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Riassunti di "Storia Economica" - Cameron-Neal, Appunti di Storia Economica

Riassunto del libro di Rondo Cameron e Larry Neal "Storia economica del mondo. Vol. 2: Dal XVIII secolo ai nostri giorni" uniti agli appunti del corso di storia economica 30067

Tipologia: Appunti

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Scarica Riassunti di "Storia Economica" - Cameron-Neal e più Appunti in PDF di Storia Economica solo su Docsity! !"#$%&'#()*+,--%&+#./%*/0*1,++,"# +,&',*2#*/.!&%.*#"*%+,",-#.*%*3#"."4. +/.''%*55*6*.0.0*785897855 D I S P E N S A D I S T O R I A E C O N O M I C A [30067] Riassunti - Slides con prodotti o beni materiali ma comprende uno spettro di servizi tra i quali quelli domestici, personali, commerciali, finanziari, professionali e pubblici. Per migliaia di anni l’agricoltura è stata la principale occupazione della grande maggioranza della razza umana: la produttività era così bassa in origine che per sopravvivere era necessario dedicarsi alla produzione di generi alimentari. La produttività agricola cominciò a crescere e sempre meno lavoratori divennero necessari per la produzione di beni di sussistenza. Cominciò così il processo di industrializzazione che si protrasse dalla fine del Medioevo fino alla metà del XX secolo. Il passaggio dall’agricoltura alle attività secondarie si svolge lungo due linee principali. Sul versante dell’offerta, l’accresciuta produttività rese possibile produrre le stessa quantità di prodotti con meno lavoro. Sul versante della domanda entrò in gioco l’aspetto peculiare del comportamento umano, definito dalla legge di Engel. Essa afferma che ma mano ce cresce il reddito di un consumatore, diminuisce la percentuale del reddito destinata all’acquisto di cibo. Il secondo cambiamento strutturale attualmente in atto, il passaggio relativo della produzione di beni a quella di servizi, implica un corollario della legge di Engel: man mano che cresce il reddito, cresce la domanda per ogni genere di merce, ma ad un ritmo inferiore a quello del reddito, mentre la domanda di servizi e di tempo libero si sostituisce in parte a quella di beni concreti. I mutamenti tecnologici sono in gran parte responsabili di tali cambiamenti strutturali, nonostante la forza scatenante immediata sia solitamente la variazione dei prezzi relativi (e dei salari). La logistica della crescita economica7. Il termine logistica è qui atta ad indicare la formula matematica che serve a derivare la “curva logistica”, una curva a forma di S, anche detta “curva della crescita”, che descrive con una certa accuratezza la crescita delle popolazioni. La curva ha due fasi, una prima fase di crescita accelerata seguita da una seconda di decelerazione; dal punto di vista matematico, ai suoi limiti la curva si approssima asintoticamente ad una retta orizzontale parallela all’asintoto originario. Le curve logistiche possono descrivere approssimativamente fenomeni sociali, in particolare la crescita delle popolazioni umane; nel caso europeo si è osservato che la crescita demografica è seguita puntualmente da una fase di relativa stagnazione o addirittura declino. È pressoché certo che ciascuna fase di accelerazione della crescita demografica in Europa sia stata accompagnata dalla crescita economica, nel senso sia del prodotto totale che di quello pro capite. Le fasi finali di tutte le logistiche, e gli intervalli di stagnazione o depressione che seguirono, testimoniarono la propagazioni di tensioni sociali, inquietudini e disordini, e lo scoppio di guerre eccezionalmente feroci e distruttive. Guerre e lotte civili si ebbero naturalmente anche in altre epoche. È possibile che certi periodi di crisi degli affari umani, allorché l’ordine stabilito sembra crollare, possano stimolare i migliori intelletti in una grande varietà di campi a sottoporre a riesame le verità accettate. Il cambiamento tecnologico, che accresce la produttività e rende disponibili nuove risorse permette un’ulteriore crescita demografica. Senza altre innovazioni tecnologiche finisce per manifestarsi il fenomeno dei rendimenti decrescenti, la società incontra un nuovo tetto di produzione, e la popolazione si stabilizza di nuovo fino al momento in cui una nuova “innovazione epocale” fa di nuovo aumentare la produttività e rende disponibili ulteriori risorse. LA SECONDA LOGISTICA8 Verso la metà del Quattrocento, dopo una secolo di decadenza e stagnazione, la popolazione europea ricominciò ad aumentare. All’inizio del Seicento la crescita incontro i soliti ostacoli delle carestie, delle epidemie e delle guerre, soprattutto della guerra dei Trent’anni, che decimò la popolazione dell’Europa centrale. La metà del Quattrocento e la metà del Seicento delimitano la seconda logistica europea: in questi anni si verificarono importanti cambiamenti che modificarono enormemente l’economia europea. L’immensa espansione degli orizzonti geografici nell’epoca delle grandi esplorazioni e scoperte marittime, l’individuazione di rotte interamente marittimi tra Storia Economica - 30067 3 7 ibidem, pp. 31-27. 8 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dalla preistoria al XVII secolo, tomo I, Il Mulino, 2005. Capitolo V. l’Europa e l’Asia e la conquista e la colonizzazione dell’emisfero occidentale rappresentarono per l’Europa una grande espansione delle risorse a disposizione, sia immediate che potenziali, e significarono mutamenti istituzionali nell’economia e del ruolo dello Stato nell’economia. Si verificò un marcato spostamento dei principali centri economici europei: le città dell’Italia settentrionale godettero ancora nel XV secolo della leadership negli affari economici, ma non più del monopolio nel commercio delle spezie. L’invasione e l’occupazione dell’Italia da parte di eserciti stranieri portò ad un ulteriore sconvolgimento del commercio e della finanza nonché del graduale declino (relativo rispetto ai grandi passi dell’Europa) dell’Italia. La Spagna e il Portogallo divennero le principali potenze economiche europee: Lisbona sostituì Venezia nel ruolo di grande emporio del commercio delle spezie, e gli Asburgo spagnoli, finanziati dall’oro e dall’argento del loro impero americano, divennero i sovrani più potenti d’Europa. La ricchezza delle Indie e delle Americhe non fu però adeguatamente distribuita all’interno dei due paesi: i relativi governi sprecarono le risorse a loro disposizione e soffocarono lo sviluppo di istituzioni economiche vigorose e dinamiche. L’Hansa tedesca fiorì nel XV secolo per poi declinare, essendo la Germania e la Svizzera lontane dalle più importanti vie commerciali e non disponendo di porti che potessero beneficiare dell’aumento del commercio marittimo. La regione che più trasse guadagno dai mutamenti economici associati alle grandi scoperte fu quella attorno al Mare del Nord e alla Mania: i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia settentrionale. Le Fiandre, la regione già economicamente più avanzata dell’Europa settentrionale, si riprese lentamente dalla grande depressione del tardo Medioevo. Bruges declinò gradualmente come principale scalo nel commercio con l’Europa meridionale, mentre Anversa si affermò fino a divenire nella prima metà del XVI secolo il porto e il mercato più importante d’Europa. Il commercio si spostò più a nord, e Amsterdam divenne la grande metropoli commerciale e finanziaria del XVII secolo. L’introduzione della polvere da sparo e la sua applicazione da parte degli europei alle armi da fuoco fu ugualmente importante per le conquiste europee oltremare. Nonostante le innovazioni nel campo della navigazione e l’introduzione della polvere da sparo con la sua applicazione da parte degli europei alle armi da fuoco (importante per le conquiste europee oltremare) nel complesso questo periodo non spicca per i suoi progressi tecnologici, in particolare in campo agricolo9. Popolazione e livelli di vita10. Nel Seicento l’incidenza della peste e di altre malattie epidemiche diminuì gradualmente, forse come conseguenza di una crescente immunizzazione naturale o di mutamenti ecologici che colpirono i portatori. Inoltre il leggero miglioramento climatico e l’aumento dei salari reali possono aver influito all’innalzamento del tasso di natalità. La popolazione europea infatti cominciò progressivamente ad aumentare per tutto il XVI secolo. La densità maggiore d’abitanti spetta all’Italia (economia matura) e ai Paesi Bassi (economia dinamica); l’aumento della popolazione urbana fu più marcato nell’Europa settentrionale. In alcuni casi un aumento della popolazione urbana può essere considerato un segno favorevole di sviluppo economico; ciò non era però necessariamente il caso nel XVI secolo: le città fungevano principalmente da centri commerciali e amministrativi piuttosto che industriali. Nelle città gli immigranti formavano il Lumpenproletariat, un gruppo di lavoratori occasionali e non qualificati, spesso privi di occupazione, che arrotondavano i loro magri guadagni con elemosine o piccoli furti. Le condizioni di vita in ambienti affollati, sporchi e squallidi mettevano in pericolo l’intera comunità rendendola più esposta alle epidemie. La popolazione cresceva più rapidamente della produzione agricola, il prezzo dei prodotti alimentari (soprattutto i cereali usati per fare il pane) crebbe più velocemente dei salari monetari, una situazione che fu esacerbata dal fenomeno della “rivoluzione dei prezzi”. Storia Economica - 30067 4 9 ibidem, pp. 151-154. 10 ibidem, pp. 155-157. Esplorazioni e scoperte11. Alla fine del Medioevo notevoli progressi tecnologici furono realizzati nella progettazione delle navi, nella loro costruzione e negli strumenti di navigazione. I cambiamenti riscontrabili in questo periodo assicuravano maggiore manovrabilità e un miglior controllo della direzione, rendendo inutili gli uomini ai remi. Le navi divennero più grandi, maneggevoli, più atte a tenere il mare ed acquistarono maggiori capacità di carico, il che permise di effettuare viaggi più lunghi. La bussola ridusse di molto il margine di approssimazione insito nella navigazione e la cartografia venne sviluppata e perfezionata. Gli italiani, veterani nell’arte della navigazione, continuarono nella loro attività, anche se tramite finanziamenti e/o spedizioni estere: questo è l caso di Colombo, Caboto, Vespucci, Verrazzano, ecc. Il principe Enrico, detto il Navigatore, figlio minore del re di Portogallo, si dedicò all’incoraggiamento dell’esplorazioni della costa africana con l’obiettivo finale di raggiungere l’Oceano Indiano. A Sagres fondo una sorta di istituto di studi avanzati nel quale fece venire astronomi, geografi, cartografi e navigatori di ogni nazionalità. Nel 1488 Dias doppiò il Capo di Buona Speranza, tra il 1497 e il 1499 Vasco da Gama raggiunse a Calicut circumnavigando l’Africa. Nel 1492 Ferdinando e Isabella di Spagna, sconfitti i mori, accordarono a Cristoforo Colombo il loro patrocinio alla spedizione oltre l’Atlantico per giungere in India. Fu merito di Magellano, invece, trovare un passaggio attraverso quel nuovo continente scoperto da Colombo e chiamato America: lo stretto di Magellano. Il Mare Pacificum in cui finì non gli portò ricchezze ma solo la morte di lui e di gran parte del suo equipaggio; l’unica nave rimasta fu la prima a completare la circumnavigazione del globo. La conquista dei mari e i suoi effetti sull’Europa12. Il primo secolo di espansione europea sui mari e di conquista coloniale fu monopolio quasi esclusivo della Spagna e del Portogallo, responsabili di opere pionieristiche di scoperta, esplorazione e sfruttamento del mondo extraeuropeo. I portoghesi divennero i padroni dell’Oceano Indiano intrecciando relazioni perfino con il Giappone. L’impero spagnolo si volse invece alla ricerca di oro e argento: conquistarono l’impero azteco e l’impero inca. Alla fine del XVI secolo gli spagnoli avevano il controllo effettivo dell’intero emisfero, dalla Florida e dalla California meridionale; essi non fecero altro che depredare gli abitanti del luogo di tutte le ricchezze che potevano essere asportate e introdurre i metodi estrattivi europei nelle ricche miniere d’argento del Messico e delle Ande. Gli spagnoli intrapresero fin dall’inizio un’opera di colonizzazione e di insediamento nelle regioni da loro conquistate. Introdussero tecniche, attrezzature, istituzioni (religione compresa) e colture (grano, cereali, zucchero di canna, caffè, agrumi, ecc.) europee. L’espansione determinò un grande aumento del volume di merci scambiate: nel XVI secolo le spezie orientali e i metalli preziosi occidentali rappresentarono una percentuale schiacciante delle importazioni dal mondo coloniale: oro e argento, tinture esotiche, caffè africano, cacao americano, tè asiatico, canna sa zucchero, tabacco, frutta tropicale e noci venivano importati in Europa. La rivoluzione dei prezzi13. L’afflusso di oro e argento dalle colonie spagnole triplicò nel corso del Cinquecento le scorte di metalli adatti alla monetazione: il governo spagnolo utilizzo tali risorse per saldare i debiti contratti per finanziarie le proprie guerre. Il risultato più immediato fu un prolungato aumento dei prezzi (localmente disomogeneo). Il fenomeno della rivoluzione dei prezzi ha dato origine a innumerevoli, apparentemente interminabili e per lo più inutili dispute dotte sui suoi meccanismi, sulle sue conseguenze e persino sulle sue cause. L’aumento della produzione di argento in Europa centrale Storia Economica - 30067 5 11 ibidem, pp. 158-165. 12 ibidem, pp. 165-168. 13 ibidem, pp. 169-170. della società, questa adottò una forma permanente di organizzazione nella quale un azionista poteva ritirarsi solo dopo aver venduto ad un altro investitore la sua quota. Si rese necessaria una borsa o mercato (il termine borsa deriva dalla sala delle riunioni dei mercanti a Bruges, riconoscibile da un0insegna che mostrava tre borsellini). Le merci non venivano scambiate sul posto, ma tramite transazioni da un magazzino all’altro con pagamento tramite forme di credito e strumenti finanziari quali la cambiale o per mezzo di trasferimenti bancari. Il 1609 è l’anno di fondazione della Amsterdamsche Wisselbank, una banca di cambio in cui vi si potevano depositare fondi e trasferirli da un conto all’altro nei registri. L’ALBA DELL’INDUSTRIA MODERNA17 All’inizio del Settecento diverse regioni europee (occidentali) avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale in gran parte nel settore tessile. Tale processo di espansione e trasformazione occasionale di industrie è definito protoindustrializzazione. La prima applicazione del termine si è avuta per l’industria del lino delle Fiandre (attività rurale, svolta nelle case di campagna dalle unità familiari, organizzata da imprenditori che ne esportavano la produzione). Lo stesso termine è stato successivamente affinato ed esteso sia geograficamente che cronologicamente fino a comprendere altre industrie dalle caratteristiche analoghe. L’industria cotoniera del Lancashire fu vista come preludio ad un vero e proprio sistema di fabbrica. Caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispera, solitamente rurale, organizzata da imprenditori urbani (mercanti-manifatturieri) che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. Differenza significativa è l’accento posto sui mercati lontani. La protoindustrializzazione fa riferimento in primo luogo alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Prima esistevano già altre industrie di grandi dimensioni e ad alta concentrazione di capitale (manufactures royales francesi) situate generalmente in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore, ma non vi si impiegava energia meccanica18. Caratteristiche dell’industria moderna19. Una delle differenze più ovvie tra la società protoindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura e l’enorme crescita della produttività agricola moderna, che la mette in grado di sostentare una numerosa popolazione non agricola. A ciò consegue un’elevata percentuale di forza lavoro impiegata nel settore terziario. Dall’inizio del XVII secolo (in Gran Bretagna) alla prima metà del XX secolo, la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario, riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata che dei livelli di produzione. La Gran Bretagna è stata definita la “prima nazione industriale”. Le caratteristiche della nascita dell’industria moderna sono: 1. l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica; 2. l’industrializzazione di nuove fonti di energia inanimata (combustibili fossili); 3. l’impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura; Tratti conseguenti dell’industrializzazione furono : a. l’estensione delle dimensioni delle imprese nella maggior parte delle industrie; b. l’utilizzazione di macchine e dell’energia meccanica per l’esecuzione di compiti svolti in precedenza molto più lentamente e laboriosamente dal lavoro umano e degli animali; c. la sostituzione della legna e del carbone di legna col carbon fossile come combustibile e nell’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei trasporti. Storia Economica - 30067 8 17 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo VII. 18 ibidem, pp.257-258. 19 ibidem, pp.259-261 L’uso del carbone e del coke nei processi di fusione ridusse considerevolmente il costo dei metalli e ne moltiplicò gli usi, mentre l’applicazione della chimica creò una serie innumerevole di nuovi materiali “artificiali” o sintetici. Rivoluzione industriale vs. graduale processo di industrializzazione20. Il termine “rivoluzione industriale” indica quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione delle macchine ad energia meccanica nell’industria tessile, l’innovazione della macchina a vapore di James Watt e il “trionfo” del sistema di fabbrica nel processo di produzione. In realtà la parola “rivoluzione” implica la subitaneità di cambiamento che, in realtà, non è tipica dei processi economici. I cambiamenti non furono soltanto industriali, ma anche sociali ed intellettuali. A sostegno di questa tesi il Cameron-Neal riporta le tesi di Ashton, secondo cui il sistema relazionale chiamato capitalismo ebbe origine prima del 1760 e raggiunse il suo pieno sviluppo più tardi del 1830. Già dalla fondazione da parte di Francis Bacon della Royal Society abbiamo testimonianza dell’intenzione di usare i metodi, le sperimentazioni e le applicazioni scientifiche a scopi utilitaristici. La propensione a sperimentare e a innovare si diffuse in tutti gli strati della società, compresa la popolazione agricola, tradizionalmente più conservatrice e diffidente nei confronti dell’innovazione. L’Inghilterra fu la prima nazione a industrializzarsi su grande scala, fu altresì una delle prime ad accrescere la propria produttività agricola, in gran parte grazie alla sperimentazione per tentativi di nuove colture e nuove rotazioni. La più importante innovazione agricola prima dell’introduzione dell’agricoltura scientifica (XIX secolo) fu probabilmente lo sviluppo della cosiddetta agricoltura convertibile, che prevedeva l’alternanza di campi coltivati e pascoli temporanei in luogo di arativi e pascoli permanenti con il duplice vantaggio di ripristinare la fertilità del suolo con rotazioni più efficaci e di permettere l’allevamento di una qualità ingente di bestiame. Una condizione importante per il miglioramento delle rotazioni e l’allevamento selettivo fu la recinzione e il consolidamento dei campi. Le recinzioni più note furono quelle realizzate sulla base di leggi parlamentari tra il 1760 e la fine delle guerre napoleoniche, che diedero origine a una letteratura di protesta. All’inizio si pensava che le recinzioni avessero “spopolato” le campagne; in realtà le nuove tecniche di coltivazione ad esse associate accrebbero l’offerta di lavoro. La crescente produttività dell’agricoltura inglese permetteva a quest’ultima di sostenere una popolazione sempre maggiore secondo standard nutritivi via via più elevati. Dal 1660 al 1760, essa produsse un surplus per l’esportazione, prima che il tasso di crescita demografica superasse quello di crescita della produttività. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale di commercializzazione dell’intera nazione. La commercializzazione interagì con la nascente organizzazione finanziaria della nazione. Le origini del sistema bancario britannico sono oscure, ma sappiamo che negli anni successivi alla Restaurazione del 1660 diversi grandi orefici londinesi cominciarono a svolgere le funzioni di banchieri. Rilasciavano ricevute di deposito che circolavano come banconote e concedevano prestiti a imprenditori degni di credito. La fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694. La Zecca reale era estremamente inefficiente: a causa della penuria di moneta spicciola molti industriali, mercanti e pubblicani rilasciavano titoli cartacei e metallici che supplivano alla mancanza di una circolazione monetaria locale. L’euforia suscitata dalla Gloriosa rivoluzione portò alla creazione nell’ultimo decennio del Seicento, di numerose società per azioni, alcune delle quali per regio decreto e con la concessione di monopoli come la Banca d’Inghilterra. Nel 1720 scoppio la bolla speculativa connessa alla Compagnia del Mare del Sud, quando il parlamento su sollecitazione della Compagnia approvò il Bubble Act. La legge proibiva la costituzione di società per azioni senza l’espressa autorizzazione del parlamento, che si rivelò riluttante ad accordare autorizzazioni in tal senso. L’Inghilterra fece il suo ingresso nella “rivoluzione industriale” con uno sbarramento legale contro la forma azionaria dell’organizzazione Storia Economica - 30067 9 20 ibidem, pp.261-273. capitalistica, condannando gran parte delle sue imprese alla proprietà privata o alla condizione giuridica di società di persone. Il Bubble Act fu infine abrogato nel 1825. Altra conseguenza della Gloriosa Rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del regno sotto lo stretto controllo del parlamento, il che ridusse notevolmente il peso del debito pubblico e conseguentemente rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Sebbene il sistema tributario fosse molto regressivo, anch’esso permise l’accumulazione di capitali da investire, soprattutto nelle infrastrutture e nei trasporti, così da contribuire al processo di industrializzazione. Il movimento di grosse quantità di beni voluminosi richiedeva un sistema di trasporto affidabile e a buon mercato. Prima dell’era delle ferrovie, le vie d’acqua rappresentavano le arterie più economiche ed efficienti. La Gran Bretagna, con la sua natura insulare, godeva di una protezione naturale contro gli sconvolgimenti e le distruzioni delle guerre continentali. La lunga linea costiera, gli eccellenti porti naturali e i numerosi corsi d’acqua navigabili eliminavano in gran parte la necessità di trasporti terrestri. In ogni caso si aprì la costruzione di canali artificiali che sviluppasse ulteriormente i trasporti commerciali fluviali. Le iniziative di canalizzazione furono organizzate sotto forma di società private a scopo di lucro, istituite per legge. Tecnologia industriale e innovazioni21. Due innovazioni che possono annoverarsi tra quelle di impatto fondamentale sull’industrializzazione sono: 1. l’introduzione del procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke (che liberò l’industria siderurgica dalla dipendenza esclusiva dal carbone di legna), 2. l’invenzione della macchina a vapore atmosferica, un nuovo potente motore primo che integrò e infine rimpiazzò come fonte inanimata di energia i mulini a vento e l’acqua. Nel 1709 Abraham Darby sottopose il carbone ad un processo molto simile a quello mediante il quale gli altri proprietari di ferriere ricavavano il carbone dal legname: riscaldò il carbone in un contenitore chiuso per eliminare le impurità in forma di gas, e dal processo ottenne come residuo il coke, una forma quasi pura di carboni, che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per produrre ghisa grezza. Il procedimento di pudellaggio e laminazione di Cort, liberò alfine definitivamente la produzione di ferro dalla dipendenza dal carbone di legna. Nel 1698 l’ingegnere Thomas Savery, ufficiale dell’esercito, ottenne il brevetto per una pompa a vapore applicabile nelle miniere. Importanti migliorie furono poi fatte da Thomas Newcomen fino alla costruzione, da parte sua, della prima pompa a vapore atmosferica usata per azionare ruote idrauliche e per l’approvvigionamento idrico pubblico. Il fatto che il consumo di combustibile fosse troppo elevato in rapporto al lavoro prodotto fu ovviato da James Watt. Questo offrì alla macchina a vapore una serie di nuove possibilità applicative come la macinatura del grano e la filatura del cotone. Le industrie tessili erano già giunte alla ribalta nell’era “preindustriale” britannica con il sistema della produzione a domicilio; la manifattura dei tessuti di cotone venne introdotta nel Lancashire nel XVII secolo. Tra il 1760 e il 1770 vennero inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica: • la “jenny” o giannetta di James Hargreaves, • il filatoio idraulico brevettato da Richard Arkwright; • la mula di Samuel Compton, che combinava elementi della jenny e del filatoio idraulico. Era in grado di produrre un filato più sottile e più resistente di qualunque altra macchina. Nel 1785 Edmund Cartwright brevettò un telaio meccanico, ponendo l’inizio della sostituzione massiccia dei tessitori manuali con le nuove macchine da lavoro. Le innovazioni tecniche furono accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone testimoniato dalla crescente importazione di materie prime (il cotone non era coltivato internamente). Fonti di approvvigionamento furono l’India e il Levante, le isole caraibiche britanniche e gli stati americani del Sud. Storia Economica - 30067 10 21 ibidem, pp.273-288. migliore all’estero. Negli otto anni che seguirono la grande carestia del 1845 più di un milione e duecentomila persone lasciarono l’Irlanda per gli Stati Uniti o la Gran Bretagna. L’emigrazione interna, che comportò variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, fu fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette ad un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Storicamente, la principale limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di rifornire grandi masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria moderna non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di carattere economico richiedevano la crescita della città. Nelle società preindustriali conveniva trasportare i prodotti finiti dell’industria verso mercati lontani piuttosto che portare cibo e materie prime in agglomerati urbani per masse di lavoratori. Furono l’introduzione del vapore come fonte di energia, e l’affermarsi del nuovo sistema di fabbrica a cambiare situazione: quest’ultima in particolare impose una contrazione della forza lavoro. Risorse e sviluppo-diffusione della tecnologia26. L’Europa industriale non beneficiò, a confronto con l’Europa preindustriale, di un magico aumento della quantità o qualità delle risorse naturali. In seguito al cambiamento tecnologico e alla pressione dell’accresciuta domanda, risorse precedentemente sconosciute o di scarso valore acquisirono un’importanza enorme e persino critica. Nel XIX secolo le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbon fossile divennero i siti primari dell’industria pesante. Grazie all’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste di acqua (come Svizzera, Svezia, Italia, ecc.) ottennero un nuovo vantaggio relativo. Secondo Simon Kuznets (premio Nobel), un’epoca economica viene determinata e foggiata dalle applicazioni e ramificazioni di un’“innovazione epocale”. L’epoca economica attuale (moderna) ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e l’innovazione epocale ad essa associata fu l’“applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione economica”. L’invenzione, dal punto di vista tecnologico, definisce una novità brevettabile di natura meccanica, chimica o elettrica. Di per se stessa, l’invenzione non ha un particolare significato economico. Lo assume solo quando è inserita in un processo economico - quando cioè diventa innovazione. Con «diffusione» si intende il processo attraverso il quel un’innovazione si propaga in un’industria, da un’industria all’altra e a livello internazionale superando le frontiere geografiche. La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese dai pregressi tecnologici verificatisi in due industrie fondamentali, l’industria cotoniera e quella del ferro, sostenuti da un uso generalizzato del carbon fossile come combustibile industriale e dall’impiego crescente della macchina a vapore come fonte di energia meccanica. Materie prime e produzione di energia27. Nonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue macchine avevano parecchie limitazioni come motori primi per l’industria. La loro efficienza termica era piuttosto bassa. I fenomeni elettrici erano stati oggetto di osservazione fin dall’antichità, ma ancora nel XVIII secolo l’elettricità era considerata una semplice curiosità. Verso la fine del secolo le ricerca di Benjamin Franklin in America e degli italiani Galvani e Volta (inventore della pila voltaica), ne innalzarono lo status da gioco da salotto a oggetto di ricerca di laboratorio. Importanti sviluppi furono dovuti a Faraday, Ampere e Oersted. Partendo dalle loro scoperte (soprattutto l’induzione elettromagnetica) Samuel Morse sviluppo il telegrafo elettrico. Storia Economica - 30067 13 26 ibidem, pp. 305-309. 27 ibidem, pp. 310-315. Dal momento che l’elettricità è una forma molto versatile di energia, oltre all’illuminazione (Edison inventa la lampadina) Werner von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie per i trasporti di massa nelle metropoli in espansione dell’epoca. I motori elettrici vennero ben presto applicati all’industria. L’elettricità può essere usata anche per produrre calore, e per questo cominciò ad essere impiegata nella fusione dei metalli, in particolare l’alluminio. Il petrolio, altra grande fonte di energia che si affermò nella seconda metà del XIX secolo, inizio ad essere economicamente sfruttato dal 1859 con le trivellazioni dei pozzi in Pennsylvania. Dapprima usato per l’illuminazione, il petrolio e tutte le sue funzioni furono in seguito utilizzati per il riscaldamento e lo sviluppo di motori: in questi anni Otto, Daimler e Benz sperimentavano il loro motore a combustione interna, la cui maggiore implicazione fu quella nei settori dei mezzi di trasporto leggeri. L’industria automobilistica (di cui Peugeot, Renault, Citroën, William Morris, Henry Ford) fu una delle maggiori del XX secolo ed è a lei che dobbiamo lo sviluppo successivo dell’industria aeronautica. Acciaio28. Le innovazioni più importanti dell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo attengono alla produzione dell’acciaio. L’acciaio è una particolare varietà di ferro contenente meno carbonio rispetto alla ghisa, ma più del ferro battuto, risultando più duro e resistente. Nel 1856 Henry Bessemer, inventore inglese, brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione dell’acciaio direttamente dalla ghisa fusa, saltando la fase di pudellaggio e assicurando un prodotto superiore. L’espansione dell’industria dell’acciaio ebbe un profondo impatto sia sulle altre industrie fornitrici di materie prime (quali il carbone) che sulle industrie clienti. L’acciaio permise di costruire rotaie più resistenti, navi più grandi, leggere e veloci e grattacieli. Trasporti e comunicazioni29. Il processo di sviluppo economico è riassunto dalla locomotiva a vapore e dalle rotaie di ferro/ acciaio. Esse furono nello stesso tempo un simbolo e uno strumento dell’industrializzazione. Prima delle ferrovie, le inadeguate infrastrutture di trasporto avevano costituito uno dei maggiori ostacoli all’industrializzazione sia dell’Europa continentale che degli Stati Uniti. Le ferrovie offrirono un trasporto più economico, più veloce e più affidabile. Nel 1830 venne inaugurata la prima tratta ferroviaria al mondo, la Liverpool-Manchester. In seguito la rete ferroviaria britannica conobbe un rapido sviluppo. La Gran Bretagna possedeva sia le conoscenze tecniche che i capitali necessari per la loro costruzione; il parlamento, sotto l’influsso delle idee liberali nel campo della politica economica che avevano prevalso negli ultimi anni, autorizzò prontamente la formazione di società azionarie private. Ne seguirono accessi frenetici di speculazione e costruzione (“manie”), inevitabilmente punteggiati da crisi finanziarie. Il Belgio fu all’avanguardia tra le nazioni europee che per prime si dedicarono alla progettazione e alla costruzione di ferrovie. Soddisfatto dall’indipendenza appena ottenuta dal regno delle Province Unite, il governo borghese belga decise di costruire una rete ferroviaria completa a spese dello stato per facilitare l’esportazione delle manifatture belghe e per attirare il commercio di transito dell’Europa nordoccidentale. La Francia e la Germani furono i soli altri paesi del continente a realizzare dei progressi significativi nelle costruzioni ferroviarie prima della metà del secolo. La Germania, pur divisa in parecchi stati indipendenti e rivali, riuscì meglio della Francia che, nonostante avesse un governo centrale, fu ostacolata da dispute parlamentari e conflitti regionali sulla localizzazione delle linee principali. Il famoso Orient Express, che da Londra e Parigi arrivava a Costantinopoli, effettuò il primo viaggio nel 1888. Storia Economica - 30067 14 28 ibidem, pp. 315-318. 29 ibidem, pp. 318-326. Nella penisola italiana la presenza di piccoli principati causò lenti progressi in fatto di trasporti fino all’avvento di Cavour negli anni cinquanta. Per quanto riguarda l’attraversata oceanica che permetteva i commerci tra l’Europa e il continente americano la tappa fondamentale fu l’istituzione di un servizio transatlantico nel 1838 e la fondazione della compagnia di navigazione Cunard nel 1840. La vera innovazione si ebbe però con l’introduzione della propulsione ad elica, del motore compound e dello scafo in acciaio (a distanza di un decennio l’una dall’altra). Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez. Già all’inizio del XIX secolo si introdussero innovazioni che permisero l’informazione e l’alfabetizzazione di un numero più consistente di persone. Esempi sono la macchina per la fabbricazione della carta e la macchina da stampa cilindrica che permisero una sensibile riduzione del costo di libri e giornali ora alla portata delle masse. L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, lavorando sulle scoperte scientifiche di Maxwell e Hertz, inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (radio); già nel 1901 un radiomessaggio attraversava l’Atlantico. La chimica30. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti. Essa aveva prodotto artificialmente la soda, l’acido solforico, il cloro e numerosi composti chimici pesanti particolarmente importanti nell’industria tessile. Nel 1856 William Perkins sintetizzò accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio dell’industria dei coloranti artificiali, che nello spazio di venti anni mise virtualmente fuori mercato i coloranti naturali. I coloranti furono il primo prodotto di industrie che poi allargarono i propri interessi verso i campi della farmaceutica, degli esplosivi, dei reagenti fotografici e fibre sintetiche. Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, alluminio, nichel, magnesio e cromo. Oltre alla scoperta, gli scienziati trovarono un modo di impiegare i nuovi materiali e di ricavarli in regime di economicità. Contesto istituzionale e fondamenti giuridici31. Lo sviluppo economico può avvenire in una molteplicità di contesti istituzionali. Determinanti ambienti legali e sociali sono più propizi di altri al progresso materiale. Lo scenario istituzionale in cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo assicurava ampie opportunità all’iniziativa individuale, lasciava libertà di scelta in campo occupazionale non ostacolando la mobilità geografica e sociale, si fondava sulla proprietà privata e lo stato di diritto e poneva l’accento sull’uso della ragione e della scienza nel perseguimento di fini materiali. Istituzione cardine era il sistema giuridico noto come diritto comune (“comune” nel senso che esso era stato patrimonio comune sovrapponendosi a leggi e consuetudini puramente locali). Le caratteristiche distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidasi alle consuetudini e a precedenti nei limiti in cui questi venivano recepiti da decisioni legali scritte, la sua flessibilità. Assicurava la protezione alla proprietà e agli interessi privai contro le ruberie dello stato e allo stesso tempo padroneggiava l’interesse pubblico dall’arbitrio privato. Il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’impero britannico nel momento in cui questi conquistarono l’indipendenza o l’autonomia. Sul continente fu invece istituito un sistema giuridico più razionale ereditato dalla tradizione francese post- rivoluzionaria arricchita da quel manifesto che prende nome di Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Tale sistema giuridico venne poi incorporato nei Codici napoleonici. La sintesi napoleonica raggiunse il suo culmine nella grande opera di codificazione del diritto d’impresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’impero. I Codici, classico compromesso tra il diritto romano, così come questo era stato adattato alle necessità e alle consuetudini locali, e la Storia Economica - 30067 15 30 ibidem, pp. 327-328. 31 ibidem, pp. 329-333. di scuole specializzate nelle materie scientifiche e nell’ingegneria come l’École polytechnique e l’École normale supérieure. Queste istituzioni non solo fornivano un’istruzione avanzata ma erano impegnate anche nella ricerca. Relazioni internazionali35. In Germania, l’unificazione economica raggiunta con lo Zollverein sotto l’egemonia prussiana negli anni trenta precedette il compimento nel 1871 dell’unificazione politica, e contribuì a porre le fondamenta della potenza industriale tedesca. Il XIX secolo fu contraddistinto da conflitti relativamente brevi e limitati. Verso la fine del secolo le tensioni politiche, esacerbate di quando in quando da rivalità economiche, si fecero più acute rispetto alla prima metà del secolo tracimando nella rinascita dell’imperialismo europeo. Questa ripresa dell’imperialismo provocò un grande allargamento del sistema di mercato mondiale, con l’Europa al suo centro. MODELLI DI SVILUPPO36 Il processo di industrializzazione ottocentesco fu un fenomeno di dimensione europea, essenzialmente regionale. La Gran Bretagna37. Alla fine delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna produceva un quarto della produzione industriale totale mondiale, classificandosi come maggiore paese industriale del mondo. La sua posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale le valsero lo status di principale potenza commerciale a livello mondiale. Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale che gli scambi commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazione che si stavano velocemente industrializzando (Germania e Stati Uniti). Alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo. Nell’industria del carbone la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa e produceva un surplus destinato all’esportazione. Per tutto il secolo la produzione britannica pro capite di carbone fu quasi doppia di quella dei suoi maggiori concorrenti europei, il Belgio e la Germania. Le industrie favorite erano quella meccani, quella tessile e quella siderurgica. Dato il ruolo pionieristico della Gran Bretagna nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di consulenti, materiali e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un’altro stimolo fu l’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore che di quelle a vela nel corso degli anni cinquanta, in seguito subentrò l’acciaio. Il ritmo della crescita industriale nel secolo 1750-1850 fu molto più lento di quanto non avessero suggerito valutazioni impressionistiche fatte in passato. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della supremazia industriale nei confronti della altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il 1870. I tassi di crescita sono in qualche modo ingannevoli, in quanto in presenza di una ridotta base statistica incrementi assoluti molto modesti possono tradursi in elevati tassi di crescita. La Gran Bretagna non poteva conservare indefinitamente la propria posizione di predominio, man mano che altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano a industrializzarsi. Il declino relativo della Gran Bretagna era inevitabile anche a causa della rapida crescita demografiche e delle immense risorse di grandi stati come gli Stati Uniti e la Russia. Storia Economica - 30067 18 35 ibidem, p. 347. 36 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo IX-X 37 ibidem, pp. 350-357. Altro possibile causa del declino relativo della Gran Bretagna è il fallimento della strategia imprenditoriale. L’introduzione tardiva e quasi controvoglia di nuove industrie ad alto tasso tecnologico, come quella della chimica organica, dell’elettricità, dell’ottica e dell’alluminio, nonostante molti degli inventori fossero britannici, fu un segno di inerzia imprenditoriale. Il rallentamento industriale e l’insufficienza della classe imprenditoriale sono fenomeni che possono essere ascritti entrambi in parte all’arretratezza del sistema educativo britannico. La Gran Bretagna fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti, presupposto importante per la formazione di una forza lavoro specializzata. Le poche grandi università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica (a differenza però di quelle scozzesi). Esse contribuivano in tal modo alla perpetuazione dei valori aristocratici disprezzanti l’attività commerciale e industriale. Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro capite dei cittadini britannici aumentò, la distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni di assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva nel 1914 di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa. Il Belgio38. La prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico fu quella che nel 1830 assunse il nome di regno del Belgio. Il Belgio vantava una lunga tradizione industriale. Le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno, ed era famosa per la lavorazione dei metalli. Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad assimilare le tecniche commerciali e finanziarie italiane nel bassi Medioevo. Le risorse naturali belghe erano molto simili a quelle britanniche. Il Belgio possedeva giacimenti carboniferi facilmente accessibili e, nonostante la ridotta dimensione del suo territorio, fu in grado di produrre più carbone di qualunque altro paese del continente fino a dopo il 1850. Mosselman, e la sua Société de la vieille montagne, svolse un ruolo primario nella nascita della moderna industria dello zinco. A causa della sua posizione geografica, delle sue tradizioni e dei suoi legami politici, la regione che sarebbe divenuta il Belgio ricevette importanti infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e capitali stranieri, e godette di una posizione di favore in certi mercati esteri, in particolare quelli francesi. William Cockerill, un abile meccanico inizialmente alle dipendenze della famiglia Biolley (industria della lana) aprì la sua officina per la fabbricazioni di macchine filatrici. Le miniere di carbone erano le maggiori utilizzatrici delle macchine a vapore, sia costruite sul modello di Newcomen che su quello di Watt, ed attiravano più di ogni altro settore gli imprenditori e gli investimenti francesi. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese in generale. La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi facilitò enormemente questo traffico. L’industria cotoniera crebbe invece intorno a Gand, città che vide la fondazione di diverse fabbriche di calicò nelle quali non si faceva uso di energia meccanica. Nel 1821 Paul Huart-Chapel introdusse nella sua fonderia vicino Charleroi il procedimento di pudellaggio e laminatura. In seguito venne costruito un altoforno alimentato dal carbon coke che entrò finalmente in attività nel 1827. Altri seguirono ben presto quello di John Cockerill, che erano in società col governo olandese di re Guglielmo I. I figli di William Cockerill, rilevata la società del padre, iniziarono produrre macchine a vapore accanto al macchinario tessile. Essi annunciarono il progetto i costruire altiforni a carbon fossile ottenendo sovvenzioni dal governo olandese. Alla vigilia della rivoluzione belga, la ditta Cockerill era indiscutibilmente l maggiore impresa industriale dei Paesi Bassi, e probabilmente del continente. Fu anche una delle prime industrie metallurgiche a integrazione verticale. Come tale funse da modello per altre imprese di questo fiorente settore industriale. Storia Economica - 30067 19 38 ibidem, pp. 363-370. La rivoluzione belga provocò una depressione economica, durata pochi anni, derivante dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo stato. In seguito il Belgio assistette a un boom economico spiegato da favorevoli condizioni economiche internazionali come 1) la decisione del governo di costruire una estesa rete ferroviaria a spese dello stato, utile per le industrie del carbone, siderurgica e meccanica; 2) una importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della finanza. Nel 1822 re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la Société générale pour favoriser l’industrie nationale des Pays-Bas (nota dopo il 1830 come Société générale de Belgique) Nel 1835 un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale azionario, la Banque de Belgique, modellata a imitazione della Société Générale ma con il 90% di capitale francese. Per tutto il secolo la prosperità del Belgio continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano determinato la crescita: carbone, ferro (e acciaio), metalli non ferrosi, industria meccanica e, in grado minore rispetto alla Gran Bretagna, tessili. Nell’industria chimica, l’introduzione del processo Solvay di produzione del carbonato sodico rese rapida la crescita altrimenti lenta di quest’industria. Le industrie meccaniche eccellevano nella costruzione all’estero di ferrovie a scartamento ridotto e, dopo il 1880, di ferrovie e tram elettrici. Le esportazioni rappresentarono almeno il 50% del prodotto nazionale lordo. Un partner particolarmente importante era ancora una volta la Francia che importava oltre la metà del carbone necessario alla sua economia dal Belgio. Gli Stati Uniti39. Nel 1870 la popolazione era cresciuta tanto da superare quella di qualsiasi altro paese europeo (esclusa la Russia). Reddito e ricchezza crebbero ancor più rapidamente della popolazione. Fin dall’epoca coloniale la scarsità di manodopera in rapporto alla terra e alle altre risorse avevano comportato salari più elevati ed un più alto tenore di vita rispetto all’Europa attirando immigranti europei. L’abbondanza di terra e la dovizia di risorse naturali contribuiscono a spiegare come mai gli Stati Uniti vantassero redditi pro capite più alti dell’Europa. L’elevato tasso di crescita è per lo più dovuto al rapido progresso tecnologico e alla crescente specializzazione regionale. La continua scarsità e l’alto costo della manodopera incentivavano l’impiego di macchine che permettessero di risparmiare manodopera sia in agricoltura che nell’industria. Gli agricoltori americani, nonostante non avessero tecniche di rese efficienti come quelle europee e si avvalessero di macchinari poco costosi, erano in grado di ottenere rese molto più elevate per unità di lavoro. Alexander Hamilton, primo segretario del Tesoro, era del parere che dovessero favorire le manifatture con tariffe protettive. Thomas Jefferson, primo segretario di stato e terzo presidente, preferiva “incoraggiare l’agricoltura e il commercio al servizio di quella”. L’industria del cotone nel New England si affermò negli anni venti e divenne la maggiore industria americana. Oltre a questa, lo sviluppo della manifattura dei fucili con parti intercambiabili pose le basi per la produzione industriale di massa. L’unico accesso praticabile alle regioni dell’interno era rappresentato dai fiumi. Per porre rimedio a questa deficienza gli stati e le municipalità, in collaborazione con iniziative private, intrapresero un grande programma di “miglioramenti interni” tramite la costruzione di strade a pedaggio e canali. Causa del fallimento economico dei canali fu la comparsa sulla scena di un nuovo concorrente, le ferrovie, per la cui costruzione gli Stati Uniti dipesero fortemente dalla tecnologia, dalle attrezzature e dai capitali britannici. Nel 1840 la rete ferroviaria ultimata superava quella di tutto il continente europeo. Le ferrovie furono importanti in America non solo in quanto fornitrici di un servizio di trasporto ma anche per i collegamenti ascendenti con altre industrie, in particolare quella siderurgia e dell’acciaio. Storia Economica - 30067 20 39 ibidem, pp. 357-362. acquistando miniere di carbone e ferro, impianti per la produzione di coke, altiforni, fonderie e laminatoi, officine meccaniche e così via. I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotto intermedi ad uso industriale. Ancora più importanti erano le industrie della chimica e quella elettrica. L’enfasi data in Germania ai beni capitale e intermedi, a relativo scapito dei beni di consumo, contrasta nettamente con la situazione francese, e contribuisce a spiegare i differenti modelli di crescita dei due paesi. La crescita delle altre industrie determinò una forte domanda di prodotti chimici industriali, in particolare alcali e acido solforico. Stimolati dalla nuova letteratura sull’uso della chimica in agricoltura, la richiesta di fertilizzanti artificiali aumentò. In questo contesto venne scoperto accidentalmente dal chimico inglese Perkin, il primo colorante sintetico (malveina). Nell’arco di pochi anni quest’industria, attingendo dal personale e dalle risorse del mondo universitario, affermò il suo predominio in Europa e nel mondo. Il settore industriale della chimica organica fu anche il primo nel mondo a organizzarsi con proprie strutture e personale di ricerca. Determinò di conseguenza l’introduzione di molti nuovi prodotti, e dominò inoltre la produzione farmaceutica. L’industria elettrica registrò una crescita ancor più rapida di quella chimica: d’impronta scientifica, l’estrema rapidità dell’urbanizzazione che si verificò proprio nel periodo di espansione dell’industria le diede ulteriore stimolo. Tra i primi usi dell’elettricità i più importanti furono l’illuminazione e i trasporti urbani. Caratteristica notevole delle industrie menzionate era l’imponente dimensione delle aziende. L’apice era rappresentato dall’industria elettrica Siemens & Schuckert. La dimensione notevole delle aziende era dettata in qualche misura da economie tecniche di scala. Per alcune attività, che richiedevano attrezzature costose, era economicamente vantaggioso adottare un grosso volume di produzione. Importante caratteristica della struttura industriale tedesca era la prevalenza di cartelli. Tali contratti o accordi contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico o statunitense che vietavano le associazioni finalizzate a limitare il commercio, nonché alla legge Sherman anti-trust degli Stati Uniti, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge. La teoria economica elementare insegna che i cartelli limitano la produzione per accrescere i profitti, ma tale predizione mal si accorda con l’esperienza tedesca di rapida crescita della produzione anche nelle industrie dominate dai cartelli: la combinazione di cartelli e dazi protezionistici voluti da Bismarck dopo il 1879 furono in grado di mantenere sul mercato interno dei pressi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri, persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione nei limiti in cui il margine di profitto nelle vendite compensava la perdita nominale nelle esportazioni. La Svizzera42. La Svizzera fu il primo paese della seconda ondata industriale, nonostante alcuni affermino che in realtà la Svizzera era più industrializzata della Germania. Nel 1850 il paese era appena agli inizia dell’età delle ferrovie e non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento che si arrivò all’unione doganale, ad un effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e ad uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è inoltre povera di risorse naturali ad eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è praticamente priva di carbone. Le montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile il 25% del suo territorio nonostante questi svantaggi, gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei livelli di vita più elevati di tutta Europa, e uno tra i più alti del mondo nell’ultimo quarto di questo secolo. Il tasso medio d’incremento fu appena inferiore a quelli della Gran Bretagna, del Belgio e della Germania. La densità di popolazione era inferiore a quella degli altri paesi, ma ciò è in gran parte spiegabile con la natura del territorio. La Svizzera dipendeva dunque dai mercati internazionali. Storia Economica - 30067 23 42 ibidem, pp. 393-398. Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto ad una insolita, anche se non unica, combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato furono prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto, quali orologi, tessuti di fantasia, macchinari complessi, formaggi prelibati e cioccolata. L’alta intensità di lavoro specializzato è connesso al basso livello di analfabetismo nella maggior parte dei cantoni e, soprattutto, all’elaborato sistema di apprendistato ivi diffuso. Esisteva una forza lavoro abile, adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. L’Istituto svizzero di tecnologia contribuì all’istruzione di intelligenze addestrare a trovare soluzioni ai problemi tecnici e a migliorare i macchinari dell’epoca. La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera, seconda solo a quella britannica. La filatura era meccanizzata e si avvaleva del lavoro a buon mercato di donne e bambini, mentre la tessitura era manuale. Gli svizzeri si concentrarono sui tessuti di alta qualità e su quelli ricamati (impiego del telaio manuale incorporato a elementi del telaio Jacquard). L’industria della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo sia come numero di addetti che a livello di esportazioni. Tra le industrie che presero il posto dei tessili nelle esportazioni figuravano l’industria meccanica, la fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi da muro e da polso, di prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone e con scarsi giacimenti di minerali ferrosi, evitò di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni; affidandosi all’importazione di materie prime dall’estero, sviluppò un’importante industria di trasformazione dei metalli. L’importanza dell’energia idraulica si tradusse nel business delle ruote idrauliche, turbine e altri prodotti altamente specializzati e di alto valore. L’industria casearia, rinomata per il formaggio, si trasformò da un’attività artigianale ad un processo di fabbrica, espandendo enormemente la produzione totale e quella destinata all’esportazione. Essa sviluppò inoltre la produzione del cioccolato e quella degli alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, la manifattura di orologi da muro e da polso, continuò ad essere caratterizzata dal lavoro manuale di artigiani ad altissima specializzazione e da una minima divisione del lavoro: la produzione di parti standardizzate ed intercambiabili comportava comunque l’assemblaggio finale manuale. L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. Dopo la scoperta dei coloranti artificiali, due piccole ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire l’industria locale dei nastri. Esse si accorsero tuttavia ben presto di non poter competere con le industrie tedesche nella produzione su larga scala dei normali coloranti, propendendo per una specializzazione su prodotti esotici e di prezzo elevato. Sebbene le ferrovie abbiano trasformato radicalmente la Svizzera, esse si rivelarono nel complesso un pessimo affare. Le linee di tendenza economica di metà Ottocento, comprendenti il declino dell’agricoltura, la crescita relativa dell’industria e dei servizi e la continua dipendenza dalla domanda internazionale di servizi finanziari (dalla prima guerra mondiale), si protrasse fino a tutto il XX secolo. L’impero austro-ungarico43. Le terre dell’Austria-Ungheria furono sottoposte al dominio della corona asburgica fino al 1918. La reputazione di arretratezza economica relativamente al XIX secolo è dovuta dal fatto che alcune porzioni dell’impero erano effettivamente più arretrate (quelle orientali) rispetto alle altre (le province occidentali: Boemi, Moravia e l’Austria). Nelle province occidentali i primi segni di una crescita economica moderna possono essere osservati già nella seconda metà del XVIII secolo; tuttavia la topografia, che rendeva difficili e costosi i trasporti, la scarsità e l’infelice localizzazione delle risorse naturali erano di ostacolo. Le industrie tessili erano di gran lunga quelle di maggiori dimensioni. La meccanizzazione cominciò nell’industria cotoniera, per poi diffondersi in quella laniera nei primi decenni del secolo successivo e in quella del lino con maggiore lentezza. Storia Economica - 30067 24 43 ibidem, pp. 405-410. L’industrializzazione austriaca è una caso di crescita pigra ma laboriosa (carattere graduale ma cumulativo). Oltre alla difficile conformazione del territorio, anche le istituzioni sociali erano avversi allo sviluppo economico: il servantaggio perdurò fino al 1848, quando la sua abolizione consentì ai contadini di ottenere la libera proprietà della terra con il versamento delle tasse direttamente allo stato. Altro ostacolo istituzionale ad una più rapida crescita economica fu la politica commerciale estera della monarchia, che rimase rigidamente protezionistica per tutto il secolo, facilitando in tal modo il progetto prussiano di sua esclusione dallo Zollverein. Le tariffe elevate limitavano non solo le importazioni ma anche le esportazioni, in quanto le industrie protette, caratterizzate da costi di produzione elevati, non erano in grado di competere nei mercati mondiali (accesso limitato a fonti di approvvigionamento). Una delle ragioni fondamentali della lenta crescita e dell’ineguale diffusione dell’industria moderna furono i livelli di istruzione e di analfabetismo, caratteristiche fondamentali del capitale umano. Nel complesso dell’impero, esisteva una stretta correlazione tra livelli di analfabetismo, livelli di industrializzazione e redditi pro capite. Nonostante gli ostacoli naturali e istituzionali, industrializzazione e crescita economica caratterizzarono la realtà austriaca per tutto l’Ottocento. In Ungheria, dopo che questa parte dell’impero ottenne l’autonomia e un proprio governo con il Compromesso del 1867, la produzione industriale crebbe a ritmi ancor più elevati. I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo economico dell’impero: l’Austria-Ungheria disponeva di un ridotto numero di canali ma il corso del Danubio, in seguito all’avvento della navigazione fluviale a vapore, consentì il collegamento con i mercati e i centri industriali più importanti. L’effetto delle ferrovie fu di consolidare la già avviata divisione geografica del lavoro all’interno dell’impero. Il commercio della farina permise all’Ungheria di avviare l’industrializzazione. La produzione industriale ungherese consisteva però per la maggior parte di beni di consumo, in particolare prodotti alimentari, che comprendevano, oltre alla farina, zucchero di barbabietola raffinato, frutta conservata, birra e alcolici. Essi rappresentavano la risposta ungherese all’enfasi austriaca e boema sui prodotti tessili. Nella regione alpina esisteva un’industria siderurgica alimentata dal carbone di legna, mentre la Boemia aveva una tradizione metallurgica sia nei metalli ferrosi che in quelli non ferrosi. Mentre la prima scomparve a causa dell’avvento del carbon coke, in Boemi e nella Slesia austriaca (più ricche di carbone) le industrie metallurgiche cominciarono a svilupparsi, anche verticalmente. Inoltre sorsero diverse industrie chimiche. La produzione di carbone in Austria consisteva per due terzi di lignite di qualità inferiore, inadatta agli impieghi in metallurgia, quella ungherese di un quarto. La Russia imperiale44. All’inizio del XX secolo l’impero russo era considerato generalmente una grande potenza anche grazie all’estensione del suo territorio e della popolazione. In termini economici complessivi la Russia occupava una posizione ragguardevole: era quinta al mondo in quanto a produzione industriale totale. Possedeva grandi industrie tessili (produzione di cotone e lino), nonché industrie pesanti (carbone, ghisa, acciaio). Era seconda al mondo nella produzione petrolifera (dopo gli USA). Tuttavia la produzione e il consumo pro capite di carbone (e di altri settori produttivi), nettamente inferiori persino ai valori austriaci, segnalano l’arretratezza di un’economia ancora prevalentemente agricola: l’agricoltura dava da vivere ad oltre due terzi della popolazione e produceva più del 50% del reddito nazionale. Il reddito pro capite era circa un terzo di quello britannico. La produttività era tremendamente bassa, ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali. Il servaggio legalizzato (rimosso nel 1861) come ostacolo istituzionale fu determinante a questo scarsa produttività. Storia Economica - 30067 25 44 ibidem, pp. 422-426. Un’incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in cinque modi potenziali. 1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione (forze lavoro) in grado di dedicarsi ad occupazioni non agricole. 2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostenere la popolazione non agricola. 3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie manifatturiere e dei servizi. 4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura. 5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era la più produttiva d’Europa, fatto in stretta correlazione con la posizione d’avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema industriale. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e di alcune materie prime e creava un surplus (cerealicolo) destinato per l’esportazione. Tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta l’agricoltura britannica raggiunse, contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione della coltura a rotazione e delle tecniche ad esse associate. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso di grano americano a basso prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento volgendosi verso prodotti a più alto valore aggiunto (carne, latticini...) e impiegando spesso il grano importato per l’alimentazione del bestiame. Il prospero settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. La ricchezza prodotta della terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso, l’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Fondamentalmente, una riforma agraria implica un mutamento del sistema di possesso fondiario: esempi sono il movimento delle recinzioni in Inghilterra, con conseguente formazione di unità agricole relativamente estese e compatte in luogo del sistema dei campi aperti, e quella conseguente alla rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccolo fattorie. Non sempre la riforma agraria ebbe effetti benefici, come nel caso della monarchia asburgica. In Spagna e in Italia i tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei governi. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma agraria nell’arco di due successive generazioni. L’emancipazione dei servi, decretata con riluttanza nel 1861 in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, non mutò alla base la struttura dell’agricoltura russa. La riforma Stolypin favoriva la proprietà privata della terra e il consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti; questa fece sì che la produttività dell’agricoltura russa cominciasse a crescere. Il paese fu però ben presto travolto dalla guerra e dalla rivoluzione. La Francia possedeva molte aziende agricole moderne (morcellement - frazionamento della proprietà). Una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovarono naturalmente sbocco in investimenti industriali o, quanto meno nella realizzazione di infrastrutture. L’industria vinicolo era una delle voci principali delle esportazioni. In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una grande varietà caratterizzava la condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi e in seguito nel nuovo impero. Storia Economica - 30067 28 L’emancipazione dei servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti immediati. Fin quando i contadini rimasero nelle loro proprietà essi continuarono ad adempiere ai loro obblighi e ad esercitare i diritti consuetudinari. L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che della Svezia, ma non della Norvegia (più sviluppata nella silvicultura e pesca). Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo stato, all’accumulazione di capitali attraverso l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni. La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. La crescita della produzione agricola, sia totale che per unità di lavoro, fu a quanto pare ragionevolmente soddisfacente per tutto il secolo in entrambe le metà dell’impero. La metà ungherese dell’impero “esportava” prodotti agricoli, in particolare frumento e farina, nella metà austriaca in cambio di manufatti ed anche di investimenti. Il fallimento dell’impero nel suo complesso nello sviluppo di esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. L’agricoltura austro- ungarica, come l’industria, rifletteva fedelmente la posizione dell’impero, a metà strada tra occidente e oriente. Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della prima guerra mondiale, a grande prevalenza rurale e agraria. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostenere il popolo russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la spinta all’industrializzazione che si dispiegò alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Si pensa che l’esportazione fosse ottenuta a spese dei contadini attraverso una pesante tassazione. L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo di industrializzazione statunitense e nell’ascesa degli Stati Uniti. Fin dal periodo coloniale l’agricoltura forniva in abbondanza non solo i commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte delle esportazioni statunitensi (tabacco, riso e indaco in cambio di manufatti necessari all’economia coloniale in espansione). Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il re delle esportazioni, con oltre l’80% della produzione destinata all’estero. Il rapido incremento naturale della popolazione rurale fornì la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di manodopera fu integrata da emigranti provenienti dall’Europa. Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria il governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle regioni al di là degli Appalachi. Fin dall’inizio il governo seguì una politica di alienazione a privati individui a titolo di proprietà assoluta. La politica americana si evolvette gradualmente verso lotti più ridotti e prezzi più bassi, in una tendenza che culminò nell’Homestead Act del 1862 (accordo di un lotto a titolo gratuito purché i coloni vi risiedessero e coltivassero la terra per cinque anni). In nessun altro paese l’agricoltura svolse un ruolo così vitale nel processo di industrializzazione quanto in Giappone. A dispetto della scarsità di terra arabile, l’agricoltura giapponese fu in grado di sostentare la popolazione per gran parte del periodo prebellico (con importazione di riso dalle colonie dopo il 1900) e di fornire la maggior parte delle esportazioni giapponesi. Attraverso la tassa sulla terra (1873) l’agricoltura finanziò la maggior parte delle spese governative e di conseguenza, indirettamente, una parte dell’accumulazione di capitali. Nonostante la loro povertà i contadini giapponesi rappresentavano il mercato più ampio per l’industria del loro paese. Banche e finanza48. Il processo di industrializzazione del XIX secolo fu accompagnato da una proliferazione di banche ed altre istituzioni finanziarie necessarie ad assicurare i servizi finanziari richiesti da un meccanismo economico considerevolmente cresciuto sempre più complesso. I sistemi bancari differiscono, per Storia Economica - 30067 29 48 ibidem, pp. 444-459. struttura, a seconda della nazionalità. Il settore finanziario può svolge un ruolo positivo, propizio alla crescita, può essere neutrale o meramente permissivo oppure essere inadeguato, limitando od ostacolando lo sviluppo industriale e commerciale. All’inizio del XIX secolo la Banca d’Inghilterra (in realtà la Banca di Londra) era ancora saldamente in possesso del suo monopolio nel settore delle banche a capitale azionario; le numerose piccole “casse rurali” delle province erano tutte obbligate ad organizzarsi come società di persone, rendendole vulnerabili nei momenti di panico e di crisi finanziaria. Alla fine del 1825 il parlamento emendò la legge per permettere alle altre banche di adottare la forma di società per azioni purché non emettessero cartamoneta. Il Bank Act del 1844 modellò, invece, la struttura del sistema britannico fino alla prima guerra mondiale e oltre: la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio come banca a capitale azionario in cambio del monopolio di emissione di cartamoneta. Rimase essenzialmente un istituto statale, al servizio finanziario del governo; a fine secolo aveva già assunto consapevolmente le funzioni di banca centrale. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Inoltre esistevano a Londra di banche d’affari private (J.S. Morgan & Co.), le quali si dedicavano soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta, ma partecipavano altresì alla sottoscrizione di emissioni di titoli esteri che inserivano nel listino della Borsa valori di Londra. Questa istituzione era specializzata quasi esclusivamente in investimenti europei esteri, e lasciavano alle borse provinciali la funzione di raccogliere capitali per le imprese nazionali. La Gran Bretagna possedeva: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso, ecc. Il sistema bancario britannico rispose alquanto passivamente alle sollecitazioni provenienti dall’esterno, senza affrettare né ritardare il processo di sviluppo economico. Il sistema bancario francese era dominato da un istituto di ispirazione politica i cui affari si svolgevano soprattutto col governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800, essa acquisto ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta ed altri speciali privilegi. Come la Banca d’Inghilterra, essa divenne in effetti la Banca di Parigi, e permise ad alcune banche di emissione di operare nelle maggiori città di provincia. Fino al 1848 la Francia non possedette altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo sistema bancario era meno sviluppato del necessario, in quanto i notai provinciali che svolgevano alcune funzioni di intermediazione non potevano supplire alla carenza di banche. Vennero così create a Parigi banche in commandite che non supplirono alla domanda di servizi bancari e scomparvero in seguito alla rivoluzione del 1848. La Francia aveva comunque, nella prima metà del XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria: l’haute banque parisienne, banche d’affari simile a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild frères. Come a Londra, la principale attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio di valuta e lingotti, ma dopo le guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti governativi ed altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie. Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli altri esponenti della haute banque con la creazione di nuovi istituti finanziari. Ricordiamo i fratelli Pereire, ex dipendenti dei Rothschild che avevano deciso di mettersi in proprio. Con la benedizione dell’imperatore essi fondarono nel 1852 la Sociéte générale de crédit foncier, un istituto di credito fondiario, e la Société générale de crédit mobilier, una banca d’investimento specializzata nel finanziamento di costruzioni ferroviarie. Le banche francesi, private e a capitale azionario, svolsero altresì un ruolo di battistrada nell’incoraggiare gli investimenti esteri francesi. La Sociéte générale de Belgique e la Banque de Belgique fecero miracoli nel favorire l’industrializzazione del piccolo stato, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro poteri, unita alla loro acuta rivalità. Nel 1850 il governo creò la Banque nationale de Belgique come banca centrale col monopolio dell’emissione di cartamoneta, permettendo alle altre banche e a quelle successivamente autorizzate di dedicarsi alle ordinarie funzioni bancarie commerciali e Storia Economica - 30067 30 le funzioni di regolamentazione, che vanno dai provvedimenti volti a proteggere la salute e la sicurezza di specifici gruppi di lavoratori al controllo dettagliato dei prezzi, dei salari e della produzione. Lo scopo di queste norme può essere quello di favorire la crescita - proibendo o regolando, ad esempio, i monopoli privati - ma più spesso l’obiettivo non è in rapporto con la crescita, e l’intenzione è di eliminare le ingiustizie o lo sfruttamento. Lo stato si può impegnare in attività direttamente produttive, che possono andare da iniziative benevole come la fornitura di servizi educativi all’assunzione totale da parte dello stato della proprietà e del controllo di tutte le risorse produttive, come nell’ex Unione Sovietica. La Gran Bretagna è generalmente considerata la patria del laissez-faire, o del minimo intervento dello stato nell’economia. Esempio di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India, “uno stato nello stato”. Dopo la rivolta dei sepoys del 1857, quando una milizia indigena si ribellò contro i propri ufficiali, l’opinione pubblica pretese lo scioglimento della Compagnia, le cui funzioni di governo furono assunte dall’Ufficio indiano. Alcuni anni dopo, nel 1875 il primo ministro tory Disraeli fece del governo un azionista di una delle maggiori imprese private dell’epoca rilevando le azioni della Compagnia del canale di Suez, società di diritto francese, appartenute al kedivé d’Egitto, giustificando tale iniziativa appellandosi a ragioni di difesa nazionale. In nessun settore la Gran Bretagna era in maggiore ritardo rispetto agli altri paesi occidentali che nel pubblico sostegno all’istruzione. L’Education Bill del 1870 assicurava il sostegno statale alle scuole private ed ecclesiastiche esistenti che rispondessero a certi requisiti minimi. Solo nel 1891 l’istruzione divenne, almeno in principio, gratuita e universale fino all’età di dodici anni. I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di paternalismo statale o étatisme. In diversi di essi lo stato era proprietario di foreste, miniere e persino imprese industriali. Queste ultime producevano equipaggiamento militare e navale, ma non solo: i francesi avevano le loro manifactures royales che fabbricavano porcellana, cristalli, tappezzerie ecc.. Nel XVII secolo, man mano che diventava evidente la superiorità della tecnologia britannica in determinate industrie, i governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi di tale tecnologia con lo spionaggio o altro mezzi. Sia la Francia che la Prussia intrapresero la fusione di ghisa grezza mediante carbon coke in altiforni di proprietà statale. Gli stati furono obbligati a modificare la loro tradizione di paternalismo nel corso dell’industrializzazione. In Prussia la modalità di controllo statale sulle miniere della Ruhr (Direktionsprinzip - principio di direzione) ostacolava lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi nascosti a nord della ricca regione tedesca; nel 1865 si decise la sostituzione del Direktionsprinzip con l’Inspektionsprinzip (principio di ispezione), in base al quale gli ingegneri statali si limitavano ad ispezionare le miniere per motivi di sicurezza. Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti, in particolare quella delle ferrovie, comportò il coinvolgimento di tutti i governi. I britannici fecero il meno possibile, lasciando la promozione, la costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata. Tuttavia si valutò necessaria la promulgazione di una legge sulle ferrovie nel 1844 che precisasse principi e regole di base. Venne introdotta una clausola che prevedeva la rilevazione delle ferrovie allo scadere delle concessioni sul diritto di transito (utilizzata solo dopo la seconda guerra mondiale). Negli altri paesi i governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie, come nel caso del Belgio che intraprese la costruzione e la conduzione per proprio conto di una rete ferroviaria di base. In Francia ebbe la meglio la proprietà privata, ma con numerose clausole condizionali che lasciarono ampio spazio all’iniziativa statale. Dopo la proclamazione dell’impero tedesco, Bismarck istituì l’Ufficio imperiale delle ferrovie, la cui funzione era di rilevare le società private e di impiegare consapevolmente le ferrovie come strumento di politica economica, concedendo ad esempio tariffe di favore alle merci destinate all’esportazione. La politica ferroviaria dell’impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali ad una preferenza per le società private per poi tornare sulla tesi statalista. Storia Economica - 30067 33 Negli Stati Uniti il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli stati fino alla guerra civile, ma subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle ferrovie transcontinentali. Il Congresso istituì l’Interstate commerce commission col compito di regolamentare le ferrovie. LA CRESCITA DELL’ECONOMIA MONDIALE50 Sebbene il commercio di lunga distanza sia esistito dagli albori della civiltà, la sua importanza è cresciuta enormemente e rapidamente nel corso del XIX secolo. Su scala mondiale il volume pro capite del commercio estero era nel 1913 oltre venticinque volte superiore a quello del 1800. Per tutto il secolo l’Europa controllò almeno il 60% del totale delle importazioni che delle esportazioni. Crebbe altresì rapidamente, con l’emigrazione e gli investimenti esteri, il movimento internazionale delle persone e dei capitali. I principali ostacoli che rallentavano il flusso del commercio internazionale erano, dal punto di vista “naturale”, l’alto costo dei trasporti, in particolare quelli terrestri (ovviato dall’avvento della ferrovia e dal miglioramento della navigazione culminato con il piroscafo transoceanico) e, dal punto di vista “artificiale”, i dazi sulle importazioni e le esportazioni nonché in qualche caso gli espliciti divieti di importare certi tipi di merce, anche se al volgere del secolo si verificò un “ritorno al protezionismo” che determinò l’introduzione in molti paesi di dazi più alti sulle importazioni. La Gran Bretagna: first mover verso il libero scambio51. A favore del libero scambio troviamo l’eloquente trattato di Adam Smith La ricchezza delle nazioni. La perorazione di Smith a favore del libero scambio internazionale fu una conseguenza della sua analisi dei vantaggi derivanti dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro tra le nazioni oltre che tra gli individui. Sia l’argomentazione di Smith che quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche: per avere effetti pratici in politica dovevano riuscire a convincere gruppi consistenti di individui influenti. Per coincidenza nello stesso periodo conquistarono posizioni di preminenza nel partito tory al governo diversi uomini che intendevano modernizzare e semplificare le arcaiche procedure governative. Huskisson, in qualità di ministro del commercio, semplificò e ridusse notevolmente il dedalo di restrizioni e tasse che ostacolavano lo sviluppo del commercio internazionale. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette Corn Laws, le leggi sul grano che imponevano dazi sulle importazioni. Il primo ministro, sir Robert Peel, decise un’ampia revisione del sistema fiscale che prevedeva l’abolizione delle tasse sulle esportazioni, l’eliminazione o riduzione di molte tasse sulle importazioni e l’introduzione di un’imposta sul reddito per compensare la diminuzione delle entrate. In quel periodo la carestia di patate in Irlanda ridusse alla fame l’intera popolazione irlandese e Peel presentò un progetto di legge per l’abrogazione delle leggi sul grano approvato nel 1846. È con l’abrogazione delle Corn Laws che cominciò a prendere forma quello che sarebbe stato, almeno fino al 1914, il moderno sistema politico britannico. I whigs, noti in seguito come liberali, divennero il partito del libero scambio, mentre i tories, noti anche col nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi fondiari e, in seguito, dell’imperialismo. Dopo il 1860 rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di bilancio su prodotti non britannici (brandy, vino, tabacco, caffè, te, ecc.). Nonostante molte delle tariffe fossero state completamente eliminate, l’aumento degli scambi totali fu tale che le entrate doganali furono maggiore che in passato. L’età del libero scambio. Il secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato commerciale, il trattato anglo-francese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito tradizionalmente una politica protezionistica. Il governo francese, su istanza dei proprietari di Storia Economica - 30067 34 50 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XII. 51 ibidem, pp. 468-471. fabbriche, aveva cercato di proteggere l’industria tessile cotoniera della concorrenza britannica. Il governo di Napoleone III desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran Bretagna con l’obiettivo di guadagnare status politico e rispetto diplomatico. L’economista Michel Chevalier convinse l’imperatore dei vantaggi di un trattato commerciale con la Gran Bretagna. Secondo la costituzione Napoleone non poteva approvare leggi (compito che spettava al parlamento) ma deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere, le cui clausole avevano in Francia forza di legge. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti i dazi sull’importazione di merci francesi ad eccezione del vino e del brandy, considerati beni di lusso. La Francia revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i dazi su un’ampia varietà di merci britanniche rinunciando in tal modo al protezionismo estremo in favore di una sua forma moderata. Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese terzo, la controparte del trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa eventualmente accordata a quest’ultimo. La Gran Bretagna liberoscambista era priva del potere contrattuale necessario a poter negoziare con gli altri paesi, fatto che venne aggirato tramite negoziazione francese e applicazione della clausola della nazione più favorita. La conseguenza principale del trattato Cobden-Chevalier, e di quelli che seguirono sul modello del primo, era una riduzione generale delle tariffe. Inoltre ciò impose una riorganizzazione dell’industria imposta dalla maggiore concorrenza: i trattati in tal modo favorirono l’efficienza tecnica e aumentarono la produttività. Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e del commercio internazionale le fluttuazioni dei prezzi cominciarono ad essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. Causa delle fluttuazioni sono complesse interazioni di fattori monetari e “reali”. In pressoché tutti gli stati europei, nonché negli Stati Uniti, i prezzi raggiunsero il culmine all’inizio del secolo, verso la fine delle guerre napoleoniche. Le cause furono sia reali che monetarie. Nel 1873, dopo un boom durato diversi anni, un panico finanziario colpì Vienna e New York per poi propagarsi rapidamente nella maggior parte dei paesi industrializzati o in via di industrializzazione. La susseguente caduta dei prezzi durò fino alla metà o alla fine degli anni novanta, e divenne nota in Gran Bretagna come “Grande Depressione”. La depressione che seguì il panico del 1873 fu probabilmente la più grave e la più generale che si fosse mai verificata fino a quel momento nel mondo industriale. Otto von Bismarck, creatore e cancelliere del nuovo impero tedesco, dal momento che gli industriali della Germani occidentale reclamavano a gran voce una protezione tariffaria, decise di “accedere” alla richiesta, denunciò i tratta commerciali dello Zollverein con la Francia ed altre nazioni e diede la sua approvazione ad una nuova legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria che l’agricoltura. Il primo grande passo sulla strada del “ritorno al protezionismo”. Nel 1881 gli interessi protezionistici francesi riuscirono ad ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo; venne approvata la legge Méline che, pur accordando protezione ad alcuni settori dell’agricoltura e conservando la protezione industriale della tariffa del 1881, essa conteneva diversi elementi condivisi dai partigiani del libero scambio. Tra il 1887 e il 1898 tra l’Italia e la Francia vi era una “guerra tariffaria” che arrecò gravi danni al commercio di entrambi gli stati. Lo stesso accadde tra Germania a Russia tra il 1892-4. L’Austria-Ungheria, che aveva una lunga tradizione di protezionismo, negoziò dei trattati con la Francia ed alcuni altri paesi ma conservò un grado di protezione più elevato degli altri e ritornò rapidamente all’ultraprotezionismo. La Russia non era mai entrata nella rete di trattati commerciali inaugurata dal trattato Cobden-Chevalier e nel 1891 introdusse dazi virtualmente proibitivi. Gli Storia Economica - 30067 35 nascita di industrie possenti e all’avvio di un boom di eccedenze delle importazioni necessarie a ripagare i capitali esteri e ad accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò talvolta di valersi dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera. I paesi industrializzati minori, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera, beneficiari di investimenti esteri nel corso del secolo, erano diventati alla fine del secolo creditori netti come la Germania. L’Austria, la metà occidentale della monarchia asburgica, aveva investimenti in Ungheria e anche nei Balcani, ma nel complesso l’impero era debitore netto. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore; i capitali esteri, in primo luogo britannici, contribuirono alla costrizione di ferrovie, allo sfruttamento delle risorse minerarie e al finanziamento dei ranches degli allevatori. Dopo la guerra civile gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono a investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali e agricole. In Europa il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa fu costruita soprattutto con capitali esteri, incanalati nell’acquisto di titoli privati e obbligazioni governative garantite dal governo. Gli stranieri, soprattutto banche, investirono ingentemente anche nelle banche russe a capitale azionario e nelle grandi industrie metallurgiche del Donbass, di Krivoj Rog e di altre località. Dopo il 1917 gli investitori persero tutto. Gli Sterminati continenti dell’Asia e dell’Africa parteciparono solo marginalmente all’espansione commerciale del XIX secolo, fino a quando non vi furono costretti dalla potenza militare dell’occidente. Storia Economica - 30067 38 PANORAMA DELL’ECONOMIA MONDIALE53 Popolazione54. L’economia mondiale del XX secolo assunse dimensioni nuove e senza precedenti. Nel XIX secolo la popolazione europea era più che raddoppiata, mentre la popolazione mondiale, con esclusione delle aree colonizzate degli europei, era cresciuta di poco più del 20%. Nel XX secolo, la crescita demografica europea rallentò, mentre quella del resto del mondo raggiunse ritmi mai visti. La causa di questo tremendo incremento numerico è stata la diminuzione complessiva della mortalità, la diffusione della tecnologia occidentale nei campi dell’igiene e della sanità pubblica, dell’assistenza medica e della produzione agricola. Tra la diminuita mortalità infantile, il maggiore input di lavoro e la crescita del prodotto pro capite esiste una correlazione di lungo periodo: il processo di urbanizzazione continuò nel XX estendendosi nelle altre regioni del mondo. La crescita delle città è stata determinata in primo luogo dall’emigrazione interna, con la popolazione in sovrappiù nelle aree rurali e nelle città di provincia che inseguiva le più ampie opportunità e le maggiori libertà offerte dalla vita e dalle luci della città. Continuò il fenomeno dell’emigrazione internazionale: alle motivazioni, quali pressioni economiche in patria e opportunità offerte da paesi esteri del XIX secolo, nel XX secolo si aggiunse l’oppressione politica conseguente a guerre e rivoluzioni. Inoltre nel XX secolo si affermò l’emigrazione forzata, determinata dalla creazione conseguente alla Prima guerra mondiale di stati-nazione separati in cui il diritto di cittadinanza era formulato sulla base della maggioranza etnica che l’abitava, che comportò l’espulsione di determinati gruppi etnici minoritari. La prima guerra mondiale interruppe parzialmente il flusso migratorio internazionale per qualche tempo. La depressione degli anni trenta e la seconda guerra mondiale fece contrarre ulteriormente la marea immigratoria. In seguito l’Europa occidentale si è trasformata da punto di partenza per l’emigrazione internazionale ad asilo per i rifugiati politici soprattutto a cominciare dalla rivoluzione russa del 1917. Le risorse55. La crescita demografica senza precedenti del XX secolo, accompagnata dalla crescente ricchezza di parte del mondo, provocò una pressione senza precedenti sulle risorse mondiali. Nonostante il verificarsi di occasionali temporanee carenze di alcune merci, in particolare in tempo di guerra, l’economia mondiale ha risposto ai bisogni in modo ragionevolmente positivo anche grazie alla crescente interazione dell’economia con la scienza e la tecnologia. Lo sviluppo più importante del XX secolo in tema di risorse è stato il cambiamento nella natura e nelle fonti dell’energia primaria. Nel XX secolo il carbone è stato in buona parte sostituito da nuove fonti energetiche, in particolare dal petrolio e dal gas naturale. Nel XIX secolo, il petrolio era usato allora soprattutto per l’illuminazione e in via subordinata come lubrificante. Lo sviluppo dei motori a combustione interna alla fine del XIX secolo ne estese grandemente la possibilità di applicazione, cominciando a rivaleggiare con il carbone e l’acqua per la produzione di elettricità e per il riscaldamento degli ambienti. Nella seconda metà del XX secolo esso ha acquistato nuova importanza come materia prima per la produzione di materie sintetiche e plastiche. Alla luce della sua fondamentale importanza e dei suoi molteplici impieghi, il petrolio ha acquistato un grande significato geopolitico. I giacimenti petroliferi sono ampiamente disseminati nel mondo, ma gran parte della produzione è concentrata in un numero relativamente limitato di aree geografiche. L’europa possiede riserve di petrolio inferiori a quelle di qualsiasi altra massa continentale; la produzione di petrolio su larga scala ebbe inizio negli Stati Uniti. Pur rimanendo uno dei maggiori produttori, gli Stati Uniti sono divenuti un paese importatore netto di petrolio. Storia Economica - 30067 39 53 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XIII. 54 ibidem, pp. 511-520. 55 ibidem, pp. 520-521. Tecnologia56. Il mutamento tecnologico, principale forza trainante dell’industrializzazione ottocentesca, conservò inalterato questo ruolo anche nel XX secolo. Il ritmo del mutamento subì un’accelerazione. Se il segno del successo delle società umane era stato in passato la loro capacità di adattarsi all’ambiente, nel XX secolo è l’abilità di manipolare l’ambiente e adattarlo alle esigenze della società tramite la tecnologia fondata sulla scienza moderna. La velocità degli spostamenti era cambiata sensibilmente già con le locomotive a vapore ma nel XX secolo si fecero ulteriori passi da gigante con lo sviluppo delle automobili, degli aerei e dei razzi spaziali. Lo stesso accadde nel campo delle telecomunicazioni: l’invenzione del telegrafo cambiò radicalmente la tempistica con cui i messaggi potevano essere ricevuti: col telefono, la radio e la televisione accrebbe incommensurabilmente la convenienza, flessibilità e affidabilità delle comunicazioni su lunghe distanze. Il fondamento scientifico dell’industria moderna ha dato come risultato centinaia di nuovi prodotti e materiali. Nel XX secolo materie plastiche ricavate dal petrolio e da altri idrocarburi hanno sostituito il legno, la ceramica e la carta in migliaia di impieghi che vanno dai recipienti a basso peso ai trapani ad alta velocità. L’utilizzazione crescente dell’energia elettrica e meccanica, l’invenzione di centinaia di congegni in grado di far risparmiare lavoro e lo sviluppo di strumenti di controllo automatici hanno provocato mutamenti nelle condizioni di vita e di lavoro di portata più ampia di quelli della rivoluzione industriale inglese. Un esempio importante è l’elaboratore elettronico: all’inizio del XX secolo erano in uso diversi rudimentali congegni meccanici, principalmente a fini commerciali, ma l’era dell’elaboratore elettronico non si annunciò che con la Seconda guerra mondiale. Il suo progresso da allora ha rivaleggiato con la rapidità con cui esso opera. Senza di esso molte altre conquiste scientifiche, quali l’esplorazione dello spazio, sarebbero state impossibili. Nonostante molte scoperte nella chimica e nella biologia siano state stimolate dalle loro applicazioni commerciali nell’agricoltura, nell’industria e nella medicina, la ricerca di base richiede per lo più spese così ingenti ed offre prospettive di guadagno immediato così scarse che i governi si sono trovati obbligati a finanziarla direttamente o indirettamente. Le esigenze della guerra e delle rivalità nazionali hanno indotto inoltre i governi a dedicare enormi risorse alla ricerca e allo sviluppo scientifici per fini militari. Uno dei requisiti del progresso scientifico e tecnico è la presenza di un’adeguata riserva di forza lavoro istruita, o brainpower. La capacità individuale di inserirsi pienamente nella nuova matrice scientifico tecnologica della civiltà richiede in misura sempre maggiore un livello di studi universitario o post-universitario. Il XX secolo ha visto il proliferare di istituti di studi avanzati e di ricerca finanziati da organismi privati e dal settore pubblico. L’impiego della tecnologia scientifica ha enormemente accresciuto la produttività del lavoro umano: in agricoltura, i paesi occidentali hanno ottenuto un’enorme crescita della produttività attraverso tecniche scientifiche di fertilizzazione, di selezione delle sementi e delle razze da allevamento e di lotta ai parassiti e attraverso l’uso dell’energia meccanica. L’aumento della produzione energetica si è verificata in aree d’insediamento europeo ed in forme che all’inizio del secolo erano ancora in uno stato embrionale. L’Europa, seguita dal Nord America, è particolarmente dipendente dalle fonti nucleari e geotermiche, fatto prevedibile per delle economie industriali particolarmente avanzate. L’Asia e l’Africa si concentrano soprattutto su fonti termiche spesso altamente inquinanti quali le centrali a carbone, mentre quelle a gas naturale sono più diffuse dell’energia idroelettrica. Il petrolio e il gas naturale superarono il carbone come fonte di energia intorno al 1960, e negli anni novanta rappresentavano oltre il 60% della produzione totale mondiale. Il motore a combustione interna, il più importante consumatore di petrolio, è un’invenzione del XIX secolo, applicato a due dei più caratteristici congegni tecnologici del XX secolo, l’automobile e l’aeroplano. Storia Economica - 30067 40 56 ibidem, pp. 522-530. Forme d’impresa, organizzazioni sindacali e istituzioni informali58. Le società a responsabilità limitata dalle azioni, o società di capitali moderna, era un’entità già ben radicata nei paesi industriali avanzati all’inizio del XX secolo, ma era usata per lo più solo nelle industrie di grandi dimensioni. Nelle altre attività (commercio, produzione artigianale, servizi e agricoltura) prevaleva l’impresa familiare. La tendenza di lungo termine favoriva però la diffusione della forma d’impresa delle società per azioni in ambiti di attività sempre più ampi. Grandi imprese multiunitarie, le “catene” di negozi, giunsero a dominare la vendita al dettaglio. Uno sviluppo correlato fu la comparsa di imprese conglomerate, grandi società finalizzate alla produzione e alla vendita di un gran numero di prodotti, dai beni capitale più voluminosi a beni di consumo quali cosmetici e articoli d’alta moda. Questo sviluppo fu facilitato dall’avvento di società finanziarie (holding companies), la cui attività consiste esclusivamente nel possedere (e amministrare) altre società. Sebbene la forma d’impresa della società di capitali fosse nata inizialmente per venire incontro alle necessità della produzione di massa dettate dalla tecnologia, e favorisse di conseguenza la costituzione di unità organizzative sempre più ampie, essa poteva essere adattata anche ad attività su scala più limitata. La tendenza all’impiego della forma organizzativa della società di capitali permetteva alle imprese di competere con successo con l’impresa multinazionale. All’inizio del XX secolo il diritto dei lavoratori di organizzarsi e contrattare collettivamente era riconosciuto nella maggior parte dei paesi occidentali, ed in alcuni di essi le organizzazioni dei lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro. In Europa occidentale l’oscillazione del numero di iscritti ai sindacati è stata simile a quella statunitense. Una grossa differenza è che in Europa i sindacati sono molto più nettamente identificati con specifiche forze politiche che non negli USA. Nei paesi totalitari come Germani, Italia e Unione Sovietica il regime in carica abolì tutti i partiti politici concorrenti così come i sindacati. Accanto alla proliferazione di istituzioni formali istituite per legge nei singoli paesi o create da trattati internazionali a livello sopranazionale, il XX secolo ha assistito all’affermazione di una varietà crescente di istituzioni informali. DISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE59. I mutamenti economici fondamentali si verificano normalmente nell’arco di lunghi periodi di tempo. Le conseguenze dei mutamenti demografici, delle risorse, della tecnologia e persino delle istituzioni. I mutamenti politici, invece, possono verificarsi in maniera piuttosto improvvisa, portando eventualmente nella loro scia repentini mutamenti economici. Fu questo il caso della Prima guerra mondiale. Conseguenze economiche della prima guerra mondiale60. La distruttività concentrata della “Grande Guerra” superò quella di qualunque altro avvenimento della storia fino alle massicce incursioni aeree e alle bombe atomiche della Seconda guerra mondiale. Nel corso del 1915-18 gran parte dei danni furono subiti dalla Francia settentrionale, dal Belgio, da una area dell’Italia nord-orientale e dai campi di battaglia dell’Europa orientale. Ancor più nocive per l’economia, nel lungo periodo, della distruzione materiale, furono l’interruzione e la disorganizzazione delle normali relazioni economiche i cui effetti non cessarono con la fine delle ostilità. Fino al 1914 l’economia aveva funzionato liberamente e nel complesso in modo efficiente. Nonostante alcune restrizioni sotto forma di tariffe protezionistiche, monopoli privati e cartelli internazionali, il grosso dell’attività economica, sia nazionale che internazionale, era regolata dal libero mercato. Durante la guerra i governi di ciascuno stato belligerante ed alcuni dei paesi non Storia Economica - 30067 43 58 ibidem, pp. 538-542. 59 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XIV. 60 ibidem, pp. 544-548. belligeranti imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza lavoro. Questi controlli stimolarono artificialmente taluni settori dell’economia, limitandone artificialmente degli altri. Un problema ancor più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di guerra economica cui fecero ricorso i paesi in guerra, in particolare Gran Bretagna e Germania. Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri naturalmente si interruppero subito, mentre gli Stati Uniti, ancora in posizione di neutralità, si sforzarono di mantenere relazioni normali. La Gran Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose immediatamente un blocco dei porti tedeschi; questi ultimi, incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica, fecero ricorso ai sommergibili nel tentativo di arrestare l’afflusso in Gran Bretagna di rifornimenti dall’estero. I sommergibili evitavano il più possibile la flotta britannica e attaccavano i vascelli disarmati, sia neutrali che britannici, senza distinguere tra navi passeggeri e mercantili. L’affondamento nel 1915 del transatlantico britannico Lusitania provocò una vibrata protesta statunitense: nel gennaio 1917, al fine di infliggere perdite economiche ingenti alla Gran Bretagna i tedeschi diedero il via ad una guerra sottomarina illimitata che costrinse l’America ad entrare in guerra assicurando la vittoria finale degli Alleati. Strettamente legata allo svolgimento del commercio internazionale e all’imposizione di controlli statali, la perdita dei mercati esteri rivelò effetti ancor più durevoli nel tempo. La Germania era completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare e anche la Gran Bretagna fu costretta a dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Di conseguenza, molti paesi d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da altri paesi extraeuropei le merci che in precedenza avevano acquistato in Europa. Diversi paesi latinoamericani e asiatici fondarono industrie manifatturiere, che protrassero dopo la guerra con dazi elevati. Gli Stati Uniti e il Giappone conquistarono mercati d’oltremare precedentemente considerati riserva esclusiva delle manifatture europee. La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale, determinando un notevole aumento della domanda di generi alimentari e materie prime e stimolando sia territori già affermati sia territori ancora vergini (in America Latina). Ciò condusse ad una sovrapproduzione e al crollo dei prezzi negli anni seguenti la fine delle guerra: molti agricoltori americani, avendo investito in tempo di guerra nell’aumento della superficie coltivata, quando i prezzi crollarono essi fallirono, trovandosi nell’impossibilità di estinguere le ipoteche. Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di entrate nel settore delle spedizioni marittime e dei servizi. Londra ed altri centri finanziari europei persero parte delle entrate provenienti dalle attività bancarie e assicurative e da altri servizi finanziari e commerciali trasferiti durante la guerra a New York o in Svizzera. Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti all’estero. Prima della guerra la Gran Bretagna, la Francia e la Germania erano i più importanti investitori. Poiché la Gran Bretagna e la Francia importavano più di quanto non esportassero, i proventi degli investimenti contribuivano a pagar le importazioni in eccesso. Tutti e due i paesi furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l‘acquisto urgente di materiale bellico. Un ultimo stravolgimento delle economie nazionali e internazionali derivò dall’inflazione. Le pressioni finanziarie della guerra costrinsero tutti i paesi coinvolti ad eccezione degli Stati Uniti, ad abbandonare il gold standard, che nel periodo prebellico era servito a stabilizzare, o quanto meno sincronizzare, i movimenti dei prezzi. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione dei prezzi, anche se non tutti nella stessa proporzione. La grande disparità nei prezzi, e conseguentemente nel valore delle singole monete, rese più difficile la ripresa del commercio internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico. Storia Economica - 30067 44 Conseguenze economiche della pace61. La pace di Parigi, come la sistemazione postbellica venne chiamata, invece di tentare di risolvere i gravi problemi economici causati dalla guerra finì in realtà per inasprirli. I pacificatori non volevano che accadesse questo: il loro errore fu che essi semplicemente non tennero conto delle realtà economiche. Dai trattati di pace emersero due grandi categorie di difficoltà economiche: la crescita del nazionalismo economico e i problemi monetari e finanziari. I singoli trattati presero il nome dei sobborghi di Parigi, in cui vennero firmati. Il più importante fu il Trattato di Versailles con la Germania. Esso restituiva l’Alsazia-Lorena alla Francia e autorizzava i francesi ad occupare per quindici anni la valle carbonifera della Saar. Inoltre privava la Germania del 13% del territorio prebellico e del 10% della sua popolazione del 1910. Le colonie africane e nel Pacifico erano già state occupate dagli Alleati, che se ne videro confermato il possesso. La Germania dovette cedere la marina da guerra, grosse quantità di armi e munizione e accettare limitazioni alle proprie forze armate, l’occupazione alleata della Renania e altre condizioni dannose e/o mortificanti. L’aspetto più umiliante di tutti fu la famosa clausola della “responsabilità della guerra”. L’articolo 231 del trattato di Versailles, che dichiarava che lo stato tedesco accettava «le responsabilità della Germania e dei suoi alleati per le vittime e i danni [...] causati dalla guerra.[...]». Secondo il celebre libro “Le conseguenze economiche della pace” John Maynard Keynes prevedeva conseguenze disastrose dai risarcimenti monetari richiesti alla Germania non solo per la Germania stessa ma per tutta l’Europa. L’impero austro-ungarico prebellico aveva adempiuto ad una preziosa funzione economica permettendo l’esistenza di una larga area di libero scambio nel bacino del Danubio. I nuovi stati nati dallo smembramento dell’impero, timorosi del dominio delle grandi potenze, affermarono il proprio carattere nazionale nella sfera economica ponendosi l’obiettivo dell’autosufficienza: ciò impedirono la ripresa economica dell’intera regione e ne accrebbero l’instabilità. Durante la guerra civile la Russia scomparve dall’economia internazionale riemergendo in seguito sotto il regime sovietico: lo stato divenne l’unico compratore e venditore negli scambi internazionali valutando strategicamente le necessità e i vantaggi delle compravendite. In occidente, paesi che precedentemente avevano dipeso in misura notevole dal commercio internazionale introdussero una varietà di restrizioni tra cui tariffe protezionistiche, contingentamenti e divieti di importazione. Contemporaneamente cercarono di stimolare le esportazioni per mezzo di sussidi o provvedimenti analoghi. La Gran Bretagna, leader del libero scambio internazionale, aveva imposto dazi come strumento della finanza di guerra e per risparmiare spazio sulle navi. I dazi rimasero anche dopo la guerra come politica protezionista ufficiale. Gli Stati Uniti, che già prima della guerra avevano dazi relativamente elevati, li portarono alla fine delle ostilità a livelli mai visti: tra il 1921 e il 1930 l’istituzione dei tassi passò principalmente attraverso l’Emergency Tariff Act (1921), il Fordney McCumber Tariff Act (1922) e la Smoot- Hawley Tariff (1930) creando i presupposti per quello che viene definito “neomercantilismo” e le cui conseguenze nefaste comprendono le ritorsioni delle altre nazione i cui interessi venivano pregiudicati. Tale esagerato nazionalismo economico ebbe l’effetto opposto a quello che i suoi proponenti si prefiggevano di raggiungere: livelli di produzione e di reddito più bassi invece che più elevati. I disordini monetari e finanziari provocati dalla guerra e aggravati dai trattati di pace condussero col tempo ad un completo collasso dell’economia internazionale. Al cuore di questi disordini era il problema delle riparazioni che coinvolgeva i debiti di guerra interrelati e l’intero meccanismo della finanza internazionale. L’insistenza degli statisti americani di trattare ogni questione isolatamente senza riconoscere le reciproche relazioni fu determinante per i disastri che conseguirono. Tra gli alleati europei i prestiti erano stati solamente nominali. Essi si aspettavano che sarebbero stati cancellati alla fine della guerra, e consideravano naturalmente nella stessa luce i prestiti americani. Gli Stati Uniti, invece, vedevano nei prestiti un’iniziativa commerciale. Pur Storia Economica - 30067 45 61 ibidem, pp. 548-558. economie industriali, Stati Uniti in particolare che contagiò il resto del mondo. Per altri le cause devono essere cercate nel settore reale: un’autonoma contrazione dei consumi e delle spese per l’investimento che si propagò a tutto il sistema economico e al mondo attraverso il meccanismo moltiplicatore-acceleratore. Altre spiegazioni prevedevano la precedente depressione agricola, l’estrema dipendenza dei paesi del Terzo Mondo da mercati instabili, scarsità o cattiva distribuzione delle risorse mondiali di oro. Le conseguenze della depressione nel lungo periodo furono: 1. la crescita dell’intervento statale nell’economia, 2. un graduale mutamento di atteggiamento verso la politica economica (“rivoluzione keynesiana”), 3. i tentativi da parte di paesi latinoamericani e di altre nazioni del Terzo Mondo di sviluppare industrie che fornissero un’alternativa alle importazioni, 4. l’affermazione di movimenti politici estremistici sia di destra sia di sinistra, in particolare in Germania. Dopo la guerra la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere la funzione di guida a livello mondiale nel campo economico-commerciale-finanziario. Gli Stati Uniti, l’economia dominante, erano restii ad accettare il ruolo di guida, riluttanza esemplificata dalla politica dell’immigrazione, da quella tariffaria, da quella monetaria e dall’atteggiamento nei confronti della cooperazione internazionale. Tentativi diversi di ricostruzione63. Quando Roosevelt entrò in carica come trentesimo presidente l’industria era praticamente ferma, mentre il sistema bancario era sull’orlo del collasso totale. La legge forse più caratteristica dell’intero periodo fu il National Industrial Recovery Act. Esso istituì una National Recovery Administration (NRA) con il compito di sovrintendere alla stesura di “norme di concorrenza leale” per ogni industria da parte dei rappresentanti delle industrie stesse. L’Nra aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia. Era essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata (autogoverno industriale), con supervisione governativa per salvaguardare l’interesse pubblico e garantire il diritto del mondo del lavoro di organizzarsi e contrattare collettivamente. Nel 1935 l’Nra fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema: Roosevelt raggiunse lo stesso obiettivo con l’approvazione di nuove leggi ma, nel caso dell’industria, preferì dare inizio ad una campagna “antitrust”. Il risanamento industriale fu deludente e nel 1937 l’economia entrò in una nuova fase di recessione. Per quanto alcune delle riforme del New Deal fossero importanti di per se stesse, il sistema del New Deal nel complesso non fu più efficace nell’affrontare la depressione di quanto lo fossero i programmi attuati contemporaneamente in Europa. Nessuna nazione occidentale aveva sofferto per la guerra più della Francia. Gran parte dei combattimenti sul fronte occidentale aveva avuto luogo nella sua regione più ricca. Oltre metà della produzione industriale francese d’anteguerra era localizzata nell’area devastata dalla guerra che era inoltre una delle regioni agricole più importanti: da qui si ebbe la pretesa della Francia che la Germania pagasse la guerra. Facendo assegnamento sulle riparazioni tedesche per affrontare le spese, il governo francese intraprese immediatamente un esteso programma di ricostruzione materiale delle aree danneggiate dalla guerra, che ebbe immediatamente l’effetto di stimolare l’economia a nuovi record produttivi. Quando le riparazioni tedesche non si concretizzarono nella cifra prevista, i metodi approssimativi impiegati per finanziare la ricostruzione imposero il loro pedaggio. Il problema si aggravo con la costosa e inutile occupazione della Ruhr. Il franco si deprezzò più nei primi sette anni di pace che durante la guerra. Un governo di coalizione stabilizzò nel 1926 il franco a circa un quinto del suo valore prebellico attuando drastiche economie e rigidi aumenti tributari provocando l’ostilità della Storia Economica - 30067 48 63 ibidem, pp. 564-571. classe percettrice di rendite, che perse con l’inflazione circa l’80% del proprio potere d’acquisto. Come in Germania, l’inflazione contribuì alla crescita degli estremismi sia di destra che di sinistra. Il franco così stabilizzato era stato in pratica svalutato rispetto alle altre valute maggiori. Ciò stimolò le esportazioni, scoraggiò le importazioni e determinò un afflusso di oro. Per questo la depressione colpì la Francia più tardi di altri paesi e fu forse meno severa. Nel 1936 tra partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali, si coalizzarono nel Fronte popolare, dando vita ad un governo guidato dall’esponente socialista Léon Blum. Il governo del Fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti di riforma in materia di lavoro, come la settimana lavorativa di quaranta ore, l’arbitrato obbligatorio in caso di conflitti di lavoro e le ferie pagate per i lavoratori dell’industria. Sul fronte più impegnativo del risanamento economico il Fronte popolare non si rivelò più efficace dei precedenti governi francesi. I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale, subirono tutti le conseguenze della depressione ma non tutti allo stesso modo. Negli anni Venti, quando Gran Bretagna e Francia tornarono al gold standard, molti paesi minori adottarono il sistema della libera convertibilità con le monete a parità aurea. Le loro banche centrali, invece di mantenere riserve in oro col quale convertire le rispettive valute nazionali, conservarono al medesimo fine depositi nelle banche centrali dei paesi più grandi. Dopo l’abbandono del gold standard da parte della Gran Bretagna nel 1931, molti paesi che con essa avevano intensi scambi commerciali abbandonarono la parità aurea e allinearono le loro valute alla lira sterlina: nacque il “blocco della sterlina”. Quando nel 1933 gli Stati Uniti svalutarono il dollaro, gran parte dei loro partner commerciali cercarono di allineare le rispettive valute al dollaro. In Europa ciò lasciò la Francia al centro del “blocco dell’oro”, quei paesi cioè che cercavano di conservale la convertibilità in oro (Svizzera, Belgio e Paesi Bassi). Quando anche i francesi svalutarono il franco spezzandone il legame con l’oro, lo fecero nell’ambito di una limitata ripresa internazionale. Con l’accordo monetario tripartito del 1936 i governi britannico, francese e statunitense si impegnarono a stabilizzare i tassi di cambio tra le rispettive monete per evitare svalutazioni a fini concorrenziali e per contribuire in altro modo ad una restaurazione dell’economia internazionale. Anche avvenimenti politici come l’affermazione del fascismo ebbero i loro aspetti economici. Mussolini, avvalsosi del filosofo Giovanni Gentile per una razionalizzazione del fascismo, glorificava l’uso della forza, vedeva nella guerra la più nobile delle attività umane, denunciava il liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’individualismo, deificava lo stato come suprema manifestazione dello spirito umano e guardava con disprezzo al benessere materiale e considerava le disuguaglianze umane non solo inevitabili ma desiderabili. Mussolini inventò lo stato corporativo, una delle innovazioni più pubblicizzate e meno riuscite del regime. Esso era l’antitesi sia del capitalismo che del socialismo. Pur permettendo l’esistenza della proprietà privata, gli interessi sia dei proprietari che dei lavoratori erano subordinati a quelli più elevati dell’intera società, rappresentata dallo Stato. Tutte le industrie del paese furono organizzate in dodici “corporazioni”, l’equivalente delle associazioni di settore. I sindacati precedentemente esistenti furono soppressi. Tra le funzioni delle corporazioni erano la determinazione dei prezzi, dei salari e delle condizioni di lavoro e la previdenza sociale. Le corporazioni agirono da associazioni capitalistiche di settore il cui scopo era di accrescere il reddito degli uomini d’affari e degli amministratori di partito a spese dei lavoratori e dei consumatori. Nonostante grandi opere pubbliche e programmi di riarmo, l’Italia soffrì duramente durante la depressione. Nel tentativo di porvi rimedio il governo fascista italiano creò grandi aziende statali, in settori chiave dell’economica, il cui interessa andava più al mantenimento di alti livelli occupazionali che all’aumento dell’efficienza. Più efficace degli altri paesi occidentali a combattere la depressione fu la Germania nazista, il primo grande paese industriale a conseguire un completo risanamento tramite un grandioso programma di opere pubbliche che si fuse gradualmente con un programma di riarmo. Il regime nazista abolì le contrattazioni collettive tra lavoratori e proprietari sostituendole con comitati di “amministratori” del lavoro con pieni poteri in materia di determinazione di salari, orari e condizioni di lavoro. Storia Economica - 30067 49 A differenza del regime totalitario russo, i nazisti non ricorsero ad una massiccia nazionalizzazione dell’economia: per raggiungere i loro fini si affidarono alla coercizione e ai controlli. Uno dei principali obiettivi economici dei nazisti era rendere autosufficiente l’economia tedesca nell’eventualità di una guerra. Ordinarono agli scienziati di inventare nuove forme sintetiche di prodotti di prima necessità e per l’esercito che potessero essere fabbricate con materie prime disponibili in Germania. Prima dell’avvento del nazismo, la Germania aveva adottato controlli sui cambi per evitare la fuga di capitale escogitando complessi controlli finanziari e monetari intesi ad accrescere il controllo della Reichsbank sui cambi esteri. Furono siglati accordi commerciali con paesi dell’Europa orientale e dei Balcani che prevedevano il baratto tra manufatti tedeschi e prodotti alimentari e materie prime, evitando in tal modo il ricorso all’oro o a valute estere di cui c’era scarsa disponibilità. Tale politica riuscì a legare in modo molto efficace l’Europa orientale all’economia bellica tedesca. La Spagna, essendo sfuggita al coinvolgimento nella Prima guerra mondiale, evitò molti dei problemi e dei dilemmi che assillavano gli altri paesi europei. La sua industria trasse qualche beneficio dalla domanda bellica, ma il paese era ancora prevalentemente agrario ed afflitto da un’agricoltura a bassa produttività. Nel 1939 anche la Spagna si ritrovò sotto un regime autarchico simile a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista. Le rivoluzioni russe e l’Unione Sovietica64. La Russia imperiale entrò nella Prima guerra mondiale prevedendo una rapida vittoria sulle Potenze Centrali. All’inizio del 1917 l’economia era nel caos. All’inizio di marzo scoppiarono a Pietrogrado scioperi e sommosse. I dirigenti degli scioperanti e dei soldati si unirono ai rappresentati dei vari partiti socialisti in un Soviet (consiglio) dei rappresentanti degli operai e dei soldati. Un comitato della Duma (il parlamento) decise di formare un governo provvisorio che ottenne l’abdicazione dello zar. Il nuovo regime proclamò immediatamente la libertà di parola, di stampa e di religione, annunciò che avrebbe realizzato riforme sociali e ridistribuito la terra. Lenin, leader della fazione bolscevica dei partiti socialisti, fece ritorno a Pietrogrado affermando rapidamente la propria autorità sul soviet e cominciando una campagna inesorabile contro il governo provvisorio. Lenin formò un nuovo governo, chiamato Consiglio dei commissari del popolo. La rivoluzione d’ottobre fu seguita da circa quattro anni di atroci conflitti intestini e guerre civili. Nel marzo del 1918 il governo pose fine alla guerra con la Germania col trattato di Brest- Litovsk. Nel tentativo di sopravvivere e mantenere il potere, i bolscevichi, che ora si chiamavano comunisti, introdussero una drastica politica che fu detta comunismo di guerra. Essa comprendeva: • la nazionalizzazione dell’economia urbana, • la confisca e la distribuzione della terra ai contadini, • un nuovo sistema giuridico • l’introduzione nel governo di un partito unico, la “dittatura del proletariato”, guidato da Lenin. Nel 1922 Lenin decise di creare una federazione, almeno di nome, contro il parere dello specialista in problemi delle nazionalità, il georgiano russificato Iosif Stalin. In quell’anno nacque l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS - CCCP !"#$ !"%&'()*+ !",*-.*('*/&()*+ 0&(123.*)). L’economia dopo la firma del Trattato di Riga (pace con la Polonia) era però nel caos: la politica del comunismo di guerra, col suo forte elemento di terrore, non poteva servire da fondamento per l’economia nel lungo termine. La produzione industriale era crollata e la politica agricola non aveva dato buoni risultati. I contadini, di cui i bolscevichi avevano legittimato le occupazioni di terre, rifiutavano di consegnare i loro prodotti a prezzi artificialmente bassi imposti dal governo. Di fronte alla prospettiva della paralisi economia e all’eventualità di una grande rivolta contadina, Lenin capovolse radicalmente gli indirizzi precedenti con la cosiddetta Nuova Politica Economica (NEP), un compromesso con i principi capitalistici dell’economi che Lenin definì “un passo indietro per andare avanti”. Storia Economica - 30067 50 64 ibidem, pp. 571-577. Pianificazione dell’economia postbellica68. Uno dei compiti più urgenti che attendevano i popoli europei dopo il soddisfacimento dei bisogni legati alla sopravvivenza era il ripristino della normalità nella giustizia, nell’ordine pubblico e nell’amministrazione statale. La stessa enormità dell’impresa della ricostruzione richiedeva un ruolo dello stato nella vita economica e sociale molto più ampio che non nel periodo prebellico. Alla ricostruzione poteva essere applicata anche tutta l’esperienza che l’apparato burocratico aveva accumulato durante la guerra. La conseguenza fu una diffusa domanda da parte dell’opinione pubblica di riforme politiche, sociali ed economiche. Nella sfera economica la risposta a questa domanda assunse la forma della nazionalizzazione di settori chiave dell’economia, quali i trasporti, la produzione di energia e segmenti del sistema bancario; l’estensione del sistema previdenziale e dei servizi sociali e l’assunzione da parte dello Stato di maggiori responsabilità per il mantenimento di livelli economici soddisfacenti. Negli stessi Stati Uniti fu approvato nel 1946 l’Employment Act che istituiva il comitato dei consiglieri economici del presidente e obbligava il governo federale a mantenere alti livelli occupazionali. Nel 1941 Roosevelt e Churchill avevano firmato la Carta Atlantica, che impegnava i rispettivi paesi nel tentativo di ripristinare un sistema mondiale di scambi multilaterali in luogo del bilateralismo degli anni Trenta (fu in realtà solo una dichiarazione di buoni intenti). Nel 1944, alla conferenza internazionale di Bretton Woods, furono poste le fondamenta di due grandi istituzioni internazionali. Al Fondo Monetario Internazionale (FMI) veniva attribuita la responsabilità di gestire il sistema dei tassi di cambio tra le varie monete mondiale ed inoltre di finanziare eventuali squilibri a breve termine nei pagamenti tra i vari paesi. La Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, nota anche come Banca Mondiale, doveva concedere prestiti a lungo termine per la ricostruzione delle economie devastate dalla guerra e, in seguito, per lo sviluppo delle nazioni più povere. Queste due istituzioni divennero operative nel 1946. I partecipanti alla conferenza di Bretton Woods avevano previsto inoltre la creazione di un’Organizzazione internazionale per il commercio che avrebbe dovuto formulare le regole di scambi equi fra le nazioni. Ulteriori conferenze furono organizzate a questo fine, ma il meglio che si poté ottenere fu un molto più limitato Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General Agreement on Tariffs and Trade, GATT), firmato a Ginevra nel 1947. I firmatari si impegnavano a estendere reciprocamente la clausola della nazione più favorita (cioè a non discriminare nei confronti degli altri paesi), a cercare di ridurre i dazi, a non ricorrere a restrizioni quantitative (contingenti), abolendo quelli già esistenti, e a consultarsi prima di ogni importante cambiamento politico. Nel 1944, infine, il Gatt è stato sostituito dalla World Trade Organization (Wto). Il Piano Marshall e i “miracoli” economici69. Verso la metà o la fine del 1947 buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, era tornata ai livelli prebellici di produzione industriale. Nel caos monetario e finanziario degli anni Trenta praticamente tutti i paesi europei e molti altri extraeuropei avevano adottato controlli sui cambi; le loro valute non erano cioè convertibili in altre se non su autorizzazione concessa dalle autorità monetarie. Il rimedio alla scarsità di merci poteva essere trovato soprattutto oltreoceano, ma per acquistare occorrevano dollari. Il denaro concesso dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti e sovvenzioni per il risanamento contribuì ad alleviare questa penuria di dollari nei primi due anni del dopoguerra. La crescente “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e l’URSS e il ruolo dei partiti comunisti nella vita politica di diversi paesi dell’occidente europeo, in particolare la Francia e l’Italia, davano alle autorità americane motivo di preoccupazione sulla stabilità politica dell’Europa occidentale. Il 5 giugno 1947 il generale Marshall, nominato segretario di stato dal presidente Truman, annunciava che se i paesi europei avessero presentato una richiesta di assistenza congiunta e coerente, il governo statunitense avrebbe risposto in modo soddisfacente. Fu questa l’origine del Storia Economica - 30067 53 68 ibidem, pp. 583-585. 69 ibidem, pp. 585-592. Piano Marshall. Nel luglio 1947 si incontrarono a Parigi i rappresentanti di sedici nazioni dell’Europa occidentale, autodefinitisi Commissione di cooperazione economica europea (Ccee). Nella primavera del 1948 il Congresso approvò il Foreign Assistance Act, che istituiva lo European Recovery Program (Erp) la cui gestione era affidata alla Economic cooperation adiministration (Eca). Allo stesso tempo non c’era totale unanimità in Europa sugli obiettivi del programma. La Gran Bretagna aveva sperato in maggiori aiuti bilaterali da parte degli Stati Uniti, invece di vederseli incanalati attraverso un’organizzazione europea. I francesi erano preoccupati dal ruolo che la Germania avrebbe potuto avere nella futura organizzazione. Dopo la deliberazione del Congresso la Ccee si trasformò nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece), responsabile, insieme con l’Eca, della distribuzione degli aiuti americani. La Germania venne divisa in due stati distinti: la Repubblica federale tedesca e la Repubblica democratica tedesca. Anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino Est, capitale della Rdt, e Berlino Ovest, appartenente alla Rft. La conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle altre industrie pesanti tedesche, il pagamento di riparazione ai vincitori e alle vittime dell’aggressione nazista, rigorose limitazioni alla capacità produttiva tedesca ed un vigoroso programma di denazificazione, che prevedeva il processo ai capi nazisti come criminali di guerra. Le autorità sovietiche smantellarono molte fabbriche nella loro zona e le trasferirono in Russia a titolo di riparazione. Dopo un breve tentativo delle potenze occidentali di ottenere riparazioni in natura e di spezzare le grandi concentrazioni industriali esistenti nelle loro zone, esse compresero che l’economia tedesca doveva essere lasciata integra per contribuire alla ripresa economica dell’Europa occidentale. Capovolsero la loro politica prendendo misure atte a incoraggiare la produzione tedesca. Per stimolare la ripresa economica nel 1948 le potenze occidentali attuarono un riforma della moneta tedesca, rimpiazzando lo svalutato e disprezzato Reichsmark nazista con il Deutschmark. La risposta immediata e travolgente divenne nota come Wirtschaftswunder (miracolo economico). Le merci precedentemente intercettate o vendute al mercato nero riapparvero; le fabbriche ripresero a produrre e la Germania occidentale cominciò la sua sensazionale rinascita economica. Nel frattempo la Germania veniva integrata nell’European Recovery Program. Nel maggio del 1949 nasceva la Repubblica federale di Germania. Per non essere da meno, l’Unione Sovietica fondò subito la cosiddetta Repubblica democratica tedesca, e nel mese di settembre fu tolto il blocco a Berlino. Con la Germania Occidentale pienamente integrata nell’Oece e nel Piano Marshall, il risanamento economico dell’Europa occidentale poteva dirsi completo. Il Piano Marshall si concluse nel 1952 con un successo superiore alle attese. Una delle più importanti nuove istituzioni fu l’Unione Europea dei Pagamenti (Uep). Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del commercio nell’immediato dopoguerra era la scarsità di valuta estera, dollari in particolare, e la conseguente necessità di un conguaglio bilaterale degli scambi. Nel giugno 1950, i paesi dell’Oece, forti di una sovvenzione di 500 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, inaugurarono l’Uep. Questo strumento permise un libero commercio multilaterale all’interno dell’Oece: si tenevano accurate registrazioni di tutti gli scambi fra paesi europei e alla fine di ogni mese si tiravano le somme e si operavano le compensazioni. I debiti dei paesi con un saldo passivo erano segnati su un contro centrale, e se il loro disavanzo era cospicuo una parte di esso doveva essere pagata in oro o in dollari; ai paesi creditori, invece, erano riconosciuti dei crediti sul medesimo conto, e in caso di crediti molto ingenti essi ne incassavano una parte in oro o dollari, cosa che permetteva loro di importare di più dalle aree a moneta forte. Ciò incentivò i paesi dell’Oece ad aumentare le esportazioni reciproche e a diminuire la propria dipendenza dagli Stati Uniti e dagli altri fornitori d’oltreoceano. Nei due decenni successivi all’istituzione dell’Uep il commercio mondiale crebbe ad un tasso medio annuo dell’8%. Gran parte di questa crescita si verificò naturalmente in Europa, sia a livello intereuropeo che tra i paesi europei e quelli di altri continenti. L’Uep ebbe tanto successo che, in concomitanza con la crescita globale degli scambi, i Storia Economica - 30067 54 paesi dell’Oece furono in grado nel 1958 di tornare alla libera convertibilità delle loro valute e ad un pieno commercio multilaterale. Nel 1961 l’Oece si trasformò nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), alla quale aderirono gli Stati Uniti e il Canada (e in seguito il Giappone e l’Australia): un’organizzazione di paesi industriali avanzati per coordinare gli aiuti ai paesi sottosviluppati, cercare accordi su questioni di politica macroeconomica e dibattere altri problemi di reciproco interesse. Una crescita senza precedenti70. Il quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale vide il periodo più lungo di crescita ininterrotta dei paesi industrializzati, e al ritmo più elevato mai raggiunto nel corso della storia il tasso di crescita medio del prodotto nazionale loro per unità di lavoro fu tra il 1950 e il 1973 di circa il 4,5%. La crescita fu particolarmente rapida in quei paesi che disponevano di un’abbondante riserva di manodopera, risultato della contrazione della popolazione agricola (Giappone, Italia e Francia) Negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna, paesi che alla fine della guerra avevano i redditi pro capite più elevati, la crescita fu più lenta che non nell’Europa occidentale continentale. I paesi del gruppo industriale con redditi pro capite relativamente modesti - Italia, Austria, Spagna, Grecia e Giappone - crebbero più velocemente della media. L’espressione “miracolo economico” venne applicata per la prima volta al ragguardevole balzo in avanti compiuto dalla Germania Occidentale dopo la riforma del 1948. Gli aiuti americani svolsero un ruolo determinante nell’innescare la ripresa economica, sostenuta in seguito dall’Europa con alti livelli di risparmi e investimenti. Vi furono momenti in cui la concorrenza tra spesa per i consumi e spesa per investimenti determinò forti pressioni inflazionistiche. Negli anni della depressione e della guerra si era costituita una riserva di innovazioni tecnologiche che attendeva per essere essa a frutto soltanto il capitale e il lavoro qualificato. Le economie europee in realtà avevano ristagnato per un’intera generazione. La modernizzazione tecnologica perciò accompagnò e contribuì in modo rilevante al cosiddetto miracolo economico. Altri fattori importanti furono l’atteggiamento e il ruolo della pubblica amministrazione. Furono nazionalizzate alcune industrie di base, redatti programmi economici e assicurata un’ampia gamma di servizi sociali. Nelle economie miste o assistenziali che divennero una caratteristica delle democrazie occidentali lo Stato si assumeva il compito di assicurare la stabilità generale, un clima favorevole alla crescita ed un minimo di protezione per gli individui economicamente deboli e sfavoriti, ma lasciava il compito di produrre i beni e i servizi desiderati dalla popolazione prevalentemente a imprese private. A livello internazionale buona parte del merito per la bontà dei risultati economici va al grado elevato di collaborazione intergovernativa. I bassi livelli di analfabetismo e l’abbondanza di istituzioni scolastiche specializzate, dai giardini d’infanzia alle technische Hochschulen, dalle università agli istituti di ricerca, assicuravano il personale qualificato e il brainpower necessari per applicare efficacemente la nuova tecnologia. La sopravvalutazione del dollaro, inoltre, permetteva i produttori europei di rimpiazzare le importazioni americane in Europa, di fare una serrata concorrenza ai prodotti americani nei mercati dei paesi terzi e persino di penetrare nel mercato statunitense. Quando gli Stati Uniti svelarono unilateralmente il dollaro, nell’agosto del 1971, a gran parte dei paesi europei occorse oltre un decennio per adeguarsi ai nuovi scenari commerciali internazionali. Storia Economica - 30067 55 70 ibidem, pp. 592-595. I travagli del Terzo Mondo73. In molti casi le ex colonie cercarono di imitare il successo apparente dell’America Latina nella costruzione di un’indipendenza economica oltre che politica nei confronti degli ex padroni coloniali. I programmi latinoamericani fallirono quasi invariabilmente per diversi motivi: la piccolezza dei mercati interni, sia per dimensioni che per potere d’acquisto, che non giustificava l’utilizzazione dei metodi di produzione più economici; un’insufficiente cooperazione a livello regionale e, a differenza del Giappone, la mancanza del capitale umano necessario per fare un uso efficace della nuova tecnologia d’importazione e, a maggior ragione, per svilupparne una propria. Le origini dell’Unione Europea74. Il sogno di un’Europa unita è antico quanto l’Europa stessa. Il concetto europeo che si sviluppò dal Congresso di Vienna del 1815 fu un tentativo di coordinare la politica ai livelli più alti del governo. La Società delle nazioni fu un concerto dei vincitori europei della Prima guerra mondiale. Tutti i tentativi fallirono per l’incapacità dei sedicenti unificatori di conservare il monopolio del potere di coercizione e la riluttanza dei soggetti a sottomettersi volontariamente alla loro autorità. Al frazionamento dell’Europa contribuirono nei tempi più antichi la difficoltà di comunicazione. Poi l’idea del nazionalismo si insediò così profondamente nel pensiero europeo, in particolare dopo la rivoluzione francese, che la sovranità, vale a dire la suprema autorità e potestà, divenne quasi sinonimo di nazionalità. È importante avere ben chiara la distinzione tra organizzazioni internazionali e soprannazionali. Le organizzazioni internazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non possiedono un reale potere di coercizione. Le organizzazioni sopranazionali richiedono che i loro membri cedano almeno una parte della loro sovranità e possono costringerla a uniformarsi alle proprie disposizioni. Sia la Società delle Nazioni che le Nazioni Unite sono esempi di organizzazioni internazionali. In Europa l’Oece e la maggior parte delle organizzazioni postbelliche degli stato sono state internazionali piuttosto che sopranazionali. Proposte di vari tipi di organizzazioni sopranazionali europee sono divenute via via più frequenti a partire dal 1945 e scaturiscono da due motivazioni distinte. Il motivo politico è radicato nella convinzione che solo attraverso un’organizzazione sopranazionale la minaccia di una guerra tra le potenze europee può essere permanentemente estirpata. Alcuni sostenitori dell’unità politica europea credono inoltre che se le nazioni europee vogliono riconquistare l’antico ruolo negli affari mondiali esse devono essere in grado di parlare con una sola voce e disporre di risorse e di un capitale umano paragonabile a quello degli Stati Uniti. Il motivo economico si fonda sulla tesi che mercati più ampi promuovano la specializzazione e la concorrenza, e di conseguenza una produttività più elevata ed un più alto tenore di vita. I due motivi si fondano nella considerazione che la forza economica è la base della potenza politica e militare e che un’economia europea pienamente integrata renderebbe le guerre intraeuropee meno probabili se non impossibili. L’idea della sovranità nazionale è radicata così profondamente che la maggior parte delle proposte pratiche di organizzazione sopranazionale hanno previsto l’unificazione economica come prerequisito dell’unificazione politica. Nel 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Shuman propose l’integrazione delle industrie del carbone e dell’acciaio della Francia e della Germania Occidentale per motivazioni sia politiche che economiche. Il carbone e l’acciaio erano il cuore dell’industria moderna, in particolare quella degli armamenti, e tutti i segni indicavano una ripresa dell’industria tedesca. Il Piano Schuman era un artificio per mantenere l’industria tedesca sotto sorveglianza e controllo. Il trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), siglato nel 1951 prevedeva: Storia Economica - 30067 58 73 ibidem, pp. 613-614. 74 ibidem, pp. 615-621. 1) l’eliminazione delle tariffe e dei contingenti in materia di scambi intracomunitari di minerale ferroso, carbone, coke e acciaio, 2) una tariffa esterna comune sulle importazioni da altri paesi, 3) controlli sulla produzione e sulle vendite. Per finanziare la propria attività la comunità fu autorizzata ad imporre una tassa sulla produzione alle imprese che ricadevano nella sua giurisdizione. Sviluppi quali la guerra di Corea, l’istituzione della Nato (North Atlantic Treaty Organization) nel 1949 e la rapida ripresa economica della Germania avevano dimostrato l’importanza di includere i contingenti tedeschi in una forza militare dell’Europa occidentale. Nel 1957 i partecipanti al Piano Schuman siglarono a Roma due altri trattati che istituivano la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) per lo sviluppo di usi pacifici per l’energia atomica e, più importante, la Comunità economica europea (Cee), o Mercato comune. Il trattato per il Mercato comune prevedeva la graduale eliminazione dei dazi sull’importazione e delle limitazioni quantitative su tutti gli scambi tra i paesi membri e l’introduzione di una tariffa esterna comune dopo un periodo di transizione da dodici a quindici anni. I membri della comunità si impegnavano ad attuare politiche comuni nei trasporti, in agricoltura, nella previdenza sociale e in altri settori cruciali della politica economica e a permettere il libero movimento di persone e capitali all’interno dei confini della comunità. Una delle clausole più importanti del trattato fu che esso non poteva essere denunciato unilateralmente e che, dopo un certo stadio del periodo di transizione, le ulteriori decisioni sarebbero state prese da una maggioranza qualificata piuttosto che all’unanimità. Sia il trattato del Mercato comune che quello per l’Euratom istituirono alte commissioni per sovrintendere al proprio funzionamento e fusero gli altri organi sopranazionali con quelli della Ceca. Il trattato del Mercato comune entrò in vigore il 1° gennaio 1958. Nelle fasi preliminari dei trattati di Roma altri paesi furono invitati ad aderire al Mercato Comune. Dopo la firma del trattato istitutivo del Mercato comune la Gran Bretagna, i paesi scandinavi, la Svizzera, l’Austria e il Portogallo crearono l’Associazione europea di libero scambio (EFTA). Il trattato istitutivo dell’Efta prevedeva unicamente l’eliminazione delle tariffe sui prodotti industriali tra i paesi firmatari. Non erano compresi i prodotti agricoli, non si parlava di una tariffa esterna comune ed ogni membro poteva ritirarsi in qualsiasi momento. Nel 1961 la Gran Bretagna rese nota la sua disponibilità di entrare nel Mercato comune a certe condizioni. E attuata, questa mossa avrebbe comportato l’ingresso anche della maggior parte dei paesi appartenenti all’Efta. Nel 1946 il presidente francese de Gaulle pose un vero e proprio veto all’accoglimento della Gran Bretagna. Dopo le dimissioni di de Gaulle nel 1969, il governo francese assunse un atteggiamento più moderato sulla questione dell’ammissione della Gran Bretagna, che aveva dalla sua altri paesi del Mercato comune. Nel 1972 fu approvata l’ammissione, a far data dal 1° gennaio 1973, di Gran Bretagna, Eire, Danimarca e Norvegia. La Norvegia, che aveva fatto richiesta di ammissione ed era stata accettata, sottopose però la questione al giudizio di un referendum popolare, che diede esito negativo. I sostenitori dell’unità europea avevano in mente molto più che un semplice mercato comune o un’unione doganale. Per loro il Mercato comune non era che il preludio agli Stati Uniti d’Europa. Dopo la firma dei trattati di Roma cominciarono a parlare di “Comunità europee” e, dopo la fusione delle alte commissioni nel 1965, di “Comunità europea”. Dalla fusione delle assemblee generali nacque il parlamento europeo. In un primo momento i suoi componenti venivano eletti dai parlamentari degli stati membri e sedevano in raggruppamenti nazionali. Esso ebbe un potere esclusivamente consultivo fino a quando la comunità non ottenne con propri dazi doganali una fonte di entrate indipendente. Da quel momento in poi il parlamento ebbe un limitato controllo sul bilancio. Nel 1979 i membri del parlamento furono eletti direttamente dal popolo e presero posto nell’assemblea come raggruppamenti di partiti piuttosto che secondo le nazionalità. Negli anni cinquanta e sessanta, all’epoca dell’istituzione della comunità, l’economia mondiale era forte e in espansione, e ciò rafforzò l’ottimismo per la nuova iniziativa facilitandone lo sviluppo. Storia Economica - 30067 59 Nel periodo di allargamento dell’organizzazione, l’economia mondiale era molto meno propizia alla crescita. Il sistema di tassi fissi di cambio di Bretton Woods decadde il 15 agosto 1971, proprio mentre erano in corso i negoziati tra Comunità europea e Gran Bretagna. Ciò vanificò i piani per la creazione di una valuta comune nei sei paesi membri originari, poiché ciascuno dovette affrontare pressioni speculative contro la propria valuta tali da alterare le parità precedenti. Nel 1973, quando la Gran Bretagna era ormai entrata nella Comunità europea assieme all’Irlanda e alla Danimarca, il primo shock petrolifero travolse i piani economici di tutti i paesi membri. Ciascun paese adottò una propria strategia per neutralizzare gli effetti di un prezzo del petrolio quadruplicato. Per compensare in parte i britannici del prezzo elevato che avrebbero dovuto pagare per le importazioni alimentari, furono introdotti i fondi regionali che tuttavia innescarono una competizione tra paesi membri per l’accesso ai contributi Cee. L’ECONOMIA MONDIALE ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO75. Overview76. L’anno 2001 ha segnato non solo l’inizio del XXI secolo ma anche la conclusione del primo decennio di operatività di un’economia veramente globale. Dopo il crollo definitivo dell’Unione Sovietica nel 1991 quasi ogni nazione del mondo ha recepito la necessità di adattare le proprie politiche e strutture economiche alle esigenze del mercato globale emergente. Il presidente russo Boris Elcin proclamò anche il definitivo fallimento dell’esperimento comunista delle economie a pianificazione centralizzata ed essenzialmente autosufficienti. Da quel momento forze di mercato sono dilagate nel pianeta: progressi sensazionali nella tecnologia informatica e delle telecomunicazioni e nuove possibilità di investimento e di crescita. Capitale, lavoro e mercati rispondono con l’instabilità dei prezzi e con sconcertanti spostamenti quantitativi anche per effetto della globalizzazione.In tutti i paesi industrializzati sorgono barriere non tariffarie con la nuova motivazione della tutela dei diritti umani e dell’ambiente. Ciò che ha contribuito all’affermarsi di questa nuova economia globale è il successo economico dell’Europa occidentale che si è ripresa in modo rapido e definitivo dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale. Il boom giapponese fu in realtà più lungo e robusto della lunga espansione economica postbellica europea. Dalla fine degli anni quaranta all’inizio degli anni settanta il tasso di crescita del Pnl giapponese superò il 10% annuo. Nel 1966 quella giapponese era divenuta la seconda economia al mondo, posizione che conserva ancora oggi. Solo negli anni novanta il Giappone conobbe un prolungato rallentamento e una crescente sfiducia nei confronti delle sue istituzioni economiche. Tra i fenomeni e/o caratteristiche che permisero al Giappone di diventare leader nell’introduzione di nuove tecnologie, nei campi dell’elettronica e della robotica possiamo annoverare: - rimonta tecnologica, - alto livello del capitale umano, - alti livelli di risparmio e investimento, - classe manageriale sofisticata e consapevole dell’alta redditività delle funzioni di R&D, - direzione di governo stabile e duratura, Altri paesi asiatici, come Corea del Sud, e Taiwan, ebbero tassi di crescita estremamente alti sia della produzione totale che del commercio con l’estero. Il loro successo è dovuto principalmente a: - alti tassi di risparmio; - popolazione istruita; - governi stabili sostenitori di una crescita stimolata delle esportazioni; - disposizione di quantità elastiche di manodopera; - fabbriche modello costruite da multinazionali giapponesi e americane. Storia Economica - 30067 60 75 R. CAMERON, L. NEAL, Storia economica del mondo. Dal XVII secolo ai nostri giorni, tomo II, Il Mulino, 2005. Capitolo XVI. 76 ibidem, pp. 623-628. L’evoluzione dell’Unione Europea78. La stessa Comunità europea si stava trasformando: all’inizio degli anni settanta il primo ministro belga Tindemans preparò un rapporto che prevedeva il completamente dell’unione entro il 1980. Il rapporto non trovò mai pratica attuazione: il movimento per il “rilancio” dell’Europa riprese sotto la leadership di Jacques Delors, ex funzionario del governo francese e convinto sostenitore dell’unità europea, che divenne presidente della Commissione della Comunità europea nel 1985. Il Consiglio europeo decise in linea di principio di procedere ad un’unione più stretta e, nel febbraio 1986, fu siglato l’Atto Unico Europeo che richiedeva alla Comunità di adottare oltre trecento provvedimenti per rimuovere le barriere fisiche, tecniche e fiscali al fine di portare a completamento il mercato interno entro il 31 dicembre 1992. La Comunità europea divenne una comunità senza frontiere. Il Sistema monetario europeo (Sme), con il suo connesso meccanismo dei tassi di cambio, era stato istituito nel 1979, ma la coordinazione delle politiche monetarie rimase uno dei principali ostacoli sulla strada del completamento dell’unione economica. Nel 1991 la Comunità decise di creare una propria banca centrale (1994), seguita da una moneta unica (1999), ma una crisi dei tassi di cambio nel settembre del 1992 costrinse il Regno Unito e l’Italia ad uscire dallo Sme e fece differire altre misure. Al posto di una banca centrale fu istituito nel 1994 a Francoforte un suo possibile precursore, l’Istituto monetario europeo. Nel dicembre del 1991 il Consiglio d’Europa, riunito a Maastricht, in Olanda, siglò un nuovo trattato che intendeva creare un’unione sempre più stretta tra i popoli europei. Il nuovo trattato mutò il nome della Comunità europea in Unione Europea, accrebbe i poteri del parlamento europeo chiamato ad “azioni congiunte” nella politica estera e di difesa con lo scopo finale di una politica estera e di sicurezza comune, e introdusse il principio della “sussidiarietà” in base al quale le decisioni dovevano essere prese “al livello più vicino possibile ai cittadini”. Nel 1993 avvenne la creazione di un’area economica europea attraverso la fusione della Comunità europea con i paesi membri dell’Associazione europea di libero scambio (eccetto la Svizzera). Limiti dello sviluppo79. Nel 1972 un gruppo di ricerca associato al Massachusetts Institute of Technology pubblicò I limiti dello sviluppo, libro che affermava che l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni richiamandosi alle cinque linee di tendenza più importanti: • l’industrializzazione sempre più accelerata, • la rapida crescita demografica, • la diffusa sottoalimentazione, • il depauperamento delle risorse non rinnovabili, e • il deterioramento dell’ambiente. La crescita della popolazione mondiale ha continuato anche in concomitanza con l’inizio dell’accelerazione del tasso di crescita del reddito pro capita, dopo i 1985. L’elemento comune che spiega il successo dei paesi attualmente più industrializzati (o in via di sviluppo) è l’accresciuta importanza del commercio con l’estero per ciascuno dei paesi coinvolti. L’FMI calcola che il prodotto interno lordo sia cresciuto ad una media di oltre il 3,6% annuo. La “corsa” tra popolazione e risorse conduce a due problemi correlati, il tasso di utilizzazione (e di esaurimento) delle risorse e l’ineguaglianza nella distribuzione delle medesime. Non c’è dubbio che il mondo, in particolare i paesi ricchi, stiano utilizzando le risorse a ritmi che non hanno precedenti nella storia. Ciò è di per se stesso un indice del suo “successo” nel dominio dell’ambiente e nella soluzione del problema economico, ma ha anche suscitato timori di un esaurimento totale delle risorse. Storia Economica - 30067 63 78 ibidem, pp. 640-642. 79 ibidem, pp. 643-647. PROFILO DELLA STORIA INDUSTRIALE ITALIANA80. L’influenza della Rivoluzione industriale sull’economia prevalentemente agricola delle diverse regioni italiane ebbe due importanti ordini di manifestazione: 1. Materiale: riguarda il potenziamento di correnti di scambio con il resto del mondo. Si tratta di un ampliamento considerevole di un tradizionale flusso di esportazioni di prodotti primari da alcune regioni settentrionali italiane: seta greggia e filatoiata, per le filature e le tessiture di Francia, Gran Bretagna, Germania e Svizzera. 2. Informativa-culturale: insieme di suggestioni e di impulsi ad “imitare” il progresso dei paesi in corso di sviluppo industriale. La produzione serica, derivante dall’allevamento del baco da seta e dalla coltura del gelso, era concentrata soprattutto nelle regioni dell’Italia settentrionale, in specie Piemonte e Lombardia. Benché la domanda europea tendesse già allora a rivolgersi verso Oriente (Bengala, Cina e Giappone), una notevole quota di questa domanda poteva trovare soddisfazione nel Continente stesso, in quelle poche aree privilegiate che consentivano, per l’esistenza di condizioni climatiche adatte, di produrre la seta. Queste zone avevano curato la diffusione di piantagioni di gelsi, e avevano avviato le attività di prima trasformazione del prodotto dell’allevamento: trattura e torcitura. La tessitura era affermata invece su scala più larga in Francia. Le tecniche relative agli stadi iniziali del ciclo tessile serico erano state, in Italia, all’avanguardia rispetto al resto d’Europa. Gli stabilimenti di torcitura della seta davano lavoro stagionalmente alle famiglie contadine. In questi opifici sparsi per le campagne e dotati di attrezzature modeste si formò la prima educazione al lavoro industriale di una manodopera che venne poi utilizzata in altre produzioni. L’interesse commerciale per questo prodotto sorto in taluni paesi importatori, contribuì a favorire un afflusso, nell’Italia del Nord, di imprenditori svizzeri e tedeschi che dovevano avere un grande ruolo nell’avviare le prime iniziative industriali anche in altri campi. Da parecchi punti di vista la diffusione della produzione serica servì a formare “economie esterne” per un ulteriore sviluppo industriale. La seta può essere considerata il primo “settore traente” dello sviluppo economico italiano dell’Ottocento. Per circa un secolo, dalla Restaurazione alla Prima guerra mondiale, le esportazioni di seta furono la prima voce delle esportazioni dell’intero territorio italiano (un terzo del valore complessivo). Di minore importanza restò per lungo tempo il ramo finale del settore serico: quello della tessitura. La domanda alla quale l’economia italiana fu in grado di rispondere su larga scala riguardò solo un prodotto per il quale vi era una posizione di oligopolio naturale e non vi erano battaglie competitive da condurre, e per il quale il rapporto commerciale si stabiliva con il settore produttivo estero. Lo stesso mercato interno italiano di beni finali non offriva, per un prodotto di qualità come il tessuto di seta, dimensioni sufficienti. La lavorazione intermedia della torcitura ebbe uno sviluppo limitato, localizzato soprattutto in Piemonte, in virtù di una politica mercantilistica che proibiva l’esportazione della seta allo stato greggio. Geograficamente, l’industria cotoniera si concentrò fra Piemonte e Lombardia, quella liniera nella sola Lombardia, mentre per la lana vi fu un maggiore decentramento regionale (Piemonte, Veneto, Toscana). Il Mezzogiorno aveva un piccolo nucleo cotoniero (Salerno) e uno laniero, molto protetti dai dazi doganali. Tranne che per il lino, e parzialmente per la lana, le materie prime utilizzate da queste produzioni non erano di provenienza domestica. La gran parte degli stessi prodotti finiti, consumati all’interno, erano di importazione, nonostante la protezione doganale di cui godevano. La fase produttiva del settore tessile, che per prima cominciò a prendere caratteri industriali (negli opifici) con l’uso di forza motrice centralizzata e di macchinari meccanici, fu quella della filatura. Negli altri rami si ebbero progressi soprattutto per il cotone e per il lino, meno per la lana, che era tecnicamente di più difficile trattamento, e per la quale i singoli mercati regionali consentivano una domanda troppo limitata e povera. La tessitura continuò ad avere prevalente carattere artigianale, anche se in gran parte sotto il controllo di mercanti-imprenditori. Qualche impresa cominciava a prendere dimensioni di più notevole ampiezza, ma la produttività era assai bassa. Storia Economica - 30067 64 80 L.CAFAGNA. Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, 1990. Capitolo 10, pagg. 281- 322. Una parte rilevante della produzione si concentrava in aziende più grandi e tecnicamente più aggiornate che cercavano di seguire i rapidi mutamenti tecnologici di altri paesi (benché avessero un lag di 15-20 anni). Nell’insieme il quadro è molto limitato rispetto alle industrie tessili di altri paesi europei: meno di un migliaio di piccole fabbriche (fra seta, cotone, lino e lana) circondate da lavoratori a domicilio e da lavorazioni preparatorie stagionali (trattura della seta). Le condizioni che avevano consentito questo sviluppo erano (oltre ai fattori naturali favorevoli alla seta) fondamentalmente tre: 1. la buona disponibilità di una forza motrice, adatta a imprese di non grandi dimensioni, la quale era fornita dai numerosi corsi d’acqua lungo le valli alpine; 2. una manodopera molto a buon mercato reclutata in un ambiente di agricoltura povera; 3. la protezione doganale offerta dalle tariffe adottate dai vari Stati italiani dopo la Restaurazione. Queste condizioni permettevano di compensare l’assai minore produttività delle fabbriche italiane rispetto a quelle - tecnicamente più progredite - di altri paesi. Le tecnologie della Rivoluzione industriale attiravano l’interesse di taluni ambienti intellettuali di avanguardia. In questo contesto emerse una prima sottile schiera di imprenditori sensibili all’aggiornamento tecnico: sorsero società e istituzioni per promuovere queste conoscenze e si fondarono, a Milano e a Torino, scuole per formare manodopera qualificata. L’orientamento di incoraggiare l’innovazione in campo industriale, con il favore di una congiuntura internazionale ascensiva e di una politica espansiva della spesa pubblica, ottenne in Piemonte, fra il 1848 e il 1859, risultati positivi. La propaganda e l’azione per le ferrovie furono la più importante bandiera del movimento per la modernizzazione dell’Italia. Le prime ferrovie italiane si costruirono molto presto: la Napoli-Portici nel 1830, la Milano-Monza nel 1832. Si trattò, tuttavia, di brevissimi tronchi poco importanti economicamente. Le produzioni militari, per quel poco che ne veniva richiesto dai singoli piccoli Stati italiani, insieme alla produzione di attrezzi agricoli, costituivano la base della modesta siderurgia presente in quelle regioni italiane nelle quali esisteva qualche miniera di ferro: Lombardia, Toscana, Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria. In Italia, l’assenza di giacimenti di carbon fossile costringeva i produttori a continuare nell’uso del carbone di legna, limitando gravemente l’utilizzazione delle possibilità offerte dalla nuova tecnica. Le officine siderurgiche rimasero perciò frazionate e disperse, ciascuna con produzioni limitate. Nelle regioni in cui si fece qualcosa in campo ferroviario prima dell’Unità, si ebbero anche alcuni primissimi e limitati accenni di una nuova industria meccanica. Genova, Torino e Milano stavano lentamente diventando quello che è noto come “triangolo industriale” italiano. Gli ideali economici più importanti che avevano mosso gli uomini del Risorgimento erano stati la diffusione in Italia di quel fondamentale simbolo di progresso rappresentato dalle ferrovie da un lato, e il libero scambio (considerato il principale fattore propulsivo del commercio) dall’altro. L’accelerata politica ferroviaria, che portò alla costruzione dal 1861 al 1876 di una rete tre volte superiore a quella del decennio precedente, fu assai scarsa di effetti di linkages sulle attività industriali: la domanda di rotaie, locomotive, vagoni e ferro per i ponti si rivolse prevalentemente all’estero. Le uniche frazioni della domanda derivanti dalle costruzioni ferroviarie che si rivolsero all’offerta domestica furono quelle relative agli aspetti tecnicamente privi di complessità: la fabbricazione delle traversine di legno e in genere la parte più propriamente stradale. L’altro cardine della politica economica dei primi governi, l’orientamento verso il libero scambio, nasceva da un desiderio di intensificare i contatti commerciali con il resto del mondo, principalmente con l’Europa più avanzata. Per un paese prevalentemente agricolo quale era l’Italia, l’intensificazione degli scambi significava sopratutto maggiore esportazione di prodotti agrari e maggiore importazione di prodotti industriali. L’orientamento liberista trovava favore negli ambienti agrari dei produttori di beni di esportazione. Finché gli interessi agrari non furono anch’essi seriamente minacciati dalla concorrenza estera (afflusso a buon mercato di cereali americani) e finché le industrie non ebbero raggiunto quel tanto Storia Economica - 30067 65 Oltre all’industria cotoniera, beneficiò del nuovo clima che si andava creando anche l’industria siderurgica. La spinta non venne dalle tariffe doganali quanto da altri impulsi: le prime cospicue commesse ferroviarie all’industria nazionale, gli ordinativi derivanti dalla formazione di una rete tranviaria urbana e suburbana nelle maggiori città del Nord (Milano e Torino), la conquista di una quota del mercato delle attrezzature domandate dallo sviluppo dell’industria tessile. Fa in tempo a delinearsi solo appena un nuovo corso per la produzione siderurgia, fondato finalmente sull’abbandono delle linee produttive tradizionali (ghisa e carbone a legna) o interlocutorie (ferro da rimpasto dei rottami) e nell’avvio della produzione dell’acciaio. Soltanto dopo la fine del great depression si può finalmente parlare di uno sprunt dell’industrializzazione italiana. Gli anni che vanno dal 1897 al 1913 vedono il prodotto industriale italiano indubbiamente accrescersi in proporzioni che non si erano mai avute prima. Secondo l’ISTAT, la produzione manifatturiera, alla vigilia della Prima guerra mondiale, sarebbe stata circa il doppio di quella antecedente la grande depressione e il tasso annuo medio di incremento della produzione industriale si aggirava al 4,3%. Guardando agli incrementi di occupazione dei singoli settori si constata come i maggiori fra questi riguardino i settori più caratterizzati come industriali in senso moderno. In questo periodo avviene quello “sfondamento delle resistenze” allo sviluppo industriale che non era stato possibile al primo movimento di espansione delineatosi intorno al 1880: con il favore della congiuntura internazionale, possono avere finalmente effetto i nuovi indirizzi di politica economica e può trovare più pieno utilizzo quella riserva di attitudini nuove e di nuove e più moderne propensioni che si era andata formando nel periodo antecedente, e che fino a quel momento erano rimaste parzialmente paralizzate da una grave recessione. I motivi della mancata riuscita del movimento degli anni ottanta vanno in gran parte ricercati, nell’orientamento prevalentemente urbanistico, più che industriale, che gli investimenti extra-agricoli avevano preso in quegli anni (il boom edilizio conteneva in se stesso una imminente prospettiva di crisi). L’industrializzazione italiana degli anni 1897-1913 non comportò un drastico spostamento dai consumi agli investimenti nell’impiego delle risorse. In questo periodo i consumi pro-capite aumentarono notevolmente, anche se in misura inferiore agli investimenti. Uno sforzo di industrializzazione comporta una forte pressione sui consumi quando: I. l’impiego dei fattori produttivi (lavoro e capitali) deve essere spostato dalla produzione di beni di consumo (per esempio alimentari) alla produzione di beni di investimento, II. quando una quota dei beni di consumo prodotti deve essere distolta dalle disponibilità interne per essere esportata in cambio di una importazione di beni di investimento, III. quando l’importazione di beni di consumo necessari a formare le relative disponibilità interne venga ridotta per far posto a una importazione di beni di investimento. In tali casi la diminuita disponibilità di beni di consumo all’interno determina una distribuzione del reddito prodotto più sfavorevole che in precedenza ai redditi da lavoro. Nonostante lo spostamento di una parte della forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria, la produzione dell’agricoltura e degli allevamenti aumentò notevolmente nel periodo 1911-13. La domanda di taluni generi più richiesti (cereali, carni) aumentò in misura superiore all’offerta interna causando un aumento delle importazioni di generi alimentari, crebbe in forte misura l’esportazione di generi alimentari pregiati (formaggi, agrumi, frutta secca), la bilancia commerciale per la parte agricolo-alimentare riuscì a tenersi in pareggio per molti anni e diventò passiva solo verso la fine del periodo. L’aumento dei consumi fu generale e non riguardò solo i generi alimentari. Fra i consumi non alimentari, la parte maggiore spettò ai consumi semplici connessi al nuovo modo di vita derivante dalla urbanizzazione, in particolare a quelli connessi con il vestiario e l’abitazione. Il quasi equilibrio esistente fra incremento della domanda di generi alimentari e sviluppo della produzione agricolo-alimentare fu una delle componenti più importanti che consentirono di mantenere in attivo la bilancia dei pagamenti nel periodo di espansione e di assicurare una buona Storia Economica - 30067 68 estensione dei consumi. Vi furono però altri due fattori di grande importanza. Uno di essi fu lo sviluppo delle industrie esportatrici che permise di contenere entro determinati limiti l’inevitabile disavanzo commerciale provocato dall’industrializzazione, la quale creava una forte domanda di fonti di energia, materie prime, semilavorati, macchinari. L’altro fu il compenso apportato al disavanzo commerciale della bilancia dei pagamenti dagli introiti derivati dalle partite “invisibili”: i noli, il turismo, ma, soprattutto, le rimesse degli emigranti. Le industrie esportatrici furono essenzialmente le industrie tessili (quelle tradizionali della seta in special modo). Con il 1907 i valori delle esportazioni di seta cominciarono a declinare e si parlò di crisi di questo settore. Milano aveva ormai sostituito Lione come principale mercato europeo. Notevole sviluppo ebbero anche le esportazioni dell’industria cotoniera che in qualche anno giunse a coprire un decimo di tutte le esportazioni. La bilancia commerciale del settore cotoniero si avvicinò al pareggio. Ciò significa che l’aumentato consumo interno di tessuti di cotone sostanzialmente fu compensato sui conti con l’estero. Ma il fenomeno marginale (in senso economico) che contribuì in maniera decisiva all’equilibrio dei conti con l’estero in questo periodo fu quello migratorio. L’emigrazione italiana prese in questi anni dimensioni imponenti, soprattutto verso le direzioni transatlantiche. Gran parte dei lavoratori emigrati inviava ogni anno in patria alle famiglie una parte dei propri guadagni o portava con sé, in caso di rientro, dei risparmi. Si ebbe un attivo di partite “invisibili” fornito per più di un terzo dal turismo attivo e per oltre la metà dalle rimesse degli emigrati. Il risparmio degli emigrati fu una forma particolare italiana del contributo dato dai lavoratori all’industrializzazione e diede luogo a un fenomeno che Marx avrebbe potuto includere fra quelli che compongono il quadro della “accumulazione primitiva”. Questo triplice apporto - produzione agricola in espansione, sviluppo delle industrie esportatrici, aumento delle partite attive della parte non commerciale (soprattutto dovuto alle rimesse degli emigranti) - consentì che lo sforzo di industrializzazione di questi anni si compisse nonostante la scarsa partecipazione del capitale straniero e che si realizzasse in una situazione di equilibrio dei conti con l’estero. L’impatto decisivo dell’industrializzazione italiana si colloca dopo la fine della great depression, ne consegue che il suo svolgimento ha luogo nel quadro del Second Wind della Rivoluzione industriale europea, caratterizzato dal superamento del technological Climateric della great depression, attraverso lo sviluppo di nuove produzioni. Aspetti tecnologici fondamentali del Second Wind sono l’impiego su larga scala di nuovi materiali (acciaio e nuovi prodotti della chimica), l'introduzione di nuove fonti di energia e uno straordinario sviluppo dell’industria meccanica. Sviluppo delle industrie di assemblaggio, la moltiplicazione delle macchine utensili dotate delle nuove capacità consentite dall’uso dell’acciaio, la nascita dell’industria dell’automobile. Lo sforzo di industrializzazione italiana di questo periodo si colloca singolarmente a cavallo tra una acquisizione dei risultati della prima fase della Industrial revolution e un’adozione soltanto parziale delle nuove produzioni e degli apporti tecnologici che sono propri di questo Second Wind. Per queste ragioni lo spurt di questo periodo è limitato. La faccia dell’industrializzazione italiana ancora rivolta al recupero dei risultati della prima ondata della Rivoluzione industriale è rappresentata soprattutto dall’industria tessile, la cui importanza risulta chiarissima se si considera che essa era la sola grande industria esportatrice del paese, che concorreva complessivamente a formare il 40% circa del valore complessivo della parte attiva della bilancia commerciale dell’Italia negli anni che precedono la Prima guerra mondiale e quasi il 60% delle esportazioni non alimentari. Essa restava la principale risorsa di occupazione operaia nel settore manifatturiero. Il progresso tessile di questi anni si riassume nei seguenti termini: 1. Piena conquista del mercato interno; 2. Netta accentuazione del carattere di industria esportatrice; 3. Sviluppo industriale della tessitura, che era rimasta fino a questo periodo prevalentemente organizzata con il sistema del putting out, e non soltanto della filatura; 4. Meccanizzazione e elettrificazione sia nelle attività di filatura che di tessitura. Storia Economica - 30067 69 Dal canto suo la bilancia commerciale cotoniera, limitatamente ai prodotti manufatti, con la fine del secolo, da passiva diveniva attiva e l’Italia diveniva paese esportatore del cotone. Nel 1912 l’esportazione di tessuti sul totale delle esportazioni di seta, passava dal 6% (1885) al 17% (1913), in una situazione di eccezionale espansione delle esportazioni di seta nel loro complesso: notevolmente cresciuto era il movimento dei tessuti italiani verso l’Inghilterra, ove essi avevano conquistato posizioni in passato tenute dalla tessitura lionese. Il mutamento radicale intervenuto nel comportamento industriale dei tessitori serici è illustrato dallo sforzo compiuto per gli investimenti: la produzione con i telai a mano era praticamente una produzione senza immobilizzi. Le esportazioni cotoniere erano state, al contrario di quelle seriche, sin dagli inizi prevalentemente esportazioni di tessuti anziché di filati, essendo diverso il mercato: l’industria italiana della seta, infatti, era nata come industria fornitrice di semilavorati per l’industria dei paesi industriali; mentre l’industria italiana del cotone, in quanto esportatrice, nasce come fornitrice del mercato di consumo di paesi non industriali. Si assiste, per le esportazioni cotoniere, a un fenomeno inverso a quello verificatosi per la seta. Alquanto diverso è il comportamento dell’industria lino-canapiera, che come industria esportatrice era nata in Italia con caratteristiche affini a quelle della seta. Più difficile fu il progresso nel comparto della lana, dove il problema era di riuscire a realizzare un prodotto di qualità superiore, ciò che richiedeva un impegno tecnico maggiore che non negli altri comparti tessili. A causa di tali difficoltà tecniche, la bilancia commerciale dei manufatti lanieri non aveva ancora raggiunto, alla vigilia della Prima guerra mondiale, una posizione attiva. Notevole fu l’investimento che si realizzò nella filatura del cotone. Prevalse largamente in Italia l’impiego dei fusi rings su quello dei fusi self-acting. L’uso dei rings, che consentivano un prodotto di un terzo superiore a quello dei self-actings, permise di realizzare il notevole aumento di produzione con una manodopera ridotta e una più celere esecuzione del prodotto. Lo sforzo tecnico principale compiuto dall’industria laniera, con l’aiuto della protezione doganale, consistette in questo periodo nel promuovere la produzione delle più fini e costose lane pettinate. Nel quadro generale dell’industria tessile, la fase di lavorazione costituita dalla tintura rimase indietro. La tintura era legata ai progressi della chimica, e quindi aveva assai più la “faccia” rivolta sul versante del Second Wind. Nonostante i progressi che si realizzarono, la stragrande parte delle esportazioni di seta greggia italiana non era tinta e doveva essere esportata verso Francia, Svizzera o Germania per la tintura. Analoga situazione si poteva registrare, nel comparto cotoniero, per la mercerizzazione e per la tintura, per le quali occorreva largamente valersi dell’industria tedesca. L’aspetto dello sviluppo industriale italiano 1896-1914 più sicuramente rivolto sul versante del Second Wind dell’Industrial Revolution è certamente la nascita di una industria idroelettrica. Verso questo settore di investimenti si indirizzarono buona parte dei capitali liberati dalla nazionalizzazione delle ferrovie (1905). Su di essa si concentrò l’interesse delle grandi banche d’affari formatesi per iniziativa tedesca dopo la grande crisi bancaria degli anni novanta. Nella costruzioni elettriche fu investito, fra il 1895 e il 1914, un capitale ingente. Questo imponente sviluppo fu vissuto psicologicamente negli ambienti economici italiani come una liberazione da una sorta di impotenza industriale cui molti ritenevano ancora soggetta l’Italia, a causa della sua mancanza di risorse energetiche. La sola produzione idroelettrica veniva a sostituire un quinto dell’importazione di carbone all’anno. La massima parte della nuova produzione idroelettrica ebbe come destinazione l’industria. L’industria tessile ne assorbì il quantitativo relativamente maggiore, seguita dall’industria meccanica. Non troppo rilevante, invece, il consumo della siderurgia. L’altra grande industria “nuova” che nasce in questo periodo è quella dell’acciaio. L’età dell’acciaio non è soltanto l’età della produzione, ma anche soprattutto, l’età dell’utilizzazione dell’acciaio: lo sforzo dell’industrializzazione italiano poté realizzare la prima condizione, in misura meno soddisfacente l’altra. La scelta tecnologica fondamentale fu l’adozione del forno Martin, che permetteva di aggirare la grossa inferiorità derivante dalla mancanza, in Italia, di giacimenti di litantrace. Caratteristica del procedimento Martin era la possibilità, che esso offriva, di utilizzare rottame, in proporzione anche 50-50, con la ghisa, per la produzione dell’acciaio. Inoltre il Storia Economica - 30067 70 Riesce difficile individuare, nella formazione dell’Italia industriale, un vero e proprio big spurt. Le cause della scarsa “violenza” della crescita italiana in un singolo periodo - e che sembrano testimoniare piuttosto uno sviluppo per spurt successivi di limitata entità - devono probabilmente essere ricercate in due direzioni: 1. Da un lato nel carattere composito degli agenti dello sviluppo, nessuno dei quali operò, in definitiva, con grande forza e che non determinò, quindi, una grande concentrazione nel tempo; 2. Dall’altro lato nei gravi limiti territoriali che questo sviluppo ebbe. Si generò una crescita caratterizzata nel medio periodo da alcuni fattori di equilibrio (conti con l’estero, rapporto fra investimenti e consumi), ma con una prospettiva, nel più lungo periodo, di squilibri crescenti che si rivelarono chiaramente dopo la Prima guerra mondiale. Vennero allora a ridursi drasticamente alcune importanti partite compensative nei conti con l’estero (le rimesse degli emigranti); entrò in periodo climaterico la componente più tradizionale, ed esportatrice (quella tessile) della struttura industriale italiana; e i limiti tecnologici e territoriali del precedente sviluppo esplosero in un grave eccesso di capacità produttiva delle industrie pesanti, le quali si trovarono di fronte a un mercato interno territorialmente limitato de facto (per la scarsità del progresso economico delle regioni meridionali) e dotato di una struttura ancora prevalentemente arcaica nel suo mix. È evidente che la produttività dell’apparato industriale italiano concentrato nelle tre regioni nord- occidentali era assai maggiore che nel resto del paese: considerando i loro indici di industrializzazione isolatamente rispetto a quello dell’Italia intera, il divario rispetto ai livelli di industrializzazione dell’Europa centro-occidentale appare assai minore. In una certa misura, il processo di industrializzazione delle tre regioni si comportò come quello di un “piccolo paese” autonomo. Tuttavia il dualismo tra Nord e Sud non si formò nel periodo dell’industrializzazione, ma approfondì soltanto una profonda differenza preesistente. Secondo il Saraceno81, l’unificazione amministrativa non fu accompagnata da un processo di unificazione economica: in realtà le due Italie continuarono a camminare separatamente lungo i binari precedenti e continuarono ad avere prevalenti rapporti economici, ciascuna per conto suo, con il resto del mondo. Secondo Kuznets, «il commercio estero ha, nelle attività economica delle piccole nazioni, un’importanza maggiore che in quella delle grandi». Il fatto che la piccola area industriale settentrionale facesse parte di una nazione di più ampie dimensioni non restò senza influenza sulle sue stesse possibilità di sviluppo: 1. In primo luogo il livello della spesa pubblica capace di dare impulso a produzione industriali, specie quelle di carattere militare, poté indubbiamente essere più elevato di quanto non avrebbe consentito una piccola nazione. 2. In secondo luogo, benché il mercato interno fondamentale dei manufatti di consumo fosse quello delle regioni più ricche, almeno i centri urbani del resto d’Italia ne costituirono certamente una quota non disprezzabile. 3. Il terzo elemento, quello più importante, corrisponde all’equilibrio dei conti con l’estero, nel cui quadro si svolge lo sforzo di industrializzazione dei primi anni del nuovo secolo, ricevette un apporto determinante dalle rimesse degli emigranti, e questi erano per grandissima parte contadini poveri delle regioni meridionali. L’estrema povertà del Mezzogiorno entrò così come componente organica nella struttura del processo di sviluppo che si manifesto nel 1896-1913. Storia Economica - 30067 73 81 Pasquale Saraceno (1903 – 1991) è stato un economista italiano. Laureato nel 1929 presso l'Università Commerciale Luigi Bocconi è stato Docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e in quella di Venezia, fu uno dei maggiori meridionalisti cattolici. Fu consulente di diversi ministri democristiani e sostenitore della programmazione tramite l'IRI (dove fu assunto nel 1933). Influenzò la politica di intervento nel Mezzogiorno e, dopo aver fondato nel 1946 l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez), fu tra i più convinti sostenitori della costituzione della Cassa del Mezzogiorno. Saraceno non negava la validità dell'economia di mercato ma riteneva che questa non fosse capace da sola di correggere gli squilibri socio economici sorti in seguito al passaggio da un'economia semiautarchica a una di mercato. Per questo era necessaria la creazione di aziende pubbliche di produzione che sostituissero o integrassero l'iniziativa privata. È stato anche rappresentante italiano nella Commissione Economica per l'europa di Bruxelles e Consigliere della Banca Europea degli investimenti. PROFILO DELLA STORIA INDUSTRIALE ITALIANA82. A fine Ottocento, il tenore di vita del lavoratore italiano assomigliava molto più a quello dei suoi antenati medievali che a quello degli attuali pronipoti: i consumi privati annui sono cresciuti, in un secolo, di otto volte. L’aumento dei consumi alimentari e del tenore di vita della grande maggioranza della popolazione si è tradotto, in un tempo relativamente breve, in un’autentica rivoluzione nelle “statistiche vitali”. I consumi della classe operaia, le statistiche vitali, l’istruzione media offrono un’approssimazione dell’andamento del “tenore di vita” probabilmente migliore di quella ricavabile dall’osservazione del reddito pro capite. Sulla base sia delle condizioni di partenza sia delle previsioni formulate di volta in volta dagli osservatori dovrebbe bastare, in via teorica, a definire “storia di un successo” i risultati economici ottenuti nell’ultimo secolo. L’innegabile successo italiano si appanna un po’ e appare non priva di fondamento la ricerca di fattori che abbiano impedito all’economia italiana di espandere ulteriormente la propria frontiera delle possibilità produttive. 1. Misurazione della produttività totale dei fattori. L’analisi della performance di un sistema economico si incentra, solitamente, sulla misurazione dell’efficienza del sistema produttivo e della sua evoluzione nel tempo e nello spazio, e quindi sulla valutazione della cosiddetta produttività totale dei fattori. La crescita della produttività totale dei fattori è tradizionalmente rappresentata dalla crescita del prodotto (o dei costi totali) al netto del contributo dei singoli fattori di produzione (o dei prezzi dei fattori e del prodotto), ovvero dall’elasticità del prodotto all’indicatore della tecnologia o, alternativamente, dall’elasticità dei costi rispetto alla stessa variabile. Solow ha mostrato che queste grandezze residuali corrispondono a variazioni dell’efficienza produttiva (al progresso tecnico, in senso molto lato) se condizioni concorrenziali caratterizzano il mercato dei prodotti, e se sono assenti forme di rigidità di breve e di lungo periodo (per esempio, rendimenti di scala crescenti). Nelle caratteristiche strutturali dell’economia italiana, per un dato stock di capitale pubblico e privato, lavoro e importazioni non energetiche sembrano essere fattori sostituti nel corso dell’intero secolo. Il grado di sostituibilità non appare di dimensioni particolarmente significative nel caso delle importazioni energetiche. Inoltre, variazioni in aumento dello stock di capitale privato inducono, tra il 1890-1990, a riduzioni dell’occupazione ma anche maggiori impieghi degli altri fattori di produzione. Al contrario, incrementi dello stock di capitale pubblico tendono a generare nuova occupazione deprimendo, invece, in misura sensibile, gli impieghi degli altri fattori produttivi. Il capitale privato, nel lungo periodo, rimane un sostituto del lavoro e un complemento degli altri fattori produttivi, mentre la relazione fra capitale privato e capitale pubblico indica un rilevante grado di complementarietà. Va sottolineato tuttavia che questa relazione tende a decrescere in misura rilevante nel corso del secolo, fin quasi a dimezzarsi. 2. Permanenze. Tra le caratteristiche dell’economia italiana, emergono alcune “permanenze”, ovvero elementi del sistema economico, osservabili e misurabili a livello aggregato, che si mantengono piuttosto stabili nel tempo. Dipendenza dall’estero. Sentita da molti come uno dei caratteri distintivi della nostra economia e come una delle cause del suo ritardato sviluppo, la dipendenza dall’estero va indubbiamente annoverata tra le “permanenze strutturali” del sistema. L’evoluzione strutturale del sistema economico italiano è caratterizzata da una diminuzione nella dipendenza della tecnologia estera nel comparto dei beni strumentali mentre permane quella delle materie prime importate. Storia Economica - 30067 74 82 N. ROSSI, G. TONIOLO. Un secolo di sviluppo economico italiano: permanenze e discontinuità, Rivista di storia economica, X, 1993, n.2. Importazioni e lavoro sono sostituti con elasticità crescente nel tempo: aumenta l’integrazione internazionale e si allentano, nel dopoguerra, i vincoli alla mobilità dei prodotti, dei fattori e delle stesse imprese. In prospettiva, la dipendenza dall’estero non si presenta con connotati di peculiarità. Va rilevata la non eccezionalità di un pattern commerciale caratterizzato, in una prima fase, da crescenti importazioni di beni capitali e, successivamente, da una loro sostituzione con prodotti domestici, a mano a mano che il paese acquisisce le necessarie tecnologie. Per quanto riguarda le materie prime, se è vero che quasi tutti i paesi di più antica industrializzazione sono assai più ricchi del nostro in risorse naturali e che questa circostanza costituì per l’Italia uno svantaggio nel XIX secolo, esso è venuto scemando nei decenni più vicini a noi. La caduta dei costi di trasporto e delle barriere al commercio internazionale ha consentito a ciascun paese di approvvigionarsi ai costi più bassi prevalenti sui mercati internazionali. Il “Piano Sinigaglia83” diede all’Italia quell’industria siderurgica ritenuta possibile solo a prezzo di una grande forzatura dei vantaggi comparati. Economie di scala. Nel corso del secolo, l’economia italiana appare caratterizzata da rilevanti rendimenti di scala. La maggior efficienza dei fattori della produzione dipende largamente dalla riallocazione delle risorse tra settori produttivi e non già dai vantaggi di dimensione in senso stretto. Rendimenti crescenti, nell’aggregato, possono derivare: I. dall’allargamento del mercato interno, II. dalla specializzazione conseguente all’apertura internazionale, III. dal miglioramento del capitale umano, IV. dall’attività di ricerca e sviluppo condotta da imprese e operatore pubblico, V. dalla struttura stessa di prelievo e spesa del governo. Questo quadro della rappresentazione dello sviluppo economico italiano sottolinea, da un lato, l’importanza della Prima guerra mondiale e, dall’altro, sia il progressivo allargamento del mercato sia il ruolo delle politiche allocative settoriali e territoriali. È importante, inoltre, l’aumento della produttività nella sua misura duale (diminuzione dei costi unitari), spiegato in gran parte da rendimenti di scala prevalenti a livello aggregato. Il potere di mercato delle imprese. L’analisi empirica genera due ulteriori indicatori aggregati: • Il potere di mercato delle imprese (mark-up), dato dal rapporto tra prezzo e costo marginale dell’output del settore privato. • Il margine di profitto (o profittabilità), consistente in una misura del rapporto tra prezzo e costo medio totale. Per tutto il secolo le imprese mantengono, nell’aggregato, un potere di mercato elevato e solo leggermente decrescente nel tempo, senza alcuna evidente correlazione con il grado di apertura internazionale del sistema. La profittabilità del sistema si mantiene, tra il 1895 e il 1913, sui valori più elevati dell’intera esperienza secolare. Ciò conferma l’ipotesi che la dinamica del costo del lavoro in età giolittiana fosse eccezionalmente favorevole alla formazione del profitto e, quindi, all’accumulazione. Essa è elevata negli anni Venti, scende durante la Grande Crisi, risale con la Guerra d’Etiopia. Come mostrano i dati relativi al mark-up, le imperfezioni di mercato hanno caratterizzato in misura sostanziale l’intero periodo garantendo cospicui margini di profitto del sistema. La sottocapitalizzazione dell’economia. È possibile definire come sottocapitalizzazione un’economia nella quale il prezzo ombra dei beni capitali, definito come la riduzione dei costi possibile, al margine, a seguito dell’aggiustamento del fattore semifisso, sia superiore al loro prezzo di mercato. Ciò sta a indicare che lo stock di capitale desiderato dalle imprese è superiore a quello realizzato. Viceversa nel caso si sovracapitalizzazione. Dalla metà degli anni ’80 si nota una chiara sovracapitalizzazione. Vi è dunque una prima lunga fase del nostro sviluppo, compresa tra l’ultimo decennio del XIX secolo e il cosiddetto “miracolo Storia Economica - 30067 75 83 Il piano Sinigaglia per l'industria siderurgica venne approvato dal governo italiano nel 1948. Prendeva il nome dall'ingegnere ed imprenditore Oscar Sinigaglia e prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, incentrato sulla ricostruzione dello stabilimento di Genova-Cornigliano e sull'integrazione verticale delle lavorazioni a Piombino ed a Bagnoli. [NdR] CHE COS’È L’IMPRESA? UNA PROSPETTIVA STORICA85. I tratti comuni fondamentali riscontrabili nella storia collettiva di gran parte delle più importanti società industriali sono che improvvisamente negli ultimi due decenni del XIX secolo fa la sua comparsa un nuovo tipo di azienda e che per tutto il secolo ventesimo queste imprese si concentrano in industrie aventi le medesime caratteristiche. Le prime imprese industriali del genere nacquero non appena realizzate le reti di trasporto e di comunicazione moderne, reti che a loro volta erano costruite, gestite, estese e coordinate da grandi imprese a struttura gerarchica. I nuovi sistemi ferroviari, telegrafici, di navigazione a vapore e di trasmissione per cavo resero possibile, a un livello assolutamente senza precedenti, un flusso costante e programmato di merci e di informazioni attraverso l’economia dei singoli paesi e internazionale. Le nuove possibilità di produrre beni a ritmi e in volumi grandemente accresciuti generarono un’ondata di innovazioni tecnologiche che dilagò per l’Europa occidentale e gli Stati Uniti durante l’ultimo ventennio del secolo determinando la “Seconda rivoluzione industriale”. Nacquero nuove attività industriali mentre le vecchie si trasformarono. Nella chimica nuovi procedimenti permisero di ottenere per sintesi coloranti, medicinali, fibre e fertilizzanti. Le più rivoluzionarie fra le nuove tecnologie furono quelle che servivano a generare e trasmettere elettricità per scopi di illuminazione, trazione urbana e forza motrice industriale. Queste nuove industrie trainarono la crescita economica ed ebbero un ruolo essenziale nella rapida conversione delle economie commerciali, agricole e rurali in moderne economie industriali urbane. Le imprese di nuova formazione che crearono e svilupparono queste attività iniziarono quasi subito a competere sul mercato internazionale. Le imprese di questi settori presentavano delle differenze rispetto a quelle dei settori tradizionali come il tessile, la pelletteria, l’industria cantieristica, ecc. Erano ad assai più alta intensità di capitale, cioè il rapporto fra capitale e lavoro per unità di prodotto era in esse molto più elevato. E potevano sfruttare molto più efficacemente le economie di scale e di gamma (scope). Nelle nuove industrie capital-intensive i grandi impianti offrivano vantaggi di costo rispetto ai piccoli stabilimenti. Salendo di scala efficiente minima, al crescere del volume lavorato il costo unitario di lungo periodo calava molto più rapidamente di quanto non avvenisse nelle vecchie industrie ad alta intensità di manodopera. Molte aziende traevano beneficio, altresì, dalle economie di gamma. Questi vantaggi di costo potenziali si potevano conseguire pienamente solo a patto di mantenere nell’impianto un flusso costante di materiali tale da assicurare una efficace utilizzazione delle capacità dell’impianto stesso. Se il volume di flusso realizzato scendeva al di sotto della capacità, i costi unitari effettivi salivano allora rapidamente. I due dati decisivi per la determinazione del costo e del profitto erano (come sono tuttora) il tasso di capacità utilizzata e il volume della produzione, ovvero la quantità effettivamente lavorata in un dato periodo di tempo. Nelle industrie capital- intensive il volume di prodotto necessario per stare dentro la scala efficiente minima richiedeva un accurato coordinamento: l’impegno costante di una équipe o gerarchia direttiva. Le economie potenziali di scala e di gamma sono date dalle caratteristiche materiali degli impianti produttivi; le economie effettive di scala e di gamma, che si misurano col volume prodotto, sono di natura organizzativa. Queste imprese nelle nuove industrie ad alta intensità di capitale sfruttavano tutte i vantaggi di costo della scala e della diversificazione. L’investimento in attrezzature produttive abbastanza grandi da sfruttare tali vantaggi non bastava da solo: occorrevano altre due serie di investimenti. Gli imprenditori dovevano creare un’organizzazione commerciale e distributiva di dimensione nazionale e poi internazionale; dovevano reclutare squadre di capi di livello medio e basso per coordinare il flusso di prodotti lungo le linee di produzione e distribuzione, e gruppi di dirigenti d’alto livello per controllare le operazioni correnti e predisporre quelle future. Le imprese che per prime fecero la triplice serie di investimenti - nel campo industriale, commerciale e dirigenziale - raggiunsero rapidamente una posizione dominante nei rispettivi settori. Storia Economica - 30067 78 85 A.D. CHANDLER. Che cos’è l’impresa? Una prospettiva storica, Archivi e Imprese, IV, luglio-dicembre 1991. Il triplice investimento assicurava potenti vantaggi ai first movers: per poter beneficiare di costi confrontabili, gli eventuali sfidanti dovevano costruire impianti di dimensioni analoghe mentre i first movers già erano intenti a perfezionare i nuovi processi di produzione. L’investimento nelle tre direzioni portò alla nascita dell’impresa industriale multi-unità nei settori in cui maggiori erano i vantaggi di costo ottenibili con le economie di scala e di gamma. Questo tipo di imprese si concentrò nelle industrie capital-intensive, la cui struttura, dopo un breve periodo di assestamento, divenne oligopolistica e tale rimase. Il prezzo restava un’arma concorrenziale importante: queste imprese davano battaglia sul piano dell’efficienza funzionale e strategica. Il banco di prova era la quota di mercato, e nelle nuove industrie oligopolistiche quota di mercato e profitti mutavano continuamente. Una siffatta concorrenza oligopolistica affinò, nel campo specifico delle loro produzioni, le capacità di manodopera e del personale direttivo. Per la maggioranza, la strategia costante di sviluppo a lungo termine fu l’espansione in nuovi mercati, o geografici o di prodotto. Queste attitudini gestionali furono frutto delle esperienze apprese ai diversi livelli della gerarchia. Fu appunto il fatto di aver creato, mantenuto e sviluppato siffatte capacitò ciò che permise alle imprese americane e tedesche, nel ventennio precedente la Prima guerra mondiale, di estromettere rapidamente le ditte inglesi dai mercati internazionali e addirittura dal mercato interno britannico nella maggioranza delle industrie capital-intensive nate dalla Seconda rivoluzione industriale. E lo stesso motivo rese possibile alla Germania di riprendere velocemente il proprio posto sui mercati mondiali dopo dieci anni di guerra, sconfitta e inflazione, fra il 1914 e il 1924, e di riconquistarlo poi nuovamente negli anni Cinquanta all’indomani di una guerra ancora più devastante. Così pure fu la cultura dell’organizzazione quella che permise alle imprese giapponesi dapprima di operare un massiccio trasferimento di tecnologia dall’Occidente al Giappone, poi di sfruttare appieno le economie di scala e di gamma e di acquisire le capacità organizzative necessarie per assicurare un vantaggio competitivo sui mercati internazionali. I sistemi economici che conformemente al modello sovietico affidavano a enti di pianificazione centrali il compito di coordinare i flussi correnti di beni nei processi di produzione e distribuzione future, impedirono che i dirigenti delle unità di produzione e distribuzione apprendessero come coordinare efficacemente i flussi di beni dai fornitori e verso i mercati sulla base di una precisa conoscenza dei mezzi utilizzabili. La mancata formazione di queste capacità ha avuto un ruolo centrale nella disgregazione delle economie a pianificazione centralizzata. La teoria neoclassica vede nell’impresa una persona giuridica con un set di produzione da cui il manager, agendo razionalmente con piena cognizione, scegliendo lo scenario più suscettibile di massimizzare i profitti o il valore attuale dell’azienda. La teoria del prepotente/agente fa sua l’idea neoclassica dell’impresa come set di produzione ma le dà una gerarchia direttiva. La capacità dei “proprietari” di tenere sotto controllo i manager, ai quali hanno affidato la scelta e l’attuazione dei progetti di produzione. I problemi del modello dell’“agenzia” sono i problemi dei proprietari alle prese con l’informazione asimmetrica, la valutazione delle prestazioni e gli incentivi. La teoria dei costi di transazione è più attinente alla vicenda storica e al concetto-chiave delle capacità organizzative perché tiene conto dell’investimento nelle attrezzature e nelle qualificazioni. Nelle nuove industrie a forte intensità di capitale la necessità per l’impresa di assicurare un volume di produzione costantemente elevato era molto più pressante che nelle vecchie industrie a forte impiego di manodopera; mentre le imprese dei settori capital-intensive si dotavano d’una propria rete di distribuzione, quelle delle industrie labor-intensive continuavano ad appoggiarsi a terzi per la distribuzione dei loro prodotti. Nelle industrie capital-intensive la spinta a internalizzare variava secondo la fonte degli approvvigionamenti, il carattere della tecnologia produttiva e le dimensioni e le esigenze dei mercati. Così pure la spinta all’integrazione verticale variò con la crescita del settore e man mano che le sue imprese leader si espandevano sui mercati più lontani. Nella Teoria evolutiva dell’impresa espressa da Nelson e Winter nel 1982 (An evolutionary theory of economic change) veniva posto l’accento non sullo scambio (grado di transazioni) ma sulla produzione, a differenza dell’ortodossia (neoclassica) e della dottrina dei costi delle transazioni, che mettono al centro della scena la pattuizione assegnando un ruolo di supporto all’economia della Storia Economica - 30067 79 produzione e al suo costo. Il concetto centrale di Nelson e Winter è quello della routines: «Nella teoria evolutiva la peculiarità dei modi in cui le imprese entrano in relazione con i proprietari, i clienti e i fornitori di input, sono tutte ricondotte sotto il titolo di routines organizzative». La definizione che essi danno di routine è estremamente flessibile. Le routines sono per essi “le capacità dell’organizzazione” che a loro volta ne diventano i “geni”. In un recente articolo Nelson presenta «una teoria emergente delle capacità dinamiche dell’impresa» dove mette a fuoco tre aspetti dell’impresa, diversi pur se fortemente collegati: strategia, struttura, e nucleo di capacità. Secondo Nelson sono la strategia e la struttura a formare le capacità delle imprese, e non le transazioni cui esse partecipano. La strategia è quella di cui parlano gli studiosi di management: un insieme di larghi impegni che l’impresa persegue, che definiscono e razionalizzano i suoi obiettivi e il modo in cui essa intende conseguirli. La struttura, per Nelson, consiste nel modo in cui un’impresa è organizzata e governata, in cui le decisioni vengono effettivamente prese e attuate; essa perciò determina largamente ciò che l’impresa fa in concreto, nel largo quadro che la strategia si è data. L’emergente teoria delle capacità dinamiche dell’impresa riconosce la centralità dei processi di produzione e distribuzione e dell’apprendimento organizzativo nella creazione, nello sviluppo e nella trasformazione di quei processi; inoltre dà rilievo alle differenze fra le tecnologia e le attività delle diverse industrie dei diversi settori. GRANDE E PICCOLA IMPRESA NELLA STORIA DELL’INDUSTRIA ITALIANA86. L’Italia è un paese di piccole e medie imprese. Fra le nazioni avanzate, l’Italia ha un vero e proprio record con oltre il 60% della forza lavoro che si concentra in imprese con un numero di addetti inferiore a 50. I. Il modello dei paesi avanzati. A fine Ottocento, sotto l’avvento della Seconda rivoluzione industriale, si inizia ad affermare un complesso di innovazioni caratterizzato da alta intensità di capitale, di energia e processo produttivo continuo e veloce. Sono le produzioni di massa che colpiscono in particolare quattro settori: metallurgia, meccanica, chimica e industria elettrica. Settori come quelli menzionati subiscono le conseguenze di questa grande svolta. Essi divengono il motore dello sviluppo. Perché questa opportunità tecnologia si traduca in realtà economica è necessario un triplice investimento: a. in impianti alla giusta dimensione di scala, b. in legame fra produzione e distribuzione tale da rendere fluido il rapporto fabbrica-mercato, c. nell’ampia assunzione e promozione del management. Se questa mossa riesce, l’impresa acquista il diritto a una lunga sopravvivenza da first mover. II. L’Italia e la Seconda rivoluzione industriale. A cavallo del 1900 questo modello è constatabile anche nell’evoluzione del sistema economico italiano. Anche da noi la prima grande impresa è un’impresa ferroviaria, la Strade ferrate meridionali, ovvero la cosiddetta Bastogi dal nome del suo fondatore. Nel 1905 quando le ferrovie vengono nazionalizzate essa riversa gli indennizzi nell’emergente settore elettrico restando quindi una potenza finanziaria di prima grandezza nel panorama economico italiano. Nel 1962, nazionalizzata a sua volta l’industria elettrica, la Bastogi dirige le sue risorse verso la chimica. Nel 1884 nasce la Edison, la più grande impresa elettrica italiana. Nel 1888 è fondata la Montecatini una delle più importanti imprese chimiche in Italia. Già nel 1872 era nata la Pirelli. Nel 1899 viene fondata la FIAT che alla vigilia della Prima guerra mondiale produce la metà degli autoveicoli italiani per raggiungere subito dopo il conflitto il controllo di quasi il 90% del mercato. Si costruisce a cavallo del XX secolo, la grande siderurgia con la Terni, l’Elba, l’Ilva, la Piombino e la Falck; mentre la grande meccanica negli stessi anni ha come protagonista di assoluto rilievo l’Ansaldo e la Breda. Nel contempo si profilano il predominio settoriale l’Italcementi e l’Olivetti. Storia Economica - 30067 80 86 F.AMATORI. La storia dell’impresa come professione, Venezia. Marsilio, 2008. Grande “primo attore” di questa fase è Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, che realizza a vantaggio dell’industria settentrionale una fitta rete metanifera mentre attua un’efficace politica nel settore del petrolio grazie a geniali e rischiosi accordi con i Paesi produttori. Mattei si avvale della sua posizione in campo metanifero per strappare alla Montecatini la leadership dei concimi chimici azotati, a vantaggio degli agricoltori italiani. Le economie di scala realizzate dall’ENI sono imbattibili. Altro protagonista della scena industriale italiana è Adriano Olivetti, l’imprenditore più consapevole delle conseguenze sociali dell’industrializzazione ma così concreto da realizzare nel campo dei prodotti per ufficio una multinazionale capace di acquisire, alla fine degli anni Cinquanta, una delle maggiori imprese americane del settore, la Underwood. Importante è notare come non ci sia differenza in questa golden age fra privato e pubblico. X. Un approdo “giapponese”?. Un reddito nazionale che in vent’anni (1950-1970) cresce mediamente del 6% annuo; la FIAT quinta imprese automobilistica mondiale potenzialmente in grado di competere sul mercato internazionale con l’esperienza acquisita nel segmento delle small cars; la Olivetti che primeggia sui mercati internazionali con le sue macchine per scrivere e con le sue calcolatrici tanto da acquisite una corporation americana di primo rango; Enrico Mattei protagonista della politica petrolifera internazionale; la siderurgia che passa dal nono al sesto posto nel mondo; il nucleare che vede il Paese all’avanguardia in Europa; la formazione di nuovi settori industriali come quello degli elettrodomestici e il generale irrobustimento della struttura produttiva, cosicché i sarti diventano industriali dell’abbigliamento, i falegnami mobilieri, i calzolai calzaturieri. Tutto questo dava la sensazione che l’Italia potesse spingersi sino alla frontiera dell’economia mondiale, come il Giappone, un paese certo lontano ma per molti versi vicino data la periodizzazione del suo sviluppo industriale e l’importanza in esso dal settore pubblico. La chiave per comprendere i diversi esiti dei due Paesi è nell’elemento politico istituzionale. Il Giappone, dove la burocrazia è forte mentre debole è la politica, apprende la lezione: nel secondo dopoguerra si assiste al ritiro dell’intervento pubblico diretto; i grandi ministeri dirigono la politica industriale grazie a guideline e moral suasion. Lo Stato protegge e sostiene le grandi imprese ma le obbliga a confrontarsi con il mercato globale. In Italia lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall’intervento diretto e dedicarsi alla creazione di un quadro di regole all’interno delle quali la grande impresa potesse prosperare. Sarebbe stata necessaria quindi un’efficace protezione degli investitori in Borsa, la promozione di investitori istituzionali, la revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta hausbank, una legislazione antitrust e un governo impegnato nelle trasformazioni sociali e di conflitto. XI. Uno stato politicizzato. Quella italiana è una società che, date le caratteristiche del processo che ha portato alla formazione dello Stato unitario, si è sempre contrassegnata per la sua frammentazione localistica tale da non sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini. Alla metà degli anni Cinquanta si intravede uno spoil system. E dato il cosiddetto bipartismo polarizzato che la natura del maggior partito di opposizione, il Partito comunista italiano, rende inevitabile, si tratta di uno spoil system a senso unico che finisce per rendere irresponsabili governo e opposizione. Lo Stato imprenditore diviene sempre più uno strumento per il consenso, ovvero cresce per incrementare l’occupazione sicuro grimaldello del successo elettorale. XII.L’approdo mancato. L’incapacità di raggiungere i risultati del Giappone si concretizza in cinque episodi: a. La degenerazione dello Stato imprenditore. b. Il fallimento dei progetti di frontiera tecnologica. È l’Olivetti che dopo l’improvvisa scomparsa del suo leader non riesce a concretizzare l’occasione della pionieristica produzione di computer, un iniziativa i cui costi andavano ben oltre le disponibilità di una impresa familiare. È l’abortire del grande progetto di dotare il Paese di una rete di impianti nucleari. Storia Economica - 30067 83 c. Le conseguenze della nazionalizzazione dell’energia elettrica. È il risultato della decisione caldeggiata dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli di indennizzare le aziende e non gli azionisti. Carli pensava di ripetere l’operazione del 1905 quando gli indennizzi della nazionalizzazione delle ferrovie si erano riversati nell’emergente industria elettrica. Ora si pensava alla chimica ma il contesto competitivo era ben diverso né esisteva una Borsa per sanzionare i comportamenti negativi degli imprenditori né un hausbank tale da indirizzarli correttamente. Il risultato più rilevante di questo snodo è la disastrosa fusione fra la Montecatini e la Edison. d. La crisi delle grandi famiglie che si verifica diffusa negli anni Sessanta fra vecchie e nuove dinastie industriali. e. Il “lungo autunno”. È il periodo che inizia con la vertenza FIAT del settembre 1969. È un periodo di importanti conquiste sociali, ma anche di tragici conflitti come la diffusione del terrorismo. Ciò che risalta è l’incapacità di incanalare politicamente e istituzionalmente giustificate rivendicazioni, alla maniera tedesca con la cogestione. Una vera e propria fortuna per l’Italia è rappresentata dalla piena adesione al progetto europeo, dall’accordo di Maastricht. Esso porta non solo alla moneta unica ma anche all’instaurazione di regole, come l’antitrust, il rafforzamento della Consob, la legge sulle SIM, la nuova legge bancaria, la legge sulla corporate governance. La grande impresa è irrimediabilmente depotenziata. XIII.La scoperta della piccola impresa. L’Italia degli anni Settanta è un mistero. Sembra afflitta da tutti i mali e da tutte le crisi ma continua a crescere seconda solo al Giappone fra i Paesi dell’OCSE. Si riscopre allora la piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto industriale - un territorio definito dedicato alla produzione di un bene per la quale viene realizzata una divisione del lavoro sia orizzontale sia verticale. Sono i distretti, che indirizzano le proprie risorse vero la produzione di beni per la persona e per l’abitazione, a essere protagonisti nell’ascesa del “made in Italy”. I distretti si formano in un processo di lungo periodo dove è forte il ruolo giocato dalla tradizione corporativa: etica del lavoro, grandi abilità manuali, spirito imprenditoriale, antica consuetudine di raffinata domanda urbana, attitudine al commercio internazionale. Decisivo è l’apporto di un’istituzione come la famiglia per aziende nelle quali padroni e operai sono spesso parenti. In primo piano è la comunità locale, per cui la concorrenza è bilanciata da un senso di solidarietà. Altrettanto importanti sono le istituzioni locali, sia con interventi positivi (istruzione e costruzione di infrastrutture), ma anche con la tolleranza verso comportamenti discutibili come l’evasione fiscale. I distretti fioriscono in aree o fortemente “rosse” o a netta prevalenza cattolica. Tra le tante virtù non possono nascondersi lati oscuri come: • la sottocapitalizzazione, • la sclerosi produttiva, • la volatilità dei mercati in cui i distretti operano (mercati soprattutto di beni voluttuari), • la diffusa piaga dell’evasione fiscale. XIV.Il quarto capitalismo. Dai distretti emergono non di rado imprese che in essi creano precise gerarchie. Tali attori vengono definiti “quarto capitalismo” perché non possono identificarsi né con la grande impresa privata né con quella pubblica né con la piccola impresa. Due le caratteristiche fondamentali: grande abilità tecnica di origine addirittura artigianale (si pensi a Luxottica), oppure una straordinaria capacità commerciale. La formula del successo di questo quarto capitalismo è la concentrazione su una nicchia, ma a livello globale. In realtà questo nuovo protagonista deve affrontare due nodi irrisolti. Il primo riguarda quella che oggi viene definita governance, ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra proprietà, controllo e gestione d’impresa. Il quarto capitalismo è nettamente dominato da imprese famigliari, con tutti i problema che questo assetto comporta. Il secondo riguarda i settori in cui esso opera, ovvero quelle produzioni che non sono certo quelle di frontiera. Storia Economica - 30067 84 ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! SLIDES 1 L’età moderna 1450 - 1650 la seconda logistica europea I mutamenti nell’età moderna (1450 – 1650) •  Nuova crescita demografica •  Nuovi orizzonti geografici, colonizzazione dell’emisfero occidentale •  Aumento delle risorse •  Mutamenti istituzionali dell’economia europea (nascita dello stato moderno) •  Spostamento dei centri economici europei •  Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648) Clef 11 005 2 Popolazione europea •  La transizione demografica milioni 0 20 40 60 80 100 120 140 160 400 a.c. 200 1000 1200 1400 1600 1700 Clef 11 005 3 •  Transizione demografica •  Caratteristiche dell’ancien régime demografico: –  alta mortalità, alta natalità –  crescita a strappi: brusche cadute, improvvise impennate •  I tre cavalieri dell’apocalisse: •  Carestia •  Epidemia •  Guerra La «nuova agricoltura» •  Superamento del maggese •  Sistema a tre campi •  La nuova agricoltura si caratterizza per: •  investimento di capitale (sementi e animali, irrigazione) •  specializzazione produttiva •  rapporti giuridici certi e stabili (proprietà privata- individualismo agrario) •  lavoro salariato •  L’agronomia settecentesca: applicazione di nuove conoscenze Clef 11 005 4 Il Portogallo: il «capitalismo della corona» •  Un milione di abitante nel XV sec. •  Contributo ebraico nella tecnica e nella finanza •  Necessità di reperire manodopera: schiavismo •  Incroci con altre razze •  Il fervore religioso e l’involuzione del Paese Clef 11 005 5 Motivi della superiorità marittima dei portoghesi •  L’abitudine a navigare in Atlantico •  La vicinanza con i cantieri navali biscaglini e galiziani (caravella) •  La confidenza con la cultura araba •  La presenza di mercanti- banchieri italiani ed ebrei •  Un’aristocrazia feudale avventurosa •  Le iniziative della casa regnante (il centro Sagres) Clef 11 005 6 Enrico il Navigatore (1393 – 1460) 2 Clef 11 005 7 1500 – 1750: la prima fase della globalizzazione che segna un passaggio irreversibile. 1750 – 1880: intensificazione della globalizzazione a seguito dell’aumentata capacità produttiva dei paesi industrializzati. 1880 – 1915: gli stati controllano politicamente la rete dei rapporti economici globali. L’imperialismo. 1918 – 1945: la «seconda guerra dei trent’anni» e la deglobaliz- zazione. 1945 – 1975: la globalizzazione dimezzata. Clef 11 005 8 Centri di potere nel mondo nel XVI sec. L’economia caraibica •  La comparsa degli Olandesi (1630-43) •  L’arrivo degli inglesi (1624) – la Giamaica (1655) •  I francesi: Guadalupe e Martinica (1635) •  L’economia schiavistica dello zucchero •  Il sistema triangolare Clef 11 005 9 Clef 11 005 10 A Oriente: penetrazione degli occidentali (Portoghesi, Olandesi, Inglesi) lenta e contrastata a causa delle strutture organizzate delle aree asiatiche India (Gran Moghul), Indocina, Indonesia e Cina (dinastia Ming) A Occidente: scarsa resistenza delle popolazioni locali e debolezza degli apparati politici (Atzechi, Maya, Incas) in declino. Le Province Unite d’Olanda •  All’inizio del XVI sec. un milione, nel 1650 due milioni •  Anversa controlla i traffici d’oltreoceano •  1517 affissione delle tesi di Lutero •  Intolleranza spagnola •  1609 indipendenza delle province settentrionali •  Emerge Amsterdam come centro primario Clef 11 005 11 Gli Olandesi in mare •  1602 nasce la Voc = Compagnie delle indie Orientali •  Commercio inter-oceanico •  Commercio con la madrepatria •  La condizione di monopolio accentua un’economia di comando •  La concorrenza con L’Inghilterra Clef 11 005 12 1 1 Mercato agenzie fattorie Compagnia commerciale Casa madre spezie materie prime manufatti alimentari Industria a domicilio miniere siderurgia città-fiera sale Città mercato villaggio minerali, metalli preziosi trasporto investimento guadagno banca prestiti a interesse principe pr iv ile gi o 2 artigianato e manifattura 1. industria domestica rurale (autarchia) 2. industria a domicilio (lav. su commessa) 3. manifattura domestica (piccola impresa rurale indipendente) 4. corporazione artigiana (urbana autoregolata) 5. manifattura accentrata (manufactures royales) 3 •  Industria a domicilio •  Organizzata da mercanti – imprenditori urbani •  Forza lavoro famigliare, dispersa, rurale •  Lavoratori acquistano i loro mezzi di sussistenza •  Vendita prodotti su mercati lontani Protoindustrializzazione 4 Rivoluzione industriale •  Le invenzioni e le innovazioni che caratterizzano il xviii sec. rispondono a tre criteri generali: –  la sostituzione delle macchine al lavoro e alla capacità umana –  la sostituzioni di fonti di energia inanimata alle fonti animate –  l’utilizzo di nuove e più abbondanti materie prime (minerali ai vegetali e animali) •  Rivoluzione (lett. giro) = espressione di importanti cambiamenti, l’enfasi è sulla profondità e non sulla velocità 5 La prima nazione industriale •  La geografia e l’ambiente –  predisposizione alla navigazione –  combattività della popolazione –  la morfologia (infrastrutture) •  Le istituzioni •  La mobilità sociale •  Una mentalità empirica 6 Monarchia costituzionale inglese •  Rivoluzione inglese (1648) •  Dittatura di Cromwell •  1688 «glorious revolution»: nascita dei due rami parlamentari: –  Camera dei Lords –  Camera dei Comuni •  Rafforzamento dell’aristocrazia •  Forte autonomia degli enti locali 1 clef 11 004 1 Le innovazioni nella siderurgia e nella meccanica •  1698 – pompa di Savery •  1712 – macchina di Newcomen •  1769 – macchina a vapore di Watt •  1709 –  fusione con il coke di Abraham Darby •  1783 –  laminatoio di Cort Abraham Darby clef 11 004 2 Siderurgia Produ zione di gh isa in G. Bret a gna da l 1740 a l 1839 (t onn x 000) 0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600 1800 1740 1750 1760 1770 1780 1790 1800 1810 1820 1830 1839 clef 11 004 3 crescita della domanda Teoria promozionale dei consumi (McKendrick) emulazione dei consumi della nobiltà as pir az ion e ad un o s tat us più el ev ato de i ce ti m ed i design & marketing Salone Wedgwood clef 11 004 4 Nascita della ferrovia trasporto del carbone miniera rotaie meccanica di precisione 1769 1822 XVIII sec. clef 11 004 5 La popolazione •  Aumento del tasso di natalità dipende dalla riduzione dell’età matrimoniale •  Decremento tasso di mortalità: –  vaccinazione contro il vaiolo –  conoscenze mediche –  miglioramento dell’alimentazione –  diffusione dell’igiene •  Distribuzione geografica della popolazione (urbanizzazione) •  Lavoro infantile e femminile popolazione (mln) 0 5 10 15 20 25 1700 1750 1800 1850 Inghilterra e Galles G. Bretagna clef 11 004 6 La popolazione Andamento della popolazione in G. Bretagna e in Irlanda (n° indice) 0,0 100,0 200,0 300,0 400,0 500,0 600,0 700,0 1701 1751 1781 1801 1821 1841 1861 1881 1901 1931 Inghilterra Irlanda 2 clef 11 004 7 Conseguenze della Rivoluzione industriale in Inghilterra •  La questione sociale – Nascita della classe operaia (Cartismo) – Questione delle abitazioni e urbanesimo – Alcolismo e prostituzione •  Il riformismo politico – La questione delle 10 ore – New poor law – La legge elettorale – Nuova politica economica (liberismo) clef 11 004 8 Nascita e affermazione del liberoscambismo •  Anti corn league: Manchester 1832-46 •  Lotta politica contro l’aristocrazia, necessità di aumentare l’approvvigionamento di derrate alimentari per le nuove masse operaie. •  Abbassamento delle tariffe doganali: clausola della nazione più favorita •  Reciprocità del trattamento doganale: alibi per aprire nuovi mercati nei continenti lontani clef 11 004 9 Liberismo e mercantilismo •  Stato moderno mercantilismo (XVII – XVIII sec.) – Navigation Act (1651) •  Mercantilismo: una nazione per mantenersi forte e creare reddito (occupazione) aveva bisogno d’oro. L’oro può essere accumulato tramite le esportazioni. •  Liberismo: il benessere collettivo si ottiene tramite il libero agire dell’individuo che persegue il proprio interesse (felicità) clef 11 004 10 Accelerazione delle relazioni economiche internazionali dopo 1850 •  La ferrovia •  La navigazione a vapore •  Il telegrafo •  Politiche commerciali liberiste Evoluzione della marina inglese (mln tonn) 0,0 2,0 4,0 6,0 8,0 10,0 12,0 14,0 16,0 18 4 0 18 6 0 18 8 0 18 9 5 19 0 0 19 0 2 19 0 4 19 0 6 19 0 8 vapore velieri totale clef 11 004 11 La Gran Bretagna grande potenza •  Ruolo determinante nell’alleanza antinapoleonica •  Lo scacchiere è rappresentato dagli oceani •  Le battaglie marine •  Ridimensionamento della Francia •  Controllo totale sui mari •  Controllo amministrativo dell’India •  Penetrazione nel mercato cinese: Guerra dell’oppio (1839 – 1842) Hong Kong Spese di guerra (mln Ls) -2000 -1500 -1000 -500 0 500 1000 1500 1688 - 97 1702 - 13 1739 - 48 1756 - 63 1776 - 83 1793 - 1815 spese entrate saldo 22/05/11 1 Lo sviluppo economico dell’800 Popolazione e risorse Le migrazioni a metà dell’ottocento •  Tra il 1815 e il 1914 60 milioni di persone abbandonarono l’Europa •  Il maggior numero proveniva dalle isole britanniche •  Si viene costituendo un vero e proprio mercato internazionale del lavoro •  Le migrazioni interne: urba- nizzazione (Inghilterra 30%) Tasso medio annuo x 1000 ab. 0,0 2,0 4,0 6,0 8,0 10,0 12,0 14,0 16,0 1851 - 60 1861 -70 1871 - 80 Irlanda Scozia Inghilterra Norvegia Svezia Le migrazioni internazionali (1870-1920) -3000 -2000 -1000 0 1000 2000 3000 4000 5000 6000 G. B. Francia Germania Italia Spagna Austria- Ungheria Usa Australia Argentina Brasile (m ig lia ia ) 1870-80 1880-90 1890-00 1900-10 1910-20 Risorse & Tecnologia •  I giacimenti di ferro e carbone furono il maggior fattore di localizzazione dell’industria nell’800 •  La riduzione di queste risorse spinse gli europei e ricercarne di nuove oltreoceano •  Secondo Simon Kuznets l’epoca economica moderna prese avvio alla metà del ‘700 e l’innovazione epocale fu «l’applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione», questo sarà vero solo dopo la metà dell’800 •  Invenzione = novità tecnico-scientifica senza un particolare valore economico •  Innovazione = introduzione di una scoperta in un processo di produzione •  Diffusione = fase in cui l’innovazione si propaga in un’industria o in altre regioni La diffusione dell’industria sul Continente •  Col passare del tempo il fattore decisivo si rivelò il know how, il bagaglio di conoscenze tecniche •  Il primo passo per carpire i «segreti» fu quello di inviare emissari, agenti, ispettori che osservassero o che ingaggiassero lavoratori •  Il commercio internazionale e i trasferimenti di capitali al di qua della Manica •  Le comunità di tecnici e artigiani viaggianti attratti da alti salari •  Le istituzioni pubbliche europee •  una finestra sull’economia, uno stimolo allo spirito di fratellanza e cooperazione, un luogo dove favorire il confronto e l’imitazione, uno scambio di conoscenze. •  Londra 1851 Crystal Palace •  Parigi 1867 •  Vienna 1873 •  Philadelphia 1876 •  Parigi 1889 (Tour Eiffel) •  Milano 1906 Le Esposizioni Internazionali
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