Costituzione dell’attore e designazione del giudice istruttore Capitolo 15 – Le nullità della citazione Capitolo 16 – La difesa del convenuto Capitolo 17 – Il giudice istruttore Capitolo 18 – Le verifiche preliminari e gli esiti della prima udienza Capitolo 19 – Ammissione ed assunzione delle prove Capitolo 20 – Valutazione delle prove ed onere della prova Capitolo 21 – I mezzi di prova Capitolo 22 – Dinamiche alternative al processo Capitolo 23 – Le ordinanze anticipatorie Capitolo 24 – Le ordinanze di rigetto e di accoglimento Capitolo 25 – Il processo oggettivamente cumulato: pluralità di domande e pluralità di decisioni Capitolo 26 – Il processo plurisoggettivo Capitolo 27 – Il processo plurisoggettivo Capitolo 28 – Il processo plurisoggettivo Capitolo 29 – Il venir meno di una delle parti e la successione nel diritto controverso Capitolo 30 – La riunione di più cause connesse Capitolo 31 – Le modificazioni della competenza per ragioni di connessione Capitolo 32 – La disciplina della litispendenza e della continenza Capitolo 33 – La fase decisoria davanti al tribunale collegiale Capitolo 34 – La fase decisoria davanti al tribunale monocratico Capitolo 35 – Il procedimento semplificato di cognizione Capitolo 36 – Le spese processuali Capitolo 37 – Il regime dell’esecutività della sentenza Capitolo 38 – Gli effetti della sentenza e il giudicato Capitolo 39 – Le fasi di quiescenza del procedimento Capitolo 40 – L’estinzione Capitolo 41 – Le impugnazioni in generale Capitolo 42 – Il regime delle impugnazioni nei giudizi con pluralità di parti Capitolo 43 – L’appello Capitolo 44 – L’appello Capitolo 45 – Il giudizio di cassazione e le fasi di rinvio Capitolo 46 – La revocazione Capitolo 47 – Le opposizioni del terzo Capitolo 48 – La tutela cautelare Capitolo 49 – Il procedimento cautelare uniforme Capitolo 50 – Il rito del lavoro e le controversie di lavoro Capitolo 51 – Il procedimento d’ingiunzione Capitolo 52 – Il procedimento di convalida di licenza o sfratto Capitolo 53 – I procedimenti possessori Capitolo 54 – Esecuzione forzata, titolo esecutivo, precetto Capitolo 55 – L’esecuzione per espropriazione Capitolo 56 – Gli effetti del pignoramento Capitolo 57 – La disciplina generale del pignoramento Capitolo 58 – L’intervento dei creditori Capitolo 59 – La vendita e l’assegnazione forzata. La distribuzione del ricavato Capitolo 60 – Il pignoramento mobiliare presso il debitore e il pignoramento presso terzi Capitolo 61 – Il pignoramento immobiliare Capitolo 62 – Il pignoramento di beni indivisi e il pignoramento contro il terzo proprietario Capitolo 63 – Le esecuzioni in forma specifica: consegna o rilascio, obblighi di fare o non fare Capitolo 64 – Le opposizioni: all’esecuzione, agli atti esecutivi, di terzo Capitolo 65 – Sospensione ed estinzione del processo esecutivo Capitolo 66 – I procedimenti in camera di consiglio Capitolo 67 – L’arbitrato CAPITOLO 1 – LA GIURISDIZIONE TRA COSTITUZIONE E SPAZIO GIUDIZIARIO EUROPEO 1. Diritto processuale e codice di procedura civile Lo studio del diritto processuale civile ha quale riferimento primario il codice di procedura civile, integrato dal codice civile e dalla normativa di carattere processuale variamente distribuita negli ordinamenti italiano ed euro-unitario. Il codice di procedura civile italiano è stato approvato con r. d. n. 1443/1940 ed entrò in vigore il 21 aprile 1942. Esso consta di 4 libri: - Libro I, dedicato ai principi generali del processo; - Libro II, dedicato al processo di cognizione ordinaria, al rito semplificato (introdotto con il d. lgs, 149/2022), ed al rito del processo del lavoro; - Libro III, dedicato al processo di esecuzione; - Libro IV, dedicato ai processi speciali. Al codice di procedura civile è assegnato il ruolo di legge di rango primario, ma tale ruolo non può correttamente comprendersi se non è preceduto dall’analisi degli atti ad esso sovraordinati: Costituzione e normative sovranazionali che issano le garanzie fondamentali della tutela giurisdizionale e dell’esercizio della giurisdizione. 2. Tutela dei diritti e giurisdizione Occupandosi in maniera specifica dei modi della tutela dei diritti erogata tramite l’esercizio della giurisdizione, il diritto del processo completa lo studio del diritto sostanziale. Tramite criteri obiettivi gli ordinamenti giuridici ricollegano effetti giuridici ad eventi storico-naturalistici ed a comportamenti umani, così facendo attribuiscono diritti soggettivi, impongono obblighi e regolano i “rapporti giuridici”. Si può dire che la vita sociale scorre nel rispetto reciproco di tali relazioni, ma violazioni e disconoscimento di regole di condotta sono esperienza comune. Entra così in gioco l’apparato giurisdizionale, cioè il giudice, l’organo che lo Stato di diritto precostituisce per comporre la lite ed attribuire le ragioni ed i torti secondo criteri fissati obiettivamente dall’ordinamento con una decisione dotata di intrinseca autorità. L’art. 1 c.p.c. individua nella “giurisdizione civile” l’attività istituzionalmente attribuita ai giudici ordinari che la esercitano “secondo le norme del presente codice”. Nel riservare all’autorità giudiziaria la tutela giurisdizionale dei diritti, l’art. 2907 c.c. ne condiziona l’esercizio all’istanza di parte. Parimenti l’art. 99 c.p.c. subordina la tutela del diritto in giudizio alla proposizione della domanda da parte dell’interessato. La libertà della parte di agire significa libertà di scegliere di quali diritti domandare tutela (principio dispositivo). La tutela giurisdizionale è garantita dallo Stato al cittadino sul postulato del divieto di autotutela. 3. L’art. 24 co. 1 Cost e la garanzia del diritto di azione Il diritto di azione è espressamente garantito dall’art. 24 co. 1 Cost che recita: “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Ognuno può rivolgersi al giudice per usufruire della tutela giurisdizionale apprestata dalla Repubblica italiana: chiunque si ritenga leso nel godimento di un proprio diritto o ritenga di aver subito un pregiudizio giuridicamente rilevante, ha diritto ad agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni. Il diritto di accesso alla giurisdizione non tollera ostacoli dipendenti dal tipo di situazione oggetto della tutela. Si nota che l’art. 24 Cost pone sullo stesso piano diritti ed interessi legittimi, scolpendo così la volontà di dare pari dignità giurisdizionale a tutte le situazioni giuridiche tutelate, indipendentemente dalla loro qualificazione e classificazione. La garanzia della tutela giurisdizionale viene correlata al principio costituzionale di eguaglianza, che si estende anche al sistema delle garanzie processuali. L’art. 3 Cost implica che tutti i soggetti e tutte le situazioni soggettive ricevano un'eguale trattamento sul piano della tutela giurisdizionale: ciò significa che l'accesso alla giustizia non può essere impedito o reso più difficile per la protezione di date tipologie di diritti piuttosto che di altre e che le modalità procedurali imposte per la tutela delle situazioni sostanziali non debbono avere carattere discriminatorio da risultare irragionevolmente più gravose per alcune classi di soggetti piuttosto che per altre. L'uguaglianza va coniugata con la ragionevolezza. Uguaglianza non significa che le garanzie ed i meccanismi processuali debbano essere sempre e ad ogni costo identici in ogni circostanza, e che non sia possibile differenziare le forme della tutela secondo esigenze di ragionevolezza. In molti casi il dubbio di diseguaglianza è stato respinto dalla Corte che ha ravvisato nelle norme incriminate la diseguaglianza ragionevole ed ha concluso con pronunce di rigetto della questione di costituzionalità. Quando invece la Corte costituzionale, ha dichiarato l'incostituzionalità delle norme processuali denunciate, rinvenendo in esse la violazione dell'art. 3 Cost è perché la diseguaglianza denunciata non ha superato il test della ragionevolezza. Il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost si allaccia a sua volta all’art. 2 Cost, che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali va sicuramente ricompreso il diritto alla tutela giurisdizionale. Peraltro, la formula “tutti possono agire in giudizio” non si esaurisce nella garanzia dell'accesso alla giurisdizione. La garanzia costituzionale implica anche il diritto di svolgere le successive attività funzionali al conseguimento del risultato perseguito. Posto che la tutela giurisdizionale si manifesta nelle forme del processo e che tali forme si snodano nel tempo attraverso una serie di atti, il diritto di azione va coordinato con l'intero svolgimento del processo: esso si estende al diritto alla prova, al diritto all'impugnazione ecc. Il diritto di agire in giudizio non si consuma nell'atto iniziale del processo ma si proietta nello svolgimento dinamico del processo. Il concetto di giusto processo tocca parimenti la figura del giudice. L’art. 6 CEDU e l’art. 47 Carta di Nizza Fanno riferimento alla necessità che il processo si svolga “davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale”. L’art. 111 co. 2 Cost. richiede che esso si svolga “davanti al giudice terzo ed imparziale”. La norma costituzionale non fa espresso riferimento al requisito dell'indipendenza del giudice, richiamato invece da ambedue le fonti sovranazionali; questo però non vuol dire che l'indipendenza non sia un principio cardine del giusto processo. Il principio di indipendenza è stabilito in numerose norme costituzionali: - Art. 104 Cost secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente; - Art. 106 Cost secondo cui l'indipendenza organizzativa impone che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso; - Art. 107 Cost che stabilisce l'inamovibilità dei magistrati; - Art. 108 Cost stabilisce che solo la legge può apporre le norme sull'ordinamento giudiziario e nella garanzia di indipendenza dei giudici speciali; - Art. 100 Cost afferma che la legge assicura l'indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. All'indipendenza esterna, si aggiunge poi l'esigenza che il giudice resti indipendente sul piano interno, esigenza garantita dalla sottoposizione del giudice alla legge. Il nuovo co. 2 dell'art. 111 Cost usa l'espressione “giudice terzo ed imparziale” per connotare un unico concetto: terzietà significa che il giudice non è “parte”, nel senso che egli non partecipa al processo ma, anche che egli non può “parteggiare” per l'una o per l'altra parte. Il giudice deve essere personalmente indifferente rispetto agli esiti della causa così da garantire assoluta neutralità rispetto al procedere ed al decidere. 5. Precostituzione del giudice Quanto alla figura del giudice, il diritto al processo equo vuole che all’indipendenza e all’imparzialità, si aggiunga il requisito della sua precostituzione legale. Anche tale elemento contribuisce a formare il nucleo del concetto del giusto processo. Precostituzione del giudice significa che la legge non può limitarsi ad approntare un generico servizio giurisdizionale a disposizione della parte, bensì deve preordinare i criteri che garantiscono che questa sappia in anticipo quale sarà il giudice della sua controversia. Nella carta costituzionale il profilo della precostituzione legale del giudice si riflette sull’art. 102 co. 2 Cost che vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali e, in ogni caso, l’istituzione di giudici straordinari. Dei giudici speciali si tratterà ampiamente nel prossimo capitolo. Invece, con l’espressione giudici straordinari si intende un organo giudicante anomalo, creato per sottrarre una singola controversia o un intero tipo di controversie, al proprio giudice naturale, in deroga ai criteri di competenza legale. Il divieto di istituire giudici straordinari va coordinato con il principio della precostituzione del giudice (art. 25 Cost): la combinazione dei due principi impone al legislatore ordinario di (pre)fissare i criteri di individuazione dell’organo che legittimamente espleterà la funzione giurisdizionale in rapporto a ciascuna controversia, di modo che le regole di distribuzione della giurisdizione e della competenza siano tali da permettere di conoscere in anticipo la spettanza ad un dato organo della decisione di una determinata controversia. 6. Pubblicità del processo Nelle fonti sovranazionali si trova garantito anche il diritto alla pubblicità della procedura (art. 6 CEDU e art. 47 Carta). Il diritto interno sembra abbastanza tiepido sul punto: la ricerca di una traccia del principio nella Costituzione e nella legislazione ordinaria potrebbe risultare vana, poiché l'interesse alla pubblicità appare riservato al processo penale. Non di meno, la Corte costituzionale ha affermato più volte che “la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale in forza dell’art. 101 co. 1 Cost. trova in quella sovranità la sua legittimazione”. La mancata ricomprensione della pubblicità dell'udienza tra i requisiti del giusto processo non impedisce di configurare un diritto alla pubblicità del processo, non potendo considerarsi equo un processo segreto o comunque fuori dal controllo pubblico. 7. Effettività della tutela giurisdizionale La giustizia del processo va valutata anche sotto il profilo della effettività del rimedio. L'art. 47 della carta di Nizza recita: “ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'unione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice”. A sua volta l'art. 13 CEDU prescrive: “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla presente convenzione sono stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale”. Che la tutela deve essere effettiva significa che la garanzia giurisdizionale deve funzionare all'occorrenza, non bastando la sua previsione legale. Occorre che il legislatore non solo curi di predisporre concrete tecniche di ripristino dell'ordine giuridico violato, ma ponga in essere le condizioni organizzative affinché la tutela possa essere efficacemente erogata e non resti un puro e semplice dato astratto. Nell'art. 13 CEDU, peraltro, la garanzia dell'effettività della tutela assume una pregnanza particolare poiché il diritto ad un ricorso effettivo viene garantito “anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali”. La norma sancisce il principio della piena ed efficace tutela in direzione di tutti i soggetti, vietando che essa possa eliminarsi, o anche solo porsi in maniera attenuata, per lo stato, le amministrazioni pubbliche di ogni genere ed ogni altro soggetto esercente poteri pubblici. La norma trova un corrispondente ideale nell’art. 113 Cost. per il quale “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale”. 8. Ragionevole durata del processo La prescrizione del co. 1 dell'art. 6 CEDU secondo cui ognuno ha diritto ad un “processo che si svolga entro un termine ragionevole” è stata riprodotta nella nuova formulazione del co. 2 dell’art. 111 Cost. che ha inserito nella costituzione italiana il principio del termine ragionevole. Il tema della durata del processo italiano è tra i più spinosi ed il sistema deve onestamente riconoscere la propria impotenza, per l'abnorme lunghezza dei giudizi di fronte alle giurisdizioni italiane. Nessuno può assegnare un termine preciso ai processi, ma la durata del processo non dovrebbe superare i limiti della ragionevolezza. La formula “la legge assicura la ragionevole durata” sembra quasi riferirsi ad un'obbligazione di risultato e non di mezzi, nel senso che non basterebbe che il legislatore processuale legiferi tenendo in debito conto il problema della ragionevole durata, ma dovrebbe anche garantirla in concreto. Il fatto è che è difficile dare corpo ad un vero e proprio obbligo in capo al legislatore di “garantire” termini brevi attraverso una normazione che effettivamente funzioni da acceleratore della procedura. La formula della durata ragionevole si è imposta nella giurisprudenza invadendo le motivazioni dei provvedimenti. Messo alle strette dalla posizione critica ufficialmente adottata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per l'intasamento provocato dalle domande di risarcimento nei confronti dello Stato italiano per eccessiva durata del processo, il legislatore nazionale è corso ai ripari. La l. 89/2001 (leggi Pinto) ha introdotto un meccanismo di rimedi preventivi per evitare l'eccessiva durata del processo ed ha assegnato alla parte che abbia esperito tali rimedi e abbia subito un danno a causa dell'ira ragionevole durata del processo il diritto ad un'equa riparazione. Tra i rimedi preventivi possiamo individuare: - l'introduzione del giudizio nelle forme del procedimento semplificato di cognizione; - la richiesta di mutamento del rito; - la proposizione dell'istanza di decisione; - per i giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione, la proposizione di un'istanza di accelerazione. La domanda di equa riparazione è inammissibile se non sono stati esperiti rimedi preventivi; tale domanda si propone con ricorso al presidente della Corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto. La domanda può essere proposta, a pena di decadenza, entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva. Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all'amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione entro il termine perentorio di 30 gg dalla comunicazione o notificazione del provvedimento. L'opposizione è proposta con ricorso al medesimo ufficio giudiziario a cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, nelle forme del procedimento in camera di consiglio. CAPITOLO 3 – LA GIURISDIZIONE NELLA COSTITUZIONE: GIUDICE ORDINARIO, GIUDICI SPECIALI 1. Funzione giurisdizionale, giudice ordinario, giudici speciali Il titolo IV della parte II della Costituzione è intitolato alla magistratura, cioè all’apparato dello Stato istituzionalmente deputato a provvedere alla tutela giurisdizionale. Questo apparato costituisce, nella tradizionale ‘tripartizione dei poteri’, il potere giudiziario. La sezione I del titolo IV, dedicata all’ordinamento giurisdizionale, fissa i principi di base dell’organizzazione della giustizia. L’art. 102 Cost. pone il principio secondo cui: “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Questa enunciazione di principio va completata poiché i magistrati ordinari esercitano la funzione giurisdizionale, ma la funzione giurisdizionale non è esercitata solo dai magistrati ordinari: vi sono altri giudici a cui la stessa Costituzione attribuisce l’esercizio della funzione, sicché essa non può essere considerata una riserva assoluta del giudice ordinario. Infatti: - l’art. 103 Cost. attribuisce funzione giurisdizionale al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa (‘hanno giurisdizione’); - l’art. 113 Cost. garantisce la tutela giurisdizionale dinanzi agli organi di giurisdizione amministrativa. Alla garanzia di tutela giurisdizionale corrisponde quindi un’unica funzione giurisdizionale, suddivisa tra più apparati dii giudici, secondo i criteri di distribuzione stabiliti dalla legge. Si parla anche di: a) giurisdizione del giudice ordinario, detto anche AGO (autorità giudiziaria ordinaria); b) giurisdizione dei giudici speciali. 2. La nozione di giudice ordinario Ci si chiede chi sia il giudice ordinario. Il richiamo che l’art. 102 Cost. fa alle ‘norme sull’ordinamento giudiziario’ indirizza la risposta: ordinario è il giudice il cui status e la cui posizione nell’ordinamento sono regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. La Costituzione rinvia quindi ad una legge ordinaria, regolatrice di una materia sulla quale l’art. 108 co. 1 Cost. pone una riserva di legge: “le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”. La normativa sull’ordinamento giudiziario è fondamentalmente contenuta nel r.d. n. 12/1941 (Testo unico sull’ordinamento giudiziario), il quale: • individua in concreto chi sono i giudici ordinari; • determina come essi vengono istituiti, nominati, inquadrati, disciplinarmente regolati; • pone regole fondamentali di organizzazione degli uffici giudiziari. L’aspetto relativo alla determinazione degli organi e dei soggetti chiamati ad esercitare la giurisdizione non deve essere confuso con le modalità con cui tali organi esercitano la giurisdizione, modalità regolate dai codici di procedura (civile e penale) e dalle leggi complementari (leggi processuali). Il tema dell’organizzazione della magistratura e degli uffici va quindi distinto dal tema dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Il T.U. sull’ordinamento giudiziario non è legge processuale, ma rappresenta la base per l’esercizio della funzione giurisdizionale. L’art 1 T.U.O.G. individua i tipi di organo giudiziario che esercitano la funzione giurisdizionale in materia civile; essi sono: - il giudice di pace; - il tribunale; - la Corte d’appello; - la Corte di cassazione. L’art. 4 T.U.O.G. stabilisce che l’ordine giudiziario è costituito “dai giudici di ogni grado dei tribunali e delle corti e dai magistrati del pubblico ministero”. Per completezza bisogna aggiungere che residuano, nell’ordinamento italiano, anche altre giurisdizioni speciali minori, dividendole sommariamente in: - giurisdizioni il cui prodotto finale è soggetto al controllo della Cassazione; - giurisdizioni autonome da tale controllo, perché correlate all’autodichia che taluni organi costituzionali indipendenti (Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Senato, Camera dei deputati) esercitano sulle controversie tra l’organo stesso e i propri membri. Della prima categoria fanno parte: • le giurisdizioni proprie di alcuni ordini professionali (es. Consiglio Nazionale Forense; Commissione centrale per le professioni sanitarie ecc.); • la giurisdizione della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura; • la giurisdizione attribuita ai ‘commissari regionali per gli usi civici’, organi a prevalente funzione amministrativa, ma legittimati a decidere contestazioni su diritti; • la giurisdizione della Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti con i quali l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi respinge, totalmente o parzialmente, domande depositate al fino dell’ottenimento di titoli di proprietà industriale o istanze di trascrizione, oppure con le quali impedisce il riconoscimento di un diritto riguardante un titolo di proprietà industriale. L’art. 108 co. 2 Cost. afferma espressamente e solennemente che: “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”. Con questo viene fissato uno degli elementi fondamentali affinché le giurisdizioni speciali possano funzionare come vere giurisdizioni. Senza indipendenza non ci può essere autentico esercizio della giurisdizione, perché l’indipendenza del giudicante è la prima delle garanzie della funzione giurisdizionale. In tale prospettiva, la Corte costituzionale ha finito nel tempo per giudicare incostituzionali, espellendole dall’ordinamento, quelle norme ordinarie che, consentendo interferenze politiche (o di altri soggetti) quanto a nomina, progressione o controllo del giudice amministrativo (più in genere, speciale), mettevano a rischio il rapporto diretto ed esclusivo di questo giudice con la legge. L’art. 103 co. 1 Cost. pone, accanto al Consiglio di Stato, ‘gli altri organi di giustizia amministrativa’, lasciando intendere una più ampia tipologia di giudici speciali relativamente al settore del contenzioso amministrativo. In tal senso, la norma va coordinata con l’art. 125 Cost.: “nelle Regioni sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica”. Da qui la successiva introduzione nell’ordinamento italiano dei Tribunali Amministrativi Regionali, che furono istituiti (l.n. 1034/1971) quali organi di giurisdizione amministrativa in primo grado, trasformando così il CDS (giudice di unico grado all’epoca della Costituzione) in giudice d’appello rispetto alle sentenze dei TAR. La creazione dei TAR quali giudici speciali non ha posto problema di costituzionalità proprio perché la base costituzionale era fornita dall’art. 103 e dall’art. 125 Cost. Dunque, dal 1971 il sistema della giurisdizione amministrativa si articola su un doppio grado di giudizio, con tribunali di primo grado decentrati. Lo svolgimento della giurisdizione e la disciplina del processo davanti al giudice amministrativo hanno oggi la loro fonte unitaria nel codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010 e modifiche). Il codice: - ha riordinato e riorganizzato sistematicamente la preesistente legislazione (prima del c.p.a., il sistema era regolato dalla ‘legge TAR’, l.n. 1034/1971, e dal ’T.U. delle leggi sul CDS’, r.d. n. 1054/1924); - ha ridisegnato molti istituti, innovando rispetto alle soluzioni legislative anteriori; il sistema è basato su due gradi di giudizio: a) il primo, davanti al Tribunale Amministrativo Regionale, giudice fondamentalmente collegiale a distribuzione territoriale regionale; b) il grado d’appello davanti al Consiglio di Stato, organo centralizzato di vertice della giurisdizione amministrativa. L’altro organo preesistente alla Costituzione è la Corte dei Conti; secondo l’art. 100 Cost., questa: “esercita il proprio controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato”. Si tratta di un organo ibrido (come il CDS) perché: 1) è organo di controllo amministrativo della finanza pubblica e delle responsabilità connesse; 2) è organo giurisdizionale (il capo V del t.u. è intitolato ‘attribuzioni giurisdizionali’) perché il contenzioso in materia di contabilità pubblica è stato da sempre attribuito alla sua giurisdizione esclusiva e speciale. Spettano alla competenza della Corte dei Conti (T.U. delle leggi sulla Corte dei Conti, r.d. n. 1214/1934 e successive leggi): • le controversie sulla contabilità pubblica ; • i giudizi ‘di conto e di responsabilità’, nonché altri giudizi in materia contabile, nei confronti dei pubblici impiegati e dei pubblici funzionari; • i ‘giudizi in materia di pensione ’ (62 t.u.: contro i provvedimenti definitivi di liquidazione di pensione a carico totale o parziale dello Stato è ammesso il ricorso alla competenze sezione della Corte..). 5. Il giudice tributario La disciplina del giudice tributario ha posto problemi di coordinamento con il testo costituzionale , problemi oggi risolti anche se con un certo aggiramento dell’intenzione del costituente. Attualmente, il sistema è fondato sull’attribuzione delle controversie tra fisco o contribuente (tanto per il primo, quanto per il secondo grado) ad uno speciale apparato giurisdizionale, le commissioni tributarie: - Commissione Tributaria Provinciale per il primo grado di giudizio; - Commissione Tributaria Regionale per il grado d’appello. La Costituzione non parla di commissioni tributarie quali organi speciali di giurisdizione tributaria (a differenza di Consiglio di Stato e Corte dei Conti): si tratta allora di capire come può oggi esistere una ‘giurisdizione speciale tributaria’ fondata su tali organi, nonostante il divieto di istituire giudici speciali diversi da quelli riconosciuti nella Costituzione. In verità queste commissioni esistevano già prima della costituzione, quali organi tributario- amministrativi a funzione genericamente ‘giustiziale’, piuttosto che giudici in senso proprio: si trattava di organi di controllo nati dalla diffidenza storica nei confronti del giudice ordinario da parte del governo dello Stato unitario, da sempre più preoccupato della sufficienza e costanza del gettito tributario che della pienezza dei diritti dei cittadini. La diffidenza del potere centrale nei confronti del giudice ordinario (considerato ‘troppo sensibile ai diritti dei contribuenti’) aveva portato ad attenuare il ruolo della funzione giurisdizionale nel campo della imposizione tributaria, e ad attribuire i conflitti che nascevano tra contribuente ed erario ad alcuni organi paragiurisdizionali di controllo (‘paragiurisdizionali’ perché mancavano a questi organi alcune delle caratteristiche insopprimibili degli organi giurisdizionali in senso proprio, in particolare l’indipendenza e l’imparzialità); si trattava di organismi di cui facevano parte funzionari dell’erario e che, pur decidendo controversie tra contribuente e fisco (cioè finendo per decidere su diritti e interessi dei cittadini), non esercitavano una vera funzione giurisdizionale. Questi organi hanno continuato di fatto ad operare anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, e sono stati progressivamente investiti di funzioni e caratteristiche più specificamente giurisdizionali. Si è così iniziato a parare di ‘giurisdizione tributaria’, attenuando (e in qualche modo ‘aggirando’) il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali ex art 102 cost.; lo si è fatto lavorando sulla VI ‘disposizione transitoria e finale’ della Costituzione, secondo cui:”entro cinque anni dall’entrata in vigore della costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti”. Si è ritenuto: a) da un lato, che le Commissioni tributarie potessero rientrare nel novero degli ‘organi giurisdizionali preesistenti’ (come CdS e CdC) malgrado l’opinione prevalente negasse loro natura giurisdizionale; b) dall’altro, che i cinque anni non fossero un termine perentorio, cioè che l’operazione di revisione di organi preesistenti si sarebbe potuta fare anche in seguito. Così (con il benestare di alcune storiche sentenze della Corte costituzionale e sulla tacita adesione alle esigenze di bilancio dell’amministrazione pubblica) si è accettata la trasformazione di questi organi, di per sé non giurisdizionali e non contemplati dalla costituzione, in organi giurisdizionali. La procedura è stata tutt’altro che ortodossa: la Corte costituzionale ha chiuso gli occhi e ha ammesso la costituzionalità dii questa operazione; oggi non si può fare altro che prendere atto che, accanto ai giudici speciali contemplati dalla costituzione, siedono altri giudici speciali che, persa l’etichetta di organi amministrativi, agiscono quali organi giurisdizionali. La legislazione ordinaria relativa alle Commissioni Tributarie ha avuto varie vicissitudini, fino ai d.lgs. n. 545 e 546 del 2012, intitolati appunto alla ‘Giurisdizione tributaria’. Già la grande riforma tributaria agli inizi degli anni ’70 aveva contemplato una normativa ad hoc sulle commissioni tributarie (d.p.r. n. 636/1972), approntando un processo con significativi elementi giurisdizionali. Ma è nei decreti legislativi n. 545 e 546 del 1992 che: - si è dettata una disciplina processuale abbastanza dettagliata; - si parla, senza più incertezze e ambiguità, di ‘giurisdizione tributaria’. Oggi, dunque, accanto alla giurisdizione ordinaria e alle classiche giurisdizioni amministrativa contabile, si affianca la giurisdizione (anch’essa ‘speciale’) che ha ad oggetto le controversie relative ai rapporti tributari; giurisdizione affidata a giudici ad hoc ed esercitata secondo il modulo del processo. L’art. 2 d.lgs. n. 546/1992 (modificato dall’art 12 l.n. 448/2001) ricomprende nella giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto ‘tributi di ogni genere e specie’, ivi incluse le cause attinenti a ‘sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari’ (tale ultima previsione è stata ritenuta incostituzionale: sent. n. 64 e 130 del 2008). Non è stata formalmente toccata la vecchia norma dell’art. 9 co 2 c.p.c., secondo cui: ‘il tribunale è altresì competente per le cause in materia di imposte e tasse’, ma è evidente che questa norma è da considerarsi priva di contenuto per incompatibilità con la generale ed esclusiva competenza giurisdizionale sulla materia tributaria attribuita alle commissioni tributarie. Resta da notare che la ‘giurisdizione tributaria’ presenta caratteri ibridi perché: - il suo esercizio è affidato in primo grado e in appello ad organi speciali di giurisdizione; mentre - per l’impugnazione delle sentenze della Commissione Tributaria Regionale la controversia tributaria è assoggettata alla piena giurisdizione della Corte di Cassazione. La giurisdizione esercitata dalla Corte di cassazione riguardo le questioni tributarie non si distingue sin alcun modo da quella esercitata nel controllo delle sentenze del giudice civile, con una trasmigrazione dalla giurisdizione speciale all’autorità giudiziaria ordinaria . !) Ciò è ben diverso da quanto accade nelle giurisdizioni esercitate dagli organi di giurisdizione amministrativa e contabile, perché rispetto a queste ultime non vi è controllo della Corte di cassazione nella sua pienezza: infatti, l’art. 111 co. 8 Cost. ammette il ricorso in Cassazione ‘per i soli motivi inerenti alla giurisdizione’, escludendo il motivo della ‘violazione di legge’. Nei confronti dei giudici speciali tradizionali (giudice amministrativo e Corte dei Conti), la Corte di cassazione vede il proprio ruolo limitato solo al controllo del riparto di giurisdizione. La giurisdizione tributaria ha anche il suo ‘codice’: il d.lgs. n. 546/2012 detta le norme di procedura in modo piuttosto dettagliato. Fino a quel momento, la regolamentazione era abbastanza scarna; con il d.lgs. si introdusse un processo più articolato, che il co. 2 art. 1 coordina alla normativa generale del codice di rito: il giudice tributario applica le regole del d.lgs. n. 546/2012 ‘e per quanto non disposto le norme del codice di procedura civile’. Ciò significa che il processo davanti al giudice tributario ha regole speciali dettate dal d.lgs. in esame, ma per tutto ciò che non è regolato da tale decreto, la clausola generale dell’art 1 impone di applicare la lex generalis che è appunto il c.p.c. (per quanto dettagliato, un decreto composto da 78 articoli non può regolare tutta la complessità del fenomeno processuale, che deve per forza far riferimento alla normativa generale). Tocchiamo così un altro tema fondamentale: la natura di disciplina (tendenzialmente) generale attribuita al codice di procedura civile, cioè la capacità del codice di rito (e del diritto processuale civile) di integrare, quale lex generalis, le altre leggi di settore colmandone le frequenti lacune. In tal senso: - l’art 1 d.lgs. n. 546/1992 fa esplicito riferimento al c.p.c. quale fonte di integrazione della disciplina del processo tributario; - l’art. 39 co. 1 c.p.a. (giurisdizione amministrativa) stabilisce: ‘per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del c.p.c., in quanto compatibili o espressione di principi generali’. Moltissimi istituti che regolano la vita del processo civile, e che vengono disciplinati nel codice di procedura, trovano quindi quotidiana applicazione nei processi davanti ai giudici speciali. Va ricordato che, con la fondamentale sent. n. 204/2004, la Corte costituzionale ha specificato che il potere del legislatore ordinario di attribuire un insieme di controversie in giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo non è incondizionato, ma incontra un duplice limite: a) deve trattarsi di controversie relative a ‘materia particolare’, nel senso che, dato il tipo di materia (es. ‘pubblici servizi’, ‘edilizia e urbanistica’), sarebbe obiettivamente cosa faticosa e incerta separare i diritti dagli interessi, in ragione dell’inestricabile nodo in cui gli stessi vengono a trovarsi; b) deve trattarsi di controversie in cui rileva la posizione sovraordinata dell’amministrazione pubblica (casi in cui questa agisce in veste di pubblico potere, usufruendo dell’attributo dell’autorità), con l’esclusione di situazioni ‘paritetiche’, cioè di quelle in cui l’amministrazione opera sullo stesso piano di qualunque altro soggetto privato (es. rapporti meramente patrimoniali di cui sia parte l’amministrazione). Una sorta di giurisdizione esclusiva è quella attribuita dalla legge alle commissioni tributarie: esclusiva è la competenza giurisdizionale sulla materia tributaria attribuita a tali organi e non è pertanto possibile, ai fini dell’individuazione del giudice, distinguere in essa tra interessi legittimi e diritti soggettivi del contribuente. CAPITOLO 5 – SOGGEZIONE DEL GIUDICE ALLA LEGGE E GARANZIA DEL CONTROLLO IN CASSAZIONE 1. La soggezione del giudice alla legge e la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali Anche se privo di contenuto precettivo in senso stretto, il co. 1 dell’art. 101 Cost. possiede un forte valore simbolico e politico: si afferma che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, dichiarazione di principio che si inserisce coerentemente nel sistema costituzionale. Di maggior peso giuridico è invece il co. 2 dell’art. 101 Cost., secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”; la disposizione va letta in coordinazione con l’art. 104 Cost., che stabilisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Queste norme hanno una importanza particolare, perché da esse si ricava che: a) l’ordine giudiziario è autonomo e indipendente rispetto al potere esecutivo; nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, i giudici devono procedere e decidere senza soffrire vincoli nei confronti degli altri poteri; b) ogni decisione (prodotto dell’attività giudiziale) deve trovare la sua fonte e la sua giustificazione nella legge: non spetta ai giudici ‘creare’ il diritto che applicano, poiché essi devono decidere secondo il diritto obiettivo, in conformità alle regole obiettive che presiedono al reperimento delle fonti e alla loro corretta interpretazione e applicazione. A sua volta l’art. 111 co. 6 Cost. stabilisce che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”: la norma è importante perché mira ad escludere che la tutela giurisdizionale si estrinsechi in comandi privi di giustificazione. Tramite la tutela giurisdizionale si esercita un potere caratterizzato da atti/provvedimenti a carattere autoritativo, come tali destinati ad imporsi anche contro la volontà dei destinatari; tuttavia, il giudice non può limitarsi a ordinare ma deve, di volta in volta, dar conto del perché della conclusione cui è giunto. I provvedimenti giurisdizionali non possono esaurirsi nel comando impartito alle parti, ma devono contestualmente giustificare la scelta concretamente assunta: essi devono essere motivati in modo esplicito per consentire il controllo della loro legittimità. La motivazione è la garanzia della corretta applicazione della legge: non avrebbe senso dire solennemente che i giudici “sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 co. 2) se non li si obbligasse a motivare, cioè a spiegare quale legge è stata applicata nel caso concreto e come la si è interpretata. Motivare significa evidenziare i criteri della decisione e renderla così “controllabile”: l’assenza di motivazione renderebbe ardua la verifica del rispetto o meno dell’ordinamento. La soggezione del giudice alla legge, intesa come necessità che il giudice: - decida facendo esclusiva applicazione della legge; - adegui il suo modus procedendi alle prescrizioni di legge; si ritrova anche nel codice di procedura, dove è posta la norma fondamentale dell’art. 113 c.p.c. (Pronuncia secondo diritto): nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto. Nell’art. 113 non si parla di norme di legge come nella costituzione, bensì di norme del diritto, ma in sostanza le espressioni sono equivalenti. Anche nell’art. 111 Cost. il termine “legge” va inteso nel senso più lato, e vale come riferimento alle norme di diritto in generale. Oltre alla legge in senso formale, il giudice è quindi soggetto: - alle norme risultanti dagli atti normativi generali interni non classificabili quali leggi in senso formale: decreti- legge, decreti legislativi ecc.; - alla normativa di derivazione comunitaria, anche se non trasfusa in atti legislativi interni: principi generali, regolamenti, direttive self-executing ecc.; - alla normativa di fonte consuetudinaria; - alla legge straniera eventualmente applicabile nel processo davanti alla giurisdizione italiana; - in taluni casi, e a certi fini, alle norme risultanti da contratti ed accordi collettivi di lavoro. 2. La garanzia del ricorso in Cassazione Il co. 7 dell’art. 111 Cost. (originario comma 2, prima della riforma operata dalla l. cost. n. 2/1999), funge anch’esso da garanzia della soggezione del giudice alla legge: contro le sentenze, siano esse pronunciate dall’autorità giudiziaria ordinaria o da giudici speciali, “è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”. La previsione del controllo della “violazione di legge” da parte della Cassazione mira ad impedire che il legislatore ordinario possa prevedere provvedimenti decisori (cioè incidenti su diritti ed obblighi dei cittadini) sottratti alla garanzia di un controllo di legalità da parte della Cassazione. La conformità alla legge delle sentenze (e, in genere, dei provvedimenti ad efficacia decisoria eventualmente pronunciati in una forma diversa: ordinanze o decreti) è sempre suscettibile di controllo da parte dell’organo posto all’apice dell’ordinamento giudiziario. Il co. 7 dell’art. 111 Cost. riveste una notevole importanza nell’ordinamento processuale, poiché ha portato ad espellere dal sistema la figura del provvedimento decisorio non impugnabile. Nonostante la norma si riferisca solo alle sentenze, essa è da sempre interpretata in senso estensivo, al fine di garantire la ricorribilità per Cassazione non solo per i provvedimenti in forma di sentenza, ma anche per tutti gli altri tipi di provvedimento (es. decreti o ordinanze) che presentino i caratteri della: - decisorietà, cioè che decidano di diritti soggettivi; - definitività, cioè non altrimenti impugnabili o revocabili. L’art. 111Cost. ha così agito nel senso di garantire il controllo della Corte di cassazione sui provvedimenti di merito non altrimenti impugnabili, cioè pronunciati “in unico grado”. Ne consegue che i provvedimenti qualificati come “non appellabili” dalla legge, o che comunque risulterebbero “non impugnabili” secondo l’ordinaria normativa processuale, possono in ogni caso essere impugnati con il mezzo del ricorso per Cassazione: questo ricorso è detto straordinario, in opposizione al ricorso ordinario previsto dal codice all’art. 360 c.p.c. e riservato a determinati tipi di sentenze. L’impossibilità di escludere il ricorso per Cassazione contro decisioni non altrimenti impugnabili consente di vedere nell’art. 111 co. 7 Cost. la garanzia costituzionale di un secondo grado di giudizio, seppur nelle forme peculiari del giudizio di legittimità. 3. La limitazione dell’accesso al giudizio di Cassazione per i provvedimenti del Consiglio di Stato La garanzia del ricorso in Cassazione pleno jure vale però solo per la giurisdizione civile e per quella tributaria. Il co. 8 dell’art. 111 Cost. infatti, esclude la ricorribilità in Cassazione delle sentenze emesse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti, consentendone la ricorribilità per le sole ragioni attinenti alla giurisdizione (cioè relative al riparto di attribuzioni tra i diversi apparati giurisdizionali). Contro le decisioni di questi organi l’accesso alla Corte Suprema non è escluso, ma ne è fortemente ridotto l’ambito, essendo esse impugnabili solo per ragioni relative alla giurisdizione. Alla Corte di Cassazione spetta, in questo caso, il solo potere di controllare che il giudice che ha esercitato (o denegato) la propria giurisdizione lo abbia fatto in corretta applicazione delle norme che la distribuiscono tra i vari organi giurisdizionali. Il potere di controllo della giurisdizione affidato alla Corte di Cassazione riposa sull’esigenza che vi sia un organo di vertice che garantisca il rispetto delle regole di riparto giurisdizionale: sarebbe inutile stabilire che in una determinata situazione debba decidere un tipo di giudice e non un altro e non predisporre rimedi per l’eventualità che, nel caso concreto, il giudice travalichi i suoi limiti giurisdizionali. Questo compito di “regolare” spetta alla cassazione, che: - da un lato, è l’organo di vertice della giurisdizione ordinaria; - dall’altro, è anche l’organo regolatore dei conflitti di giurisdizione e del rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni da parte di tutti gli apparati giurisdizionali. Così, anche se solo sotto questo limitato profilo, le sentenze dei giudici “speciali” sono sottoposte al controllo della Corte di Cassazione. L’asimmetria della posizione di giudici speciali e di giudice ordinario rispetto al controllo della Cassazione si riflette sul trasferimento di una determinata materia dalla giurisdizione del giudice amministrativo a quella del giudice civile (o viceversa). In questi casi, passando da un ordine giurisdizionale ad un altro, le parti perdono o acquistano il diritto al controllo della decisione da parte della Cassazione. Infatti: • il diritto di azione e il diritto di difesa esercitati dinanzi alla giurisdizione ordinaria implicano anche il diritto di impugnare, per tutti i motivi del ricorso contemplati dalla legge, i relativi provvedimenti dinanzi alla Corte di Cassazione, organo il cui accesso è garantito pienamente dall’art. 111 co. 7 Cost.; • le parti del giudizio davanti al giudice amministrativo mancano di un simmetrico diritto, poiché ad esse spetta solo il potere di ricorrere in Cassazione in punto di giurisdizione. Il trasferimento per legge (più volte operato dal legislatore ordinario) dall’una all’altra giurisdizione incide pertanto sulla garanzia dell’accesso al giudizio di cassazione. Nel vecchio regime delle controversie di pubblico impiego, la tutela giurisdizionale si esplicava soltanto in due gradi: 1) di fronte al Tribunale Amministrativo Regionale, quale giudice di primo grado; 2) di fronte al Consiglio di Stato, quale giudice d’appello. Mancava la possibilità di un successivo giudizio di cassazione, se non per motivi di giurisdizione. Attualmente, le parti hanno invece a disposizione un primo grado, il grado d’appello e, contro la sentenza d’appello, il ricorso pieno per Cassazione. Al contrario, tutte le volte in cui una determinata materia viene trasferita dalla giurisdizione ordinaria alla giurisdizione amministrativa si perde la pienezza di questo diritto: l’ultima parola spetta al Consiglio di Stato quale giudice d’appello, contro la cui pronuncia non è ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge. CAPITOLO 6 – GIURISDIZIONE E PROCESSO 1. Il rapporto tra giurisdizione e processo Giurisdizione e processo sono vocaboli usati in modo promiscuo. Le rispettive nozioni sono strettamente collegate, ma non sono coincidenti: più precisamente il processo è lo strumento attraverso cui si attua la giurisdizione. Il termine giurisdizione viene utilizzato con più significati ma, il concetto che qui verrà sviluppato è quello di giurisdizione come attività o come funzione dello Stato in cui si manifesta lo specifico potere di applicare la legge al caso concreto per sancire gli effetti giuridici che ne derivano in relazione ai soggetti coinvolti. La funzione giurisdizionale deve essere esercitata dagli organi giudicanti individuati dalle norme costituzionali e dalle norme ordinarie a cui fanno rinvio quelle costituzionali. La funzione giurisdizionale va esercitata dal giudice in una posizione di imparzialità assoluta e di soggezione all’ordinamento: si parla di “attuazione obiettiva dell’ordinamento”. Il giudice è la bocca della verità, è colui che accerta i fatti, li riconduce alle norme che li prevedono e ne fa discendere gli effetti giuridici previsti, senza altro interesse che l’attuazione obiettiva dell’ordinamento stesso. L’esercizio della funzione giurisdizionale ha bisogno di estrinsecarsi in forme determinate, ed è qui che viene in gioco la nozione di processo; cioè delle forme tipizzate che assume in concreto l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il processo civile è la forma tipica attraverso cui si estrinseca la giurisdizione civile. Il processo è caratterizzato dallo svolgimento coordinato di una pluralità di atti consecutivi, atti attraverso cui si sviluppa la funzione giurisdizionale. La funzione non si esaurisce in un singolo atto ma si caratterizza per un’attività complessa a struttura “procedimentale” con un inizio, uno svolgimento articolato e una conclusione. Si tratta di un’attività che coinvolge il giudice, i soggetti privati che controvertono, gli organi ausiliari della giurisdizione e si sviluppa nel tempo con un nesso di consequenzialità logica e temporale tra l’atto introduttivo, gli atti successivi e un atto finale. Il processo è dunque un insieme coordinato di atti compiuti da vari soggetti: gli atti che provengono dalle parti, gli atti del giudice, gli atti degli altri organi pubblici (es, pubblico ministero, cancelliere, ufficiale giudiziario) e gli atti dei terzi. Il processo giurisdizionale si caratterizza per il suo modulo procedimentale che si può definire come “un’attività complessa, costituita da una pluralità di atti coordinati, unitariamente considerata nel suo insieme e scandita nel tempo”. Caratteristica essenziale del procedimento è il suo concentrarsi in una struttura “a catena” di atti che sono coordinati tra loro in sequenza, sicché il vizio di un atto è idoneo a riflettersi sugli atti successivi che ne dipendono . Si trova conferma legislativa di questa raffigurazione nell’art. 159 co. 1 c.p.c. che sotto la rubrica estensione della nullità prescrive “la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti”. Quando un atto è viziato, il vizio si trasmette dall’atto considerato agli atti dipendenti da esso ma non si trasmette agli atti precedenti e non comporta vizio neppure degli atti successivi che ne sono indipendenti. Se ne ricava al contrario che tutti gli atti successivi che dipendono dall’atto viziato sono colpiti anche essi dal vizio. Parlando di processo giurisdizionale si individua un fenomeno in cui, agli elementi della concatenazione procedurale degli atti, si aggiungono le caratteristiche essenziale proprie della giurisdizionale: contraddittorio, terzietà ed imparzialità del giudice e la funzionalizzazione all’attuazione obiettiva della legge. 2. Giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria La funzione giurisdizionale tipica finora considerata è chiamata più specificamente giurisdizione contenziosa, dove l'aggettivo esprime il compito del giudice di risolvere una controversia tra due soggetti contrapposti, da decidersi tramite un'attività di cognizione ed accertamento. Tale funzione non esaurisce però l'attività giudiziale che ricomprende anche una funzione collaterale intesa a gestire situazioni personali o patrimoniali attraverso la cura di incombenze conferite ad un organo pubblico terzo, imparziale e provvisto di poteri autoritativi. In tali casi di giurisdizione volontaria, intendendosi con tale locuzione un'attività che vede il giudice più amministrare che decidere in senso proprio. CAPITOLO 7 – L’ATTO PROCESSUALE 1. L’atto processuale: validità ed efficacia Il processo si compone di atti vari, tutti connessi tra di loro e riuniti sotto la categoria generica di “atti processuali”. Gli atti processuali possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. L’art. 121 co.1 c.p.c. specifica che la “libertà di forme” vale solo per gli atti “per i quali la legge non richiede forme determinate”. Normalmente per esigenze di ordine, intellegibilità e certezza la legge predispone il modello astratto dell’atto; il d. lgs. 149/2022 ha aggiunto il co. 2 specificando che “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”. Dove la chiarezza richiede che il testo sia univocamente intellegibile e non contenga parti oscure; mentre la sinteticità richiede che il testo non contenga ripetizioni, non sia ridondante e prolisso. L’atto per cui è prescritta una data forma (cioè l’atto a forma vincolata) è però viziato da nullità se manca uno dei requisiti formali legali (cioè uno dei requisiti di forma in senso stretto) imposti dalla legge a pena di nullità. L’ art. 156 co. 1 c.p.c. sancisce “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forma, se la nullità non è comminata dalla legge”, in tal senso si intende dire che non tutte le difformità dell’atto producono nullità. Ad es.: le sentenze devono essere pronunciate in nome del popolo italiano e contenere l’intestazione Repubblica italiana; tuttavia, l’assenza di questi elementi non fa venir meno la validità della sentenza stessa. 1.1. Impossibilità di raggiungere lo scopo Un atto può incorrere in nullità, malgrado la propria perfezione formale, per la sua inidoneità a raggiungere il proprio scopo: l'atto è nullo quando esso “manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo” (art. 156 co. 2 c.p.c.). Ciò che rileva è lo scopo oggettivo esterno all'atto, cioè l'evento a cui il compimento dell'atto è preordinato dalla legge. Lo stesso tipo di nullità emerge rispetto agli atti di parte di impulso che si rivelano impotenti ad esprimere in maniera sufficientemente chiara il loro oggetto o rispetto ad atti non in grado di dar correttamente conto di dati essenziali. Si parla in questi casi di nullità di contenuto-forma nel senso che l'incompletezza, l'indecifrabilità o la contraddittorietà del contenuto si riflettono sfavorevolmente sulla validità dell'atto. L'atto è provvisto dei suoi requisiti formali essenziali ma è considerato nullo come se ne fosse privo. Ad es.: L'atto di citazione afferente alla editio actionis, cioè il caso dell’indecifrabilità, ambiguità o incompletezza dell'oggetto della domanda proposta. Questo vizio impedisce al convenuto di esercitare correttamente il proprio diritto di difesa e dà luogo a nullità della citazione. 1.2. Sanatoria per conseguimento dello scopo La stessa nozione di “scopo dell'atto” può svolgere peraltro una funzione inversa, secondo l’art. 156 co. 3 c.p.c. la nullità “non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” e questo significa che lo scopo, se raggiunto, funge da sanatoria della nullità in cui l'atto sia occorso (Con riferimento al principio ricavabile dall’art. 156 co. 3 il d. lgs. 149/2022 ha affrontato il tema della validità dell'atto processuale formato in violazione delle regole tecniche, stabilendo che anche il mancato rispetto di queste non determina l'invalidità e può essere valutato ai fini delle spese). Si tratta di un'applicazione dell'antico principio processuale: non v’è luogo a dichiarazione di nullità dell'atto se dalla nullità non deriva pregiudizio legittimi interessi di chi la invoca. Cosa significa che l'atto ha raggiunto il suo scopo? Lo scopo non è il motivo soggettivo ma l'evento per il quale l'ordinamento predispone il compimento dell'atto. Si deve trattare di un evento perseguibile dalla legge attraverso il compimento dell'atto e deve trattarsi di un atto valutabile quale elemento della serie processuale. Ad es.: La vicenda della notificazione della citazione al convenuto che sia affetta da un vizio che ne comporti la nullità. A che mira la vicenda della notificazione della citazione al convenuto? All'informazione del convenuto quanto all'esistenza di una domanda nei suoi confronti e quanto alla data dell'udienza a cui è chiamato a comparire. Tale nullità è sanata se la parte destinataria della citazione si costituisce in giudizio dando mostra di essere venuta a conoscenza della propria chiamata in giudizio: in tal caso lo scopo della notificazione può considerarsi raggiunto e non ha senso far valere la nullità formale. !! Attenzione: se il destinatario della notifica della citazione non si fosse costituito in giudizio, lo scopo non si potrebbe considerare raggiunto anche se si provasse che questi aveva comunque avuto conoscenza dell'atto di citazione. 1.3. Sanatoria per preclusione della rivelabilità del vizio Accanto al conseguimento dello scopo, il codice allinea la sanatoria per mancata o tardiva rilevazione del vizio. La nullità nel diritto processuale è caratterizzata dal fatto che l'atto invalido è pur sempre un atto efficace: esso è idoneo a produrre effetti finché la nullità non sia dichiarata. Per ottenere la rimozione degli effetti occorre far valere l'invalidità: la nullità va denunciata e la sua mancata rilevazione impedisce di rilevarla in seguito così producendo una sorta di regolarizzazione del procedimento. L’art. 157 c.p.c. stabilisce che: a) la nullità a norma dell'art. 156 c.p.c. non può essere pronunciata senza istanza di parte (nullità relativa), a meno che la legge non disponga che essa sia pronunciata d'ufficio (nullità assoluta); b) nel caso di nullità relativa, solo la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso, ma essa deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso; c) la nullità relativa non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente. 1.4. Rinnovazione dell'atto nullo Al pregiudizio derivante dalla nullità può talora porsi rimedio attraverso il meccanismo della rinnovazione dell'atto. La parte che ha compiuto un atto nullo può rinnovarlo (cioè sostituirlo con un atto valido), a condizione che non siano nel frattempo intervenute preclusioni o decadenze. Quanto al giudice, nel pronunciare la nullità egli deve disporre (quando sia possibile) la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende. Quanto agli effetti dell'atto rinnovato, essi varranno ex tunc, retroagiranno al momento del compimento dell'atto nullo per un effetto di sostituzione di tale atto da parte del nuovo. 1.5. Conversione dell'atto nullo Un atto nullo può risultare utilmente compiuto per il meccanismo della conversione legale. Per capire la conversione bisogna tener conto del principio di conservazione dell'atto, cioè della regola tendenziale per cui è preferibile che l'atto produca effetti piuttosto che non ne produca affatto. L’art. 159 c. 2 c.p.c: “la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti” (nullità parziale). Del principio di conservazione è massima espressione il fenomeno della conversione dell'atto nullo: se il vizio impedisce un determinato effetto, l'atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo. 1.6. Nullità formale e nullità extraformale La nullità dell'atto può derivare anche dalla mancanza di un suo presupposto, cioè di qualcosa esterno all'atto stesso ma indispensabile per la sua validità. Nasce di qui la distinzione tra: - nullità formale - nullità extraformale, cioè la nullità che colpisce un atto che è ineccepibile ma che tuttavia resta negativamente condizionato da un vizio esterno ad esso. Ad es.: Le nullità processuali che discendono dalla mancanza di presupposti necessari del procedere; la sussistenza di una nullità non sanata di un precedente atto della serie; l'atto processuale compiuto oltre il termine perentorio prescritto per il suo compimento. L'importanza della distinzione sta nella non incondizionata applicabilità degli artt. 156 ss dettati per le nullità formali. 1.7. Nullità della sentenza La sentenza può essere nulla per presenza di un vizio proprio o per “derivazione”, cioè per proiezione su di essa di precedenti vizi del procedimento non sanati. I vizi propri della sentenza possono riguardare tanto l'atto-documento in sé considerato, quanto la fase di formazione dell'atto. La rilevabilità del vizio è disciplinata dall’art. 161 co. 1 c.p.c secondo cui: “la nullità delle sentenze soggette ad appello o al ricorso per Cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”. La norma sancisce il principio della conversione della nullità in motivo di gravame, ciò significa che se non è fatta valere con il mezzo di impugnazione previsto dalla legge contro il tipo di sentenza considerato (ad es.: non è fatta valere con l'appello contro la sentenza di primo grado), la nullità non può farsi valere in altro modo. Il principio della conversione della nullità in motivo di gravame riceve però un’eccezione al co. 2 che stabilisce che la regola del co.1 “non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”. Questo vizio determina un tipo di nullità assoluta ed insanabile, che rende inapplicabile la regola per cui la nullità perde rilievo se non è sollevata all'interno dello stesso giudizio dove si è verificata. La previsione normativa di una nullità resistente al formale passaggio in giudicato della sentenza ha indotto dottrine giurisprudenza ad introdurre la categoria della “inesistenza” della sentenza ed ha spinto gli interpreti a considerare la mancata sottoscrizione della sentenza a vederla come un'ipotesi esemplificativa di possibili figure di inesistenza, alle quali in virtù della loro gravità non si applica il meccanismo della sanatoria. Sono state considerate affette da nullità radicale non sanabile (inesistenza) ad es: la sentenza che pronuncia nei confronti di una parte inesistente o la sentenza totalmente priva di parti essenziali rispetto al modello formale. 2. Termini processuali Oltre alla forma in senso stretto, il codice regola anche il tempo degli atti processuali, cioè il momento in cui essi debbono compiersi. I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge (art. 152 c.p.c.). Essi però possono anche essere stabiliti dal giudice a pena di decadenza se la legge lo permette espressamente: l’ art. 175 c.p.c stabilisce che il giudice istruttore fissa “i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali”. 2.1. Termini ordinatori e termini perentori Taluni termini sono stabiliti a pena di decadenza: una volta scaduti, si estingue il potere di compiere l'atto processuale (termini perentori); in altri casi, anche se l'atto non viene compiuto entro il termine, la parte non decade dal potere di compierlo (termini ordinatori). “I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”: se un dato termine non è qualificato espressamente dalla legge come perentorio dobbiamo considerarlo ordinatorio. I termini perentori “non possono essere prorogati o abbreviati, nemmeno sull'accordo delle parti”. La parte che dimostra di essere in corsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, può chiedere al giudice di essere rimessa in termini: se il giudice ritiene verosimili fatti allegati può mettere con ordinanza la prova dell'impedimento e provvedere sulla rimessione in termini. 2.2. Il calcolo del termine Le unità di calcolo del termine sono: giorno, anni, mesi ed ore. Quanto alle modalità del conteggio gli elementi costitutivi del termine sono il momento iniziale (dies a quo) ed il momento finale (dies ad quem). L’art. 155 co. 1 c.p.c: “nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno e l'ora iniziali”: il giorno iniziale non si computa, cioè il primo giorno e il conteggio e il successivo; per converso si computa il giorno finale. Il co. 2: “per il computo dei termini a mesi o ad anni si osserva il calendario comune” cioè se il termine è indicato in “2 mesi”, tradotto in giorni non costerà di 60 gg ma, esso si calcola per blocchi di mesi. Ad es.: poniamo che i 2 mesi si cominciano a computare dal 20 Marzo, il termine finale non sarà il 20 maggio, bensì il 19 maggio (perché bisogna tener conto che Aprile ha 30 giorni e Marzo ne ha 31). “I giorni festivi si computano nel termine” (co. 3): i giorni festivi intermedi rispetto ai giorni iniziali e finali vengono calcolati come tutti gli altri giorni; ma, “se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo”. Le due regole tra loro complementari si applicano abbastanza intuitivamente al tipo di termini finali. Il termine finale è quello che viene in gioco quando l'atto va compiuto entro e non oltre un dato termine: finale perché la sua scadenza segna una scadenza temporale per il compimento dell'atto. Tale termine ha una funzione acceleratoria, nel senso che mira a sveltire i tempi del processo affinché questo non penda all'infinito. Talvolta però il termine non si conta “in avanti” e questo accade quando la sua scadenza non è fissata in giorni successivi rispetto ad un dato momento ma, è fissata a partire da eventi successivi alla sua scadenza = ad es. il termine per la costituzione del almeno 70 gg prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione: la data di udienza è il 31 maggio, il convenuto deve costituirsi almeno 70 gg prima, per cui il termine si calcola a ritroso e cioè il primo giorno del computo sarà il 30 maggio e procedendo all'indietro i 20 giorni scadranno l'11 maggio che, sarà l'ultimo giorno utile per rispetto del termine di costituzione. 2.3. Termini acceleratori e termini dilatori Ai termini acceleratori si contrappone alla categoria dei termini dilatori. Il termine dilatorio quando la legge vuole impedire che l'atto possa aversi prima di una certa data, è una sorta di tempo minimo incomprimibile concesso per il compimento di un atto a tutela del diritto di difesa. L’art. 163 bis c.p.c stabilisce che tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di comparizione “debbono intercorrere termini liberi non minori di 120 gg”. L'attore è libero di fissare la data dell'udienza (es) a 130 CAPITOLO 9 – LA DOMANDA GIUDIZIALE 1. La domanda giudiziale Il processo civile si apre con l'atto attraverso il quale chi agisce in giudizio (attore) propone la domanda giudiziale. Domanda è il termine con cui si esprime la richiesta di tutela giurisdizionale, richiesta che si esercita attraverso un atto formale di instaurazione del processo. Da quest'atto nasce il dovere del giudice di occuparsi della causa e di provvedere nelle forme e nei modi prescritti dalla legge processuale. Il rapporto tra domanda e tutela giurisdizionale riposa su due norme fondamentali: gli artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c. che vanno letti in coordinamento reciproco → “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte” (l'autorità giudiziaria può procedere alla tutela dei diritti “anche su istanza del p.m. o d'ufficio ma solo quando la legge lo dispone”) e l’art. 99 stabilisce “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. Dall’art. 100 c.p.c. deriva che la proposizione della domanda deve rispondere ad un interesse proprio della parte: si tratta dell’interesse ad agire. Nella normalità dei casi il requisito dell'interesse ad agire è implicito sicché l'importanza di questa figura giuridica emerge piuttosto quando venga meno in corso di causa l'originario interesse alla decisione. L'interesse gioca un suo ruolo, sotto il nome di interesse ad impugnare, quale elemento di integrazione del requisito della soccombenza al fine di determinare la parte legittimata a proporre impugnazione contro la sentenza. 2. La corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato La domanda assolve anche alla funzione di determinare l'ambito della tutela. La tutela richiesta può essere concessa: - relativamente all’oggetto per cui è stata chiesta; - nei limiti di tale oggetto; - nei confronti dei soggetti contro i quali è chiesta e che sono stati resi parti del processo stesso. Questo vuol dire che tanto il tipo di tutela, quanto la sua estensione (quantità e qualità della tutela) sono individuati dalla libera scelta di chi fa valere in giudizio il proprio diritto. Dando vita al processo, l'attore è libero di determinare l'oggetto, il contenuto e l'ambito soggettivo (principio dispositivo); formulando la domanda esso auto vincola le proprie scelte e ad esse vincola il giudice, chiamato a rispettare la fondamentale esigenza della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) La pronuncia deve commisurarsi alla domanda: il giudice deve pronunciare su tutta la domanda, non potendo scegliere di trattarne una parte tralasciandone altre; il mancato rispetto di questa regola dà luogo al vizio di omissione di pronuncia. Simmetricamente il potere del giudice deve esercitarsi entro il perimetro della domanda, con il divieto di eccedere i limiti (vizio ultra petita) Ad es.: Se l'attore si è limitato a chiedere la condanna del debitore all'adempimento, scegliendo di non domandare condanna ai danni, il capo della sentenza che condannasse il convenuto al risarcimento varrebbe da ultra petita e violerebbe l'art. 112. Pronunciare sulla domanda non significa che il giudice deve accoglierla: egli accoglierà la domanda se la giudicherà fondata, ma la rigetterà in caso contrario; tanto la sentenza di accoglimento quanto quella di rigetto varranno quale attuazione del suo dovere di pronunciare sulla domanda (in entrambi i casi si ha esercizio della funzione giurisdizionale ed in entrambi i casi il giudice pronuncia una sentenza di merito ). Chi “fa valere un diritto in giudizio” può anche non essere l'effettivo titolare di quel diritto. “Far valere in giudizio un diritto” significa esercitare il diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost, inteso come il diritto processuale di attivare la giurisdizione per verificare l'effettiva esistenza del diritto sostanziale di cui si chiede tutela. La garanzia di agire in giudizio è universale ed incondizionata perché spetta sia a chi ha ragione e sia a chi ha torto. 3. L'accoglimento della domanda Per arrivare alla sentenza di accoglimento occorre che il giudice investito della domanda abbia verificato la regolarità del rapporto processuale: cioè abbia verificato la possibilità del processo di svolgersi secondo i dettami delle norme procedurali applicabili escludendo la presenza di concreti impedimenti. Occorre poi che il giudice: a) abbia identificato la norma giuridica sostanziale che giustifica la pretesa; b) abbia accertato che la norma individuata si applichi al caso sottoposto a giudizio; c) abbia riconosciuto che l'attore è il titolare del diritto; d) abbia riconosciuto che il convenuto è il titolare dei correlati obblighi o soggezioni; e) abbia verificato la concreta sussistenza dei fatti all'accadimento dei quali la norma individuata riconnette l'effetto giuridico; f) abbia verificato che non sussistono altri fatti che impediscono la produzione dell'effetto giuridico richiesto. Iura novit curia = la ricognizione della norma da applicare al caso è compito esclusivo del giudice. La parte indica le norme che ritiene applicabili e ne suggerisce l'interpretazione ma, spetta al giudice il potere di giudicare in diritto secondo i criteri obiettivi fissati dall'ordinamento. 4. La posizione dialettica del convenuto Il giudice deve compiere la ricognizione della norma, interpretarla ed applicarla al caso sottopostogli. La sola attività assertiva dell'attore non basta a tale scopo: occorre che tutte le affermazioni di questi siano vagliate nel contraddittorio del convenuto, di colui che l'attore ha individuato come il soggetto destinato a subire gli effetti dell'accoglimento della domanda. Questi potrebbe aver da ridire sul fatto che, ad es, la norma invocata è stata interpretata erroneamente (contestazione in diritto). Oltre all'interpretazione della norma può poi essere contestata la fondatezza della domanda rispetto ai fatti: anche accettando sul piano interpretativo la prospettazione dell'attore, il convenuto può contestare che i fatti posti a base della domanda siano effettivamente accaduti o si siano avverati nel modo rappresentato. Ancora: anche se i fatti narrati dall'attore si sono avverati, esistono però altri fatti (taciuti) la cui presenza contraddice gli effetti pretesi ed impedisce l'accoglimento della domanda. Il principio del contraddittorio impone che il processo coinvolga fin dall'origine la controparte (il convenuto), la quale per il solo fatto di essere stata coinvolta nel processo, deve essere messa in condizione di esprimere tutte le sue possibili contestazioni: tali contestazioni si possono apprezzare sul piano del rito (cioè delle regole poste dalla legge processuale), oppure sul piano del merito (cioè del diritto sostanziale). 5. Le forme della domanda Le possibili forme della domanda introduttiva del giudizio sono due: - Citazione - Ricorso La differenza intercorrente tra citazione/ricorso e domanda: con domanda si intende il contenuto tipico dell'atto (= cioè l’esercizio dell'azione); con citazione/ricorso si intendono le forme che può assumere la domanda quale atto processuale. 5.1. La citazione L’art. 163 c.p.c. fissa i requisiti dell'atto di citazione, inteso quale forma ordinaria della domanda introduttiva del giudizio. Salvo che si tratti di materia specifica, di procedimento speciale per il quale la legge impone la forma del ricorso. “La domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa” = art. 163 c.p.c. L'atto di citazione a comparire a udienza fissa apre il processo ordinario e si caratterizza per il fatto che in esso l'attore fissa al convenuto la data della prima udienza: a differenza del ricorso, la citazione introduttiva del giudizio ordinario di cognizione è caratterizzata dalla vocatio in ius cioè dall'invito al convenuto a comparire di fronte ad un dato organo giudiziale, in una data fissata dall'attore stesso. La citazione deve essere “sottoscritta” dal procuratore della parte, poi è destinata alla notificazione. L'atto di citazione viene redatto e portato a conoscenza del convenuto con la modalità della notificazione. Solo successivamente viene depositato nell'ufficio giudiziario. In base al co. 3 dell’art. 163 c.p.c. l’atto di citazione deve contenere: 1) l'indicazione del  tribunale davanti al quale la domanda è proposta; 2) il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell'attore, il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se attore o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio → occorre che siano precisamente individuati soggetti della controversia. Semplici errori nell'indicazione dei nominativi, che non generano effettiva incertezza sui soggetti coinvolti, non danno luogo a nullità, quest'ultima si ha solo quando da questi errori discende l'assoluta incertezza sulle parti del processo; 3) la determinazione della cosa oggetto della domanda → si tratta del diritto di cui l'attore chiede il riconoscimento ma, può indicare anche la richiesta di un provvedimento o il contenuto del provvedimento; 4) l'esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni → bisogna dare un “perché giuridico” alla richiesta, dare all'oggetto della domanda il suo titolo. Dare gli elementi di diritto significa individuare la norma o il principio giuridico da cui si vogliono far discendere gli effetti perseguiti; dare gli elementi di fatto significa che bisogna indicare nell'atto i fatti idonei a giustificare l'applicazione della norma giuridica individuata ed invocata. 5) l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione → chi agisce in giudizio deve dimostrare la verità dei fatti che racconta e pone a base delle proprie richieste e quindi all'onere di indicare le fonti di prova dei fatti, cioè i documenti di supporto delle affermazioni. 6) il nome e il cognome del procuratore e l'indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata → l'espressione lascia intendere la possibilità che la procura non sia stata ancora rilasciata al momento della notifica: essa può esserlo in un momento successivo alla notificazione dell'atto di citazione. La notificazione della citazione può aver luogo anche in mancanza del documento materiale contenente la procura, quest'atto può sopravvenire in un secondo momento purché anteriormente alla costituzione dell'attore. 7) l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; l'invito al convenuto a costituirsi nel termine di 70 gg prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall'articolo 166 e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'articolo 168 bis, con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli articoli 38 e 167, che la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi davanti al tribunale, fatta eccezione per i casi previsti dall'articolo 86 o da leggi speciali, e che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare istanza per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato → la citazione dell'art. 163 contiene la chiamata del convenuto a presenziare ad una certa udienza. Spetta all'attore stabilire la data di questa udienza: il convenuto deve essere espressamente invitato a comparire alla data fissata; da questo punto di vista la citazione ad udienza fissa si distingue dal ricorso che è l'atto con cui si rimette al giudice la fissazione della data dell'udienza. Il convenuto viene invitato a costituirsi e va avvertito che se si costituisce oltre i termini non potrà più compiere certi atti = costituzione tardiva. La presenza contestuale di questi elementi porta a distinguere, da un lato, gli elementi della citazione attinenti alla vocatio in jus e dall'altro, gli elementi della citazione che appartengono all'individuazione della tutela richiesta e dalla spendita delle relative ragioni di fatto e di diritto (elementi attinenti alla editio actionis). 5.2. Il ricorso Il ricorso è l'altra forma della domanda introduttiva del giudizio. Anche nel ricorso debbono essere contenuti di elementi oggettivi e soggettivi identificativi della domanda ma, a differenza della citazione, questo è un atto che apre direttamente ed immediatamente il rapporto con l'organo giudiziario perché: - non determina unilateralmente la data dell'udienza di comparizione; - non viene preliminarmente notificato al convenuto; - non invita questi a comparire in giudizio. Il ricorso individua i soggetti, spiega le ragioni del ricorrente e contiene la domanda di uno specifico provvedimento di tutela. Esso manca di una vocatio in ius del convenuto ma, presenta una editio actionis. Depositato nella cancelleria del giudice investito della controversia, sarà quest'ultimo a provvedere alla fissazione della data di comparizione delle parti attraverso un decreto contenente anche l'ordine di notificare ricorso e decreto al convenuto entro un certo termine. -nelle cause relative allo stato e capacità delle persone; -negli altri casi previsti dalla legge. Il giudice adito deve disporre la comunicazione degli atti al PM per consentirgli di intervenire.  Intervento meramente facoltativo è previsto in ogni altra causa in cui il pubblico ministero ravvisi un pubblico interesse: allorché il giudice stesso ravvisi un pubblico interesse può ordinare la comunicazione degli atti al PM affinché esso valuti se prendere parte attiva al processo, intervenendo o disinteressarsene. I poteri processuali del PM attore del PM interveniente necessario sono coincidenti. La peculiarità della posizione del PM fa sì che la sentenza pronunciata nell'ambito di un processo al quale questi abbia partecipato, conforme o meno che sia alle sue conclusioni, non acquista efficacia di giudicato nei suoi confronti: è opinione comune che il PM non possa mai risultare soccombente, anche se le sue conclusioni non siano accolte. Da questa assunzione si ricava l'inammissibilità della sua condanna alle spese, nonché il potere dell'ufficio di impugnare la sentenza anche quando questa sia conforme alle conclusioni rassegnate dal PM persona fisica che ha partecipato alla pregressa fase processuale. L’art. 73 c.p.c. estende al pubblico ministero nel processo civile le regole di astensione previste dall'art. 51 per il giudice. 6. Organi giudiziari ausiliari La funzione giurisdizionale essenziale è svolta dal giudice quale organo primario dell'apparato giurisdizionale però, i giudici non possono fare tutto da soli ed accanto ad essi il codice pone alcuni organi minori di natura giurisdizionale ma con funzioni ausiliarie. Si tratta di organi sprovvisti di potestà decisorie, chiamati a collaborare all'esercizio della funzione attraverso lo svolgimento di attività strumentali ad essa. I principali organi ausiliari sono:  il cancelliere che può considerarsi l'organo amministrativo di base degli uffici giudiziari poiché esso riceve atti e documenti del processo, provvedi alla loro conservazione ed alle certificazioni necessarie. Le cancellerie documentano a tutti gli effetti nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie, quelle degli organi giudiziari e delle parti.  l’ufficiale giudiziario, assiste il giudice in udienza, provvede all’esecuzione degli ordini del giudice, esegue le notificazioni degli atti ed attende altre incombenze che la legge gli attribuisce. Nella realtà l’ufficiale giudiziario resta estraneo all’attività di udienza ed esercita piuttosto le sue funzioni quale organo essenziale di due settori di attività: -il procedimento di esecuzione forzata -il procedimento di notificazione degli atti. CAPITOLO 11 – NOTIFICAZIONI E COMUNICAZIONI 1. Notificazione e comunicazione L'attività di notificazione attiene alle modalità di produzione e di diffusione della conoscenza degli atti. Il meccanismo della notificazione non riguarda solo gli atti processuali ma anche gli atti di natura non processuale sono suscettibili di notifica. Il codice di procedura e le leggi processuali riconducono all'atto di notifica effetti rilevanti sullo stato e sullo svolgimento della procedura, nonché sui poteri delle parti. Occorre distinguere la nozione di notificazione (art. 137 c.p.c.) dalla nozione di comunicazione (art. 136 c.p.c.). La comunicazione è la mera trasmissione della notizia di un evento processuale, laddove la notificazione è un procedimento di trasmissione formale di un atto documentale. Essa è attuata attraverso consegna al destinatario di copia conforme dell'atto. Sul piano oggettivo comunicazione e notificazione si distinguono per il fatto che, mentre la prima consiste nella formale notizia effettuata alla parte di un atto o di un provvedimento; la notificazione consiste nella trasmissione dell'atto attraverso recapito al destinatario della sua copia. Con la comunicazione si dà l'annuncio dell'evento processuale costituito dall'atto; con la notificazione si trasmette l'atto nella sua individualità. La comunicazione può assumere varie forme, mentre la notificazione è una specifica forma della trasmissione ma dell'atto stesso. Il codice di procedura considera la comunicazione un atto proprio del cancelliere, il quale la effettua a mezzo del biglietto di cancelleria, che è il veicolo delle comunicazioni “prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice ed ai testimoni”. Il biglietto di cancelleria è anche il canale di comunicazione dei provvedimenti giudiziali per i quali la legge dispone tale forma di notizia. La notificazione è invece un atto proprio dell'ufficiale giudiziario, seppur su iniziativa di un altro soggetto. Il sistema codicistico originario ha subito radicali cambiamenti: da un lato la legge ha aperto sempre più alla possibilità che alla notificazione provvedano materialmente soggetti diversi dall'ufficiale giudiziario; dall'altro il processo civile telematico ha modificato profondamente la tecnica della comunicazione del cancelliere. Quanto alla notificazione, la digitalizzazione del processo ha messo in crisi l'idea di notificazione quale procedimento a intermediazione necessaria dell'ufficiale giudiziario; oggi il difensore svolge l'attività di agente della notificazione avendo acquistato la facoltà di notificare in proprio attraverso di casella di posta elettronica certificata con il conseguente riconoscimento di funzioni tipiche del pubblico ufficiale. In questo senso muove il dettato dell’art. 137 co.1 c.p.c. che prevede che le notificazioni sono eseguite dall'ufficiale giudiziario o dall'avvocato “su istanza di parte o su richiesta del pubblico ministero o del cancelliere”. Il co. 2 stabilisce che l'ufficiale giudiziario “esegue la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme all'originale dell'atto da notificarsi”. L'ufficiale giudiziario esegue la notificazione su richiesta dell'avvocato “se quest'ultimo non deve seguirla a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato, o con altra modalità prevista dalla legge, salvo che l'avvocato dichiari che la notificazione con le predette modalità non è possibile o non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario”. Elementi essenziali della notificazione è la relazione di notificazione, che l’art 148 c.p.c. descrive la certificazione, da parte dell'ufficiale giudiziario, dell’eseguita notificazione “mediante relazione da lui datata e sottoscritta apposte in calce all'originale e alla copia dell'atto”. La relazione, detta relata indica la persona alla quale viene consegnata la copia e le sue qualità, nonché il luogo della consegna, oppure le ricerche fatte dall'ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario. 2. Le comunicazioni e le notificazioni nel processo telematico La digitalizzazione del processo ha imposto ampi interventi sulle disposizioni dedicate alla trasmissione degli atti e dei provvedimenti. Da progressive modifiche della vecchia normativa e dalle modifiche introdotte dal d. lgs. 149/2022, la posta elettronica certificata risulta oggi lo strumento esclusivo di trasmissione telematica degli atti. La posta elettronica certificata opera su canali esterni, ciò comporta particolari oneri di gestione per il difensore che è chiamato a rispondere dei malfunzionamenti della propria casella derivanti da mancato controllo e manutenzione. Quanto alla trasmissione ufficiale dei provvedimenti giudiziari l'originaria formulazione dell’art. 136 c.p.c. prevedeva che il cancelliere effettuasse la comunicazione dei provvedimenti in forma abbreviata consegnando il biglietto di cancelleria ≠ l'attuale versione dell'articolo, invece, prevede la comunicazione a mezzo di posta elettronica certificata, onde il biglietto è trasmesso agli avvocati costituiti a mezzo P.E.C. Se ciò non è possibile, e sempre che la legge non disponga diversamente, il biglietto di cancelleria è rimesso all'ufficiale giudiziario perché lo notifichi al destinatario (il d. lgs. 149/2022 ha eliminato dalla previsione dell'arte 136 co. 2 la possibilità d'uso del fax, trattandosi ormai di tecnologia superata). La disciplina della telematizzazione delle modalità di trasmissione degli atti processuali ha la sua fonte principale nel d. l. 179/2012 che prevede che le comunicazioni e le notificazioni siano effettuate esclusivamente in via telematica all'indirizzo di posta elettronica risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Solo quando non sia possibile procedere alla trasmissione telematica per causa non imputabile al destinatario, troveranno applicazione gli artt. 136 e 137 c.p.c. e le forme da questi previste. 3. La notifica a mezzo di servizio postale Oltre alla notificazione personalmente compiuta dall'ufficiale giudiziario, la legge prevede la forma della notificazione a mezzo del servizio postale: l’art. 149 c.p.c prevede che l'ufficiale giudiziario possa sempre servirsi di tale notificazione anche se, nella pratica, l'ufficiale giudiziario ricorre a tale modalità quando deve eseguire una notifica al di fuori del comune ove ha sede l'ufficio. La notifica si perfeziona in questo caso per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario, e per il destinatario dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell'atto. Quando l'ufficiale giudiziario esegue la notifica a mezzo di servizio postale, esso scrive la relazione sull'originale e sulla copia dell'atto, menzionando l'ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario. Ove l'agente postale non riesca a recapitare l'atto, la notifica si perfeziona per il destinatario trascorsi 10 gg dalla data di spedizione della lettera raccomandata contenente l'avviso della tentata notifica e la comunicazione di avvenuto deposito del plico presso l'ufficio postale. 4. Le notifiche dell'avvocato La notifica direttamente effettuata dall'avvocato è ormai una realtà rispetto a cui la classica notifica per l'ufficiale giudiziario appare recessiva. Il d.lgs 149/2022 ha aggiunto due commi all’art. 137 c.p.c.: accanto all'ufficiale giudiziario troviamo l'avvocato quale protagonista dell'attività di notifica (co. 6: “l'avvocato esegue le notificazioni negati e con le modalità previste dalla legge”). Il co. 7 regola i rapporti tra ufficiale giudiziario e avvocato statuendo una sorta di complementarità dell'obbligo dell'ufficiale giudiziario: “l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione su richiesta dell'avvocato se quest'ultimo non deve eseguirla a mezzo di P.E.C o con altra modalità prevista dalla legge”. Quando l'avvocato deve eseguire la notificazione con le suddette modalità, l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione se “l'avvocato dichiara che la notificazione con le predette modalità non è possibile o non ha avuto esito positivo”. La l. 53/1994 prevede in generale che l'avvocato munito di procura alle liti esegua la notifica di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, a mezzo del servizio postale. In particolare, poi, se la notifica intercorre tra avvocati, essa può avvenire in via diretta = cioè tramite consegna personale della copia al collega. Il d. lgs 149/2022 ha modificato il testo dell’art. 147 c.p.c prevedendo che “le notificazioni a mezzo posta elettronica certificato servizio elettronico di recapito certificato qualificato possono essere eseguite senza limiti orari” e quindi che se la ricevuta di avvenuta consegna “è generata tra le 21:00 e le 07:00 del mattino del giorno successivo, la notificazione si intende perfezionata per il destinatario alle 07:00”. 5. La notifica “in mani proprie” e la notifica presso residenza, dimora, domicilio La prima forma di notifica considerata dal codice è la notificazione in mani proprie: si tratta della consegna personale materiale della copia dell'atto al destinatario. L’art. 138 c.p.c stabilisce che è possibile che il destinatario rifiuti di ricevere la copia dell'atto ma, non è concepibile né che l'ufficiale giudiziario se ne torni in ufficio certificando un nulla di fatto, né che l'ufficiale costringa con forza il destinatario a prendere la copia. Attraverso la relazione l'ufficiale deve dare atto del rifiuto, dato che la notificazione si considera fatta in mani proprie. Se la notificazione in mani proprie non è possibile ma, è noto almeno uno dei luoghi di residenza, dimora o domicilio del destinatario della notifica , l'ufficiale procede a norma dell’art. 139 c.p.c. La notifica deve essere fatta nel Comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio o esercita l'industria o il commercio. Naturalmente il destinatario può non essere trovato in alcuno di tali luoghi, in tal caso è previsto che l'ufficiale giudiziario consegni la copia dell'atto ad una persona di famiglia, all'addetto alla casa, all'ufficio o all'azienda. In mancanza anche di tali persone, l'ufficiale giudiziario consegnerà la copia al portiere; in mancanza di quest'ultimo ad un vicino di casa che accetti di riceverla. Ovviamente l'ufficiale giudiziario darà atto nella relazione di notificazione delle modalità con le quali ha accertato l'identità e ha dato notizia al destinatario, dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo raccomandata (il d.lgs 149/2022 ha eliminato l'obbligo di sottoscrizione del portiere o del vicino, semplificando l'attività notificatoria dell'ufficiale giudiziario). 6. Le procedure sostitutive in caso di irreperibilità o di ignoranza dell'indirizzo In caso di impossibilità di eseguire la consegna per irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall'art. 139, l’art. 140 c.p.c. prevede che la notifica si compia attraverso una procedura sostitutiva della consegna, la quale si scandisce in 3 atti. L'ufficiale giudiziario: - deposita la copia nella casa comunale dove la notifica deve eseguirsi - affigge poi avviso del deposito in comune, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell'abitazione o dell'ufficio del destinatario - infine, dà notizia al destinatario per raccomandata con avviso di ricevimento. Una differente procedura sostitutiva è prevista per il caso che la residenza, il domicilio e la dimora del notificatario risultino sconosciuti: qui la notificazione è eseguita dall'ufficiale giudiziario mediante deposito della copia da notificarsi nella casa comunale dell'ultima residenza del destinatario. Se anche l'ultima residenza è ignota, il deposito avviene presso il comune del luogo di nascita del destinatario. Questa particolare forma di notifica dà normalmente luogo ad una conoscenza meramente virtuale da parte del destinatario: in considerazione di ciò per una comprensibile cautela è stabilito che la notifica non produce tutti i suoi effetti subito ma, che si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte. 7. La scissione temporale degli effetti della notifica Questa precisazione della legge ci porta al problema della scissione temporale degli effetti della notifica. Si può dire che il tempo di produzione degli effetti a favore del notificante può non coincidere con il tempo in cui si producono gli effetti che riguardano il destinatario della notifica. Quanto agli effetti a favore del soggetto notificante, la regola è quella per cui tali effetti si producono nel momento in cui esso compie la formalità procedimentale di cui è onerato, cioè nel momento in cui l'atto da notificare viene preso in consegna dall'ufficiale giudiziario. Tutti gli altri effetti collegati dalla legge alla notifica si produrranno solo al completamento della procedura ( Effetti per il destinatario): così se una parte è autorizzata a compiere un certo atto entro il termine di 30 giorni dalla notifica del provvedimento autorizzativo, questi 30 giorni si calcoleranno a partire dall'effettivo momento in cui le venga consegnato, dall'ufficiale giudiziario, la copia del provvedimento = qui il computo temporale collegato alla notifica inizia dal momento del perfezionamento della notifica. L’art. 147 c.p.c stabilisce che le notifiche non possono farsi prima delle 07:00 e dopo le 21:00: la norma tutela il riposo notturno e si riferisce altrettanto alle notifiche fisiche, cioè all'attività di materiale consegna da parte dell'ufficiale giudiziario. Il d.lgs 149/2022 ha aggiunto due commi all'art. 147 per regolare la materia: - il co. 2 prescrive che le notificazioni a mezzo posta elettronica certificata possono essere eseguite senza limiti orari - il co. 3 afferma che le notificazioni di tale genere “si intendono perfezionate, per il notificante, nel momento in cui è generata la ricevuta di accettazione e, per il destinatario, nel momento in cui è generata la ricevuta di avvenuta consegna”. interruttivo della prescrizione provocato dalla domanda, aggiunge un effetto sospensivo: “se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati al co. 1 dell’art 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. Gli effetti da considerare sono due: effetto interruttivo ed effetto sospensivo. La sospensione del decorso del termine di prescrizione presuppone che il processo venga definito con sentenza idonea al giudicato formale; se invece il processo si chiudesse prematuramente per intervenuta estinzione, l'effetto sospensivo verrebbe meno retroattivamente e sopravviverebbe solo l'originario effetto interruttivo collegato alla proposizione della domanda. In tal caso un nuovo periodo di prescrizione dovrebbe computarsi dalla data della domanda. Quando un diritto è soggetto a decadenza, la domanda (intesa quale esercizio del diritto per via giudiziale) impedisce anche la decadenza: in questo caso si avrà semplicemente l'impedimento della decadenza in ragione dell'esercizio del diritto. 3. Altri effetti della domanda: saggio degli interessi; anatocismo; costituzione in mora e obbligo di restituzione dei frutti  Saggio degli interessi → la proposizione della domanda incide pesantemente sul saggio degli interessi connessi alle obbligazioni pecuniarie, facendolo schizzare verso l'alto in misura notevole. Quando le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La proposizione della domanda svincola gli interessi dal tasso legale ufficiale per agganciarlo automaticamente ad un saggio superiore di ben 8 punti rispetto al tasso di riferimento.  Anatocismo → un effetto collegato alla proposizione della domanda giudiziale è la produzione dell’interesse composto o interesse sugli interessi: di norma gli interessi non producono a loro volta interessi ma, gli interessi scaduti possono produrre interessi dal giorno della domanda giudiziale. In presenza di domanda di accertamento dell'obbligazione se nel credito domandato sono già ricompresi interessi scaduti, di questi potranno legittimamente domandarsi i relativi interessi.  Costituzione in mora → la proposizione della domanda ha l'effetto di costituire in mora il convenuto debitore.  Restituzione dei frutti → il possessore della cosa rivendicata dal proprietario risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe dovuto percepire dopo tale data, usando la diligenza di un buon padre di famiglia. Dalla casistica degli effetti sostanziali della domanda si possono trarre due osservazioni: - la prima osservazione è che la proposizione della domanda opera incidendo sulla disciplina di taluni rapporti sostanziali nel senso di modificarla, influendo sugli effetti considerati incompatibili con la durata del processo; - la seconda osservazione è che, mentre taluni effetti presuppongono che la domanda sia anche fondata, e quindi sia accolta, per talaltri questo è indifferente perché si producono per il semplice fatto di aver introdotto il processo. Talora però l'ordinamento ricollega l'effetto voluto alla mera proposizione della domanda, restando indifferente se essa sia fondata o meno: è il caso dell'interruzione della prescrizione che la legge ricollega alla proposizione della domanda e che non viene meno neppure se il processo si estingue. 4. L'effetto della domanda sulla disposizione del diritto controverso (rinvio) E’ opportuno completare il quadro degli effetti della domanda accennando anche all'incidenza della pendenza del giudizio sul regime di opponibilità delle vicende incidenti sul diritto oggetto di giudizio. Questo diritto si dice controverso perché si presenta incerto nella sua esistenza: si tratta di una situazione provvisoria che induce l'ordinamento ad impedire che il futuro vincitore del giudizio subisca pregiudizio da atti di disposizione compiuti dalla controparte o da eventi di successione comunque prodottosi. Es: l'effetto peculiare di trasformare un'azione personale in un'azione trasmissibile consegue la proposizione della domanda di nullità del matrimonio. Questa azione è strettamente personale per cui intrasmissibile agli eredi; tuttavia questo vale a condizione che il giudizio di nullità non sia stato già instaurato. Infatti, se il decesso del legittimato sopravviene in un momento in cui il giudizio di nullità sia già pendente, gli eredi succedono nella titolarità dell'azione di impugnazione intentata e possono continuare la causa il luogo del de cuius. 5. L'esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda Per taluni tipi di controversie il d. lgs 28/2010 condiziona l'originaria proposizione della domanda al preventivo esperimento di un tentativo di conciliazione da espletare dinanzi ad appositi organismi di mediazione. Quindi per agire in giudizio in una delle materie del decreto, occorre subordinare l'inizio del processo al deposito di un'istanza di mediazione dinanzi ad uno di detti organismi. Solo dopo l'eventuale fallimento di tale tentativo, l'attore potrebbe imboccare la via giudiziale e cioè notificare la citazione o depositare il ricorso nella cancelleria del giudice competente. L'eventuale raggiungimento di un accordo rende inutile la domanda perché il risultato perseguire attraverso il processo a quel punto è stato raggiunto in via di conciliazione stragiudiziale. Invece, il mancato espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione rende la domanda improcedibile. La previsione della mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale è compatibile con la garanzia costituzionale del diritto di azione? In tal senso si riconosce che l'imposizione di oneri preliminari che differiscono l'esercizio dell'azione è considerata legittima se il loro esperimento: - mira ad una deflazione dei carichi giudiziari - produce gli stessi effetti sostanziali della domanda giudiziale - non preclude l'immediata esperibilità della tutela cautelare e monitoria - rende l'impedimento all'esercizio dell'azione limitato e non irragionevole. 6. La convenzione di negoziazione assistita come condizione di procedibilità della domanda Il d.l. 132/2014 (convertito nella l. 162/2014) ha introdotto una specifica condizioni di procedibilità della domanda giudiziale per le azioni relative ad una controversia in materia di risarcimento del danno dalla circolazione di veicoli e natanti, e al pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 €. Si tratta dell’accordo di negoziazione assistita con il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole una controversia tramite l'assistenza di avvocati. La convenzione è redatta a pena di nullità in forma scritta con l'assistenza di uno o più avvocati che certificano l'autografia delle sottoscrizioni delle parti sotto la propria responsabilità professionale. La dinamica è quella già illustrata dal precedente paragrafo: chi intende esercitare in giudizio una delle azioni previste ha l'onere di invitare l'altra parte a stipulare la convenzione. Se a seguito della negoziazione, si raggiunge un accordo di composizione della controversia, la via giudiziale diviene superflua dato che il risultato ormai è stato raggiunto senza bisogno del processo. CAPITOLO 13 – COMPETENZA E GIURISDIZIONE NELLA DINAMICA DEL PROCEDIMENTO 1. La competenza Determinare la competenza significa individuare, all'interno dell'area di giurisdizione considerata, il giudice a cui spetta trattare la controversia e legittimamente deciderne. In tal senso occorre di volta in volta determinare il tipo di organo abilitato a decidere la controversia; una volta determinato questo, occorre individuare quale dei tanti organi distribuiti sul territorio va concretamente investito nella trattazione della controversia. Il potere di esercitare la giurisdizione civile è distribuito tra tutti gli organi investiti di tale potere secondo 3 fondamentali criteri di determinazione della competenza: - il criterio della materia - il criterio del valore - il criterio del territorio i primi due criteri servono a determinare il tipo di organo giudiziale investito della controversia; il terzo risponde alla domanda relativa alla localizzazione dell'ufficio, cioè al dove deve svolgersi il processo. 2. Competenza per materia Con il criterio della materia, l'organo giudicante viene individuato in relazione al tipo di controversia sottoposta a giudizio, cioè al rapporto giuridico che viene dedotto. Ad es: secondo l’art. 7 c.p.c per le cause “relative alla misura ed alla modalità d'uso dei servizi di condominio di case” è esclusivamente competente il giudice di pace; lo stesso si deve dire per le cause relative ai rapporti tra proprietari di immobili adibiti ad abitazione in materia di immissioni di fumo o calore; è altresì competente il giudice di pace per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali. 3. Competenza per valore La determinazione della competenza per materia presuppone una specifica previsione in tal senso da parte della legge. In mancanza di previsioni relative alla materia, la competenza va determinata impiegando il criterio del valore della causa (cioè il parametro monetario). A norma dell’art. 7 c.p.c. al giudice di pace è attribuita competenza per le cause relative ai beni mobili di valore non superiore a 10.000 €; per le cause di valore superiore e competente il tribunale. Quest'ultimo è competente anche per le cause “di valore indeterminabile” cioè per quelle cause che, pur non essendo attribuite in ragione della materia, non consentono un'effettiva e diretta applicazione del parametro monetario, perché insuscettibili di immediata quantificazione pecuniaria. Si rammenta che, mentre il giudice di pace e il tribunale hanno sia competenze per materia che competenze per valore, la Corte d'appello in unico grado è sempre stabilità ratione materiae. Un caso peculiare di competenza mista, cioè di combinazione di una competenza per materia e di una competenza per valore, è quello dell’art. 7 co. 2 c.p.c. secondo cui il giudice di pace è competente “per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della controversia non superi 25.000 € → qui il potere del giudice di pace di trattare e decidere la causa è attribuito secondo il criterio della materia ma, la competenza determinata è limitata attraverso il criterio aggiuntivo del valore, poiché viene posto un tetto alla competenza dell'organo giudiziario. Ma come si determina il valore della causa ai fini della competenza? Regola fondamentale è che il valore, agli effetti della determinazione della competenza, si determina dalla domanda. La domanda va considerata nel suo obiettivo petitum, senza alcuna preventiva indagine sulla fondatezza; se l'atto introduttivo contiene più domande contro il medesimo convenuto, esse si sommano tra loro e gli interessi scaduti, le spese ed i danni anteriori alla proposizione si sommano col capitale. L’art. 14 c.p.c. detta i criteri per la valutazione delle cause relative a somme di denaro e di quelle relative a beni mobili: la competenza si determina in base alla somma indicata in domanda o in base al valore del bene mobile dichiarato dall'attore. Per le cause relative a somme di denaro: se l'attore indica il valore della somma, ai fini della competenza non rileva l'eventuale contestazione di tale valore da parte del convenuto ≠ per le cause relative a beni mobili, la determinazione del valore incide solo sulla competenza (non anche sul merito) → ad es: se chiedo la restituzione di un violino, il mio diritto alla restituzione sussiste o meno sia che si tratti di uno appartenuto a Niccolò Paganini stimato 5 milioni di euro, sia sì esso è un comunissimo violino di fabbricazione cinese. In mancanza di indicazione del valore del bene mobile o di dichiarazione del valore della somma, la causa si presume di competenza del giudice adito anche agli effetti del merito: ciò vuol dire che il valore della causa resta contenuto all'interno della competenza attribuita al giudice, come se l'attore avesse tacitamente escluso di avere diritto a somma maggiore. Determinare il valore della domanda significa misurare il valore su quel che viene effettivamente domandato il rapporto all'interesse la cui realizzazione è perseguita in giudizio. La legge fissa altri criteri di determinazione della competenza per valore: - in caso di richiesta da parte di più soggetti o contro più soggetti dell'adempimento per quote di un'obbligazione, il valore della causa si determina dall'intera obbligazione; - il valore delle controversie per divisione si determina calcolando il valore della massa attiva da dividersi; - per la determinazione della competenza sulle controversie immobiliari, l’art. 15 c.p.c. sembra imporre un calcolo convenzionale sulla base del valore catastale dell'immobile. 4. Competenza per territorio La competenza per territorio è la determinazione del foro della causa. Distinguiamo: - fori generali → sono quelli che, in mancanza di disposizione contraria, sono determinati in funzione di un criterio di localizzazione del convenuto, indipendentemente dal tipo di controversia sottoposta al giudizio - fori speciali → sono riservati dalla legge alla trattazione di specifiche controversie. 4.1. I fori generali I fori generali sono: - quello delle persone fisiche → in base all’art. 18 c.p.c. se la legge non dispone specificatamente in modo diverso “è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora”. La legge non detta un ordine tra domicilio e residenza, i due criteri sono sullo stesso piano e l'attore è libero di servirsi dell'uno o dell'altro; invece, la dimora è un criterio sussidiario perché può essere preso in considerazione solo in caso di ignoranza di domicilio e residenza. Inoltre, “se il convenuto non ha residenza, né domicilio, né dimora nello Stato o se la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede l'attore”. - quello delle persone giuridiche → in base all’art. 19 c.p.c. “qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha la sede. È competente altresì il giudice del luogo dove la persona giuridica ha uno stabilimento o un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda”. Un effetto attributivo della giurisdizione italiana è quando in pendenza di processo davanti autorità giurisdizionali italiana priva di giurisdizione in base alla domanda, sopravvengono fatti o norme attributive della giurisdizione. 9. L'eccezione di difetto di giurisdizione L’art. 37 c.p.c. regola il rilievo del difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, cioè della carenza di potere connotato quale limite esterno alla potestà giurisdizionale: si parla di difetto assoluto di giurisdizione che ha luogo allorché non spetta al potere giurisdizionale pronunciare il provvedimento richiesto poiché l'ordinamento riserva ad altri poteri dello Stato di conoscere la decisione delle relative situazioni e questioni. L’art. 37 stabilisce che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo: l'eccezione può proporsi in ogni momento perché il relativo potere non è soggetto a preclusioni o decadenze. Accanto al difetto assoluto di giurisdizione si ha il difetto relativo di giurisdizione, cioè il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti di altri ordini di giudici: esso può vedersi come l'effetto dei limiti interni alla funzione giurisdizionale. Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo e degli altri giudici speciali è rilevabile anche d'ufficio ma limitatamente al giudizio di primo grado (l'introduzione del limite alla rilevabilità d'ufficio del difetto relativo di giurisdizione si deve al d. lgs. 149/2022 che ha adeguato l'art. 37 alla giurisprudenza della Cassazione del 2008); nei giudizi di impugnazione, il difetto del relativo di giurisdizione può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo. Questo vuol dire che la sentenza sarà appellabile per ragioni attinenti alla giurisdizione anche se essa non si sia affatto pronunciata sul punto. Il difetto di giurisdizione nei confronti di giudici stranieri può essere rilevato in qualunque stato e grado, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana: in questo senso si consente la rilevazione d'ufficio se: - il convenuto è contumace - se si tratti di azione reale avente ad oggetto beni immobili situati all'estero - se la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di norme internazionali. In nessun caso l’eccezione di carenza di giurisdizione potrebbe essere sollevata dall'attore, per la semplice ragione che egli stesso ha individuato nel giudice adito l'organo unito di giurisdizione. Ciò si ricava dall’art. 157 c.p.c. secondo cui “la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né dalla parte che vi ha rinunciato anche tacitamente” → si tratta del generale principio di autoresponsabilità delle parti che non consente di far valere a proprio favore i vizi del processo provocati dal proprio agire. (Attenzione: l'esclusione del potere dell'attore di rilevare il difetto di giurisdizione non significa che l'attore non possa proporre ricorso per regolamento! Una cosa è introdurre in giudizio la questione di giurisdizione, un'altra e chiedere alla Corte di Cassazione di decidere di una questione già sollevata) 10. Il regolamento di giurisdizione “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado” l’art. 41 c.p.c. consente a ciascuna delle parti di chiedere alle sezioni unite della Corte di Cassazione che risolvano in via definitiva le questioni di giurisdizione emerse nel giudizio. Si tratta dell'istituto del regolamento di giurisdizione, mezzo di risoluzione preventiva delle questioni di giurisdizione non ancora decise, a differenza del regolamento di competenza (che serve ad impugnare le pronunce che hanno già deciso sulla competenza), si colloca nel giudizio di primo grado: una volta definito questo, la pronuncia conclusiva sarà eventualmente impugnabile per ragioni inerenti alla giurisdizione, ma non vi è più spazio per un istituto volto a decidere della giurisdizione con precedenza su tutto il resto. La decisione sulla giurisdizione della Corte di Cassazione è determinata dall'oggetto della domanda e quando prosegue il giudizio non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda . Una decisione positiva sulla giurisdizione non significa accoglimento della domanda, poiché la giurisdizione viene valutata sulla prospettazione dell'attore e lascia aperta la questione della fondatezza in merito della causa. L'istanza di regolamento si propone con ricorso rivolto alla Corte di Cassazione e produce gli effetti dell'art. 367 c.p.c.: cioè proposto un ricorso per regolamento di giurisdizione, il giudice davanti a cui pende la causa, con ordinanza sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestatamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. (La norma è stata modificata nel 1990 sostituendo il precedente regime della sospensione obbligatoria del processo che si era rivelato un potente meccanismo dilatorio per la parte che intendeva trarre lucro dall'allungamento dei tempi del processo) Il regolamento di giurisdizione si propone con ricorso rivolto alle sezioni unite della Corte di Cassazione, cioè alla Corte nella sua peculiare formazione di collegio allargato inteso a dare particolare autorevolezza al responso; il ricorso è deciso con la modalità della camera di consiglio: il provvedimento reso sul regolamento in forma di ordinanza, determina quando occorre quale giudice munito di giurisdizione sulla causa. L'espressione “quando occorre” significa che la determinazione del giudice provvisto di giurisdizione è subordinata all'effettivo riscontro di un giudice che può concretamente pronunciare sulla domanda. 11. Declinatoria di giurisdizione, traslatio iudici e regolamento d'ufficio L’art. 59 della l. 69/2009 regola la possibilità della continuazione del processo dinanzi al giudice indicato come provvisto di giurisdizione a seguito della sentenza con cui il giudice nazionale abbia declinato la propria giurisdizione. In tale sentenza il giudice deve indicare il giudice munito di giurisdizione sulla controversia sottoposta a giudizio. Se la domanda è riproposta al giudice in essa indicato non oltre 3 mesi dal passaggio in giudicato dalla pronuncia declinatoria di giurisdizione, il processo si considera iniziato al tempo dell'originaria domanda: “sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo processo” → traslatio iudici L'inosservanza del termine trimestrale per la riassunzione del giudizio impedisce che il processo possa proseguire davanti al giudice provvisto di giurisdizione → ciò porta all'estinzione del processo, la quale è dichiarata d'ufficio ed impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. La tempestiva riproposizione della domanda al giudice indicato vincola però le parti ma, non il giudice che può sempre sollevare d'ufficio, con ordinanza, il regolamento di giurisdizione davanti alle sezioni unite della Corte di Cassazione. Tale regolamento è proponibile fino alla prima udienza fissata per trattazione del merito: è ragionevole ritenere che il giudice sia tenuto comunque a sospendere il processo, provenendo l'istanza di regolamento dall'ufficio stesso e non dalla parte. CAPITOLO 14 – COSTITUZIONE DELL’ATTORE E DESIGNAZIONE DEL GIUDICE ISTRUTTORE 1. Costituzione dell'attore Dopo la notificazione della citazione al convenuto, è necessario coinvolgere gli organi della giurisdizione. Non basta la notificazione della citazione, da privato a privato, perché il processo giunga alla conoscenza ufficiale del giudice: solo atti ulteriori di impulso potranno condurre il procedimento a sfociare nell'incontro tra il giudice e le parti che è la prima udienza. L’art. 165 c.p.c stabilisce che “l'attore entro 10 gg dalla notificazione della citazione al convenuto deve costituirsi in giudizio a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, depositando la nota di iscrizione al ruolo ed il proprio fascicolo contenente l'originale della citazione, la procura ed i documenti offerti in comunicazione”. Dunque, il primo adempimento che incontriamo è la costituzione dell'attore: l'attore ha l'onere di costituirsi, cioè di compiere quella formalità che lo rende “presente al giudizio” quale parte attiva del processo che mette in moto il meccanismo che porterà alla prima udienza. La nota è un format standard compilato digitalmente in cui si indicano gli estremi fondamentali della controversia; con il suo deposito telematico in cancelleria si compie la formalità della iscrizione a ruolo, cioè della inserzione della causa nel “ruolo” (una sorta di grande registro dell'ufficio in cui la causa prende il suo numero di ruolo). Accanto alla nota di iscrizione al ruolo, per completare la propria costituzione, l'attore deve depositare il proprio fascicolo, che consiste in una cartella contenente dei documenti: necessari (l'originale della citazione, la relata di notifica) e facoltativi. Un altro elemento è la procura: la procedura telematica impone di fatto che essa confluisca in un documento separato da depositarsi. Tutti i depositi sono da effettuarsi secondo modalità telematiche. “Se la citazione è notificata più persone, l'originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro 10 gg dall'ultima notificazione”. Costituitosi l'attore, la causa va messa in condizione di procedere e di giungere alla prima udienza. L'iniziativa passa dalle mani dell'avvocato dell'attore a quelle del cancelliere perché nel momento in cui l'attore ha depositato la nota di iscrizione ed il proprio fascicolo, all'ufficio consta ufficialmente la pendenza del processo ed è l'ufficio che deve provvedere al passo successivo consistente nell'iscrizione nel ruolo generale da parte del cancelliere. Di seguito il cancelliere procede alla formazione del fascicolo d'ufficio (art. 168 c.p.c.) ed alla sua trasmissione al presidente dell'ufficio giudiziario. Il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio, nel quale inserisce: - la nota di iscrizione a ruolo - la copia dell'atto di citazione - le comparse le memorie in carta non bollata Successivamente - i processi verbali d'udienza - i provvedimenti del giudice - gli atti di istruzione - la copia del dispositivo delle sentenze Se il convenuto si costituirà dovrà depositare il proprio fascicolo di parte, che finirà nel fascicolo d'ufficio. 2. Designazione del giudice istruttore L’art. 168 bis c.p.c. stabilisce che “formato un fascicolo d'ufficio a norma dell'articolo precedente, il cancelliere lo presenta senza indugio al presidente del tribunale”. All'attività dell'ufficio di cancelleria si aggiunge quella del presidente del tribunale, il quale designa il giudice istruttore davanti al quale le parti debbono comparire (aggiunge la norma “se non crede di procedere egli stesso all'istruzione” – il d. lgs. 149/2022 in considerazione dell'avvenuta attuazione del processo telematico, ha eliminato dal testo precedente il riferimento alla necessità che il presidente proceda alla nomina dell'istruttore con decreto scritto in calce della nota di iscrizione ed ha soppresso il riferimento al fascicolo d'ufficio che non ha più bisogno di essere materialmente trasmesso). Il presidente procede alla designazione del giudice istruttore e nei tribunali con più sezioni il presidente assegna la causa ad una di queste sezioni e sarà poi il presidente della sezione a designare il giudice istruttore che materialmente deve seguire la causa. Una volta designato, il giudice istruttore e da quel momento investito della trattazione concreta della controversia. L'attività del giudice istruttore significava istruzione e trattazione, cioè svolgimento degli adempimenti preliminari, istruzione probatoria, direzione della procedura con scioglimento degli incidenti di percorso, fino al momento in cui ritenuta matura la causa per la decisione, si aveva rimessione al collegio con contestuale cessazione della funzione di giudice istruttore. Oggi la situazione è diversa perché nella grande maggioranza dei casi è lo stesso istruttore che funge da organo decidente: la persona fisica che, in qualità di istruttore aveva gestito materialmente la causa, pronuncia anche monocratica mente la decisione (comunque alcune categorie di cause restano riservate alla decisione collegiale). Abbiamo visto che la citazione stabilisce un giorno fisso per l'udienza: ad esempio l'attore ha stabilito la data della prima udienza al 20 Marzo; ma che succede se il 20 Marzo non è giorno di udienza per il giudice istruttore designato? Il co. 4 art. 168 bis sancisce che se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore ha udienza, la comparizione delle parti è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva tenuta dal giudice designato (ad esempio il giudice tiene udienza il mercoledì, quindi se il 20 Marzo è martedì, l'udienza si terrà mercoledì 21 Marzo). Può verificarsi anche l'ipotesi in cui il giudice istruttore designato sia impedito a gestire l'udienza perché, ad esempio, ha già un numero notevole di cause sul ruolo per il 20 Marzo: in questo caso l’art. 171 ter prevede che il giudice istruttore possa differire “fino ad un massimo di 45 gg, la data della prima udienza”. Abbiamo così la fissazione dell'effettiva data di udienza che verrà comunicata dal cancelliere alle parti costituite. Questa comparsa è l'atto con cui il convenuto “si presenta” nel processo; è l'atto che contiene l'esposizione dei fatti e delle ragioni della sua difesa, nonché le conclusioni. Nella comparsa di risposta la parte citata manifesta la posizione che intende assumere nel processo: nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese, prendendo posizione in modo chiaro e specifico sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale, i mezzi di prova di cui intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni (art. 167 c.p.c.). Il co. 2 aggiunge che egli “a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio”. Il co. 3 aggiunge che il convenuto “se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa di risposta”. La rilevanza della tempestività della costituzione si apprezza considerando che l'art. 167 (letto in combinato disposto con l'art. 166) descrive alcuni elementi che il convenuto deve inserire nella comparsa di risposta. Sì precludono, se non contenute nella comparsa di risposta tempestivamente depositata: - le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio; - le domande riconvenzionali (= contro domande del convenuto); - la chiamata in giudizio di terzi. Viceversa, non debbono essere obbligatoriamente compiute a pena di decadenza nella comparsa di costituzione tempestivamente depositata: - la proposizione delle eccezioni di rito e di merito rilevabili d'ufficio; - l'indicazione dei mezzi di prova di cui il convenuto intende valersi. 2.1. Mere difese ed eccezioni Rispetto alla domanda proposta nei suoi confronti, il convenuto può assumere più posizioni: egli ha la libertà di scegliere di restare estraneo al processo non costituendosi affatto (contumacia) o può costituendosi, aderire alla domanda riconoscendo i fatti postine a fondamento. Normalmente il convenuto che si costituisce mirerà a contrastare la posizione dell'attore e questo può avvenire in vari modi e con vari mezzi: a) eccezione processuale e di diritto → una prima forma di difesa del convenuto è la contestazione dei presupposti o delle modalità del processo che lo vede convenuto. Ad es: egli si difende asserendo che il giudice adito è incompetente. In tal modo il convenuto solleva la questione della violazione della legge che presiede al corretto procedere ed introduce un'eccezione processuale o di rito mirante ad una pronuncia sulla procedura che impedisca l'accoglimento della domanda ma senza affrontare il merito della controversia. b) difesa in merito → l'altra possibilità difensiva del convenuto riguarda il merito della controversia, cioè il diritto dedotto dall'attore e la sussistenza degli obblighi affermati nei suoi confronti: il convenuto chiede il rigetto della domanda perché il diritto non è mai sorto, perché si è estinto o perché non appartiene all'attore ma ad altri. Egli domanda al giudice un accertamento negativo rispetto a quanto chiesto in positivo dall'attore. Il convenuto può anche cumulare tra loro contestazioni riguardanti la possibilità e/o la correttezza del processo in cui è stato chiamato (Difese di rito) e contestazioni del diritto vantato dall'attore (difese di merito): ad es il giudice adito non è competente e anche ammesso che sia competente non esiste il diritto vantato. c) mera difesa → sul piano del merito, la forma più elementare di contestazione è la semplice contraddizione delle altrui affermazioni: il convenuto può limitarsi a contestare la ricostruzione dei fatti così come presentata dall'attore e/o opporsi alle conclusioni giuridiche che l'attore ricollega ai fatti. In tal caso egli espleta la mera difesa. Ad es: egli può negare di aver prestato il proprio consenso rispetto al contratto affermato dall'attore quale titolo del diritto vantato. d) eccezione di merito → il convenuto può non limitarsi a negare la presenza dei presupposti richiesti dalla legge per l'accoglimento della domanda ma, può a sua volta introdurre nel processo fatti diversi da quelli dedotti dall'attore idonei ad ottenere rigetto della domanda. Di fronte ai fatti costitutivi (posti a fondamento della domanda) esso potrà dedurre fatti idonei a valere da fatti estintivi del diritto azionato, modificativi o impeditivi dell'accoglimento della pretesa. Con la deduzione in giudizio di uno di tali fatti il convenuto si oppone sollevando un’eccezione di merito. Con fatto estintivo si intende il fatto idoneo a determinare il rigetto della domanda perché idoneo ad estinguere il diritto preteso. Con fatto modificativo si intende il fatto che, pur non contraddicendo l'esistenza del diritto vantato, ne modifica però i termini di accoglibilità. Con fatto impeditivo si intende il fatto che blocca l'accoglimento della domanda perché mostra l'incompletezza della fattispecie del diritto azionato. L'eccezione si distingue dalla mera difesa perché quest'ultima lascia inalterato l'ambito della cognizione del giudice senza aggiungere un'ulteriore tema di indagine ≠ l'eccezione arricchisce l'area del giudizio, obbligando il giudice a pronunciare anche sul nuovo elemento introdotto. 2.2. La domanda riconvenzionale La proposizione di un'eccezione arricchisce il materiale di causa (= materia del contendere), non però l'ambito dell'accertamento che resta confinato al diritto dedotto. L'eccezione allarga l'oggetto della cognizione del giudice ma, non sposta l'oggetto del processo e l'oggetto della decisione, che continuano a riguardare il diritto fatto valere con la domanda. Ad es: se oggetto della domanda è un diritto di credito, con la proposizione dell'eccezione di prescrizione il convenuto si limita a chiedere l'accertamento dell'insussistenza del credito sotto lo specifico profilo dell'estinzione per decorrenza temporale. Tuttavia, il convenuto può sfruttare il processo in corso per contro agire, cioè per formulare una domanda. Nel processo che lo vede convenuto, egli può chiedere l'accertamento dei propri diritti distinti rispetto al diritto dedotto in domanda: cioè egli può non accontentarsi di domandare il rigetto della domanda originaria, bensì di chiedere una pronuncia proprio favore su un diritto non ricompreso nell'ambito del giudizio segnato dalla domanda dell'attore. Ad es: un diritto che egli avrebbe potuto tutelare con un'azione autonoma ma che, da delle circostanze, può essere giudicato nel processo in corso. Quando questo avviene si attua un cumulo oggettivo di domande nello stesso processo: alla domanda originaria si aggiunge la domanda riconvenzionale del convenuto: quindi, il processo che all’origine era nato con un solo oggetto acquista un ulteriore oggetto e la cognizione verterà su due distinte domande. Di conseguenza la sentenza si pronuncerà non solo sul diritto dell'attore (oggetto dell'originaria domanda) ma, anche sul diritto del convenuto fatto valere con la domanda riconvenzionale. 2.3. Eccezioni ricavabili d'ufficio ed eccezioni non rilevabili d'ufficio Nella comparsa di risposta tempestiva vanno proposte, a pena di decadenza, anche le eccezioni processuali di merito che non siano rilevabili d'ufficio. Ma che significa che è un'eccezione rilevabile d'ufficio (eccezione in senso lato)? Significa che, ai fini della decisione, il giudice può prendere in considerazione il fatto impeditivo/modificativo/istintivo indipendentemente dall'apposita richiesta del convenuto di tenerne conto.≠ Viceversa, quando l'eccezione non è rilevabile d'ufficio (eccezione in senso stretto) il fatto non potrà essere autonomamente considerato dal giudice, poiché spetta al convenuto espressamente domandare che si prende in considerazione quel fatto, ai fini del rigetto della domanda. La riserva spettante al convenuto appena menzionata è sottointesa nell’art. 2938 c.c. ai sensi del quale si afferma che “il giudice non può rilevare d'ufficio la prescrizione non opposta” = cioè il giudice non può rilevare d'ufficio la prescrizione che il convenuto non si è curato di sollevare espressamente. Viceversa, il codice civile prescrive positivamente che una data eccezione può essere rilevata d'ufficio dal giudice in alcuni casi specifici: es, l'eccezione di nullità del contratto. In altri casi, però, la legge non prende esplicita posizione sul regime di rilevabilità dell'eccezione, lasciando all'interprete il relativo problema. In questi casi si ritiene che il giudice possa, di sua iniziativa, considerare ai fini della decisione i fatti costituenti eccezioni non espressamente riservate dalla legge alla parte. Ad es: l'intervenuto adempimento del debitore, quale fatto estintivo dell'obbligazione dedotta in giudizio; la legge non limita alla parte il rilievo di tale eccezione sicché, se al giudice risulti dagli atti di causa il pagamento della somma per cui si chiede la condanna del debitore, la domanda potrà rigettarsi indipendentemente dall'invocazione di quello specifico motivo ≠ viceversa, se risulta dagli atti di causa l'esistenza di un contro credito del convenuto idoneo alla compensazione con il credito azionato, il giudice non potrà basare il rigetto della domanda sulla compensazione se il convenuto non eccepisce proprio quel mezzo di estinzione dell'obbligazione. La regola della rilevabilità d'ufficio in assenza di diversa prescrizione di legge non è assoluta poiché essa va contemperata con il fatto che talune eccezioni corrispondono a manifestazioni di volontà della parte, con l'ovvia conseguenza dell'impossibilità del giudice di sostituirsi alla libera scelta di questa. In sintesi: - in taluni casi la soluzione è offerta dalla legge che specifica se l'eccezione è rilevabile d'ufficio o su istanza di parte; - dove la legge non si pronuncia, in linea di principio l'eccezione di merito è rilevabile d'ufficio; - fanno però eccezione alla rilevabilità d'ufficio i casi in cui (malgrado il silenzio della legge) l'eccezione manifesta un diritto potestativo che la parte è libera di esercitare o meno: in tal caso l'eccezione è in senso stretto perché il giudice non può sostituirsi all'interessato. Cosa significa che il giudice può rilevare d'ufficio l’eccezione? Per poter essere rilevanti d'ufficio, i fatti impeditivi/modificativi/estintivi che sostengono l'eccezione debbono essere già presenti nel processo, in quanto dedotti dalle parti e appartenenti legittimamente al materiale di causa. 2.4. Le eccezioni processuali La regola della generale rilevabilità d'ufficio dell’eccezione attiene specificatamente alle eccezioni di merito (relative ai rapporti sostanziali oggetto del giudizio) ma, l’art. 167 c.p.c. fa riferimento anche alle eccezioni processuali: il termine ultimo assegnato al convenuto per eccepire a pena di decadenza (70 gg prima dell'udienza di trattazione) riguarda tanto le eccezioni di merito non rilevabili d'ufficio, quanto le eccezioni processuali non rilevabili d'ufficio. Le eccezioni processuali sono quelle che mettono in discussione la regolarità del processo stesso: esse possono riguardare tanto un vizio dei presupposti processuali, quanto un vizio attinente allo svolgimento della procedura. Possiamo distinguere due categorie di eccezioni processuali:  alcune di queste eccezioni denunciano la mancanza, l'incompletezza o il vizio di un quid necessario per la corretta instaurazione del processo → si tratta di eccezioni che riguardano i presupposti processuali, cioè di requisiti positivi o negativi essenziali che in mancanza dei quali il processo non potrebbe giungere a destinazione. Es: - carenza di giurisdizione - incompetenza - litispendenza - eccezione di compromesso Queste eccezioni hanno in comune di essere tutte contestazioni di un presupposto processuale e quindi del potere del giudice di trattare la causa di deciderne.  un'altra categoria di eccezioni processuali riguarda la denuncia di vizi di forma di atti. È importanti distinguere all'interno di questa categoria le eccezioni di rito (nullità formale) da quelle relative ai presupposti esterni del processo (nullità extra formale) perché la regola generale della rilevabilità dell'una categoria non coincide con la regola generale della rilevabilità dell'altra. Quando ci troviamo di fronte ad una nullità formale dell'atto processuale, le regole sono dettate dall’art. 157 co. 2 c.p.c. “Solo la parte nel cui interesse è posto un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso ma, deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto” + il co. 3 “la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa né da quella che vi ha rinunciato tacitamente”. Da queste due norme si ricava che la nullità formale di un atto del processo, è rilevabile solo ad istanza di parte: siamo sulla sponda opposta rispetto a quanto visto per le eccezioni di merito perché le nullità formali degli atti del processo sono rilevabili solo dalle parti alle condizioni dell'art 157 e non sono rilevabili d'ufficio. In realtà, non tutte le nullità formali sono però riservate alle parti: ci sono dei casi in cui esigenze particolari possono imporre al giudice di rilevare d'ufficio la nullità: si tratta dell'eccezione alla regola (es: quando le conseguenze della nullità sarebbero di particolare gravità). Alle nullità formali si contrappongono le nullità extra formali: in questo caso non si contesta la ritualità di un atto singolo del procedimento ma, si contesta che il rapporto processuale in corso possa esistere o che il procedimento avviato possa svolgersi di fronte a quel giudice. Qual è la regola della rilevabilità di questo tipo di eccezioni? In linea di principio possiamo dire che vige la rilevabilità d'ufficio. Il panorama della rilevabilità d'ufficio o meno delle eccezioni si può così riassumere: - per le eccezioni di merito, è regola generale la rilevabilità d'ufficio, perché le eccezioni riservate alla parte sono quelle espressamente previste dalla legge o espressive di diritti potestativi del convenuto; - per le eccezioni di rito relative alle nullità formali, la regola è quella opposta: solo la parte interessata a sollevare la nullità può farlo ma, la legge talora dà al giudice il potere di rilevazione d'ufficio; - per le eccezioni di rito relative ai presupposti processuali, si torna alla regola generale vista per le eccezioni di merito: rilevabilità d'ufficio salvo che la legge non specifichi che quella determinata eccezione è concessa alla parte ma non al giudice. CAPITOLO 17 – IL GIUDICE ISTRUTTORE 1. Il giudice istruttore ed i suoi poteri Il giudice istruttore designato “è investito di tutta l'istruzione della causa”: principio di immutabilità (art. 174 c.p.c.). Esso “fissa le udienze successive ed i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali”. Nei casi in cui il tribunale decide in formazione collegiale, i poteri del giudice istruttore sono limitati alla fase istruttoria, compiuta la quale il potere decisorio passa al collegio. Nelle cause affidate al tribunale monocratico, il giudice istruttore è investito anche della successiva decisione della causa. Nell'amministrazione della procedura il giudice istruttore “esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del processo”: art. 175 c.p.c. - si tratta di un organo dotato di ampi poteri discrezionali finalizzati alla corretta attuazione dei principi del giusto processo, del contraddittorio, della parità delle armi e della ragionevole durata. Rientrano nella sua disponibilità tutte le iniziative intese a favorire il corretto funzionamento della macchina processuale od a bloccare iniziative di parte considerate scorrette o dannose per l'equo contemperamento degli interessi privati e pubblici in gioco nel processo. Il giudice compie in anticipo rispetto all'udienza le verifiche preliminari; affinché sì garantisca la regolarità del contraddittorio queste sono le verifiche da compiersi: - verificare eventuali ipotesi di pretermissione di litisconsorti necessari; - verificare la ricorrenza delle condizioni dell'ordine di chiamata del terzo cui il giudice ritenga comune la causa; - adottare dei provvedimenti necessari alla sanatoria della nullità della citazione nei casi di vizio della vocatio in ius o dell'editio actionis; - adottare i provvedimenti di integrazione necessaria della domanda di convenzionale quando in questa risulti omesso o generico l'oggetto o il titolo; - autorizzare il convenuto alla chiamata in causa del terzo per comunanza o per garanzia; - dichiarare la contumacia della parte che non si sia costituita nei termini; - adottare provvedimenti necessari a completare o mettere in regola degli atti attinenti la regolare costituzione delle parti che il giudice ritenga siano difettosi; - predisporre l'ordine di rinnovazione della notificazione che sia rilevata nulla nei casi di mancata costituzione del convenuto. Il giudice deve indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, anche con riguardo alle condizioni di procedibilità della domanda e alla sussistenza dei presupposti per procedere. A norma dell’art. 183-bis c.p.c il giudice istruttore, all'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite dell'istruzione probatoria e sentite le parti “se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrano i presupposti può disporre con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato”. La previsione vuol favorire il passaggio ad una procedura alternativa, che si presume sia più snella del rito ordinario. Provvedimenti in udienza: le verifiche preliminari servono, oltre a consentire il potere di rilievo ufficioso sulle questioni utili ai fini della decisione, a valutare la ricorrenza dei vizi processuali da sanare. Se tali vizi vengono rilevati il giudice deve fissare una nuova prima udienza per la comparizione delle parti, e sarà da questa che decorreranno i termini a ritroso per le memorie. ≠ Se invece all'esito delle verifiche preliminari non v'è bisogno di adottare alcun provvedimento, il giudice può confermare o differire fino ad un massimo di 45 gg, la data della prima udienza. L’art. 182 c.p.c prescrive che il giudice deve eventualmente adottare i provvedimenti necessari a completare o mettere in regola gli atti e i documenti attinenti alla costituzione delle parti valutati difettosi → il testo di tale norma è frutto del d. lgs 149/2022 che ha voluto estendere il meccanismo della sanatoria anche all'ipotesi della procura inesistente. 2. Le memorie integrative dell'art. 171-ter Dal giorno della prima udienza come fissata in citazione decorrono a ritroso i termini per le memorie integrative di cui all’art. 171-ter. Quest'ultimo rappresenta al massimo l'idea della riforma del 2022 di arrivare alla prima udienza con un thema decidendum e probandum, già formati affinché il giudice possa operare con la strada spianata per procedere alla trattazione della controversia. A pena di decadenza, le parti, con le memorie integrative possono: 1) almeno 40 gg prima dell'udienza proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo; nonché precisare o modificare le domande, eccezioni o conclusioni già proposte. Con la stessa memoria l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo. 2) almeno 20 gg prima dell'udienza, replicare alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande nuove ed indicare i mezzi di prova e le produzioni documentali. 3) almeno 10 gg prima dell'udienza replicare alle eccezioni nuove ed indicare la prova contraria. La prima memoria serve a garantire all'attore il diritto di replicare alla presa di posizione del convenuto nella comparsa di risposta. L'attore ha aperto il fuoco ma l'ultimo a parlare è stato il convenuto, il quale ha risposto. L'attore può avere esigenza di contraddire ed è ammesso a proporre proprie ulteriori “repliche” (= eccezioni alle eccezioni del convenuto), a condizione che esse si presentino come conseguenza dell'attività dell'avversario. Cosa significa contrapporre proprie eccezioni alle eccezioni del convenuto? Pensiamo ad un attore che domanda l'accertamento del diritto ed a cui il convenuto eccepisce l'intervenuta prescrizione: il principio del contraddittorio impone che l'attore sia posto in condizione di replicare a tale eccezione. Dunque, la contro eccezione dell'attore è la replica con cui si sostiene l’avveramento di un fatto idoneo a interrompere la prescrizione. La norma parla anche di domande che l'attore può proporre nei confronti delle eccezioni e delle domande del convenuto → finora abbiamo parlato della possibilità che il convenuto proponga una domanda riconvenzionale; ora introduciamo la possibilità che l'attore reagisca alla domanda riconvenzionale, quindi replichi con apposite eccezioni: in questo caso l'attore potrà proporre una riconvenzionale della riconvenzionale (reconventio reconventionis) = si tratta di una nuova domanda che si viene accumulare alla domanda originaria. C'è ancora una possibilità per l'attore: esso può chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo nel processo: qui l'esigenza deve essere sorta dalle difese del convenuto. Dalle difese del convenuto possono discendere varie esigenze, una delle quali è rispondere con nuove eccezioni e nuove domande nei confronti della parte originaria; l'altra è quella di chiamare un terzo in causa. In ogni caso con riferimento ad entrambe le parti, la prima memoria serve a precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte con gli atti di costituzione → questo significa che le parti hanno sempre la possibilità di aggiungere le loro posizioni: ovviamente non possono “cambiare le carte in tavola” ma possono “rettificare il tiro”, cioè adeguare la propria linea difensiva a quanto accaduto nel frattempo. Certi interventi sulle allegazioni vanno al di là della precisazione e della modificazione poiché entrano nella zona del mutamento della domanda (vietato) per cui tali interventi non sono consentiti nel processo → la mutatio libelli è la trasformazione della domanda formulata in una diversa azione in giudizio, essa è vietata in corso di causa per la semplice ragione che se chiedendo X, impegno la mia controparte a difendersi su X, non posso poi chiedere Y costringendola a cambiare difesa ed a argomentare su altro. Per precisazione si intende l'attività con cui si rende esplicito ciò che era implicito nelle difese. Per modificazione si intende l'attività di adattamento della linea difensiva ai fatti nuovi od ai nuovi argomenti addotti dalla controparte. Modificazione significa aggiustamento della domanda o delle conclusioni; invece, con la precisazione ci si limita a svolgere qualcosa di implicitamente contenuto in quello che si era detto fino a quel momento. La precisazione differisce dalla modificazione sotto il profilo della notifica al contumace: solo le intervenute modificazioni debbono essere notificate al contumace, non le mere precisazioni. La seconda memoria serve a replicare alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, ed a proporre le eccezioni conseguenti alle domande nuove da queste formulate nella prima memoria, nonché ad indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali → essa è veicolo tanto di allegazioni quanto di richiesta e produzioni probatorie, ed ha importanza per il convenuto che è messo in condizioni di contraddire a quanto di nuovo emerga dalla linea dell'attore espressa nella prima memoria. Con la terza memoria ciascuna parte provvede all'indicazione della prova contraria a quella articolata dalle altre. 3. La prima udienza dell'art. 183 Una volta completato lo scambio delle memorie integrative, il passaggio successivo è rappresentato dall'udienza dell’art. 183 c.p.c. Alla sua data il contraddittorio tra le parti si è già sviluppato sicché il giudice nella condizione di provvedere: - all'eventuale fissazione di una nuova udienza se, in dipendenza delle difese svolte dal convenuto ha autorizzato l'attore alla chiamata del terzo; - all'interrogatorio delle parti anche ai fini del tentativo di conciliazione; - alla valutazione di ammissibilità e rilevanza delle istanze istruttorie o - alla diretta rimessione della causa in decisione, se la ritiene matura per la decisione o ravvisa la necessità che debba sciogliersi una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito. Tutto questo, ovviamente sul presupposto che tutte le verifiche preliminari siano state effettivamente svolte e non sia necessario compierne di nuove. All'udienza di prima comparizione e trattazione le parti devono comparire personalmente ed il giudice le interroga liberamente tentandone la conciliazione. L'interrogatorio in questione è detto libero perché lo si contrappone all'interrogatorio formale che è un mezzo di prova volto ad ottenere la confessione della parte. L'interrogatorio libero è un espediente volto al chiarimento dello stato dei fatti e delle posizioni delle parti, cioè un'attività attraverso cui il giudice può farsi un'idea sullo stato della controversia. L'incontro tra parti e giudice ha anche lo scopo di sondare la possibilità di pervenire ad una conciliazione (chi trova spazio qualora si tratti di diritti disponibili). L'onere della comparizione personale in prima udienza ai fini dell'interrogatorio libero e dell'eventuale conciliazione è tornato con il d. lgs 149/2022 allo scopo di mettere a disposizione del giudice strumenti potenzialmente utili allo snellimento dei ruoli: l'idea è che guardando in faccia le parti e ascoltandone le ragioni il giudice possa da subito provare a favorire una conciliazione. L’art. 183 co. 3 richiama l’art. 185 c.p.c. che stabilisce che “quando è disposta la comparizione personale, le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia”. Le parti potranno evitare la comparizione personale conferendo procura alle condizioni esposte, anche ai propri difensori. La modifica apportata dal d. lgs. 149/2022 all'art. 183 in punto di comparizione personale e di interrogatorio libero non è stata accompagnata da una compiuta di scrittura degli artt. 185 e 185-bis . Ne segue che il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta, deve ancora fissare l'udienza per la comparizione personale delle parti al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. D'altronde, anche per il tentativo di conciliazione si prevede che esso possa essere rinnovato in qualunque momento dall'istruttoria, nel rispetto del calendario del processo. Resta al giudice (art. 185-bis) la possibilità di formulare una proposta transattiva o conciliativa che non può costituire motivo di ricusazione o astensione. La conciliazione delle parti è un atto di autonomia privata collocata nel processo; essa ha un'efficacia di diritto sostanziale ma ha riflessi diretti sulla prosecuzione del processo stesso. La conciliazione viene consacrata in un processo verbale sottoscritto dalle parti e dal giudice e del documento contenente la conciliazione assume titolo esecutivo per le obbligazioni in esso contemplate. Esaurita la fase dell'interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione che potrebbe svolgersi indipendentemente da ogni successivo sviluppo, potrebbe darsi che la causa risulti matura per essere decisa a patto che non sia autorizzata l'eventuale chiamata del terzo ad opera dell'attore. In mancanza delle condizioni per procedere immediatamente il giudice provvede sulle richieste istruttorie e predispone con ordinanza il calendario delle udienze successive sino a quella di remissione della causa in decisione, indicando gli incombenti che verranno espletati in ciascuna di esse. L'udienza per l'assunzione dei mezzi di prova ammessi dovrà essere fissata entro 90 gg. La trattazione della causa passa alla fase dell’istruzione probatoria per consentire alle parti di dimostrare i fatti dedotti a proprio favore e per confutare i fatti addotti dagli avversari → si chiude la prima fase del processo. 4. La trasformazione (eventuale) del rito ordinario in rito semplificato All'esito della prima udienza può accadere che il giudice si ponga il problema se continuare con l'applicazione del rito ordinario o se trasformare il rito. L’art. 183-bis permette che l'istruttore, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria e sentite le parti, se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrano i presupposti può disporre con ordinanza non impugnabile, la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato. La norma vuol favorire il passaggio ad una procedura considerata più snella di quella scelta dall'attore con la citazione, nell'ipotesi in cui il giudice istruttore reputi il rito semplificato più adatto alla gestione della lite. CAPITOLO 19 - AMMISSIONE ED ASSUNZIONE DELLE PROVE 1. Ammissibilità e rilevanza delle prove All'udienza dell'art. 183, un'ordinanza del giudice provvede sulle richieste istruttorie e fissa (entro 90gg) l'udienza in cui dovrà materialmente procedersi all'assunzione dei mezzi di prova ammessi. L'ordinanza presuppone un giudizio di verifica dell'ammissibilità delle prove richieste e della rilevanza dei fatti da provare. Si tratta di due momenti complementari: valutare l'ammissibilità significa verificare se l'ordinamento permette di provare il fatto nel modo richiesto (= verificare se il mezzo di prova dedotto è consentito). La rilevanza della prova viene in rilievo sotto un altro aspetto. Il giudizio di rilevanza tiene al valore del fatto da provare, cioè il giudice deve controllare che il fatto che si chiede di provare abbia effettiva influenza sulla decisione della causa. CAPITOLO 20 – VALUTAZIONE DELLE PROVE ED ONERE DELLA PROVA 1. Il divieto di scienza privata L’art. 115 c.p.c. impone al giudice di “porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti”. L'obbligo del giudice di prendere in considerazione i fatti rilevanti per la decisione solo se filtrati dall'attività assertiva delle parti (principio dispositivo) si manifesta anche nel divieto di procedere al loro accertamento se non attraverso le fonti di prova specificatamente proposte dalle parti. Questa situazione prende il nome di divieto di scienza privata del giudice: vietare l'utilizzazione processuale della conoscenza strettamente personale degli elementi rilevanti per la decisione, significa imporre al giudice di subordinare la considerazione dagli elementi al rispetto delle regole legali obiettive che presiedono al loro ingresso ed al loro trattamento. La cosa si spiega per varie ragioni, la più rilevante è che una personale solitaria gestione delle fonti di conoscenza sottrarrebbe la dinamica del giudizio alle regole del contraddittorio: dicendo che il giudice deve decidere juxta alligata et probata, si richiama l'esigenza di contraddittorio che garantisce ogni attività di allegazione ed ogni attività istruttoria. In questo senso, si comprende come la possibilità di ammettere prove d'ufficio, non contraddica la ratio del divieto di scienza privata. Infatti, le attività istruttorie ufficiose non sono gestite dal giudice in via unilaterale ma, impongono: - di rapportare la necessità di ammettere le prove allo stato del contraddittorio; - di dare comunicazione della loro ammissione alle parti per provocare il contraddittorio sul punto; - di esperire nel rispetto del contraddittorio; - di sottoporre al contraddittorio i risultati dell'esperimento. L’art. 115 co. 2 prevede che il giudice possa “senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”: si tratta del fatto notorio, cioè del fatto che appartiene alla conoscenza collettiva. Fatti del genere si possono considerare provati in sé stessi e non richiedono apposita prova da parte del soggetto interessato. Dato che la conoscenza del notorio è pubblica non contravviene al divieto di scienza privata. Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo e dal contraddittorio, va inteso come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con un tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. 2. I canoni di valutazione della prova Occorre spendere qualche considerazione sui criteri posti dalla legge per la valutazione dell'esito delle attività probatorie esperite e per il trattamento del risultato dei mezzi di prova introdotti e delle procedure istruttorie espletate. I criteri generali di valutazione delle prove sono fissati dall’art. 116 c.p.c.: “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti” = quindi, la regola generale è quella per cui il risultato delle prove offerte o esperite nel processo è affidato al convincimento personale del giudice. Si vuole indicare questa regola come principio del libero convincimento. Il co. 2 dell'art. 116 rafforza questa conclusione fornendo al giudice le direttrici della sua indagine e dei binari da seguire nell'argomentazione: il giudice può desumere argomenti di prova in generale: - dal contegno delle parti nel processo; - dal rifiuto ingiustificato delle parti di acconsentire alle ispezioni che il giudice ha ordinato; - dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero. Desumere argomenti di prova vuol dire che egli è autorizzato a dar peso ai comportamenti delle parti per valutare il risultato delle prove vere e proprie. Contegno, risposta di interrogatorio libero e rifiuto di soggiacere ad ispezione presi singolarmente non potrebbero mai giustificare la convinzione del giudice in ordine ad un fatto da provare. Un argomento di prova funge da elemento di interpretazione, di integrazione di distinti risultati istruttori. L'applicabilità del principio del libero convincimento trova però il suo limite nella prova legale. Le prove legali sono quei mezzi di prova dal cui esperimento scaturisce la piena prova del fatto che ne è oggetto, senza possibilità di valutazione critica da parte del giudice e senza possibilità di confronto con altri eventuali elementi istruttori (es: confessione e giuramento). Sono questi i casi in cui la legge ha ritenuto opportuno sospendere la vigenza del principio del libero convincimento, mettendo un freno al vaglio critico del giudice: es: se un fatto deve considerarsi confessato secondo i canoni fissati dalla legge, però il giudice potrebbe essere convinto della poca veridicità della dichiarazione confessoria ma, tuttavia non può giudicare secondo la sua convinzione se tale dichiarazione possiede i caratteri legali della confessione. 3. L'onere della prova Collegato con il tema del convincimento del giudice è il tema dell’onere della prova: regola elementare è che chi fa discendere effetti a sé favorevoli da un dato fatto, non può pretendere di essere creduto, bensì è tenuto a dimostrare il fatto a cui ricollega gli effetti. Di conseguenza il giudice nel valutare i fatti dedotti in giudizio dalla parte, dovrà considerarli inesistenti se la parte non ne ha fornito la prova. L'espressione onere della prova assume il significato fondamentale di regola di giudizio per il fatto non provato: se, al momento di giudicare, manca la prova di un fatto rilevante per la decisione, la parte onerata della prova di quel fatto subisce il rigetto delle pretese che presuppongono la sua esistenza. Ne segue che è essenziale identificare quale parte è gravata dell'onere di provare il fatto → l’art. 2697 c.c.: “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti o eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”. La prova dei fatti che costituiscono il fondamento del diritto fatto valere (fatti costitutivi) spetta a colui che fa valere il diritto in giudizio (l’attore). → se, al momento di decidere, tali fatti costitutivi appaiono non provati, il giudice deve rigettare la domanda. A sua volta, della prova dei fatti idonei ad imporre al giudice il rigetto della domanda, è onerato il convenuto che li abbia dedotti in giudizio: con tali fatti (la cui deduzione dà luogo alla difesa dell’eccezione di merito) il convenuto oppone al fatto costitutivo una circostanza che gli impedisce di produrre gli effetti pretesi o deduce fatti a cui conseguono l'estinzione o la modificazione del diritto stesso (fatti impeditivi, estintivi o modificativi). → se, al momento della decisione, al giudice risulta non provato il fatto dedotto, egli è tenuto a rigettare l'eccezione che su tale fatto si fonda. Il giudice è costretto a rigettare la domanda per mancato assolvimento dell'onere della prova: il motivo specifico del rigetto non è l'applicazione della regola dell'onere della prova ma, la prova di un fatto che rende impossibile l'accoglimento. Analizziamo il rapporto tra le seguenti vicende: - la prima: l'attore conviene in giudizio l'artigiano che aveva impiantato nella sua abitazione un sistema elettrico, imputandogli di aver subito un danno per aver mal congegnato l'impianto. Al momento del giudizio il giudice ritiene che manchi la prova dell'errato collegamento perché la consulenza tecnica esperita non ha riscontrato errore nell'attaccamento dei fili. Qui il giudice è costretto a rigettare la domanda per mancato assolvimento dell'onere della prova del fatto costitutivo - la seconda: stessa domanda e stesse parti ma, qui la consulenza tecnica ha concluso che, malgrado l'errore nell’allaccio, il sistema si è surriscaldato per un evento straordinario verificatesi e che quindi la fusione si sarebbe comunque prodotta. Anche qui il giudice rigetta la domanda di danni ma, lo fa perché è risultato positivamente provato un diverso fatto, sufficiente a giustificare il rigetto. Il co. 2 dell’art. 2697 c.c ci dice che, introdotto in via di eccezione un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, la sua mancata prova comporta il rigetto dell'eccezione stessa. Il convenuto assume su di sé il rischio della mancata prova di questo fatto: se non riesce a convincere il giudice, egli subisce un giudizio negativo sulla propria eccezione. Ma al rigetto dell'eccezione corrisponde sempre l'accoglimento della domanda? Ipotesi di rigetto dell'eccezione: - la domanda potrà essere accolta se l'attore avrà dato la prova dell'idoneità dei lavori del convenuto a provocare le infiltrazioni: di fronte al fallimento della prova del fatto impeditivo abbiamo prova del fatto costitutivo; - la domanda dovrà essere rigettata, se l'attore avrà fallito nella prova del fatto costitutivo: qui abbiamo un doppio rigetto = quello della domanda per mancato assolvimento dell'onere probatorio dell'attore ed il rigetto dell'eccezione per simmetrico mancato assolvimento dell'onere probatorio del convenuto; - la domanda potrà essere accolta se il convenuto, sollevando la propria eccezione, non ha avuto cura di contestare il fatto costitutivo della domanda; - la domanda sarà rigettata se il convenuto, pur sollevando l’eccezione avente ad oggetto il fatto impeditivo, ha avuto paura di contestare l'affermazione dell'attore secondo cui causa delle infiltrazioni sarebbero stati i lavori del convenuto. Gli ultimi due casi ci portano a considerare un aspetto ulteriore dell'onere della prova: l’effettività dell'onere che dipende anche dalla posizione assunta dall'avversario rispetto al fatto da provare. Se, l'esistenza del fatto da provare viene contestata dall'avversario, l'onere diviene attuale ≠ se, il fatto dedotto non viene contestato, l'onere non si concretizza (= il fatto non contestato si intende come riconosciuto e la sua mancata prova non nuoce all'operato). L'onere della prova di un fatto diviene concreto solo quando il fatto stesso sia stato contestato dalla parte che ha interesse a contestarlo: ove questo non avvenga l'onere della prova non viene attivato. L'onere della prova non riguarderebbe i fatti negativi, sul presupposto che non si possa provare l'inesistenza dei fatti. L'affermazione va però smentita perché la difficoltà riguarda piuttosto il come assolvere alla prova del fatto negativo, visto la pratica impossibilità di una sua dimostrazione diretta. Il problema relativa alla modalità di dimostrazione dell'onere si risolve in una prova indiretta o critica. In particolare, nei confronti dei fatti negativi determinati in modo circoscritto e definito, si potrà ricorrere alla prova di fatti positivi incompatibili; nei confronti di fatti negativi più generici e meno determinati si ricorrerà alla prova presuntiva. L'esperienza giudiziale presenta situazioni di confine in cui resta incerto se si sia in presenza di un fatto impeditivo, la prova della cui esistenza è a carico di chi si difende: in questi casi la giurisprudenza fa uso del criterio della vicinanza al fatto oggetto di prova. Si tratta di un principio sussidiario che permette di considerare gravata dell'onere la parte ritenuta più vicina alla fonte di prova, cioè la parte che ha la disponibilità delle cose o l'accesso ai dati rilevanti ai fini probatori. 4. Le inversioni dell'onere probatorio I criteri di ripartizione dell'onere fungono da regola generale, ma possono essere derogati da disposizioni speciali di legge o entro certi limiti dall'accordo delle parti. L’art. 2698 c.c. stabilisce la nullità dei patti “con i quali è invertito o è modificato l'onere della prova” quando: - si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre; - quando l'inversione o la modificazione “ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l'esercizio del diritto”. L'inversione convenzionale dell'onere è possibile tutte le volte che il diritto controverso è un diritto disponibile e dall'inversione non derivano particolari difficoltà per la parte che viene gravata dell'onere. Una regolamentazione convenzionale dell'onere della prova contemplate in una previsione legislativa, si trova nel contratto di trasporto di cose: il vettore è responsabile per perdita o avaria della cosa trasportata, salvo che provi il caso fortuito. Sono valide le clausole contrattuali che invertono l'onere legale stabilendo una presunzione di fortuito: questo La testimonianza scritta è resa su un modulo conforme al modello approvato dal Ministro della giustizia. 2. La confessione La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. I fatti confessati debbono essere obiettivamente sfavorevoli al dichiarante e debbono obiettivamente giovare alla controparte ai fini della decisione da assumere. La confessione in senso proprio è un atto volontario, personale e esorbitante dai poteri processuali del difensore; la confessione non è efficace se non previene da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono. La confessione può presentarsi quale atto del processo (confessione giudiziale) o consistere in un atto stragiudiziale. La confessione è giudiziale se resa nel corso ed all'interno di un procedimento giudiziale. Essa forma piena prova contro colui che l'ha resa purché verta su fatti relativi a diritti disponibili ( formare piena prova = significa che la dichiarazione confessoria va presa dal giudice nei precisi termini in cui è stata resa, senza possibilità di valutazione critica, né di prova contraria né di confronto con altri elementi probatori). La confessione è da annoverare tra le prove legali cioè non soggetta al vaglio critico del giudice. La confessione giudiziale può essere: - spontanea → può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente - provocata mediante interrogatorio formale → l'interrogatorio formale mira a provocare la confessione attraverso la sottoposizione alla parte di un fatto o di un elenco di fatti, ad essa sfavorevoli di cui si chiede l'asseverazione. L'interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati e specifici: ciò significa che sono inammissibili affermazioni generiche e ambigue. I fatti vanno scomposti nei loro dati elementari e ciascuno degli articoli separati deve far riferimento ad un fatto specifico. L'importanza della formulazione degli articoli è provata dal fatto che non possono farsi domande su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli “ad eccezione delle domande su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili”. Come tutte le prove costituende, l'interrogatorio formale è soggetto a giudizio di ammissibilità da parte dell'istruttore e la sua assunzione è rimessa allo stesso organo nei modi e nei termini stabiliti nell'ordinanza ammissiva. La parte interrogata deve rispondere personalmente, non può servirsi di scritti preparati, anche se il giudice istruttore può consentirle di avvalersi di note o appunti. Particolarmente significativa è la mancata risposta della parte interrogata: se essa non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio = l'assenza o il silenzio producono riconoscimento del fatto dedotto, anche se non si può dire che la mancata risposta configuri una vera e propria confessione ma in unione agli altri elementi di prova vale quale elemento di convincimento del giudice. Una volta resa, la confessione giudiziale non può essere revocata, se non nel caso in cui si provi che essa è stata determinata da errore di fatto. La confessione è un atto che può presentarsi anche fuori ed indipendentemente dal giudizio: confessione stragiudiziale; in merito agli effetti la legge distingue tra: - la confessione fatta ad un terzo o contenuta in un testamento → la confessione resa dal terzo non assume il valore della prova legale ma, è liberamente apprezzata dal giudice, cioè è soggetta alla regola generale della libera valutazione in concorso con tutti gli altri elementi desumibili dal contesto; - la confessione fatta alla parte o a chi la rappresenta → in questo caso la confessione ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale, cioè efficacia piena di prova legale. La confessione stragiudiziale viene definita probatio probanda, cioè vale come prova se ed in quanto sia soddisfatto l'onere di provarne la relativa dichiarazione. La confessione giudiziale definita probatio probata, cioè prova provata perché risultante agli atti come tale. L'esperienza insegna che la dichiarazione (dichiarazione complessa) del fatto è talora accompagnata da altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato o a modificarne/estinguere gli effetti → quando ciò accade le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte. Se invece ci sono contestazioni circa le circostanze aggiunte “è rimesso al giudice di apprezzare l'efficacia probatoria delle dichiarazioni”. 3. Il giuramento Attraverso il giuramento il dichiarante assevera un fatto a sé favorevole. L'efficacia del giuramento è un'eccezione alla regola per cui, sul piano probatorio, rilevano le dichiarazioni sfavorevoli ma non quelle a favore di chi le rende: si tratta di un'eccezione giustificata dalla solennità della procedura e dall'impegnatività della dichiarazione la cui falsità è punita come reato. Ci sono due specie di giuramento:  il giuramento decisorio cioè quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa;  il giuramento suppletorio, cioè quello che è deferito d'ufficio dal giudice ad una delle parti al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova. Una sottospecie è il giuramento estimatorio (deferito dal giudice al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti). 3.1. Il giuramento decisorio Con il giuramento decisorio una parte può volontariamente rimettere la decisione della causa all'altra, semplicemente deferendo giuramento (cioè chiedendole di dichiarare solennemente sotto giuramento che uno o più fatti da essa affermati sono veri). Si tratta di un evento che non si vede tutti i giorni ma che si verifica per varie ragioni: innanzitutto perché la parte convinta della propria ragione non ha altro mezzo per provare quello che dice e quindi accetta di rimettere la sorte della controversia all'onestà e coscienza della controparte. Nel giuramento il dilemma sta nel fatto che, accettando di giurare, la parte si impegna a dire il vero ed accorrere il rischio della falsità poiché le false dichiarazioni configurano il reato di falso giuramento e dall'altra parte rifiutandosi di giurare, si consegna la vittoria all'avversario. I limiti del deferimento del giuramento: - non può essere deferito per la decisione di cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre; - non è consentito giurare su fatto illecito; - non è consentito giurare per superare la prescrizione di forma scritta imposta dalla legge per la validità del contratto; - non è consentito alle parti negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l'atto stesso. Il giuramento deve essere pestato personalmente dalla parte e può essere effettuato solo da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti giurati si riferiscono. Alla prestazione del giuramento consegue l'obbligo del giudice di prendere come vero il suo oggetto, cioè consegue la prova legale dei fatti giurati: non è ammessa prova contraria. L'altra parte non può chiedere la revocazione della sentenza “qualora il giuramento sia stato dichiarato falso”, essa può domandare il risarcimento dei danni nel caso di condanna penale per falso giuramento; se la condanna penale non può essere pronunciata perché il reato si è estinto, la parte può ottenere il risarcimento dal giudice civile. Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale. Esso deve essere formulato in articoli separati in modo chiaro e specifico. La prestazione del giuramento è suggellata da apposito provvedimento ammissivo del giudice. La parte deferente può revocare il giuramento fino al momento in cui la controparte abbia dichiarato di essere pronta a prestarlo (da quel momento il deferimento diventa irrevocabile). Un'ipotesi particolare di revocabilità del giuramento è quella in cui il giudice modifica la formula proposta dal deferente: in tal caso questi può revocarlo, anche se la controparte si sia dichiarata pronta a giurare. La parte a cui sia stato deferito il giuramento decisorio può: - asseverare con giuramento la formula deferitagli → la parte giura e vince; - rifiutarsi di giurare → la parte non giura e vince la controparte che ha deferito il giuramento; - asseverare con giuramento una formula diversa da quella deferitagli → la parte accetta di giurare ma altera la formula sicché, modificandola finisce per giurare su un altro oggetto, e perde; - riferire il giuramento → è il riferimento del giuramento: la parte a cui è deferito il giuramento decisorio, finché non abbia dichiarato di essere pronta a giurare, può riferirlo all'avversario nei limiti fissati dal codice civile. Così facendo la parte rigetta la palla nel campo dell'avversario a cui finisce per dire “giura tu che il fatto a me favorevole, di cui mi chiedi di riconoscere l'esistenza, non si è verificato” = praticamente la parte a cui il giuramento è riferito viene a trovarsi nella medesima situazione in cui essa aveva posto la controparte. Oltre ai limiti generali posti all’esperibilità del giuramento decisorio, l’art. 2739 c.c. pone un limite specifico al riferimento, vietandolo “qualora il fatto che ne è l'oggetto non sia comune ad entrambe le parti”. ≠ Fatti non comuni ad entrambe le parti si riscontrano nelle ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui. 3.2. Il giuramento suppletorio Il giuramento suppletorio è una modalità di decisione della causa riservata al giudice; appartiene alle prove che il giudice esperisce d'ufficio, ancorché la sua esigenza sorga a posteriori, ed il suo esperimento non avvenga nel corso dell'istruttoria bensì dopo la sua chiusura (cioè in sede di valutazione finale delle risultanze probatorie già disponibili). Il giudice che si trovi in dubbio sull’effettiva prova di un fatto dirimente può rimettere alla parte il potere la responsabilità di asseverare a proprio favore l'esistenza di tale fatto chiedendole di farlo sotto giuramento. Quando, al momento di decidere, il giudice si confronta e trova un fatto decisivo non compiutamente provato (=il fatto è una prova incompleta) può autorizzare a deferire una delle parti il giuramento suppletorio, al fine di supplire gli elementi di prova mancanti. La parte invitata a giurare assume su di sé tutte le responsabilità connesse all'istituto del giuramento: se non presta il giuramento soccombe sul fatto decisivo e se giura il falso incorre nella responsabilità penale con la connessa obbligazione di risarcire i danni. Il giuramento suppletorio non è riferibile alla controparte: la parte a cui è deferito giuramento suppletorio risponde al giudice del suo comportamento e non può liberarsi dall'impegno investendo la controparte del compito di giurare a sua volta o soccombere. Si è accennato al fatto che del giuramento suppletorio esiste una sottospecie, cioè il giuramento estimatorio deferito dal giudice al fine di stabilire il valore della cosa domandata se non si può accertarlo altrimenti. Se la stima del valore dell'oggetto della domanda è impossibile o molto difficile, la perplessità del giudice può essere superata dalla rimessione alla parte di una dichiarazione giurata relativa alla stima della cosa, con gli stessi effetti del giuramento suppletorio. 4. La prova documentale Le prove documentali regolate dal codice civile sono: - l'atto pubblico - la scrittura privata - le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione - le riproduzioni meccaniche. 4.1. L'atto pubblico L’atto pubblico è il documento redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato. L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. L'atto pubblico deve provenire da un notaio o da altro pubblico ufficiale assimilato. L'atto giuridico rappresentato dal documento resta imputabile esclusivamente alla parte dichiarante e per sottolineare questo aspetto si suole definire l'atto pubblico come documento eterotrofo. La pubblica fede che la legge ricollega all'atto pubblico significa che l'atto pubblico è prova legale rispetto: - alla provenienza del documento - alla data ed al luogo della redazione dell'atto - all'identità delle parti presenti alla redazione dell'atto - alle dichiarazioni rese dalle parti - a tutti gli altri fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale e come tali accertati nell'atto. Tutti i dati coperti dalla pubblica fede fanno stato “fino a querela di falso” = ciò significa che essi non possono venir contestati se non attraverso una formale accusa di falsità, in mancanza della quale essi si impongono al giudice senza consentire alcuna prova contraria. Il fatto che la sua redazione sia conferita al notaio e che il documento può essere attaccato solo a mezzo di querela di falso garantisce la sua stabilità ben oltre la garanzia data dalla scrittura privata. 4.2. La scrittura privata Con scrittura privata si indica il documento sottoscritto da soggetto privato e recante dichiarazioni imputabili al sottoscrittore in virtù della sua sottoscrizione (documento autografo). La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione o se questa è legalmente considerata come riconosciuta. (Art. 2702 c.c.) La norma fa discendere dalla certezza della sottoscrizione la piena prova della provenienza delle dichiarazioni del sottoscrittore: la presenza della firma di Tizio in calce ad un documento in cui è scritto che egli si impegna a consegnare una data cosa a Caio in una certa data, e prova piena della dichiarazione relativa a questo impegno, se la firma è effettivamente di Tizio. Se, invece, Tizio pur riconoscendo la propria firma, vuole negare di aver reso tali dichiarazioni, può attaccare il documento ma deve farlo nella modalità della proposizione di querela di falso. Prodotta in giudizio contro Tizio una scrittura che si assume firmata da questi, tale firma si ha per riconosciuta: - se essa era stata originariamente autenticata come tale da notaio o altro pubblico ufficiale; - se esplicitamente Tizio la riconosce come sua; - se egli non la disconosce, attraverso negazione o di dichiarazione resa nella prima udienza; - se Tizio è stato dichiarato contumace. Alla certezza dell'autografia della sottoscrizione di Tizio, consegue una presunzione di provenienza della dichiarazione che potrà venir superata solo dall'impugnazione della scrittura con querela di falso: Tizio dovrà impegnarsi a sostenere che è stato commesso ai suoi danni un falso materiale. Quando viceversa la sottoscrizione non è legalmente attribuibile alla parte contro cui la scrittura è prodotta, questa non avrà bisogno di esperire alcuna querela di falso e spetterà alla controparte dimostrare la provenienza della scrittura. La scrittura privata può essere prodotta non solo contro il sottoscrittore della stessa ma, anche contro gli eredi di questi o i suoi aventi causa, posto che l'atto contenuto nel documento può spiegare effetti nei suoi confronti. Per costoro l'onere di disconoscimento che grava sul sottoscrittore, si trasforma nell'onere di dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro autore. La soddisfazione di questo onere impone al producente di proporre istanza applicare la disciplina prevista per altri mezzi “tipici”, potrebbe a volte risultare irragionevole. La giurisprudenza oscilla tra il riconoscimento di un valore meramente indiziario, l'efficacia di argomenti di prova e la valutazione efficacia di volta in volta rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Alla categoria di mezzi di prova atipici sono di norma ascritte le scritture private provenienti da terzi, le perizie stragiudiziali, le prove del DNA, le prove raccolte in altri processi ecc. Diversamente che nel processo penale, il tema della prova illecita solo di recente ha suscitato l'interesse dei processualcivilisti. Premesso che l'espressione prova illecita può assumere vari significati, con essa ci si riferisce generalmente al documento esibito a scopi probatori il cui possesso, la cui apprensione o la cui produzione non possono considerarsi legittimi. L'illeceità impedirebbe al giudice di servirsi del documento → art. 191 c.p.c.: “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. CAPITOLO 22 – DINAMICHE ALTERNATIVE DEL PROCESSO 1. La mancata costituzione di entrambe le parti Fino ad ora abbiamo considerato lo schema tipico del procedere: l'attore si è tempestivamente costituito, si è svolta la prima udienza, il processo è sfociato nella fase istruttoria, che si è regolarmente conclusa. Le cose talvolta però vanno diversamente, esiste una patologia della costituzione. Può accadere che l'attore non si costituisca tempestivamente e che neppure il convenuto si costituisca tempestivamente. Le norme da richiamare a tal riguardo sono:  Art. 165 c.p.c. - costituzione dell'attore: l'attore, entro 10 gg dalla notificazione della citazione al convenuto, deve costituirsi in giudizio;  Art. 166 c.p.c. - costituzione del convenuto: “il convenuto deve costituirsi almeno 70 gg prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione”;  Art. 171 c.p.c. - ritardata costituzione delle parti: “se nessuna delle parti si costituisce nei termini stabiliti, si applicano le disposizioni dell'art. 307” (co. 1). “Se una delle parti si è costituita entro il termine rispettivamente a lei assegnato, l'altra parte può costituirsi successivamente ma restano ferme per il convenuto le decadenze dell'art. 167” (co. 2). “La parte che non si costituisce entro il termine dell'art 166 c.p.c. è dichiarata contumace con ordinanza del giudice istruttore, salva la disposizione dell'art. 291 c.p.c.” (co. 3).  Art. 290 c.p.c. - contumacia dell'attore: “nel dichiarare la contumacia dell'attore in base all'art. 171, il giudice istruttore, se il convenuto ne fa richiesta, ordina che sia proseguito il giudizio; altrimenti dispone che la causa sia cancellata dal ruolo e il processo si estingue”;  Art. 291 c.p.c. - contumacia del convenuto: “se il convenuto non si sia costituito neppure anteriormente alla pronuncia del decreto, il giudice provvede a norma dell'art. 171 c.p.c.”. Dalle norme segnalate si ricava che l'attore si costituisce entro 10 gg dalla notificazione della citazione (art 165 c.p.c.). Se però l'attore non si è costituito allo scadere del termine, il convenuto ha ancora la possibilità di costituirsi egli stesso. L’art. 171 co. 1 c.p.c. regola la mancata costituzione di ambedue le parti: l'ipotesi è che l'attore non si sia costituito nei suoi termini e che il contenuto sia rimasto inerte, cioè abbia a sua volta fatto scadere i termini per la propria tempestiva costituzione. In tal caso il processo entra in uno stato di quiescenza = la causa pende dalla notificazione della citazione, solo che il procedimento non può mettersi in moto per sfociare nella prima udienza perché nessuno ha materialmente fatto “l'iscrizione al ruolo” e quindi non c'è alcun giudice investito del giudizio. L’art. 171 fa rinvio all’art. 307 c.p.c., il quale sancisce “se dopo la notificazione della citazione nessuna delle parti si sia costituita entro il termine stabilito dall'art 166 c.p.c., il processo deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di 3 mesi che decorre dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto a norma dell'art. 166 c.p.c., altrimenti il processo si estingue”. → questo vuol dire che il processo c'è, ma non essendovi stata iscrizione al ruolo, esso non può evolvere. Chi ha interesse al suo svolgimento può ancora costituirsi ma, il processo ha bisogno di un atto di impulso diverso dalla semplice costituzione, cioè la riassunzione del processo: il processo deve essere riassunto davanti al giudice di fronte a cui pende nel termine perentorio di 3 mesi. La riassunzione è un atto formale che esprime la volontà di ripresa del processo che era rimasto quiescente. L'atto di riassunzione prescrive l'impiego di una comparsa che identifichi il giudice, le parti, l'atto introduttivo del giudizio e che fissi l'udienza di comparizione. La comparsa di riassunzione configura l'atto di integrazione della citazione originaria con cui il processo viene ripreso e messo in condizione di arrivare all'udienza. Se passa invano il trimestre senza il compimento dell'atto di riassunzione, il processo si estingue. 2. La contumacia Anche la contumacia è una “non costituzione” ma è di taluna delle parti allorché almeno un'altra parte si sia già costituita. Per aversi contumacia di una parte bisogna che ci sia stata almeno una costituzione tempestiva, dobbiamo distinguere: - l'ipotesi che si sia costituito tempestivamente l' attore e non si sia costituito tempestivamente il convenuto → l'attore notificata la citazione, si è costituito nei 10 gg (art. 165 c.p.c.) per il deposito in cancelleria dell'istanza di iscrizione al ruolo. In questo caso, il convenuto dovrebbe costituirsi (per non incappare in contumacia) non oltre 70 gg prima della prima udienza. In ogni caso, il convenuto non può essere dichiarato contumace se vi è fondato sospetto che la mancata costituzione possa non essere volontaria: l’art. 291 co. 1 c.p.c. sancisce “se il convenuto non si costituisce ed il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità della notificazione della citazione, fissa all'attore un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza”. Il controllo sulla presenza di vizi della notificazione dovrà essere svolto dal giudice in sede di verifiche preliminari: in caso di verifica positiva si dovrà fissare un termine perentorio per rinnovare la notificazione. Però, se scadono i termini dell'art. 166 c.p.c., vengono ricalcolati rispetto alla nuova prima udienza, il giudice effettuerà le notifiche entro i 15 gg successivi, e laddove il convenuto dovesse risultare ancora non costituito, egli sarà dichiarato contumace (art. 291 co. 2 c.p.c.). Se la notificazione non viene rinnovata nel termine, il processo si estingue ≠ se viene tempestivamente rinnovata, il convenuto sarà rimesso in termini per la sua costituzione: potrà scegliere di costituirsi o di non farlo (in questo secondo caso verrà dichiarato contumace). - l'ipotesi in cui a non costituirsi sia stato l'attore e si sia invece costituito tempestivamente il convenuto → dalla lettura coordinata degli artt. 290 e 171 co. 3 c.p.c. si può affermare che in questi casi è mancata un'attività di impulso da parte dell'attore, ma l'inerzia è stata supplita dall'iniziativa del convenuto, che ha depositato il proprio fascicolo, sostituendosi all'attore, e ha iscritto al ruolo. Il convenuto può costituirsi sostituendo la propria iniziativa a quella dell'attore ma, l'attore potrà ancora costituirsi nel processo senza incappare in contumacia: infatti, se il convenuto si costituisce entro il termine assegnato (art. 166 c.p.c.), l'attore potrà costituirsi successivamente alla scadenza del termine a lui assegnato (art. 165 c.p.c.) e se lo farà anche egli entro il termine dell'art. 166 c.p.c.potrà evitare la contumacia. Però, ai sensi dell’art. 290 c.p.c. se il giudice dichiara la contumacia dell'attore, “ordina che sia proseguito il giudizio” se il convenuto ne faccia richiesta. Per cui se il convenuto non esprime con chiarezza la sua volontà di andare avanti nel giudizio, in contumacia dell'attore, il giudice non può fissare gli adempimenti ulteriori e dovrà disporre la cancellazione della causa dal ruolo. Il meccanismo dell'art. 290 c.p.c. prima del d. lgs. 149/2022 trovava attuazione solo in prima udienza mentre, nell'attuale assetto della fase introduttiva il convenuto deve fare richiesta di prosecuzione dopo il termine dell'art. 166 c.p.c., considerato che prima di questo non può sapere se l'attore si costituirà. Ma che interesse può avere il convenuto se l'attore non ha coltivato il processo? Talora il convenuto può avere interesse alla sentenza di merito che scaturisca dal processo e più precisamente all'accertamento negativo del diritto dell'attore. 3. Lo status di contumace In quanto tale il contumace non può compiere atti di impulso o partecipare attivamente al procedimento. Ciò non significa che egli non sia parte del processo e che la sentenza non abbia effetti per lui: infatti, egli è destinatario degli effetti dei provvedimenti di merito ed ha il potere di costituirsi ancora in seguito; ma, finché ciò non avvenga non può interloquire nello svolgimento del processo. Per altro verso, il contumace non subisce alcuna presunzione di torto: se contumace è il convenuto, l'attore resta onerato della prova dei fatti costitutivi = si parla di tacita contestazione (ficta contestatio). Ci sono però delle regole particolari che si sviluppano secondo due linee direttive: - bisogna assicurare che la contumacia di una parte non vada a detrimento della parte che si sia costituita; - bisogna salvaguardare i diritti del contumace. A tal riguardo l’art. 292 c.p.c. prescrive che certi atti del processo devono essere portati a conoscenza del contumace (es: gli atti che modificano la materia del contendere, domande nuove o riconvenzionali). Gli altri atti che devono essere portati a conoscenza del contumace sono gli atti che creano oneri in capo al destinatario, infatti lo stesso art. 292 dice che devono essere notificate personalmente al contumace “ l'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento” perché: l'ordinanza che ammette l'interrogatorio fa si che dalla mancata presentazione all'interrogatorio il giudice possa trarre conseguenze negative per chi doveva rispondere, per cui il contumace deve essere messo in condizione di prendere posizione per evitare tali conseguenze. L’art. 293 c.p.c. prevede che la parte dichiarata contumace possa costituirsi “in ogni momento del procedimento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni” (co. 1). “La costituzione può avvenire mediante deposito di una comparsa, della procura e dei documenti in cancelleria o mediante comparizione all'udienza” (co. 2). In ogni caso “il contumace che si costituisce può disconoscere le scritture contro di lui prodotte” (co. 3). Una rimessione in termini del contumace involontario che si costituisce è prevista dall’art. 294 c.p.c. secondo cui egli può chiedere di essere ammesso a compiere attività ormai precluse se dimostra che la nullità della citazione o della sua notificazione “gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile”. - il processo prosegue e giunge alla sentenza finale di merito, che si sostituisce all'ordinanza → qui l'intimato richiede espressamente la sentenza: la richiesta è un atto unilaterale da notificare alla controparte seguito dal deposito in cancelleria entro 30 gg dalla pronuncia in udienza dell'ordinanza o dalla sua comunicazione. La possibilità di imporre la prosecuzione del processo fino alla sentenza è nella disponibilità esclusiva dell'intimato. Come si coordinano ordinanza e successiva sentenza? Se la sentenza conferma l'ordinanza: essa si sostituirà all'ordinanza e sarà autonomamente impugnabile con i mezzi normali di impugnazione delle sentenze. La sentenza finale si sostituisce ugualmente all'ordinanza anche se la contraddice ma, può accadere che nel frattempo l'ordinanza sia stata già eseguita: in tal caso la sentenza dovrà disporre la restituzione di quanto adempiuto in ottemperanza all'ordinanza. - il processo si estingue → in questo caso l'ordinanza dell'art. 186-quater non resta travolta dall'estinzione ma sopravvive al venir meno del rapporto processuale. Ciò corrisponde a quanto accade per l'ordinanza dell'art. 186- bis ma con una peculiarità: l'ordinanza dell'art. 186-quater che sopravvive all'estinzione, ha l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza = ciò vuol dire che il provvedimento resta in vita ma non diversamente da come resterebbe in vita una sentenza ancora impugnabile, cioè instabile nel contenuto. Il fatto che l'ordinanza sia impugnabile sull'oggetto dell'istanza vuol dire che l'ordinanza ha effetti non limitati a quanto concede in accoglimento dell'istanza, ma anche a quel che nega. 4. L'ordinanza ingiuntiva L’art. 186-ter c.p.c. disciplina l’ordinanza ingiuntiva: si tratta di un'ordinanza anticipatoria che trasporta nel procedimento ordinario di cognizione, l'esigenza della pronta condanna del debitore soddisfatta in via generale dalla concessione del decreto ingiuntivo. L'ordinanza ingiuntiva può essere richiesta dal creditore di una somma liquida di danaro o della consegna di una certa quantità di cose fungibili o di una cosa mobile determinata. L'istanza può presentarsi fino al momento della precisazione delle conclusioni: dopo tale precisazione, il processo è ormai avviato verso il suo naturale epilogo e non c'è più ragione per questo tipo di anticipazione. Parte legittimata a richiedere l'ordinanza sarà normalmente l'attore, ma potrebbe talora essere il convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale con cui abbia chiesto il pagamento di somma di danaro o la consegna di bene mobile. L'istanza può anche essere proposta fuori udienza, ma in questo caso il giudice ordina la comparizione delle parti allo scopo di assicurare il contraddittorio su di essa. L'ordinanza può essere concessa se l'istante fornisce la "prova scritta" del diritto fatto valere. Può considerarsi prova scritta, ai fini specifici della emissione dell'ordinanza ingiuntiva anche un documento che, secondo la più rigida disciplina del codice civile, potrebbe non essere idoneo a fungere da prova scritta. Sono prove scritte idonee a giustificare la pronuncia dell'ordinanza ingiuntiva “le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile". Per i crediti relativi alla somministrazione di merci e di denaro, per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano un'attività commerciale "sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili purché bollate e vidimate nelle forme di legge”. L'ordinanza ingiuntiva regola le spese: essa deve contenere i provvedimenti previsti, cioè la liquidazione delle spese, delle competenze e la relativa ingiunzione di pagamento. Come l'ordinanza di condanna a somme non contestate, l'ordinanza ingiuntiva è instabile nel corso del processo perché è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili, ma si stabilizza in seguito all'eventuale estinzione del processo. 4.1. La provvisoria esecutività L'ordinanza “è dichiarata provvisoriamente esecutiva” in presenza di determinati presupposti. L’art. 186-ter co. 2 stabilisce che l'ordinanza è provvisoriamente esecutiva qualora ricorrano i presupposti dell'art. 642 c.p.c., cioè: - quando il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, atto ricevuto dal notaio ecc → il giudice, su istanza del ricorrente, ingiunge al debitore di pagare o consegnare senza dilazione, autorizzando in mancanza l'esecuzione provvisoria del decreto e fissando il termine ai soli effetti dell'opposizione; - quando si riscontri un grave pregiudizio nel ritardo → si esprime l'esigenza di non rinviare l'esecutività del provvedimento anticipatoria ai tempi normali del giudizio, perché si potrebbe vanificare l'esigenza di tutela immediata del creditore; - quando la produzione, da parte del ricorrente, di “documentazione sottoscritta dal debitore è comprovante il diritto fatto valere” → qui si ha una scrittura privata a contenuto confessorio e perciò idonea a giustificare un'immediata esecutività dell'ordinanza. Ulteriore ipotesi di provvisoria esecutività prevista dall'art. 186-ter co. 2 richiama la sussistenza dei presupposti dell’art. 648 c.p.c. - tale articolo stabilisce che il decreto ingiuntivo non dichiarato provvisoriamente esecutivo al momento della sua concessione, può trasformarsi in provvedimento esecutivo in seguito all'opposizione dell'ingiunto che, pur contestando il decreto, non opponga la prova scritta dell'insussistenza del debito che consenta la revoca del decreto ingiuntivo. Questa disciplina va letta nel senso che l'ordinanza di ingiunzione può essere munita della provvisoria esecutività se la parte contro cui è stata richiesta si è costituita, e pur difendendosi, non ha opposto prove scritte. La provvisoria esecutività non può essere disposta ove la controparte abbia disconosciuto la scrittura privata prodotta contro di lei o abbia proposto querela di falso contro l'atto pubblico: in questi casi la legge vuole che venga negata a priori la concessione della provvisoria esecuzione. 4.2. L'ordinanza nei confronti del contumace Quando è pronunciata nei confronti del contumace, l'ordinanza dà luogo ad un procedimento particolare, ricalcato sul procedimento di ingiunzione. L’art. 186-ter co. 5 stabilisce che “se la parte contro cui è pronunciata l'ingiunzione è contumace, l'ordinanza deve essere notificata al contumace”. L'ingiunzione mira a provocare la reazione del contumace, che viene trattato come il debitore ingiunto: a quest'ultimo vanno notificato il decreto ingiuntivo in modo da poterne provocare l'eventuale opposizione; allo stesso modo il contumace è invitato a costituirsi. Inoltre, l'ordinanza deve contenere l'espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca, diverrà esecutiva ai sensi dell'art. 647 c.p.c.”. L’art. 647 c.p.c. spiega il significato dell'espressione “diventare esecutivo”: l'ordinanza verrà ammonita degli effetti del decreto ingiuntivo non opposto. Il contumace, una volta avvisato, potrà scegliere di non costituirsi, ma in tal caso non potrà più contestare in futuro il contenuto dell'ordinanza e dovrà legittimamente subire l'esecuzione forzata. CAPITOLO 24 – LE ORDINANZE DI RIGETTO E DI ACCOGLIMENTO 1. Gli articoli 183-ter e 183-quater Le ordinanze anticipatorie degli artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater hanno vocazione a decidere del diritto dedotto in giudizio; esse danno luogo a condanne che presuppongono l’esistenza del diritto, proiettandosi sul rapporto sostanziale, conformandolo per il futuro. L’ordinanza dell’art. 183-ter c.p.c. chiude il processo accogliendo la domanda , ma si caratterizza per il fatto di limitarsi a fornire all’attore un titolo esecutivo immediatamente spendibile, senza dar luogo ad accertamento del diritto idoneo al passaggio in giudicato. L’ordinanza gemella dell’art. 186-quater definisce il giudizio con un rigetto della domanda, senza però decidere in alcun modo del diritto preteso e dell’azione esercitata. Con essa il giudice dismette la causa sulla base di una prognosi di accoglibilità della domanda per sua manifesta infondatezza o per nullità non sanata dell’atto introduttivo. Gli artt. 183-ter e 186-quater presentano forti simmetrie e mostrano che ambedue le ordinanze sono state concepite come scorciatoia per la definizione de giudizio. 2. L’ordinanza di rigetto della domanda All’esito dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. è possibile che si abbia un rigetto accelerato della domanda pronunciato in forma dell’ordinanza. Nelle controversie sui diritti disponibili davanti al tribunale, il giudice può pronunciare ordinanza di rigetto della domanda “quando questa è manifestamente infondata” o in presenza di nullità dell’editio actionis non sanate. Al convenuto viene offerta una scorciatoia volta a sancire subito la chiusura del processo. L’ordinanza è pronunciabile solo su istanza di parte, restando escluso che il giudice possa ricorrervi d’ufficio. L’ordinanza che accoglie l’istanza è reclamabile. Il richiamo al solo accoglimento consente di concludere che non è reclamabile l’ordinanza che eventualmente non accolga l’istanza di rigetto. L’ordinanza di rigetto non reclamata o confermata perché il reclamo è respinto “definisce il giudizio e non è impugnabile”. Dalla definizione del procedimento consegue l'obbligo del giudice di liquidare le spese di lite. L'ordinanza non acquista efficacia di giudicato, né la sua autorità può essere invocata in altri processi: essa si limita a chiudere il procedimento senza consumare l'azione, che pertanto resta riproponibile in futuro. La riproposizione della domanda esclude che il nuovo giudizio possa considerarsi una continuazione della fase precedente. Il reclamo proposto contro l'ordinanza potrebbe essere accolto, con cancellazione del rigetto: in tal caso il giudizio deve andare avanti sicché il giudizio prosegue davanti a un magistrato diverso da quello che ha emesso l'ordinanza reclamata. 3. L'ordinanza di accoglimento della domanda L'ordinanza di accoglimento della domanda è pronunciabile solo su istanza di parte, con esclusione dell'iniziativa d'ufficio. Nelle controversie sui diritti disponibili davanti al tribunale, nel corso della fase di primo grado, il giudice può pronunciare ordinanza di accoglimento della domanda “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate”. L'ordinanza di accoglimento trova la sua utilità nell'essere immediatamente esecutiva e di permettere al creditore di iniziare l'esecuzione forzata in caso di renitenza del debitore; essa si risolve in un provvedimento di condanna idoneo a valere da titolo per l'esecuzione forzata. L'ordinanza definisce il giudizio ma non può considerarsi una decisione della controversia: in tal caso si distingue dalle ordinanze anticipatorie perché non accetta il diritto ma si limita ad offrire un titolo esecutivo alla parte che tale diritto afferma. L'ordinanza di accoglimento non acquista efficacia di giudicato, né la sua autorità può essere invocata in altri processi: essa si limita a chiudere il procedimento senza impedire che l'originario convenuto possa in futuro agire per domandare l'accertamento negativo delle pretese fatte valere contro di esso. Quando il reclamo proposto contro l'ordinanza di accoglimento sia stato accolto: il giudizio prosegue davanti a un magistrato diverso da quello che ha emesso l'ordinanza reclamata. Però, se una prima quantificazione è stata già raggiunta, il giudice “con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte” può condannare il debitore al pagamento di ciò per cui si è raggiunta la prova: questa condanna a pagare è chiamata provvisionale e il giudice la può concedere “nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. In passato il termine “provvisionale” aveva fatto ritenere che il provvedimento avesse carattere provvisorio e che costituisse un’anticipazione che non produceva preclusione e non vincolava il giudizio successivo. Oggi la giurisprudenza tende a ritenere che dal provvedimento discenda accertamento del diritto con suo passaggio in giudicato in mancanza di specifica impugnazione. CAPITOLO 26 – IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO 1. Il processo con più parti Le sentenze svolgono effetti nei confronti delle parti: “l'accertamento contenuto nella sentenza passato in giudicato, ha efficacia tra le parti, i loro eredi e aventi causa” (art. 2909 c.c.). Si tratta di una norma fondamentale che restringe l'ambito soggettivo dell'efficacia della sentenza: se essa non ci fosse saremmo forse autorizzati a pensare che la sentenza ha efficacia per tutti. Questo è il riflesso del principio del contraddittorio: la sentenza non può nuocere a chi non è parte. Da un tale sbarramento soggettivo sorge l'esigenza che quando la sentenza deve avere effetti nei confronti di soggetti terzi rispetto all'attore ed al convenuto, è necessario che questi o agiscano nel processo o vi siano chiamati: solo in questo modo la sentenza potrà avere effetti nei loro confronti. L'ingresso di altre parti nel processo può avvenire in vario modo. Un singolo attore può agire contro più convenuti. Più attori possono agire congiuntamente. Un terzo può inserirsi spontaneamente nel processo in corso tra altri soggetti o essere chiamato a partecipare. Ci sono dei casi in cui il processo non può svolgersi se non in un numero maggiore di parti, poiché la sentenza deve necessariamente pronunciare anche nei confronti di soggetti terzi (litisconsorzio necessario). 2. Il cumulo soggettivo dal lato passivo L’art. 33 c.p.c. (Cumulo soggettivo) è l’ipotesi dell’attore che propone più domande contro più convenuti. Le cause contro più persone che dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi “se sono connesse per l’oggetto o per il titolo, possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o di domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo”. Dunque, più convenuti possono essere trascinati da un unico attore nello stesso processo, se c’è connessione. 3. Il litisconsorzio facoltativo L’art. 103 c.p.c. (litisconsorzio facoltativo): “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo, oppure la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni”. La norma disciplina sul piano generale il cumulo di domande dell’art. 33 c.p.c. quando esso coinvolge una pluralità di soggetti. Sul presupposto della loro reciproca connessione, più cause tra più soggetti possono essere congiuntamente trattate in un unico processo per essere decise in un'unica sentenza. La loro concentrazione in un unico processo è meramente facoltativa; tuttavia, può rivelarsi utile per esigenze di economia di attività ma soprattutto perché la trattazione unitaria garantisce anche la coerenza giuridica delle decisioni. Il fenomeno del litisconsorzio facoltativo è essenzialmente quello di una pluralità di controversie, cumulate tra loro in un unico rapporto processuale. La legge fa dipendere la possibilità di cumulo dalla reciproca connessione delle cause riunite. Ferma l'esigenza della connessione: - più attori potranno agire contro uno o più convenuti, oppure - un singolo attore potrà proporre più domande contro più convenuti. Esempio di obbligazione dal lato passivo: l'ipotesi di un creditore che agisca contro più debitori solidali: ognuno dei coobbligati può essere convenuto separatamente per essere condannato al pagamento dell'intero però, nei processi in cui si accerta l'obbligazione solidale e si chiede la condanna al pagamento dell'obbligazione non è necessario che tutti i creditori o debitori solidali siano presenti. Non c'è alcun obbligo di litisconsorzio, di pluralità di parti, perché ognuno può stare in giudizio per sé stesso. Esempio di obbligazione dal lato attivo: mantenendoci nell'ambito delle obbligazioni solidali osserviamo il fenomeno della contitolarità attiva = più creditori solidali che agiscono contro un solo debitore. Anche qui c'è un cumulo di domande perché ognuno degli attori propone autonomamente domanda per l'intero; la citazione è un atto unico contenente più domande. La possibilità di litisconsorzio “quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni” si tratta del fenomeno della connessione impropria, cioè tra le domande non c'è una vera e propria connessione ma, ciò nonostante, c'è interesse ad una decisione unitaria, perché la soluzione di un un'unica questione pregiudiziale finisce per condizionare la decisione di più cause. Es: la questione dell'interpretazione di una clausola del contratto di franchising che una certa azienda utilizza per regolare i rapporti con tutti i suoi vari affiliati = la questione si riflette su tutti i contratti individuali di franchising e la soluzione in un senso o nell'altro condiziona l'esito di più possibili controversie. Il codice non disciplina lo svolgimento del processo nel litisconsorzio facoltativo, però possiamo far riferimento a due principi: - unità formale del procedimento; - indipendenza sostanziale delle cause cumulate. Dalla mera facoltatività del cumulo di cause si ricava anche che le cause riunite in un certo momento possono separarsi tra di loro. Proprio perché il litisconsorzio è facoltativo e dipende da una scelta delle parti non imposta dalla legge, il giudice può disporre nel corso dell'istruzione “la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti, o quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe il processo”. È consentita non solo la separazione della trattazione delle domande all'interno dello stesso processo, ma anche la separazione dei processi. La separazione non è concepibile nelle ipotesi di litisconsorzio facoltativo quando ad una pluralità di parti non corrisponde una pluralità di cause: questo è il caso in cui il processo con più parti ha ad oggetto un giudizio unitario e non più cause cumulate tra loro. L’art. 103 c.p.c. contempla una pluralità di parti presente fin dall'origine: è però, possibile che la pluralità di parti si realizzi in un momento successivo. Ciò avviene per i fenomeni di intervento di terzi: il terzo interessato, a che la sentenza logo coinvolga o ad impedire che lo danneggi, può partecipare al processo. Per farlo può scegliere: - l'intervento volontario (art. 105 c.p.c.) - può entrare in un processo in corso attraverso la sua chiamata in causa per iniziativa di una delle parti (art. 106 c.p.c.) - può essere chiamato ad intervenire su ordine del giudice (art. 107 c.p.c.). CAPITOLO 27 – (SEGUE) IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO 1. Gli interventi. Intervento volontario: intervento principale e litisconsortile L’art. 105 co. 1 c.p.c. prevede che ciascuno possa “intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo”. Di norma il terzo è tutelato proprio dal suo essere terzo rispetto al processo che si svolge tra altri: quando però ritiene che la sentenza possa interferire con un proprio diritto che in qualche modo è correlato all'oggetto del processo in corso o è dipendente dal titolo dedotto in causa dall'attore, la legge gli consente di far valere tale diritto in via preventiva cioè intervenendo nel procedimento di formazione della sentenza. Alcuni esempi:  Intervento principale → venuto a conoscenza di un processo di rivendica intercorrente tra Tizio e Caio, Sempronio decide di interloquire nella controversia al fine di ottenere una sentenza in cui il giudice accerti che egli è il proprietario, e che quindi il convenuto Caio deve restituire a lui (invece che a Tizio). Sempronio chiede di accertare un proprio diritto, e tale diritto si presenta come: a) diritto relativo all'oggetto del processo in corso b) diritto in confronto di tutte le parti Sempronio assumerà che il proprio titolo di proprietà deve legittimamente prevalere su quello vantato da Tizio. A seguito dell'intervento in esame, il processo vedrà ampliata la materia del contendere: all'oggetto originario si aggiungerà la seconda, proposta dal terzo nei confronti di ambedue le parti, onde il giudice dovrà decidere in via principale anche di essa. Però, se sempronio avesse effettivamente un diritto prevalente, egli non perderebbe il proprio diritto di fronte alla sentenza che riconosci il diritto di Tizio nei confronti di Caio. Non intervenendo in giudizio questa sentenza non gli sarebbe opponibile (= egli potrebbe provare di essere l'effettivo proprietario, malgrado la sentenza a favore di Tizio). A ben guardare Sempronio può subire pregiudizio anche da un titolo formalmente inopponibile. E il pregiudizio può rivelarsi di grado diverso. I piccoli o grandi inconvenienti possono essere evitati intervenendo nella causa in corso: così facendo Sempronio gioca d'anticipo ed elimina all'origine possibili problemi pratici generati dalla connessione tra il proprio diritto ed il rapporto giuridico oggetto di giudizio.  Intervento litisconsortile → è previsto anche il caso del terzo che interviene in confronto di alcune delle parti. L'interventore si schiera a fianco di una delle parti contro l'altra: per es. nel processo in cui l'acquirente di un appartamento conviene in giudizio il venditore assumendo un inadempimento di obbligazioni relative a parti comuni dell'edificio; un altro acquirente di un altro appartamento nello stesso edificio interviene lamentando l'inadempimento della stessa obbligazione nei propri confronti. Egli si schiera a fianco dell'attore, cumulando la propria domanda a quella originaria. In questi casi il diritto del terzo appare dipendente dal titolo dedotto nel processo. Si tratta di un intervento adesivo (perché il terzo affianca una delle parti contro l'altra) ed autonomo (perché il terzo chiede che tale situazione soggettiva sia specifico oggetto di giudizio). Per quel che riguarda il regime processuale degli interventi volontari va detto che il terzo si costituisce depositando telematicamente una propria comparsa e allegandovi procura e documenti. Il cancelliere dà notizia dell'intervento alle altre parti costituite. Quanto ai termini per l'intervento, l’art. 268 c.p.c. prescrive che gli interventi possono avere luogo sino al momento in cui il giudice fissa l'udienza di rimessione della causa in decisione. 1.1. Intervento adesivo dipendente Il co. 2 dell’art. 105 c.p.c. consente l'intervento del terzo che, in luogo di sottoporre a giudizio un proprio diritto, intende sostenere le ragioni di una delle parti , avendo oggettivamente interesse a fornire tale sostegno. Si tratta di un intervento che viene detto adesivo dipendente in quanto si limita a rafforzare le ragioni di accoglimento o di rigetto della domanda originaria. CAPITOLO 28 – (SEGUE) IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO 1. Il litisconsorzio necessario Passiamo ai casi in cui il processo deve svolgersi necessariamente nei confronti di più parti rispetto al numero minimo di due. Si tratta di casi in cui la sentenza non può essere pronunciata che nei confronti di più parti o perché lo prescrive la legge o perché il rapporto giuridico oggetto di giudizio è plurilaterale e richiede di essere conosciuto e deciso nei confronti di tutte le parti. È il fenomeno del litisconsorzio necessario regolato dall’art. 102 c.p.c.. Premessa: la sentenza fa stato solo per i soggetti nei confronti dei quali essa pronuncia, il che significa che potrà essere ridiscussa da coloro che non sono in essa indicati quali parti. Sappiamo che per poter essere destinatari della sentenza, bisogna prima essere stati parti del processo stesso: la sentenza non può disporre nei confronti di soggetti estranei al processo. Per cui quando sorge l'esistenza di pronunciare nei confronti di più parti, “queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo”. Il co. 2 regola lo svolgimento del processo a litisconsorzio necessario: dovendosi decidere nei confronti di più parti in un processo promosso solo da alcune o contro alcune di queste, il “giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito”. 2. I presupposti L’art. 102 c.p.c. non dice quali sono i casi in cui la sentenza deve pronunciare nei confronti di più parti ma enuncia il dovere del giudice e gli oneri delle parti in presenza di litisconsorzio necessario; lascia all'interprete il compito di determinare quando si è in presenza di questa situazione. Per un primo gruppo di casi la risposta al quesito è semplice: quando è la legge a dire che più parti devono partecipare al processo, l'art. 102 c.p.c. funge da norma di applicazione processuale degli articoli che impongono la pluralità di parti (previsioni legali). Esempio: in tema di status personale, l’art. 247 c.c. ed in tema di scioglimento di comunione l’art. 784 c.p.c.. Questi due casi sono rapporti sostanziali plurilaterali che non possono essere frammentati in più processi ma devono essere trattati unitariamente. Se indaghiamo sulla ratio che presiede gli artt. 247 c.c. e 784 c.p.c. troviamo un solido aiuto per elaborare la regola nel silenzio della legge: se l'obbligo di litisconsorzio fosse limitato solo alle norme che espressamente lo prevedono, il problema sarebbe risolto in partenza. Ma talvolta si impone l'applicazione dell'istituto indipendentemente dalla previsione legislativa: ciò accade quando il rapporto non solo è plurilaterale, ma la plurilateralità non è scindibile in più rapporti bilaterali. Prendiamo il caso dell'art. 784 c.p.c.: il rapporto sostanziale dedotto nel giudizio è un rapporto di comunione che ha ad oggetto lo scioglimento della comunione in più diritti di proprietà individuali ed esclusivi. Se la comunione intercorre tra 3 comproprietari, il suo scioglimento non potrà aversi se non contestualmente nei confronti di tutti e 3. La soluzione, dunque, quella di rendere obbligatorio il giudizio di divisione nei confronti di tutti (o tutti o nessuno). Se l'accoglimento della domanda può regolare la posizione delle parti in causa senza necessità di coinvolgere la posizione del terzo, il litisconsorzio non è necessario e la sentenza potrà essere legittimamente resa tra le sole due parti in causa ≠ se viceversa la sentenza resa esclusivamente tra attore e convenuto non potrà correttamente regolare il rapporto giuridico dedotto in giudizio, scatterà la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti delle parti che non sono presenti in quel momento in quel processo. 3. Rimedi al difetto di contraddittorio Il co. 2 dell'art. 102 c.p.c. prescrive il da farsi in caso di processo intercorrente tra alcune sole delle più parti: “se il processo è promosso contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito”. Il giudice deve render possibile che la parte ancora estranea al processo diventi parte effettiva di esso affinché la sentenza possa essere pronunciata anche nei suoi confronti. Il giudice ordinerà alle parti di chiamare in giudizio il terzo per l'integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio. Entro questo termine, il terzo potrà essere citato in giudizio dalla parte interessata e presente nel processo. Il mancato rispetto del termine, proprio perché il processo non può concludersi con una sentenza che non tenga conto della posizione del terzo, produce un effetto estintivo del processo. Se nessuno si accorge che si versa in un caso di litisconsorzio necessario, si arriverà ad una sentenza che, non pronunciando nei confronti di tutte le parti necessarie, resta affetta da un grave vizio. Un vizio tale che porta a ritenere che la sentenza non possa acquistare definitività e di conseguenza può essere sempre rimessa in discussione. L'estrema gravità del vizio ha giustificato una pluralità di rimedi del tutto eccezionali rispetto al sistema: il litisconsorte necessario pretermesso può appellare la sentenza al pari delle parti che hanno preso parte al processo. Inoltre, la questione della mancata integrazione del contraddittorio acquista rilevanza in appello ed in Cassazione: il giudice d'appello quando riscontra la mancata integrazione del contraddittorio, deve annullare la sentenza e rimettere la causa allo stesso giudice che avrebbe dovuto ordinare l'integrazione del contraddittorio. CAPITOLO 29 – IL VENIR MENO DI UNA PARTE E LA SUCCESSIONE NEL DIRITTO CONTROVERSO 1. Art. 110. Il venir meno della parte L’art. 110 c.p.c. regola il caso della scomparsa di una parte nel corso del processo stabilendo che il processo prosegue con il suo successore a titolo universale. L'evento considerato è quello per cui uno dei soggetti del giudizio viene a mancare durante la pendenza di questo. La cosa può avvenire per: - morte della persona fisica - estinzione della persona giuridica. La morte è l'unico evento rilevante per la persona fisica. Quanto all'estinzione della persona giuridica, essa va considerata secondo le regole di diritto sostanziale che presiedono a tale evento; in particolare per le società rileva la trasformazione di società e la scissione con trasferimento dell'intero patrimonio, diversamente non dà luogo all'applicazione dell'art. 110 c.p.c. la fusione di società. Il problema che la scomparsa di una parte pone all’ordinamento è quello di evitare che il processo si debba chiudere con un nulla di fatto: occorre poter proseguire il giudizio e ristabilire l'essenziale bilateralità soggettiva del processo. La soluzione della legge è quella di far subentrare alla parte venuta meno il suo successore a titolo universale (cioè l'erede). Se gli eredi sono di più tutti debbono proseguire o essere coinvolti: in questo caso il giudice ha l'obbligo di ordinare l'integrazione del contraddittorio da o nei confronti di alcuni solo dei successori. La modalità procedurale che permette di ristabilire il contraddittorio con il successore è quella della interruzione del processo e della sua riassunzione o prosecuzione da parte o nei confronti del successore. Quindi, il processo continua con il successore al posto della parte originaria. 2. Art. 111. Scissione tra successione a titolo universale e successione a titolo particolare nel diritto controverso La morte della persona comporta che il processo sia proseguito dal successore universale o in suo confronto. Questa successione dell'erede nel rapporto processuale si ha non solo quando l'erede è succeduto anche nel diritto controverso ma, anche se nel diritto controverso è succeduto un altro soggetto. Infatti, è possibile che il rapporto controverso non sia finito nel patrimonio del successore universale ma sia pervenuto a titolo di legato (dunque a titolo particolare) ad un altro soggetto. La legge deve risolvere due distinti problemi: 1) l'individuazione delle parti tra le quali deve proseguire il processo; 2) l'efficacia soggettiva della sentenza. Il primo problema è risolto individuando nel successore universale la parte che continua il processo e nei cui confronti dovrà pronunciare la sentenza di merito. Se questo successore universale coincide anche con la parte che succede nel rapporto sostanziale controverso, il secondo problema è risolto automaticamente poiché la sentenza avrà efficacia sostanziale anche per lui. Se, invece, il successore universale non coincide con la parte che succede nel rapporto sostanziale controverso, il secondo problema assume rilievo e viene risolto attraverso una estensione degli effetti della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare. 2.1. La successione a titolo particolare nel diritto controverso per atto tra vivi Cosa succede se una delle parti dispone con atto tra vivi del diritto controverso trasferendolo ad un terzo in corso di causa? Premesso che il processo non si estingue per il compimento di tali atti, i problemi che si sviluppano sono 3: 1) tra quali parti deve continuare il processo, visto che una delle due parti non si prospetta più come titolare del diritto vantato o dell'obbligo imputato in domanda? → il co. 1 dell'art. 111 c.p.c. sancisce: “se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie” = una volta iniziato il processo da esso non si esce né alienando né disponendo del rapporto giuridico in contesa. 2) su che cosa deve giudicare il giudice: sul rapporto giuridico sostanziale considerato al momento della domanda oppure sul rapporto giuridico sostanziale come si configura successivamente all'atto di disposizione? → l'atto di trasmissione del diritto controverso non è rilevante per la decisione del giudice; quest'ultimo deve decidere come se la cosa non fosse accaduta e deve valutare lo stato di diritto e di fatto anteriore all'evento successorio (teoria dell'irrilevanza). 3) nei confronti di quali soggetti la sentenza deve esercitare i suoi effetti? Nei confronti della parte originaria oppure nei confronti dell'avente causa? → questo problema è risolto con l'estensione di tali effetti contro il successore a titolo particolare. 2.2. La posizione del successore a titolo particolare ed il principio del contraddittorio La disciplina esaminata mira ad evitare che spostamenti di titolarità del diritto intervenuti nel corso del processo possano danneggiare le parti; ciò si comprende in particolare per l'attore che altrimenti, di fronte all'atto di disposizione del convenuto, dovrebbe abbandonare il processo nei confronti di questi per mettersi all'inseguimento del successore proponendo nuova domanda contro di esso. La preminenza di tale scopo fa sì che la sentenza debba poter essere immediatamente opponibile all'acquirente indipendentemente dalla sua partecipazione al giudizio. Per evitare l'inconveniente, il codice avrebbe potuto ricorrere alla sanzione della nullità per gli atti di disposizione del diritto controverso (divieto di alienazione della res litigiosa), ma la sanzione è da tempo considerata sovrabbondante rispetto al fine. Infatti, la soluzione adottata dall'ordinamento italiano è quella dell’ inopponibilità (cioè inefficacia relativa) dell'acquisto alla parte che sarebbe danneggiata dall'atto di disposizione. Dunque, l'atto è valido ma colui che subentra nel diritto non può far valere il suo titolo successorio nei confronti della controparte del suo dante causa. Se è vero che il processo può svolgersi senza l'obbligatoria partecipazione del successore nel diritto controverso, è anche vero che egli può sempre far valere le sue ragioni intervenendo volontariamente nel processo in corso o impugnando la sentenza sfavorevole al suo dante causa. Intervenendo o impugnando la sentenza il successore si trasforma in parte formale del processo: da quel momento sarà protagonista diretto della vicenda processuale ed i successivi provvedimenti giudiziali pronunceranno nominativamente nei suoi confronti. Con il suo intervento il successore a titolo particolare si schiererà a fianco del suo dante causa: se quest'ultimo vincesse, l’avente causa non avrebbe nulla da temere, essendo valido l'atto traslativo e non venendo riconosciuti i diritti altrui contrastanti con il diritto acquistato in corso di causa. Il successore a titolo particolare non può subire i limiti che la giurisprudenza impone a chi interviene (art. 105): basti pensare che il potere di impugnare la sentenza è garantito al successore a titolo particolare dalla legge stessa. L’acquisto della qualità di parte in capo all'avente causa-successore a titolo particolare, rende possibile un ulteriore sviluppo: “se le altre parti vi consentono” l'alienante o il successore universale può domandare la sua estromissione dal processo. L'estromissione è l'uscita di una parte dal procedimento (non nel senso del suo totale estraniamento da tutti i possibili effetti del processo) rispetto alla sua partecipazione attiva agli sviluppi della vicenda processuale. 3. Le eccezioni all'efficacia della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare Alla regola dell'efficacia della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare, la legge pone alcune eccezioni. Accade talvolta che il meccanismo della trasmissione del diritto controversi presenti caratteri tali da svincolare l'acquisto pendente lite dalla situazione precedente, fino al punto di renderlo impermeabile agli esiti della vicenda processuale. Due sono le eccezioni previste al co. 4 dell'art. 111 c.p.c.: - la salvezza delle norme sull’acquisto in buona fede dei mobili → si rinvia all’art. 1153 c.c. (co. 1: Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà) in base al quale gli acquisti (del terzo in corso di causa) sono inopponibili al vincitore del processo in quanto siano realmente a titolo derivativo. Quando l'acquisto del diritto controverso è solo apparentemente a titolo derivativo, perché in realtà è a titolo originario, viene meno la regola per cui su di esso prevale il riconoscimento giudiziale del diritto a favore della controparte del dante causa. Il terzo avente causa che in buona fede riceve il possesso materiale del bene fa salvo il suo acquisto perché l'art. 1153 co. 2 (“la proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa”) gli conferisce un titolo di acquisto impermeabile alle vicende dei precedenti titolari. - la salvezza delle norme sulla trascrizione delle domande giudiziali → l’art. 2643 c.c. onera della formalità della trascrizione di varie categorie di atti dispositivi riguardanti la proprietà su beni immobili. La mancata trascrizione degli atti ivi contemplati rende inopponibile l'atto ai terzi che abbiano trascritto un proprio titolo sullo stesso bene; c.p.c. con una di competenza del tribunale, egli deve pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore di quest'ultimo. 3. Il cumulo soggettivo L’art. 33 c.p.c. regola il cumulo soggettivo, si tratta dell'ipotesi in cui: - più domande; - ognuna rivolta contro un soggetto diverso, e che - per ragioni di competenza territoriale dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi ma, possono venir cumulativamente proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di uno dei soggetti per essere decise nello stesso processo. Questo può accadere se le domande sono connesse per l'oggetto o per il titolo. Es: la ditta rompighiaccio agisce per concorrenza sleale contro la ditta trita ghiaccio (con sede a Cologno Monzese) e contro il concorrente nell'illecito sig. Frigo che risiede a Frascati, essa potrà tranquillamente citare ambedue presso il Tribunale di Monza, affinché quest'ultimo decida insieme delle due domande. La giurisprudenza ritiene inapplicabile la deroga della competenza prevista dall'art. 33 nel caso del convenuto fittizio, cioè nelle ipotesi in cui l'attore allarghi il giudizio nei confronti di un convenuto che non ha nulla a che fare con la controversia, ma che fa comodo chiamare in causa perché, risiedendo altrove, consente di radicare la causa in un altro foro. La norma si presterebbe a fungere da espediente per spostare la competenza e sottrarre la causa al giudice naturale sgradito. La teoria del convenuto fittizio impone che il convenuto, la cui presenza in causa permette lo spostamento di competenza, debba essere un soggetto nei cui confronti sussiste un effettivo interesse ad agire. 4. Accertamento incidentale e disciplina della questione pregiudiziale Posto sotto la rubrica “accertamenti incidentali” l'art. 34 c.p.c. prevede una deroga alla disciplina della competenza quando il giudice deve compiere un accertamento incidentale, cioè deve decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale sorta nel corso del processo. L'ipotesi è che la legge o un'esplicita domanda di parte sopravvenuta in corso di causa, impongano al giudice di “decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore”. Dalla causa oggetto dell'originaria domanda, sorge una seconda causa che, dovendo essere decisa con efficacia di giudicato, richiede una pronuncia del giudice competente: il giudice investito della causa principale potrebbe essere incompetente a decidere della nuova causa pregiudiziale. Una questione ricompresa nell'ambito della cognizione del giudice, in quanto giuridicamente pregiudiziale al thema decidendi, può assumere una sua autonomia decisionale, dando luogo ad una causa distinta da quella originaria. Il giudice deve occuparsi di eccezioni che impongono di sciogliere questioni di natura pregiudiziale rispetto all'oggetto della domanda: si tratta per lo più di questioni vertenti sui rapporti giuridici la cui esistenza/inesistenza/conformazione costituisce un antecedente dell'accertamento del diritto azionato. Tali questioni sono conosciute al limitato fine di decidere del diritto oggetto della domanda (= incidenter tantum). Talora però, accade che della questione pregiudiziale il giudice non possa limitarsi a conoscere i soli fini della decisione della domanda, perché: - una parte richiede che di essa si decida con efficacia di giudicato o, - la legge stessa ne impone la trattazione come causa autonoma. L'esempio tipico di causa pregiudiziale imposta dalla legge è quello secondo cui, se nel corso di una causa di impugnazione del matrimonio, sorge una questione di nullità di precedente matrimoniale, tale questione non può essere affrontata incidentalmente ma deve formare oggetto di un provvedimento che accerti il valore giuridico del precedente matrimonio. !) La trattazione della causa sul primo matrimonio può aversi solo se si integri il contraddittorio con il precedente coniuge. L'esempio mostra come, dalla trattazione di una causa originariamente ad un unico oggetto (giudizio sul matrimonio X) scaturisca una seconda causa con un suo oggetto (giudizio sul precedente matrimonio Y) e quest'ultima si cumuli alla precedente, onde un processo originariamente semplice si trasforma in un processo oggettivamente cumulato. Oltre all'accertamento con efficacia di giudicato imposto dalla legge, simmetrico accertamento può aversi su domanda di parte. L'art. 34 c.p.c. prevede che una delle parti possa chiedere che la questione pregiudiziale, sorta dalla trattazione della causa, non sia solo strumentalmente esaminata ma, sia decisa in via di autonomo accertamento. Es: il creditore del de cuius che agisca nei confronti dell'erede per l'integrale soddisfacimento della propria pretesa e che l'erede, asserendo di aver accettato l'eredità con beneficio di inventario eccepisca la limitazione della sua responsabilità. La questione dell'accettazione con beneficio può certamente essere conosciuta (incidenter tantum) ai fini del rigetto della domanda ma, potrebbe anche trasformarsi in oggetto di autonoma domanda per scelta del convenuto che ne abbia interesse: in tal caso si avrà la trasformazione della questione da questione pregiudiziale in causa pregiudiziale. Perché si abbia questa trasformazione, occorre che la domanda formulata in corso di causa possa soddisfare uno specifico interesse della parte. Occorre che l'istante mostri di possedere un interesse effettivo alla decisione con efficacia di giudicato, un interesse che travalichi quello relativo al giudizio in corso. In difetto di tale specifico interesse l'istante non può pretendere di trasformare la questione in una autonoma causa e non può pretendere di imporre tale strada all'attore. L'art. 34 c.p.c. cura altresì che dal meccanismo descritto non derivi una decisione proveniente dal giudice incompetente: il giudice deve verificare la propria competenza per materia e valore, ma anche per territorio inderogabile rispetto alla nuova decisione che deve rendere. Se la causa pregiudiziale supera la propria competenza, egli non potrà decidere e dovrà rimettere tutto il processo al giudice superiore. Nel caso della causa pregiudiziale sul precedente matrimonio, non si avrà mai spostamento verticale (da giudice inferiore a giudice superiore) perché la competenza sulle cause matrimoniali appartiene sempre al tribunale. Potrebbe invece darsi un problema di competenza orizzontale, perché la competenza sulle cause matrimoniali è funzionale e l'attribuzione territoriale risulta inderogabile per ragioni di connessione. Se la competenza sulla nullità del matrimonio precedente spetta ad un altro tribunale, la relativa causa dovrà essere rimessa a quest'ultimo, ma esso non potrà decidere della causa originaria che resterà di fronte al tribunale dove è stata proposta: in tal caso il processo simultaneo non sarà possibile. L'ipotesi del processo simultaneo potrà aversi solo in caso di questione pregiudiziale sorta nel corso di un processo davanti al giudice di pace: se la decisione sulla causa pregiudiziale supera la competenza di quest'ultimo, il giudice di pace dovrà rimettere al tribunale la causa pregiudiziale insieme alla causa originaria e spogliarsi del giudizio. La regola trova un suo limite pratico quando la competenza del giudice di pace sulla causa principale è considerata assolutamente inderogabile (ipotesi dell'opposizione al decreto ingiuntivo). Si vuole evitare che, attraverso il meccanismo della duplice rimessione al giudice superiore tanto della causa incidentale-pregiudiziale quanto della originaria-dipendente, quest'ultima venga sottratta al suo giudice naturale. Quando per esplicita domanda dell'opponente, si debba decidere con efficacia di giudicato di una causa pregiudiziale spettante al tribunale, il giudice di pace dovrà separare le due cause, trattenendo quella di opposizione al decreto, e rimettendo al tribunale competente solo la domanda di accertamento incidentale. 5. L'eccezione di compensazione L’art. 35 c.p.c. tratta del regime processuale dell'eccezione di compensazione, eccezione che introduce nel processo un peculiare fatto estintivo del diritto fatto valere. La compensazione è uno dei modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento: quando due persone sono obbligate l'una verso l'altra i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti. La compensazione è legale se i due debiti hanno per oggetto una somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e sono ugualmente liquidi ed esigibili. La compensazione è giudiziale quando il credito posto in compensazione è agevolmente liquidabile dal giudice. L’eccezione di compensazione deve essere fatta valere dalla parte che vuole servirsene. L’art. 35 c.p.c. si occupa del caso in cui il valore del credito opposto in compensazione supera il valore del credito vantato dall'attore ed in tal caso occorre verificare: - se il convenuto abbia semplicemente usato tale credito per dar luogo ad una mera eccezione di compensazione o - se intenda domandare la differenza proprio favore → in questo caso, chiedendo espressamente la condanna dell'attore al pagamento della differenza, il convenuto formula una contro domanda, che si cumula a quella originaria ed impone al giudice di verificare la propria competenza su di essa. Nel caso invece il convenuto non abbia chiesto condanna dell'attore alla differenza, occorre distinguere: - se l'attore non contesta esistenza ed ammontare del controcredito, con la compensazione si avrà un semplice rigetto della domanda - se l'attore contesta l'esistenza del controcredito → qui il giudice non può decidere secondo il regime ordinario dell'eccezione ma dovrà provvedere ad un accertamento idoneo a fare stato su di esso. A tal fine egli deve verificare la propria competenza. Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, il giudice deve rimettere al giudice competente la causa sul credito opposto e la causa originaria sul credito domandato dall'attore. Può anche verificarsi che il giudice adito debba limitarsi a rimettere al giudice competente solo la causa sul controcredito opposto: questo accade quando la domanda originaria appare fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile. Al giudice investito della decisione sul credito principale è allora concesso di separare le due cause, rimettere al giudice competente la causa sul credito o opposto in compensazione e accogliere la domanda originaria pronunciando condanna del convenuto allo stato degli atti, cioè con riserva dell'esito della causa sul controcredito. L'eccezione di compensazione presenta caratteri peculiari, essa può essere: - satisfattiva del credito della controparte = opera estinguendo gli obblighi contrapposti - onerosa quando il convenuto paga il credito dell'attore con l'estinzione del suo credito. 6. Connessione per riconvenzionalità e modificazione della competenza La domanda riconvenzionale è la contro-domanda del convenuto che non si accontenta di eccepire, cioè di dedurre fatti idonei a produrre il mero rigetto della domanda dell'attore ma, domanda a sua volta un bene della vita, cioè un accertamento a proprio favore di una concreta volontà di legge. Dobbiamo ora dar conto della possibilità che la proposizione di una domanda riconvenzionale e produca spostamenti del processo dal giudice originariamente adito ad un giudice diverso. La regola generale è quella per cui il giudice decide delle cause riconvenzionali ma dall'art. 36 c.p.c. ricaviamo che il requisito della competenza vale anche quando la causa riconvenzionale è connessa a quella principale. Infatti, il giudice della causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, purché non eccedano la sua competenza per materia o valore. Es: il giudice di pace, adito con un'azione di apposizione di termini tra due fondi confinanti, potrà decidere della domanda riconvenzionale con cui il convenuto chiede condanna dell'attore al pagamento di un credito di 1.000 €, ma non potrà decidere la domanda relativa all'azione negatoria servitutis, proposta in via riconvenzionale dal convenuto. Va evitato che, attraverso il meccanismo della rimessione al giudice superiore dell'oggetto della domanda principale e di quello della domanda riconvenzionale, si trasferisca davanti a quest'ultimo una causa che esso non avrebbe mai potuto conoscere. Così, se la causa riconvenzionale è attribuita alla competenza del tribunale, il giudice di pace separerà le due cause, trattenendo davanti a sé la causa di apposizione di termini e rimettendo al tribunale quella relativa alla negatoria servitutis. Quando il credito attributivo della competenza sulla domanda principale ha carattere funzionale, l’ inderogabilità della competenza del giudice adito impedisce che la causa principale possa venir decisa dal diverso giudice competente sulla domanda riconvenzionale. Di fronte alla domanda riconvenzionale che fuoriesce dalla sua competenza, il giudice applica le disposizioni degli artt. 34 e 35 c.p.c.: esso è tenuto a rimettere contemporaneamente la causa originaria e quella riconvenzionale al giudice competente “assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione davanti a lui” (art. 34 c.p.c.); il giudice ha però la possibilità, se la domanda originaria “è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile”, di trattenere quest'ultima per deciderne senza indugio, rimettendo le parti al giudice competente per la sola decisione relativa alla causa riconvenzionale (art. 35 c.p.c.). CAPITOLO 32 – LA DISCIPLINA DELLA LITISPENDENZA E DELLA CONTINENZA 1. La litispendenza Litispendenza è il termine che indica la vigenza di un processo, cioè l'attualità del giudizio. Il codice usa il termine anche per indicare l'evenienza che davanti a due differenti giudici penda la stessa causa. Di fronte a questo accadimento l'ordinamento corre ai ripari perché il principio accolto è quello per cui sulla stessa controversia non può svolgersi più di un solo processo e uno dei due pendenti deve essere neutralizzato. Bisogna quindi chiedersi: a) quando può dirsi che una causa coincide con un'altra contemporaneamente pendente presso un altro giudice b) quale processo deve proseguire e quale processo deve essere chiuso in rito. L'art. 39 c.p.c. detta le regole procedurali per rimediare alla litispendenza, intesa doppia pendenza e risolve il quesito b), ma presuppone che l'interprete abbia già risolto il quesito a), sappia cioè individuare quali sono gli elementi che debbono ricorrere in ambedue i processi per poter parlare di identità di cause. Questi elementi sono 3: - i soggetti → una causa tra Tizio e Caio può essere identica ad un'altra causa tra gli stessi Tizio e Caio, ma non può essere identica ad una causa tra Tizio e Sempronio o tra Sempronio e Caio. Non c'è litispendenza tra due processi se le parti non coincidono, al massimo può esserci connessione. - il petitum (oggetto) → debbono coincidere anche i petita! Non basta che tra le stesse parti sia in gioco la tutela dello stesso diritto, ma occorre che si chieda specificamente un provvedimento del medesimo contenuto. - la causa petendi (titolo) → in generale, si può dire che la domanda X coincide con la domanda Y se, oltre all'oggetto, coincide anche la causa petendi, cioè se quel che si chiede al giudice è domandato allo stesso titolo in ambedue i casi. Individuati gli elementi che debbono ricorrere per potersi parlare di identità di cause, si può passare alla disciplina procedimentale che l'art. 39 dedica alla doppia pendenza della stessa causa davanti a due differenti uffici giudiziari. “Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi” ciò significa che il fenomeno della litispendenza si può avere solo se sono in gioco distinti uffici giudiziari: la proposizione di fronte allo stesso ufficio di due cause identiche impone l'applicazione dell'istituto della riunione interna al medesimo ufficio giudiziario (riunione d'ufficio). se la stessa causa è proposta davanti ai giudici diversi “quello successivamente adito, in qualunque stato, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo” → con questo provvedimento a doppio oggetto, il secondo giudice si spoglia della causa a favore del primo, che resta l'unico giudice investito della controversia. La regola dell'auto eliminazione del secondo processo è imposta inderogabilmente dalla legge. La declaratoria di litispendenza non è soggetta a termini o a preclusioni, potendo aversi in ogni stato e grado, né ha bisogno di apposita eccezione di parte gravando sul giudice il dovere di dichiararla qualora la rilevi. Ma come si determina qual è il giudice preventivamente adito? La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione: preventivamente adito è il giudice del processo la cui citazione sia stata notificata in data anteriore alla 2) un termine non superiore a 30 gg prima dell'udienza per il deposito delle comparse conclusionali; 3) un termine non superiore a 15 gg prima dell'udienza per il deposito delle memorie di replica”. Esaurita l'istruzione, se la causa è ritenuta matura per la decisione senza bisogno di mezzi di prova, il giudice istruttore fissa davanti a se stesso un'udienza con funzione di transizione al collegio. Il decreto di fissazione dell'udienza assegna alle parti una serie di termini contestuali per lo svolgimento delle loro attività propedeutiche alla decisione. 3. La precisazione delle conclusioni nei casi di rimessione al collegio ai sensi dell’art. 187 co. 2 e 3 La rimessione della causa al collegio per la decisione non agisce nei soli casi di esaurimento dell'istruttoria, ma anche in altri due gruppi di ipotesi. Esaminiamo separatamente le due ipotesi. A) Rimessione ai sensi dell'art. 187, co. 2 c.p.c.. Può accadere che l'istruttore si accorga della presenza di una questione di merito avente carattere preliminare ed in grado di definire il giudizio. Qui il giudice istruttore che deve valutare, un’eccezione avente ad oggetto una questione di merito capace di provocare il rigetto della domanda della controparte, se appaia fondata oppure no, e dunque se sia o meno il caso di rimettere le parti al collegio per far decidere la causa. La legge si preoccupa di precisare che la questione deve essere in grado di definire il giudizio: se così non fosse la rimessione in decisione sarebbe inutile, dato che, anche se la questione fosse fondata, la causa non potrebbe comunque essere decisa. Se il giudice istruttore ritiene che la questione sia fondata, fissa l'udienza per la rimessione della causa al collegio e assegna i termini per precisare le conclusioni, ma non esclusivamente in riferimento a quella sola questione, bensì in relazione a tutto l'oggetto del processo. Il collegio è investito della decisione dell'intera causa, anche se la rimessione è stata originata da una questione di merito preliminare. Il collegio, ove ritenesse infondata la questione preliminare, potrebbe lo stesso decidere il merito, se ritenesse che la causa è matura per la decisione. B) Rimessione ai sensi dell'art. 187, co. 3 c.p.c.. L'ipotesi riguarda una questione di rito, quale, ad es., la competenza, la giurisdizione di merito, e l'esistenza di altri presupposti processuali. Anche le pregiudiziali di rito debbono essere, ove se ne riscontri la fondatezza, capaci di provocare l'emissione di una pronuncia (definitiva) che chiude il processo davanti al giudice adito, ma, a differenza delle preliminari di merito, non comportano una pronuncia sul diritto, dato che chiudono il processo con l'affermazione della mancanza di uno dei suoi presupposti indispensabili. In tali casi l'onere delle parti di precisare le conclusioni anche in relazione al merito della controversia in caso di rimessione al collegio è ancora più evidente, perché se il collegio ritiene infondata la questione di rito, ben può entrare nel merito e decidere la causa con sentenza definitiva! Per questa ragione la precisazione delle conclusioni, che le parti hanno l'onere di formulare nelle prime note scritte precedenti all'udienza per la rimessione al collegio, riguarda sempre l'intero merito della causa anche quando il giudice istruttore ha deciso di rimettere la causa in decisione ritenendo fondata una questione pregiudiziale di rito in grado di definire il giudizio. Possiamo concludere che qualunque sia il motivo per il quale l'istruttore decida di rimettere la causa al collegio per la decisione, ai sensi dell'art. 189, la rimessione comporta sempre che il collegio sia investito della decisione di tutta la controversia nel suo complesso. 4. Comparse conclusionali e memorie di replica Al deposito delle note scritte contenenti la precisazione delle conclusioni, fanno seguito il deposito delle comparse conclusionali. Le comparse conclusionali sono scritti difensivi con i quali ciascuna delle parti ha la possibilità di riepilogare, coordinare e svolgere in modo compiuto e argomentato, anche alla luce dei risultati della trattazione e dell'eventuale attività istruttoria, le ragioni di fatto e di diritto che giustificano, a suo avviso, l'accoglimento delle domande o eccezioni che ha formulato. Esse non possono contenere domande od eccezioni nuove rispetto a quelle consentite o richieste istruttorie diverse da quelle consentite. Se tali limiti venissero oltrepassati, il giudice avrebbe l'obbligo di non tener conto delle domande, eccezioni e richieste nuove. Il deposito delle comparse conclusionali è un onere, che la legge collega ad un termine perentorio: se la produzione non avviene nel termine dell'art. I89 n. 2, le comparse non potranno essere esaminate dal giudice. Ciascuna parte può poi rispondere alla comparsa conclusionale altrui con un ulteriore scritto difensivo, l'ultimo del processo: la memoria di replica, che va depositata nel successivo termine previsto dall'art. 189 c.p.c. (almeno 15 gg prima della data dell'udienza per la rimessione). La possibilità di depositare le memorie di replica completa la garanzia del contraddittorio, permettendo di segnalare vizi giuridici o argomentativi della difesa avversaria o di difendersi da tentativi surrettizi di introdurre tesi nuove. 5. La pronuncia della sentenza Veniamo ora alla decisione quale formulazione del giudizio e alla pronuncia della sentenza. L’art. 275 c.p.c. statuisce al co. 1: "rimessa la causa al collegio, la sentenza è depositata in cancelleria entro 60 gg dall'udienza di cui all'art. 189". Il contraddittorio delle parti si è già svolto; il collegio ha quindi tutti gli elementi per decidere. Il co. 2 della norma prevede però anche una possibile variante rispetto al modello appena descritto: "ciascuna delle parti, con la nota di precisazione delle conclusioni, può chiedere, con istanza al presidente del tribunale che la causa sia discussa oralmente davanti al collegio” in tal caso il presidente provvede sulla richiesta revocando l'udienza già fissata e stabilendo "con decreto la data dell'udienza di discussione, da tenersi entro 60 gg" (co. 3). In altre parole, la data originaria dell'udienza di spedizione a sentenza resta punto di riferimento per i termini di deposito della precisazione delle conclusioni e delle comparse conclusionali; non vi sarà più il deposito delle memorie di replica: la possibilità di replica delle parti è demandata alla discussione orale davanti al collegio. 6. Decisione a seguito di discussione orale La fissazione di un'udienza di discussione può essere il frutto dell'esercizio di un potere discrezionale dello stesso giudice istruttore; quest'ultimo “quando ritiene che la causa può essere decisa a seguito di discussione orale”, fissa direttamente davanti al collegio l'udienza. La scelta della modalità orale da parte del giudice non è sindacabile dalle parti, il cui diritto al contraddittorio è garantito dal deposito delle conclusionali scritte e dalla successiva possibilità di replica orale all'udienza. L’art. 275-bis co. 2 c.p.c. detta le modalità dell'udienza: la legge ammette due possibili esiti dell'udienza: - il primo è quello per cui immediatamente il collegio pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; - il secondo esito è espresso dal co. 3: “se non provvede ai sensi del co. 2, il collegio deposita la sentenza nei successivi 60 gg”. La scelta del collegio è insindacabile, ma la modalità orale potrebbe essere vanificata dalla possibilità di tutte le parti costituite di richiedere la sua sostituzione con note scritte che varrebbero pertanto da memorie di replica. In ogni caso, anche l'udienza di discussione davanti al collegio può svolgersi mediante il collegamento audiovisivo. L’art. 276 c.p.c. ci dice che la decisione è deliberata in camera di consiglio, riunione a porte chiuse che segue l'udienza pubblica ed è caratterizzata dal segreto anche nei confronti delle parti, allo scopo di salvaguardare la libertà della decisione. La norma pone il principio dell'immondificabilità del collegio: solo i giudici che hanno assistito alla discussione possono decidere. Nel caso in cui discussione non vi sia, la decisione avviene da parte di uno dei collegi composti dal presidente del tribunale con decreto al principio di ogni trimestre. Si ritiene che la violazione di queste regole sulla formazione dei collegi giudicanti comporti una nullità insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni grado e stato del processo. Tuttavia, se la sentenza affetta da questa nullità non viene impugnata per questo motivo, il vizio non sarà più rilevabile. Dopo la deliberazione, il testo della sentenza viene depositato in cancelleria e ciò equivale a dare pubblicazione alla sentenza: al momento della pubblicazione la sentenza diventa atto ufficiale dello Stato, e non è più modificabile un ritrattabile da parte del giudice, da quel momento decorre il termine lungo per le impugnazioni. CAPITOLO 34 – LA FASE DECISORIA DAVANTI AL TRIBUNALE MONOCRATICO 1. Tribunale collegiale e tribunale monocratico L’art. 48 del testo unico sull'ordinamento giudiziario stabilisce “in materia civile e penale il tribunale giudica in composizione monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione collegiale”. Salve, le disposizioni relative alle sezioni specializzate, il tribunale “quando giudica in composizione collegiale, decide con il numero invariabile di 3 componenti”. Gli artt. 50-bis, 50-ter, e 50-quater c.p.c. distinguono le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale da quelli in cui esso giudica in composizione monocratica, e regolano il caso in osservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica. In base all’art. 50-bis c.p.c. il tribunale giudica collegialmente: - nelle cause in cui il pubblico ministero deve intervenire obbligatoriamente; - in materia concorsuale nelle cause di opposizione, impugnazione, revocazione ed in quelle conseguenti a dichiarazioni tardive di crediti e alle altre leggi speciali disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa; - nelle cause devolute alle selezioni specializzate; - nelle cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo; - nelle cause per responsabilità civile dei magistrati. Inoltre, il tribunale giudica in formazione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio, salvo che sia disposto altrimenti. Fuori dai casi appena enumerati, il tribunale giudica sempre in composizione monocratica: l’art. 50-ter c.p.c. pone quale regola generale la decisione monocratica, sicché intanto può aversi decisione collegiale in quanto la controversia rientri nell'elenco tassativo dell'art. 50-bis c.p.c.. 2. L’errore nella composizione del tribunale La composizione dell'organo rileva in sede decisoria, dal momento che la disciplina dell'istruzione è unitariamente affidata alla figura del giudice istruttore. Che succede se al collegio viene rimessa una causa che dovrebbe essere decisa dal giudice monocratico, e viceversa? Gli artt. 281-septies, octies e nonies c.p.c. regolano i rapporti tra collegio e giudice monocratico. Quando il collegio rileva che una causa “rimessa davanti a lui per la decisione, deve essere decisa dal tribunale in composizione monocratica, rimette la causa davanti al giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile” affinché provveda alla decisione quale giudice monocratico (art. 281-septies c.p.c.). La norma si limita a prescrivere che la sentenza sia depositata entro 30 gg dalla decisione. comporti alcuna nullità: semplicemente il giudice, verificata la mancanza dei presupposti del procedimento semplificato applicherà l’art. 281-duodecies c.p.c. e disporrà la conversione da rito ordinario a semplificato. L’art. 281-duodecies c.p.c. fa salvo il potere del giudice istruttore di ordinare la prosecuzione del processo nelle forme ordinarie ove all'esito della prima udienza, valutata la complessità della lite dell'istruzione probatoria, ritenga che la causa non possa essere trattata nelle forme semplificate. Nel disegno del legislatore il rito applicato è frutto di una duplice indagine sulla natura della controversia: la scelta iniziale la compie l'attore sulla scorta di una valutazione parziale della complessità/semplicità della lite e dell'istruttoria; l'attore imprime l'andamento del processo solo in via provvisoria, perché alla sua valutazione si aggiunge quella compiuta dal giudice che determinerà in concreto il binario processuale percorribile. Una volta avutasi la conversione nel rito semplificato, la causa lascia i binari del procedimento a cognizione ordinaria per proseguire su quelli del procedimento semplificato. 2. La fase introduttiva Premesso che il codice non detta regole speciali di competenza, la domanda si propone con ricorso che deve contenere tutti gli elementi caratterizzanti l'atto introduttivo di un giudizio civile: art. 281-undecies c.p.c.. Il ricorso deve altresì contenere l'avvertimento, che in caso di mancata tempestiva costituzione, il convenuto incorrerà nelle decadenze. Secondo il modello di procedimenti introdotti da ricorso, anche qui, l'atto introduttivo va depositato telematicamente in cancelleria; segue la designazione del giudice a cui spetta poi fissare l'udienza di comparizione delle parti, nonché il termine per la costituzione del convenuto. Ricorso e decreto di fissazione dell'udienza vanno notificati al convenuto a cura dell'attore. Tra il giorno della notificazione del ricorso e quello dell'udienza di comparizione debbono intercorrere “termini liberi non minori di 40 gg se il luogo della notificazione si trova in Italia e di 60 gg se si trova all'estero”. Il convenuto deve costituirsi con deposito in cancelleria della propria comparsa di risposta in cui espone le proprie difese, i mezzi di prova di cui intende avvalersi, i documenti che offre in comunicazione e formula le conclusioni. A pena di decadenza il convenuto deve provare le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali di merito che non sono rilevabili d'ufficio. 3. L’udienza e i suoi esiti. La decisione Il procedimento approda ad un'udienza di trattazione in cui il giudice verifica se sussistono le condizioni per proseguire con la cognizione semplificata. In difetto di tali condizioni il procedimento prosegue secondo modalità e tecniche del giudizio ordinario. A tal proposito il giudice “dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario, fissando l'udienza”. In caso di pluralità di domande, l'apprezzamento relativo all'impiego del procedimento semplificato deve farsi in maniera unitaria per tutte le cause cumulate. Se anche solo per una causa non appare opportuno il mantenimento del rito prescelto, l'intero processo dovrà proseguire nelle forme del rito ordinario. Entro la stessa udienza l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Con l'autorizzazione il giudice fissa la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. Per le parti può sorgere altresì l'esigenza di precisare le proprie conclusioni o di modificare le proprie domande o eccezioni. Potrebbe essere necessario indicare mezzi di prova o produrre documenti: in tal caso, su istanza di parte e previo riscontro della sussistenza di un giustificato motivo, il giudice può concedere un termine perentorio non superiore a 20 gg per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni. Rispetto al giudizio ordinario è evidente la presenza nel procedimento semplificato di un regime di preclusioni più rigido: si individua una prima barriera preclusiva a carico del convenuto nel termine concesso dal giudice per la costituzione anteriormente all'udienza, oltre il quale non sarà possibile proporre domande riconvenzionali, formulare le eccezioni di merito e di rito non rilevabili d'ufficio; inoltre, è soggetta alla stessa decadenza la dichiarazione della volontà di chiamare un terzo in causa da parte del convenuto, da formularsi nella comparsa di risposta depositata almeno 10 gg prima dell'udienza. Diversi sono gli sbocchi del procedimento semplificato all'esito della prima udienza, le possibili alternative sono le seguenti: a) il giudice può, sulla base di una valutazione di opportunità, ritenere che il procedimento non possa proseguire nelle forme del rito semplificato ma, debba continuare nelle forme del rito ordinario; b) lo sviluppo dialettico del processo nel rispetto del contraddittorio può rendere necessario il compimento di attività integrative o può manifestarsi l'esigenza di chiamare un terzo in causa; c) il giudice può ritenere la causa matura per la decisione: in tal caso rimette immediatamente la causa in decisione e procede nei casi in cui il tribunale giudica in composizione monocratica o nei casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale. La decisione sarà assunta sempre a seguito di trattazione orale, con provvedimento che il giudice può pronunciare immediatamente o riservarsi di depositare nei 30 gg successivi all'udienza di discussione; d) il giudice ritiene doversi procedere ad istruzione probatoria, sì che ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione (rispetto al procedimento ordinario qui l'assunzione dei mezzi di prova è immediata alla stessa udienza). La causa è decisa con sentenza. La forma della sentenza potrà risentire della previsione dell'art. 281-sexies c.p.c. per cui il provvedimento si intende contenuto nel verbale di udienza quando esso è pronunciata all'udienza; invece, la sentenza costituirà un autonomo documento se il giudice sceglie la possibilità di depositare la sentenza nei 30 gg successivi all'udienza. La sentenza è impugnabile nei modi ordinari e questo consente di dire che è normalmente appellabile e che se non impugnata, l'accertamento ivi contenuto fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. CAPITOLO 36 – LE SPESE PROCESSUALI 1. Anticipazione dei costi del processo Il processo comporta dei costi connessi alle prestazioni dei professionisti implicati nel processo e costi connessi con le attività degli organi della giurisdizione. La regola primaria è quella della anticipazione dei costi, contenuta nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia; la disposizione stabilisce che ciascuna parte deve anticipare di tasca propria le spese degli atti processuali che compie (a meno che la parte è stata ammessa al patrocinio a carico dello Stato, in questo caso le spese sono anticipate dall'erario). Inoltre, chi voglia instaurare un giudizio deve rivolgersi ad un avvocato perché nel processo civile si sta in giudizio a mezzo di rappresentante tecnico. Quanto ai costi della procedura a carico della parte, essi sono calcolati forfettariamente e si concretano nel versamento di un'imposta, il contributo unificato di iscrizione a ruolo, che l'attore deve effettuare al momento della sua costituzione in cancelleria per l'iscrizione al ruolo della causa. L'entità del contributo varia a seconda del valore della controversia. Ma anche il convenuto, se vuole difendersi in giudizio deve avvalersi di un rappresentante tecnico e se poi decide di proporre una domanda riconvenzionale, quest'ultima sarà sempre soggetta al pagamento del contributo unificato. Può darsi che nel processo sia necessario avvalersi dell'opera di terzi soggetti con compiti ausiliari: es. un consulente tecnico d'ufficio di cui la relativa retribuzione graverà normalmente sulla parte che ha domandato la consulenza. 2. La condanna alle spese L'onere del pagamento a carico di chi chiede è però la regola provvisoria e non anche la regola finale: non sarebbe giusto che la parte che è stata costretta ad agire in giudizio o la parte che è stata ingiustamente costretta a difendersi in giudizio, debba sobbarcarsi anche dei costi di un processo che è stata costretta ad intraprendere o subire dal comportamento altrui. Più precisamente, l'attore che si è visto dare ragione contro il convenuto, deve essere posto nei limiti del possibile nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se il convenuto avesse collaborato fin dall'inizio e non vi fosse stato bisogno di instaurare un processo. Lo stesso dicasi per il convenuto che ottenga il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti. L’art. 91 c.p.c. stabilisce che il giudice, quando pronuncia la sentenza con cui chiude il giudizio di fronte a sé, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari della difesa: c'è un riferimento alla nozione di soccombenza con cui si intende il criterio cardine del riparto delle spese che grava sul perdente, sulla parte che esce sconfitta dal processo. Tuttavia, talora la condanna alle spese può essere determinata in base al principio di causalità: nei casi in cui il processo non si conclude con un vincitore e uno sconfitto, per cui le spese vengono addossate al soggetto che ha causato il processo, e cioè che con il suo comportamento ha reso necessario il ricorso al giudice. Il principio di causalità consente di ravvisare un dovere di liquidare le spese anche nei procedimenti di volontaria giurisdizione con pluralità di parti, giudizi in cui manca la figura del soccombente. Il giudice liquida le spese processuali alla fine di ciascun grado di giudizio. Ed il giudice che le liquida all'esito dell'accoglimento di un'impugnazione, liquida non solo le spese del grado svoltosi davanti a sé, ma anche quelle del precedente grado di giudizio: riallocazione delle spese. La liquidazione delle spese è fatta anche: a) dal giudice che abbia rigettato la richiesta di un provvedimento cautelare ante causam, non essendovi certezza in ordine alla futura instaurazione del processo di merito; b) dal giudice che abbia concesso ante causam un provvedimento cautelare anticipatorio. La l. 69/2009 ha integrato l'art. 91 c.p.c. con la previsione secondo cui: se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa “condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta”. Perché il giudice possa effettivamente condannare a tali spese, occorre che egli possa valutare che la parte che ha rifiutato, lo ha fatto senza giustificato motivo: ciò comporta la valutazione della serietà della proposta sotto il profilo della effettività dell'impegno. 3. Criteri di liquidazione delle spese Come avviene la liquidazione delle spese? Ciascun difensore, al momento del passaggio in decisione della causa, deve unire al fascicolo di parte la nota-spese, indicando in modo distinto e specifico gli onorari e le spese. Il giudice, presa visione delle note spese, quando chiude il processo davanti a sé provvede alla liquidazione senza che vi sia bisogno che nel precisare le conclusioni le parti ne facciano espressa e apposita richiesta. Il giudice non è obbligato a liquidare proprio la somma indicata dalle parti nella nota spesa: infatti, qualora la ritenga eccessiva potrà ridurla (art. 92 c.p.c.). Nel regolare la liquidazione giudiziale delle spese e nel determinare l'ammontare di queste, il giudice deve fare applicazione di parametri stabiliti da apposito decreto ministeriale: tali parametri sono commisurati al tipo e al grado di processo ed al valore della controversia, si presentano come tabelle distinte tra un minimo, un medio ed un massimo entro le quali il giudice esercita il proprio potere discrezionale. In caso di pluralità di soccombenti, il giudice condanna ciascuno di essi ha le spese in proporzione del rispettivo interesse nella causa (art. 97 c.p.c.). 4. La compensazione delle spese La regola della soccombenza è talora contemperata dal meccanismo della compensazione delle spese. L’art. 92 co. 2 c.p.c. prevede la compensazione in caso di soccombenza parziale e reciproca. Il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti anche in caso di soccombenza totale di una parte nei confronti dell'altra ma solo nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Per disapplicare la regola della condanna alle spese, determinata dalla soccombenza, occorrerebbe mostrare che la linea avrebbe obiettivamente avuto un esito diverso perché la posizione del soccombente si fondava su una giurisprudenza ad esso favorevole ma che è mutata in corso di causa, o che la questione di diritto risolta dal giudice e che è stata decisiva per la sorte della decisione non si era mai presentata in precedenza. L'estrema rigidità della prescrizione è stata però attenuata dalla Corte costituzionale che ha ritenuto la tassatività della norma lesiva del principio di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto esclude dalla compensazione altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. 5. La responsabilità aggravata Cosa diversa dalla condanna alle spese è la condanna per responsabilità aggravata: in questo caso non si tratta di regolare i costi attraverso la rifusione di quanto anticipato dalla parte vittoriosa; piuttosto si è di fronte ad una vera e propria condanna a carattere risarcitorio da illecito civile. L'illecito sta nell'aver abusato dello strumento del processo che, sfruttato per gravare la controparte in violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, viene dalla legge assimilato alla fattispecie della responsabilità extracontrattuale. Due sono le tipologie tipiche di responsabilità aggravata:  Co. 1 dell’art. 96 c.p.c. → sanziona il fatto di aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave: è il caso di chi ha agito o resistito in giudizio avendo sicuramente palesemente torto ma usando tutti i mezzi per ritardare l'altrui vittoria (lite temeraria).  Co. 2 dell’art. 96 c.p.c. → delinea un'insieme di ipotesi di responsabilità aggravata che assumono un autonomo rilievo, le ipotesi sono quelle del soggetto che agendo senza la normale prudenza abbia: - attuato un provvedimento cautelare a tutela di un diritto poi dichiarato inesistente nel giudizio di cognizione; - trascritto domanda giudiziale o iscritto ipoteca giudiziale a tutela di un credito poi dichiarato inesistente; - iniziato il processo esecutivo per la tutela coattiva di un diritto poi dichiarato inesistente dal giudice del processo di cognizione.
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