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riassunti di "Vita nei campi" di Verga, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunti di tutte le novelle di "Vita nei campi" di Giovanni Verga

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 14/11/2022

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martina-crescioli-2 🇮🇹

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Scarica riassunti di "Vita nei campi" di Verga e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Riassunti delle novelle e dei commenti di Martina Crescioli Vita nei campi Presentazione (Pazzaglia pag. . 666-667) Raccolta di novelle pubblicate a Milano dall’editore Treves nel 1880. La raccolta allora comprendeva: 1. Fantasticheria 2. Jeli il pastore 3. Rosso Malpelo 4. Cavalleria Rusticana 5. La Lupa 6. L’amante di Gramigna 7. Guerra di santi 8. Pentolaccia A cui vennero aggiunte nell’edizione del 1878 Il come, il quando e il perché e nell’edizione del 1897 Nedda. La prima, Fantasticheria, evoca le vicende di una famiglia, i Malavoglia, che già da tempo occupava la fantasia dell’autore. Si passa dunque dal vagheggiare romantico e sentimentale, dall’ambiente borghese, a quello dei poveri pescatori siciliani, attaccati all’ideale dell’ostrica”, che lottano quotidianamente per l’esistenza, ma che, “come le formiche” una volta sbaragliate da un dito, tornano lo stesso “a pullulare, non si capisce perché”. Scendere più in basso, nell’analisi della socialità, agli strati più umili, faceva risaltare più chiaramente i meccanismi dell’esistenza e la coraggiosa rassegnazione dei “vinti”. Verga affida all’arte la missione di conoscere e testimoniare gli oscuri meccanismi delle passioni e della vita interiore. Il vero sociale dunque e psicologico. Per il metodo Verga parte dal Naturalismo, da cui muta il postulato dell’impersonalità del narratore, il suo calarsi nell’opera, fino quasi a nascondersi dietro di essa. Arte come “studio sincero e spassionato” (prefazione Malavoglia). Usa dunque la tecnica del narratore implicito, rinunciando alla l'onniscienza del narratore. Partendo da questa tecnica si sviluppa un sistema di reazioni tra narrazione oggettiva e soggettività ineliminabile dell'autore o fra narratore implicito e personaggio che non sempre coincidono come avviene in rosso malpelo il fatto è che mentre in tal modo il personaggio è rigorosamente ricondotto all'ambiente storico culturale dunque etico e psicologico a cui appartiene c'è sempre una sua risposta alla vita che complica la cosa. Digressione 1 Ci sono una serie di tecniche narrative che Verga utilizza in Rosso Malpelo e che poi riadotterà scrivendo I Malavoglia. Si parla di artificio dello straniamento, ovvero quando si presenta un fenomeno da un’ottica inedita che lo fa risultare imprevedibile, strano. Anche se appare evidente che Malpelo è in grado di provare sentimenti buoni come l’amore verso il padre, l’amicizia con Ranocchio, la solidarietà e il senso di giustizia; tutto questo viene però reso strano visto dalla prospettiva del narratore pieno di pregiudizi, provocando un senso di straniamento. Questo accade proprio perché l’irrazionalità, gli interessi privati, l’ignoranza sono più forti della logica. Lo straniamento opera anche per negare che i valori che Rosso Malpelo ha possano far parte di un mondo dominato dalla lotta per la sopravvivenza (così Verga esprime il suo pessimismo). Da : https://www.sololibri.net/I-Malavoglia-di-Giovanni-Verga.html Un altro importante motivo di poetica che si riscontra soprattutto in novelle come L’amante di Gramigna, che ne contiene la teorizzazione, Cavalleria rusticana, La Lupa, è quello che si potrebbe dire dei “fatti diversi”, per usare l'espressione di Verga nella prefazione alla prima di esse, ossia della significazione implicita nei fatti, che porta a un dettato scarno e stringatissimo, che corre quasi vertiginosamente verso la catastrofe. L'amore, il dolore le passioni travolgenti degli umili e la dolcezza degli affetti acquistano qui un valore assoluto, si direbbe paradigmatico, nel senso che propongono gli schemi dell'essere e dell'agire di sempre. 1. FANTASTICHERIA La novella, che apriva la raccolta, si apre con il “tu”; dunque, con un discorso rivolto ad una interlocutrice a cui l’autore si rivolge fino alla fine mescolando ricordi d’amore con la realtà siciliana di Aci Trezza, un piccolo paesino di pescatori. Tutto il racconto è giocato sulla contrapposizione della vita alto-borghese della donna e quella dei disgraziati pescatori costretti ad una rassegnazione coraggiosa di fronte alla spietatezza del destino. I pescatori rappresentati sono in realtà i personaggi dei Malavoglia, già presenti nella fantasia dell’autore. Qui le loro vite e identità vengono soltanto evocate, in un andirivieni di immagini frivole della vita agiata della donna, di cui non si fa mai il nome. La vicenda amorosa tra i due viene soltanto evocata ( es: “col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima ») e sembra che anche tra il narratore e la donna ci sia una relazione ambivalente: l’ha amata, l’ha desiderata, ma al tempo stesso fa in modo che il lettore non solidarizzi affatto con lei, presentandone delle immagini che ne mettono in risalto la mancanza di consapevolezza della propria posizione di benessere e di vantaggio (“— Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita —. Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione »). Inoltre la prima immagine è quella del treno, tanto presente negli scrittori di quest’epoca, come simbolo di modernità, di progresso: “Una volta, mentre il treno passava vicino d Aci Trezza”. Il progresso che scende in Sicilia. 2 2. Jeli il pastore La novella non ha un andamento diacronico. Inizia con l’immagine di Jeli, guardiano di cavalli e puledri, e il signorino Alfonso. Da un rapporto bambino povero-bambino ricco, figlio del padrone, a forza di darsele e giocare si affiatano. A questa prima immagine se ne aggiungono altre di Jeli che svolge il suo lavoro, nei campi dove stanno il massaro Agrippino e la gnà Lia (campaio= massaro) che dopo si scoprono genitori di Mara, l’innamorata di Jeli (ma lei non lo sa). Jeli vive onestamente, se qualcuno gli fa un piacere, lui glielo rende. Ma vive come se fosse autogenerato, sua madre muore rapidamente nella novella, e lui è svagato nei giorni dopo tanto che i cavalli gli scappano, ma il massaro Agrippino, lo minaccia se li fa scappare, impietoso, di dargliele col frustino. Dopo qualche tempo, un puledro la cui madre è stata venduta, sembra svagato come lui e lui fa una riflessione: è perché ha perso la madre, come me. Don Alfonso si vede a intermittenza nella novella, si dice che è invidioso dell’indipendenza di Jeli, del suo sacco dove ha tutto quello che gli serve per sopravvivere. Citazione: “Le idee non gli venivano nette e filate l’una dietro l’altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare, e perciò non aveva fretta di scovarle e districarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anche gli uccelli, - soggiunse, - devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono. Poi ci pensò su un pezzetto. – Tu sei come gli uccelli, ma quando arriva l’inverno, te ne puoi stare al fuoco, senza far nulla.” Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare, con quel lieve ammiccar di palpebre, che indica l’intensità dell’attenzione nelle bestie che più si accostano all’uomo.” Quando il signorino si metteva a scrivere, Jeli “Non poteva capacitarsi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite dalla bocca, talché lui finiva per tirarsi indietro, incredulo, e con un sorriso furbo. Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare” (linguaggio concreto anche nelle metafore, mondo visto dagli occhi del personaggio), “lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla indifferenza selvaggia della sua vajata. Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo: gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile, con quella maschera d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano. Pareva che si trincerasse nella sua ignoranza, come se fosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva: - Io non ne so nulla.- Io sono povero- con quel sorriso ostinato che voleva essere malizioso.” Aveva chiesto al suo amico di scrivergli il nome di Mara su un foglio che aveva raccattato da terra. Poi per sincerarsi che fosse ben scritto “Mara” lo aveva fatto leggere ad un’altra persona. E un giorno disse a don Alfonso “Io ci ho l’innamorata”. Spiegò che un giorno che avesse avuto un buono stipendio, l’avrebbe sposata, ma che per ora lei non sapeva nulla di 5 questi suoi progetti. Alla domanda di cosa ne farà di quel bigliettino con scritto Mara, Jeli non risponde e si stringe nelle spalle. Jeli e Mara si erano conosciuti bambini a darsele e poi giocare nei campi. Dopo che si erano menati “da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi”. Poco dopo Jeli perde anche il padre, compare Menu, che era bracciante in una zona dove la malaria “miete peggio dello schioppo” (detto forse siciliano, di sicuro dell’orale). Il padre gli dice di andare a pretendere la paga per il suo ultimo lavoro dal suo ultimo padrone, ma Jeli lo corregge: no meno di quello che dici: bisogna essere onesti con padrone, chiedere solo quello che hai lavorato e ultimamente che sei stato malato non ha lavorato. Il padre dice vero. Poi muore e Jeli si sente solo: “Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi!” (punto di vista interno, anacoluto, tipico del parlato). Anche Mara va a trovarlo “Vedi, come sono rimasto?”. Poco dopo la famiglia di Mara trasloca e Jeli li aiuta a caricare le cose su un carro per partire. Il padre ha perso il lavoro, ma andranno in città (a Marineo), Mara ne è entusiasta. L’autore anticipa: Mara, quando se ne andò a Marineo si scordò di lui, mentre lui, che era solo soletto, continuò a pensare a lei a lungo. Per San Giovanni Jeli doveva portare la mandria a Marineo per la festa e perché il suo padrone doveva vendere dei puledri, ma per strada, seppur aiutato da Alfio, un giovane, non riesce a mantenere radunata la mandria. Passa una carrozza all’improvviso e la mandria si impaurisce, così lo Stellato, uno dei puledri, cade in un dirupo. Jeli va a cercarlo, Alfio resta a guardia della mandria. Ma Jeli inizia a lamentarsi…ad avere pietà del puledro e a disperarsi della disgrazia. Arriva il padrone, su tutte le furie, per aver perso la giornata, e spara allo Stellato per cui non c’è più nulla da fare, se non scuoiarlo per ricavarci almeno qualche soldo, ché ne valeva molti di più. Jeli è cacciato in tronco e senza paga. Mogio, mogio va in città, vede massaro Cola che cerca di trovargli un nuovo padrone, forse ce n’è uno per cui può guardare i maiali; ma poi gli dice di no. Mastro Cola gli consiglia di non dire nulla della disgrazia dello Stellato, che può succeder a tutti, ma meglio non dire nulla. Poi Jeli incontra massaro Agrippina e Marta e la gnà Lia…Marta è tutta ingioiellata ed è corteggiata dal “figlio di massaro Neri, il fattore di Salonia, (che) spende più di dieci lire di razzi!”. Molto colorita l’immagine della devozione ossessa e indiavolata dei preti per la festa (ossimoro). La festa, la gente, la contentezza, Jeli è così stanco che si addormenta sul marciapiede in mezzo al casino. Si sveglia e vede nella ressa della folla della festa il figlio di massaro Neri che dà un bacio a Marta. Allora Jeli si rammenta di tutte le sue disgrazie e che forse sarebbe stato meglio buttarsi in un burrone come lo Stellato (tema della morte meglio della vita. Vedi Nedda, fantasticheria…). Nessuno si accorge di lui, poi però alla fine massaro Agrippina lo vede e gli dice di andare a dormire sun una panca della piazza, che tanto ci è avvezzo a dormire fuori, e che domani lui cercherà di trovargli un nuovo lavoro. Così lo manda a guardare le pecore da massaro Neri. Ma siccome non ci era avvezzo a guardare le pecore, si deve accontentare di un salario basso. Poi però impara a lavorare e ad amare le pecore e chiede un salario che quasi arriva a quello che aveva prima coi cavalli. Le chiacchere dicono che Mara sposerà il figlio di massaro Neri, ma poi un giorno viene massaro Agrippina che smentisce. Poi le chiacchere dicono che è perché massaro Neri aveva saputo che Mara se la intendeva con don Alfonso, il signorino, che aveva conosciuto da piccola e che dunque niente corna nella sua famiglia. Jeli ascolta e non dice nulla, ma gli va via l’appetito. 6 Mara e la famiglia un giorno vanno nella tenuta di massaro Neri per raccogliere le fave, e lì si rincontrano con Jeli. L’ultimo giorno restano soli e Jeli le chiede perché non si è spostata col figlio di massaro Neri. Lei risponde che è perché da quando sono andati in città le cose gli sono andate male e senza denari non la vuole più nessuno. Lei gli chiede se ancora, lui, vuole sposarla. Lui dice si, ma il padre che dirà? Lei gli fa capire che il padre sarà contento, che lui un salario ce l’ha e che anzi è un ragazzo per bene che sa il fatto suo e un giorno magari avrà il suo gregge e diventerà ricco. Così si sposano, ma Jeli non osa chiederle di Alfonso. Una volta sposati, il lunedì mattina Jeli non si risolve a partire per la Salonia e le dice di andare con lui. Ma lei risponde che non è fatta per fare la pecoraia. così Mara resta in casa e va a riscuotere il salario del marito, che due volte al mese torna a casa. Per Santa Barbara Jeli torna ad un’ora insolita, mentre piove a dirotto. La moglie lo apre sconvolta, si capisce che ha un amante e Jeli le chiede perché ha lasciata aperta la porta dietro. Non sapeva di “essere becco”. Un giorno un ragazzo della mandria glielo disse nel momento in cui scoppia un litigio tra loro: “ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato e avete messo superbia che vi pare di essere un re di corona con quelle corna che avete in testa. Il fattore e il campaio si aspettavano di vedere scorrere il sangue allora; ma invece Jeli stette zitto quasi non fosse fatto suo, con una faccia di grullo che le corna gli stavano bene davvero”. Lui non ci crede di essere becco, si confessa, corre dal ragazzo e gli dice che lo perdonerà per quello che gli ha detto. Poi chiede alla Mara papale papale se se la intende con don Alfonso, lei sempre bella …nega. Jeli pensa a quanto ha sofferto sapendo che era stata promessa ad un altro, a quanto erano come fratelli da piccoli lui e don Alfonso….non ci crede che don Alfonso gli possa fare tale birbonata e che siccome è ricco può avere tutte le donne che vuole. Un giorno don Alfonso viene al podere, anche Mara colla scusa che, incinta, ha voglia di ricotta. Jeli sta tosando le pecore perché don Alfonso vuole dare un banchetto e fare le cose in grande. Invitano Mara a ballare. Jeli la prega di non andare, ma lei va lo stesso. Vide don Alfonso che prendeva Mara per ballare, i due si stringevano. “Lo vide che allungava il braccio, quasi per stringersela al petto, e lei che lo lasciava fare- allora, Signore perdonategli, non ci vide più, e gli tagliò la gola, proprio come un capretto. Più tardi, mentre lo conducevano dinnanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la minima resistenza: - Come, - diceva- non dovevo ucciderlo nemmeno? Se mi aveva preso la Mara!- Eco la fine del racconto velocissima, come postulato da Verga. Senza intervento, senza commenti. La logica di poveri e delle passioni. 3. Rosso Malpelo L’inizio della novella presenta Rosso Malpelo come destinato da un determinismo ad essere “cattivo e malizioso” e destinato al peggio. “Malpelo sin chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo e prometteva di riescire un fior di birbone”. 7 perché se non la ucciderà. Lei ribadisce senza di lui non può stare (anche la figlia la odia). La lupa torna nell’aia, dice “ammazzami, ma senza di te non voglio starci”. Lui stacca la scure dall’olmo…la scena finisce con lei che avanza senza paura e lui pure. 6. L’amante di Gramigna La novella è scritta in forma di lettera, in cui l’autore dice di riportare una storia vera, così come l’ha udita raccontare. Fa poi una vera e propria dichiarazione di poetica in cui illustra il principio della verità, della scomparsa dell’autore dietro alla vicenda raccontata. Si tratta, dunque, di un “documento umano”, per la convinzione che ridurre la realtà a un documento umano possa permettere un’analisi scientifica, non turbata dall’alterazione estetica. Delle passioni e della psicologia umana. Questa ricerca scientifica “positiva” non vuole indagare le cause delle passioni, ma le relazioni tra i fenomeni e fra questi, le cose e la coscienza. Questo metodo corrisponde a una nuova struttura del racconto: basta indicare il punto di partenza e il punto di arrivo, indagare cioè, la stringente coerenza dell’evento, in uno sviluppo logico e necessario (alla fine della novella Jeli il pastore, per esempio, Jeli chiede come non uccidere don Alfio? dopo che gli ha rubato la moglie: è una logica semplice e necessaria). Lo scrittore verista, studiando la scienza del cuore (non in accezione romantica, ma psicologica), contribuisce al progresso (delucidando i nessi tra cause e effetti psicologici). Questa poetica sarà confermata nell’introduzione a I Malavoglia, in espressioni, quali “studio sincero e spassionato” “ del come probabilmente devono nascere e svilupparsi”. “A Salvatore Farina Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto.” “Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto per i viottoli e i campi, pressappoco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare”. “E tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatti umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nel loro andirivieni che spesso sembrano contraddittori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e il punto d’arrivo, e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.” “(…) Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica, forse, ma non meno fatale”. “(…) Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesti studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore?” 10 Pazzaglia scrive: “preso, poi da delirio futuristico: La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? » Pazzaglia commenta: “abbiamo parlato di utopia perché questa arte nuova, così concepita, porterebbe, di fatto, alla morte dell’arte stessa nel suo confluire nei “fatti diversi”, nella scienza esatta, come unnica forma di espressione dell’uomo, da una parte; dall’altra perché il metodo stesso della scienza, fatta di prove ed errori, di sviluppo infinito verso nuove tecniche e scoperte, non arriva a mai ad un punto statico. “Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero (…) che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato originale.” “Se non erro” qualche anno fa c’era un brigante che chiamavano Gramigna, “nome maledetto, come l’erba che lo porta”, che riusciva a sgattaiolare via dai carabinieri, soldati e militi a cavallo. Tutti lo cercavano quell’estate e lui si era nascosto tra i fichidindia. C’era una ragazza di Licodi, Beppa che aveva tanti anelli d’oro e doveva sposare “Finu, candela di sego, che aveva terre al sole e una cavalla baia nella stalla (…) e portava lo stendardo di santa Margherita senza piegare le gambe”. La madre era tanto contenta per la fortuna toccata alla figliola. Un giorno Finu arriva sulla porta e Beppa lo caccia dicendo che non lo sposerà e che invece è presa da Gramigna, sebbene non lo abbia mai visto. Tutto il paese sparla di questo come se Beppa fosse stata posseduta dal demonio di Gramigna. Il parroco fa preghiere per lei, la madre attacca immagini di santi alle sue porte e finestre, ma la ragazza sembra davvero posseduta. Nonostante la madre l’abbia chiusa in casa, lei un giorno scappa e va nei fichidindia. Ci trova davvero Gramigna che quasi non le spara. Lei va a prendergli acqua al fiume a rischio della vita. Scappano insieme. Ma un giorno Gramigna è catturato e anche lei. La madre di lei vende tutti i gioielli della sua dote per pagare gli avvocati per farla uscire. E Poi la richiude in casa per nascondere il figlio di Gramigna. Quando la madre muore, Beppa dà il figlio ai trovatelli e va in città a cercare il carcere dove le hanno detto è Gramigna. Non ce lo trova più, lo hanno trasferito lontano, al di là del mare. Lei resta lì intorno alla caserma, con rispetto verso i carabinieri, e vive per sempre lì a lustrare gli stivale e pulire i cameroni dei carabinieri, “tanto che la chiamavano lo strofinacciolo della caserma”. “Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare armi, diventava pallida e pensava a Gramigna. 7. Guerra di santi Compare Nino (fidanzato di Saridda) = San Rocco Compare Turi, il “conciapelle”, e Saridda (fratelli) = San Pasquale La novella racconta di un paese in cui c’è un’inimicizia fervida tra i due quartieri: uno consacrato a San Rocco e l’altro a San Pasquale e in particolare di questo trio. Si dice che se 11 “per disgrazia uno di San rocco ha sposato uno di san Pasquale, si accapigliano i genitori con i figli e marito e moglie si separano”. Durante la processione di San Rocco (ma qui si dice che uno va a dar noia a San Rocco che si muoveva…) quelli di San Pasquale fanno confusione, parapiglia, fuggi fuggi, botte e tutto ciò per gelosia. Turi se le dà con Nino, mentre Saridda cerca di dividerli. Si sfidanzano. Poi si confessano e il prete cerca da una parte e dall’altra di riavvicinarli, ma nulla. Il sindaco, per evitare casini, vieta le feste. Ma intanto il vescovo aveva dato l’accordo ai canonici di San Pasquale di portare la mozzetta (mantellina prerogativa del papa e dei cardinali) e quelli di San Rocco erano andati a Roma in grande pompa a chiedere anche loro il privilegio. Si capisce che tra Bruno il carradore (il carrettiere), cognato del sindaco e il sindaco se la intendono per manovrare le leggi. C’è una grande siccità e Nino che lavora i campi rischia la miseria, Bruno il carradore dice che se San Pasquale potrà passare tra i campi pioverà subito. Non succede e Nino deve vendere la mula. Saridda, appena lo sa, gli manda soccorso con denari, ma lui non accetta e impreca contro San Pasquale. Arriva il colera e, nonostante una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco la rassicurava, prese tanta gente. Prese anche Saridda e Turi. Compare Nino era arrivato a vederla impreca contro San Rocco. Poi lei guarisce e gli dice che San rocco le ha fatto il miracolo e che deve accendere un cero pure lui, e lui accenna di sì. Poi lo prende anche lui…insomma fanno la pace. Colera finito arriva Bruno il carradore che propone di fare festa a San Pasquale che li ha guariti, Nino risponde “fare festa ai morti?” e Bruno: “Non penserai mica che ci abbia salvati San Rocco?” Allora Saridda: “La volete finire? – saltò su Saridda – Che poi ci vorrà un altro colera per la pace!” 8. Pentolaccia “Pentolaccia”: era il soprannome di uno originale, che era chiamato così perché ci aveva sempre la pentola piena, a spese di don Liborio, e che non era mia stato geloso e tutt’a un tratto lo diventò, ecco a uno così gli sta bene la galera. Dunque, Verga dà già tutta la storia prima di raccontarla. Lui voleva sposare la Venera. La madre gli si raccomandava che la Venera non faceva per lui (troppo licenziosa), ma lui la volle lo stesso. Dunque la moglie buttò fuori di casa e ridusse in un tugurio la suocera (e che litigate ogni volta che il marito doveva pagare l’affitto di quel tugurio!). “I vecchi ne sanno più di noi e bisogna ascoltarli pe i nostro meglio”. Verga dà le sue sentenze. “Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e una brutta fine”. La mamma di lui muore. In giro ci sono chiacchere per cui Venera se la fa con don Liborio, il medico. Pentolaccia glielo chiede a lei, lei gli risponde “Ma che ci credi?”. E pentolaccia si calma, non è geloso. Anzi si abbranca a don Liborio per i suoi affari che gli vanno a gonfie vele. La gente sparla. Ma lui è sordo. Un giorno però sente dei compari sparlare di lui, mentre pensano che dorma. E gli entra addosso la gelosia tutta insieme. Torna a casa e sulla porta incontra don Liborio che esce e lo minaccia di non tornare mai più in casa sua, ma don Liborio ride e non ci crede. Minaccia anche la moglie., ma neanche lei lo prende sul serio. Il giorno dopo torna prima da lavoro e senza ritirare la paga. La moglie va di là in cucina, mentre sta arrivando 12 frammentaria il tentativo di sostituire il punto di vista del personaggio a quello dell'autore con una prospettivamente decisamente realistica, anche se il narratore resta onnisciente. Citazione (parlando del fuoco del focolaio domestico) E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell'immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell'Etna. In Nedda, Verga riprende modi narrativi non ignoti alla novella rusticale ed alla precedente letteratura populistica ottocentesca; si libera dell’autobiografismo dei primi romanzi e quindi da certe posizioni tardo-romantiche. Riconquista la Sicilia e, soprattutto, la vita degli umili, che si rivelerà il terreno più fertile della sua ispirazione. Infine, comincia a sforzarsi di pervenire a uno stile oggettivo e di guardare il mondo degli umili dall'interno, interpretando le reali motivazioni psicologiche che ispirano l'azione dei personaggi. I due ragazzi protagonisti non possono arrivare a sposarsi a causa della malaria e Pazzaglia li definisce, per questo, un “promessi sposi” mancati. Il modello che sta dietro è Balzac, il realismo, per così dire, economico e Manzoni, da cui derivano spunti del racconto (la descrizione, per esempio, della camminata notturna di Nedda), ma anche una solidarietà con gli umili che verrà poi definendosi in forme più complesse. Infine recupera la Sicilia come terra di ispirazione. Fiche de lecture 2 Estratto di articolo Titolo: Da Nedda ai Malavoglia (da “Ritratti e disegno storici”) Autore : Luigi Russo Luigi Russo è il primo critico letterario a pubblicare un saggio intero su Verga, poco dopo la Prima Guerra Mondiale, e suo grande specialista. Siciliano, nato a Delia nel 1892, fu direttore della Scuola Normale di Pisa dopo la caduta del Fascismo, vicino a Giovanni Gentile a cui successe a Pisa. Morì a Marina di Pietrasanta in provincia di Lucca dove risiedé alla fine della sua vita, nel 1961. Titolo del libro da cui è tratto: L’ideologia critica nella letteratura italiana A cura di : Paolo De Stefano Ed.Loffredo_Napoli 15 Riassunto Russo afferma che è a Milano che Verga inizia a scrivere della Sicilia perché lì inizia a trovare una visione nostalgica della sua terra. Citazione Così si sentì poeticamente attratto da quel mondo di passioni elementari in cui pulsava una umanità primitiva, religiosa e paziente. Si ha allora, nei racconti del Verga, come l'insurrezione lirica dei primitivi e dei barbari, quasi a correzione polemica degli artifici e delle complicazioni dei romanzi giovanili (…). La sofferenza è la logica ferrea, oggettiva, della vita stessa. Dai vinti, vittime della loro stessa capricciosa e malata immaginazione, passiamo ai vinti vittime necessarie della vita dolorosa ironica; al dramma delle persone subentra il dramma delle cose. Anche la lingua di Verga comincia a cambiare e ad avere un impasto singolarissimo che non è l'italiano illustre e nemmeno il suo dialetto siciliano. Troviamo anche un certo Manzonismo : ad esempio (citazione) c'è un famoso ritratto della protagonista che è calcato sui moduli dei ritratti manzoniani. Cotesto ritratto di Nedda, in cui si assiepano le doti fisiche e morali, proprio secondo il dettare del Manzoni, dura due pagine e mezzo: uno sforzo che il Verga non ripeterà più, lui così sobrio e vago e sfumato nelle note ritrattistiche. Verga predilige il dialogo sia quello diretto dove parlano i personaggi che quello riassunto è presentato dallo scrittore. Vi entra anche il dialetto come lingua nella sua crudezza oppure appena tradotto morfologicamente ed è singolare che Verga stesso riferisca in corsivo queste sue parole immagini come le sentisse grezze, ma particolarmente suggestive in quel loro essere grezze perché idiomaticamente veristiche. L'autore riesce anche a trasfigurare la sintassi del dialetto nella sintassi della sua lingua di poeta. Quasi tutti i bozzetti che nel 1880 apparvero sotto il titolo di Vita dei campi, testimoniano di questo intenso travaglio tecnico dello scrittore, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, La Lupa, Cavalleria rusticana sono i racconti in cui lo scrittore fa più alta prova del suo nuovo stile. Anche in Vita dei campi che è la sola raccolta in cui è dato largo sviluppo alle ardenti passioni, queste non hanno nulla di sensuale e non possono dirsi amori nel senso usuale dell'espressione, perché rientrano, e sono subordinati, ad una vaga religione taciuta, la religione della casa, della famiglia, dell'onestà. 16
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