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La Costruzione Storiografica del Sistema di Ius Commune: Romano-Canonico, Sintesi del corso di Diritto Comune

La riflessione sulla natura e la validità del diritto comune romano-canonico durante il Medioevo. la tesi secondo cui il diritto romano e il diritto canonico costituivano insieme il diritto comune per tutti i popoli dell'Impero, e la crescente affermazione del diritto proprio durante l'età moderna. Vengono presentate critiche e alternative alla tesi dominante, inclusa la funzione del diritto canonico come normativa valida per la Chiesa universale.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 22/10/2021

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Scarica La Costruzione Storiografica del Sistema di Ius Commune: Romano-Canonico e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Comune solo su Docsity! ALLE ORIGINI DEL DIRITTO EUROPEO CAPITOLO I. NATURA E FUNZIONE DELLO IUS COMMUNE ROMANO-CANONICO NELLA DOTTRINA ITALIANA DELLA PRIMA ETÀ MODERNA 1. INTRODUZIONE In uno studio recente, Jean-Marie Carbasse ha proposto un confronto tra il diritto francese (indicato come il complesso di norme consuetudinarie e regie vincolanti tutti gli abitanti del regno nel lungo periodo che va dagli ultimi secoli del M.E. alla Rivoluzione), lo ius commune romano-canonico e il common law inglese. Se infatti è vero che adottando l'impostazione tradizionalmente accolta dalla storiografia giuridica dell'età intermedia (a partire da Ermini e Calasso), sia il diritto generale francese, sia il common law inglese sono qualificabili come diritti propri rispetto al diritto comune romano-canonico, appare altrettanto vero che tanto l'espressione francese droit commun, quanto quella inglese di common law_ corrispondono esattamente all'altra di ius commune ed indicano un diritto che è valido per tutti i soggetti, ma che non pretende di essere l’unico e, di conseguenza, si pone in rapporto dialettico con i diritti particolari di singole comunità o di soggetti privilegiati, gli iura propria. Il tema non è nuovo + interessanti osservazioni sono state formulate, ad esempio, da van Caenegem, il quale, dopo aver affermato che nella sostanza le tre espressioni sono equivalenti, ha sottolineato che il medesimo concetto assume, però, differenti significati a seconda del concreto contesto sociale in cui era applicato 3 ius commune, droit commun e common law erano legati ad ordinamenti ed a realtà giuridiche tra loro differenti, ma tutti si caratterizzavano per la superiorità sui diritti particolari, tutti esprimevano la medesima ansia di individuare, nella complessa e disordinata massa di regole giuridiche vigenti, un diritto certo e stabile + sembrerebbe allora che la nozione di diritto comune sia stata identica nella sostanzia nei diversi ordinamenti in cui trovava applicazione ed abbia solo assunto specifiche colorazioni in ciascuno di loro in relazione alla specifica realtà giuridica, culturale, sociale e politica che lo caratterizzava. Il periodo preso in esame è quello compreso tra l'inizio del secolo XVI e la metà del successivo. 2. LA COSTRUZIONE STORIOGRAFICA DEL SISTEMA DI IUS COMMUNE ROMANO-CANONICO La riflessione deve necessariamente prendere le mosse dall'analisi del diritto comune romano-canonico. Secondo una ricostruzione, tracciata da Ermini e completata da Calasso, la dottrina giuridica, affermatasi soprattutto in Italia a partire dalla rinascita degli studi del diritto romano a Bologna (XII secolo), aveva considerato come diritto vigente nell'impero medievale il diritto romano giustinianeo, ne aveva fornito un'interpretazione che lo adeguava alla realtà della società contemporanea e lo aveva affiancato all'altro diritto universale, quello canonico, nella convinzione che l'Impero, essendo sacro e romano, costituiva un'unità bifronte (temporale e spirituale) e pertanto richiedeva la compresenza di due diritti che fossero altrettanto universali (romano per le questioni temporali; canonico per le materie spirituali) > secondo tale tesi, dunque, diritto romano e diritto canonico avevano costituito l’utrumque ius, il diritto comune a tutti i popoli dell'Impero + le lacune dell'uno erano colmate grazie al ricorso alle corrispondenti disposizioni dell'altro; nelle regioni che costituivano le terrae Ecclesiae, il diritto canonico disponeva anche in materia temporale. Diritto comune, non diritto unico, nel senso che accanto ad esso erano in vigore altri diritto > l’unità imperiale, infatti, coesisteva con la molteplicità di ordinamenti e di realtà particolari delle sue regioni > allo stesso modo, il diritto comune coesisteva con i numerosi iura propria (diritti particolari), in un chiaro ed ordinato rapporto che dava vita ad una precisa gerarchia delle fonti secondo la quale dal diritto dell'ordinamento più piccolo si ascendeva gradualmente a quello dell'Impero universale (ex. giudici attivi in un comune dell’Italia centrosettentrionale: statuto cittadino > consuetudini vigenti + diritto comune). Tale costruzione storiografica aveva il pregio di presentare sotto forma di unità organica il diritto dell'età intermedia e, quindi, di riconoscere anche ad esso quella natura di sistema che l'indirizzo pandettistico attribuiva soltanto al diritto romano ed al diritto vigente > in sostanza, si trattava di un sistema che permetteva una lettura unitaria e razionale della molteplicità e consentiva, di conseguenza, una sua interpretazione scientificamente apprezzabile > tale teoria legava, dunque, l’esistenza del sistema di diritto comune alla realtà istituzionale del Sacro Romano Impero, del quale ripeteva le natura bifronte e la coesistenza di pluralismo locale e di unità generale + ne derivava, allora, la convinzione che tale sistema era entrato in crisi irreversibile quando, con l’inizio dell'età moderna, l'Impero medievale aveva cominciato a perdere significato, sia sotto il profilo spirituale (rottura dell’unità religiosa del mondo occidentale) sia sotto quello politico (emersione definitiva degli Stati nazionali). In proposito, Calasso individuava 3 diverse fasi storiche del sistema del diritto comune: 1. Periodo del diritto comune assoluto > secoli XII e XIII e si caratterizzava per il predominio del diritto comune su ogni altra fonte concorrente 2. Periodo del diritto comune sussidiario > secoli XIV e XV e vedeva la crescente affermazione dello ius proprium 3. periodo del diritto comune particolare > secoli dell'età modema (1492-1789) e affermava il dominio del diritto dei singoli Stati, il quale si imponeva come unica fonte normativa in quanto emanata dal princeps, che impersona lo Stato e dalla cui volontà la validità di ogni altra fonte rileva > di modo che il diritto comune poteva sussistere soltanto se il principe ne avesse ammesso la vigenza come diritto sussidiario rispetto a quello definito dalle proprie leggi Non sono mancate critiche e proposte alternative. È stato rilevato che i sostenitori del diritto comune avevano subito l'influenza di concezioni giuridiche contemporanee quando avevano adottato un'impostazione decisamente territorialistica del diritto comune, presentandolo come il diritto delle sole regioni del Sacro Romano Impero ed escludendone la vigenza nelle regioni che non si riconoscevano in quell’Impero > innanzitutto nel M.E. vigeva il principio opposto al principio della territorialità del diritto: il principio della personalità del diritto; inoltre, se il sistema di diritto comune fosse stato realmente il diritto dell'Impero medievale, esso avrebbe dovuto essere seguito innanzitutto dalle regioni germaniche, mentre in realtà, per tutto il periodo medievale quelle regioni avevano continuato a seguire i loro diritti consuetudinari. D'altro canto, la tesi del diritto comune romano-canonico quale diritto delle terre imperiali non riusciva a spiegare la vigenza del diritto canonico nei regni inglese e francese + una vigenza che invece si comprende facilmente ove si abbandoni l'esclusiva lettura del diritto canonico come componente di un utrumque ius riservato alle sole regioni dell'Impero e lo si colga nella sua realtà effettiva di diritto vigente per l’intera universitas dei fedeli in Cristo > e proprio sul significato del diritto canonico si sono appuntate altre critiche alla tesi dominante: - Cassandro ha sostenuto che il diritto comune era costituito dal solo diritto civile, mentre il diritto canonico aveva la sola funzione di definire la normativa valida per la Chiesa universale, normativa in rapporto complementare con quella delle Chiese nazionali. - Legendre ha contestato l’idea di un’identica posizione del diritto civile e di quello canonico nei secoli immediatamente successivi alla rinascita bolognese, rilevando la superiorità del primo, fondato sul testo della compilazione giustinianea, rispetto al secondo che andava cercando la propria definizione > con la conseguenza che mentre per il diritto civile il ruolo della giurisprudenza era primario (doveva individuare i termini in cui le norme giustinianee potevano 2 Cassandro ha ritenuto che la funzione di diritto comune fosse assolta nel M.E. dal solo diritto romano giustinianeo, mentre il diritto canonico avrebbe avuto la mera funzione di dettare norme generali alle chiese particolari, lasciando poi queste ultime libere di disciplinare singole materie con norme proprie e particolari. Altri studi però hanno evidenziato la natura di diritto comune del diritto canonico, in quanto vincolante per tutti i fedeli in Cristo ed hanno precisato che detta natura caratterizzò il diritto della Chiesa sia nel M.E., sia nell'età moderna, quando esso rimase in vigore anche nelle regioni passate alle confessioni riformate > in queste ultime i testi canonistici medievali continuarono ad essere utilizzati come fonte di informazione per la soluzione di controversie teologiche e fonte di norme pe la disciplina di alcune materie importanti. Su un aspetto del diritto comune, invece, la maggior parte degli studiosi sembra concordare: la sua sussidiarietà rispetto al diritto proprio + e tale funzione sussidiaria il diritto comune avrebbe conservato in età moderna, quando la legislazione principesca sarebbe diventata la fonte primaria del diritto, ma avrebbe continuato a far riferimento a quel diritto per il proprio completamento > da questa impostazione si distingue Grossi, il quale ritiene che gli ordinamenti giuridici medievali erano tutti sul medesimo piano e si integravano a vicenda: diritto comune e diritti particolari sarebbero stati legati da un rapporto reciproco di complementarietà. In estrema sintesi, allora, si può dire che, secondo le conclusioni della storiografia, il diritto giustinianeo in virtù dell'autorità che gli veniva riconosciuta dalla dottrina giuridica a motivo della sua natura di diritto dell'Impero, oppure della sua derivazione dalla volontà divina, oppure, ancora, della sua incorporazione in testi di eccezionale rilevanza, venne considerato a partire dagli ultimi secoli del M.E. diritto comune a tutti i soggetti che vivevano nelle regioni dell’Italia comunale, quanto meno nelle materie per le quali le norme romane erano giudicate ancora utili dai giuristi medievali. Tale autorità del diritto comune era condivisa dal diritto canonico cui era riconosciuto il compito di disciplinare le materie che la Chiesa rivendicava alla propria competenza. E la funzione del diritto comune era quella di colmare le lacune dei diritti propri statutari o consuetudinari che fossero, operando rispetto ad essi come diritto sussidiario ed a sua volta risultando da questi integrato e completato. 4. NATURA DELLO IUS COMMUNE NELLA DOTTRINA ITALIANA Nella dottrina giuridica italiana della prima età moderna troviamo non pochi elementi di riflessione sul diritto comune. In primo luogo sulla natura di diritto comune da riconoscere al diritto romano giustinianeo + in proposito, il bolognese Bolognetti riprendeva la discussione della scienza medievale sulla Omnes populi e ripeteva l'antica distinzione tra ius gentium e ius civile basata sulla qualità di ius commune del primo e di ius proprium del secondo > un'affermazione questa che sembra mettere in dubbio la possibilità di qualificare come comune il diritto romano giustinianeo, ma che è preferibile interpretare come un ricordo dell'antica polemica piuttosto che come una presa di posizione nuova > ché, infatti, la dottrina del XVI secolo risulta accogliere pacificamente l'identificazione tra diritto romano e diritto comune > lo ius civile (diritto romano giustinianeo) continuava ad essere visto dai giuristi italiani come il diritto comune per antonomasia. Un diritto, quello romano comune, che necessariamente doveva essere completato dall'interpretatio della dottrina > il diritto comune civile, allora, era costituito non solo dal diritto romano giustinianeo, ma anche (e soprattutto) dalla dottrina che aveva selezionato e interpretato le norme di questo per adeguarle alla concreta prassi giuridica e di conseguenza usarle per la disciplina dei rapporti intersoggettivi e la loro tutela giurisdizionale. L'interpretatio iniziata dai glossatori e proseguita dalle successive scuole e generazioni di giuristi aveva fatto conoscere alle norme giustinianee una decisa evoluzione, che al loro interno aveva certamente operato una 5 severa selezione, prendendo in considerazione solo le norme (la maggioranza) utili alla disciplina della prassi giuridica e che quindi aveva prodotto un sensibile mutamento sia nei contenuti della disciplina, sia nella definizione delle categorie astratte in cui includere le singole disposizioni + ne era nato un diritto nuovo rispetto al diritto romano giustinianeo. È il caso di ricordare un dato a tutti noto: i richiami delle corti di giustizia e dei giuristi al diritto romano non consistevano in citazioni del solo testo giustinianeo, ma, al contrario, in costanti richiami alla dottrina che dalla glossa in poi quel testo aveva letto, plasmato e aggiornato. Il diritto civile comune, dunque, era costituito dall’interpretatio delle norme giustinianee elaborata dalla lunga tradizione dottrinaria > e grazie a detta interpretatio, il diritto giustinianeo si presentava, nella prima età moderna, come un diritto comune potenzialmente onnicomprensivo che non ammetteva rinvio ad altro diritto. IL FONDAMENTO DELLA LEGITTIMITÀ DELLO IUS COMMUNE Altro tema trattato dalla dottrina italiana della prima età moderna è quello del fondamento dal quale il diritto civile giustinianeo derivava la sua autorità. Alberico Gentili equiparava i giuristi ai teologi, filosofi, medici, storici enumerando in tal modo tutte le scienze fondate sull’autorità di un testo + in quest'ottica, allora, era la stessa compilazione giustinianea a conferire al diritto in essa contenuto la superiore autorità che gli veniva comunemente riconosciuta (dichiarazione che costituisce testimonianza importante per la tesi che fonda l'autorità della dottrina giuridica medievale sulla sua natura di scienza del libro). Preminente tra i testi giustinianei era senza dubbio gesto. Una ricostruzione articolata delle ragioni della superiore autorità del diritto comune giustinianeo si rinviene nel bresciano Stefano Federici > il giurista si occupò del problema del rapporto tra diritto comune e diritto statutario ed elencò i motivi sui quali la dottrina giuridica fondava al supremazia del primo: non era solo la derivazione dalla volontà divina, espressa anche nell’ordine naturale delle cose, a conferire al diritto civile la natura di diritto comune a tutti gli uomini e la sua superiorità su ogni altro diritto temporale, ma era anche: - in primo luogo, la forza della tradizione secolare di applicazione delle sue disposizione e della loro interpretazione da parte dei giuristi definiti arbitri aequitatis - la loro natura di aequitas constituta, di disposizioni che traducevano in diritto scritto il superiore principio di giustizia > il che impediva una loro modifica da parte di nuove leggi, le quali potevano essere ammesse, in funzione meramente integrativa, solo se avessero presentato in maniera evidentissima un contenuto di equità La natura del diritto romano giustinianeo, come diritto che costituiva il più alto modello di aequitas constituta era stata riconosciuta in maniera definitiva dai commentatori, i quali avevano anche messo in evidenza che detto diritto era permeato da uno spirito profondo di razionalità, proprio in quanto aequitas constituta > come ha messo in evidenza Piano Mortari, il tema fu ripreso dai giuristi della prima età moderna, i quali affermavano che la legge aveva forza cogente solo se la volontà normativa del legislatore era stata guidata dalla ragione. 6. IL DIRITTO CANONICO PARTE INTEGRANTE DELLO IUS COMMUNE La dottrina italiana della prima età moderna, inoltre, era convinta che il diritto canonico avesse la stessa natura di diritto comune universale del diritto civile giustinianeo > secondo Garcia, il diritto canonico aveva in comune con il civile sia l’obiettivo (l'humanae vitae felicitas), sia l'origine dato che entrambi derivavano a lege naturae, vel divina. La natura di diritto universalmente vigente era riconosciuta al diritto canonico anche da coloro che gli attribuivano fini differenti da quelli del diritto civile. Dunque, due diritti universali e comuni che potevano confliggere tra loro + era perciò necessario individuare criteri che consentissero di stabilire in maniera sicura e pacifica i casi in cui l'uno prevaleva sull'altro. Due diritti comuni, il canonico per le materie spirituali; il civile romano per le temporali + ciascuno con proprie corti di giustizia > in particolare questa regola valeva per le regioni dell’Italia centrosettentrionale che riconoscevano di far parte delle terrae Imperii, mentre per quelle che appartenevano alle terrae Ecclesiae il diritto canonico costituiva anche il fondamento del diritto temporale. Ad una prima, superficiale, lettura tali affermazioni sembrerebbero dare ragione agli storici che hanno sostenuto l’esistenza di un organico ed unitario sistema di diritto comune: un diritto costituito dall’utrumque ius > ma a ben vedere, questo discorso non riguarda in generale i territori dell’Impero, ma soprattutto, se non esclusivamente, le regioni dell’Italia centrosettentrionale, cioè quelle che nel M.E. avevano vissuto il fenomeno comunale. Se passiamo poi ad esaminare la prassi giuridica, ci accorgiamo che nelle terre della Chiesa i rapporti tra diritto canonico, come diritto temporale, e diritto civile romano erano ben più complessi: entrambi si confermano diritti comuni, ma il secondo non risulta intervenire solo a completamento del primo, ma appare vincolato da legami più profondi > sembra attestarlo una vicenda che vide coinvolto Giovan Battista De Luca, nella veste di avvocato > si tratta della vertenza insorta a Roma nel 1656 tra la Congregazione della S. Inquisizione e la compagnia mercantile dei fratelli Pacini, appaltatrice della ferriera di Conca, di cui la stessa Congregazione era proprietaria > i Pacini chiedevano di essere esonerati dal pagamento del canone per l’anno precedente poiché si erano verificate le condizioni previste nel contratto di appalto per la remissio mercedis (remissione del debito?), mentre la S. Inquisizione si richiamava alla dottrina giuridica per proporre l’opposta lettura dell'evento > quello che appare interessante da rilevare è il fatto che sia De Luca quanto la Congregazione sollecitarono il rispetto di due capitoli del Liber extra, i quali dettavano norme in tema di remissio mercedis sulla falsariga delle disposizioni giustinianee, ma allo stesso tempo richiamarono l'interpretazione elaborata dalla dottrina non già in merito a detti capitoli, bensì ai loci del Corpus iuris civilis. Le connessioni tra diritto canonico e diritto civile, allora, sembrano essere più complesse e profonde rispetto alla tesi, correntemente accolta, che assegna al primo le materie spirituali (meglio, le materie che la Chiesa rivendicava alla propria esclusiva competenza) e al secondo le questioni temporali [il territorio pontificio era un'eccezione: qui il diritto civile aveva una mera funzione di sussidiarietà nei confronti del canonico che vigeva anche nelle materie temporali] + la lunga e autorevole tradizione interpretativa della scienza giuridica aveva dato vita ad una sensibile osmosi tra i due diritti: i civilisti andavano accogliendo le conclusioni della canonistica e viceversa + non si trattava di due mondi separati, ma di un'unica tradizione di dottrina in cui certamente si distinguevano momenti specifici per ciascuno dei due diritti, ma che fluiva sostanzialmente unita. Sembra dunque legittimo dire che nella prima età moderna, la dottrina giuridica del mos italicus dominante nelle regioni dell'Italia centrosettentrionale accoglieva l’idea tardomedievale del diritto romano giustinianeo, plasmato dall’interpretatio dei giuristi, come diritto comune a tutti gli abitanti delle regioni medesime, a prescindere dalle ulteriori qualificazioni giuridiche che ciascuno aveva in base al suo status personale e all'ordinamento particolare di cui faceva parte; e che tale natura di diritto comune era condivisa anche dal diritto canonico. 10 giustinianeo, che la dottrina italiana leggeva come aequitas constituta. Tale incapacità di modificare il diritto civile riguardava anche le potestà universali, il papa e l'imperatore. | giuristi aprivano ancora un'altra questione, quella della legittimità di rescritti imperiali o pontifici, che senza abrogare le norme di diritto comune, disponevano in contrasto delle stesse + era questo il problema della liceità dei rescripta contra ius, problema antico + la disciplina romana prevedeva che i giudici non dovevano riferirsi ai rescripta contra ius; potevano farlo in via eccezionale solo se fosse stata rispettata la duplice condizione che la loro osservanza non fosse di nocumento a terzi e andasse ad esclusivo vantaggio del beneficiario > la dottrina medievale conservò sostanzialmente tale impostazione, introducendo, comunque, ulteriori limiti alle eccezioni ammesse. Ad ex., Piacentino accettava la liceità dei rescritti nelle sole ipotesi di eliminazione di un’iniquitas e di indulgenza per un crimine. Maggior apertura mostrò Cino da Pistoia, il quale ammetteva tali rescritti sia contra ius naturale, sia addirittura contra legem divina, purché causa subsistente > posizione non condivisa dai successivi commentatori: Bartolo li ammetteva solo quando contenevano la clausola aliqua lege non obstante, clausola che non necessariamente avrebbe dovuto indicare la legge violata. La dottrina medievale, dunque, vedeva con sfavore i rescritti contrari al diritto civile e li ammetteva solo a condizioni ben precise > comunque, la liceità del rescritto contra ius non comportava certamente l'eliminazione della legge dallo stesso violata, la quale continuava a valere per i terzi non toccati dal provvedimento imperiale. Entro questi binari venne incanalata la riflessione dei giuristi dell'età moderna + il rescritto imperiale o pontificio era considerato legittimo solo in 2 casi (al di fuori dei quali anche le somme potestà universali erano subordinate al diritto comune): - quando si rinvenisse nella norma di diritto civile la previsione di una deroga alla propria normativa, deroga che doveva riguardare non singoli soggetti, ma l'intera comunità di una regione o di una città - quando si fosse in presenza di una norma tradizionalmente derogata dal principe perché non espressamente vincolante Continuò ad essere universalmente accettata l’idea dell’immutabilità del diritto comune e della sua forza vincolante per tutti > quello di cui si discuteva era la possibilità del principe di essere dispensato dall’osservanza delle norme di diritto comune in casi eccezionali > questa impostazione può essere colta nel trattato De suprema seu absoluta potestate principis (Ludovico Rodolfini): il principe era vincolato al rispetto dello ius commune, ma in casi del tutto straordinari poteva derogarvi, deroga che non tutti però ritenevano legittima. Numerosi erano i limiti all'esercizio della potestà assoluta del principi: - era obbligato a dischiarare esplicitamente nei suoi rescritti di voler far ricorso a tale potestà straordinaria 3 doveva inserire nei suoi atti delle clausole apposite (clausolam non obstante, clausolam motus proprij) - il ricorso alla potestà assoluta era escluso quando: O. l'atto era contra ius divinum O. il rescritto conteneva aliquod iniquum O l’atto era in praeiudicium tertii La preoccupazione principale dei giuristi che accettavano l’idea della potestà straordinaria del principe, era quella di limitare l'esercizio della stessa e soprattutto di impedirne le conseguenze negative sulla certezza dei diritti dei singoli, in particolare del dominium privato > il diritto comune dunque offriva il fondamento 10 11 più saldo alla stabilità del dominium privato nei rapporti intersoggettivi: nei riguardi dell'intervento del principe, lo stesso diritto imponeva la condizione dell’esistenza di una iusta causa per i provvedimenti limitativi del suddetto dominium, anche per quelli adottati in ragione della potestas assoluta > tale idea appare comunemente condivisa dai giuristi della prima età moderna. Gabrieli elencava in maniera tassativa le cause che potevano legittimare la violazione del dominium privato, includendo tra queste ad ex. la pubblica utilità. La dottrina italiana della prima età moderna, allora, sembra condividere l’idea tradizionale che riconosceva al diritto civile, collegato con il canonico e plasmato dall’interpretatio dei giuristi, non solo vigenza per tutti i soggetti, ma anche superiorità rispetto ai principi i quali erano sottoposti alle sue regole e queste non potevano abrogare con proprie leggi > tutt'al più erano legittimati, solo in casi eccezionali, a non ottemperarle > la dottrina allora cercava di tutelare il più possibile i diritti dei singoli. 8. IUS COMMUNE E IURA PROPRIA Si ritiene correntemente che la funzione del diritto comune era di sussidiarietà rispetto ai diritti particolari > un'idea questa affermata non solo dai sostenitori di un ordinato ed unitario sistema di diritto comune, ma anche da quanti negano detto sistema e pensano al mero, tradizionale, rinvio dalla norma particolare a quella generale > operazione questa che può comportare anche il preventivo inquadramento del caso concreto in una categoria prevista da entrambi i diritti. Stefano de Federici, nel suo De interpretatione legum, ha cercato di concordare la disciplina delle norme statutarie e consuetudinarie con l'altra delle norme di diritto civile comune: doveva leggere le prime secondo gli schemi offerte dalle seconde > l’idea non era nuova: già a partire da Bartolo, la scienza giuridica aveva maturato la convinzione che le norme statutarie dovevano essere interpretate secondo la ratio iuris communi e la medesima regola valeva anche per le norme consuetudinarie. Ma cosa significa interpretare lo statuto/consuetudine secondo il diritto comune? + per rispondere occorre avere a mente la particolare natura dei testi giustinianei e soprattutto del Digesto. La maggior parte della giurisprudenza romana non pervenne ad astrazioni elaborate, ma si arrestò alla definizione di schemi classificatori di estrema semplicità, basati soprattutto sulla divisione dei casi particolari in genera, dai quali si poteva successivamente passare alla distinzione in species > tale indirizzo classificatorio (inaugurato dai veteres) fu proseguito dai giuristi di età classica e postclassica, con la sola eccezione di una corrente minoritaria la quale cercò un inquadramento ordinato del diritto e una sua divisione continua e successiva a partire dalle somme partizioni, dalle quali far discendere le successive suddivisioni (tale corrente ebbe la sua più significativa espressione nelle Institutiones di Gaio) > il Digesto, pur accogliendo la categoria degli istituti, non si limitò ad essa e rimase fedele all'impostazione prevalente (inserimento dei casi particolari nell’astrazione genus-species). Fu proprio questo carattere a determinare l'utilità della raccolta nel M.E.: esso si presentava come una estesissima rete entro cui sistemare i tanti casi sorti nella vita pratica del diritto e di leggerli con un’astrazione contenuta, sempre attenta alla concretezza della realtà sociale > i giuristi medievali operarono un duplice lavoro: - da un lato promossero una più aggiornata interpretazione della dottrina romana, per adeguarne i contenuti alla realtà giuridica dei loro tempi - dall’altro rielaborarono le categorie giustinianee per renderle idonee ad accogliere i casi molteplici che si trovavano di fronte, al fine di completare la disciplina che questi ricevevano dalle fonti locali (consuetudine innanzitutto) 11 12 Quando il caso sorto nella prassi e regolato dal diritto particolare riusciva ad essere accolto nella rete elaborata dalla dottrina sulla base dei testi giustinianei e nelle categorie astratte da questa proposte, allora le norme che lo riguardavano potevano essere interpretate e completate alla luce delle conclusioni raggiunte dalla scienza giuridica in merito alla suddetta disciplina giustinianea > ne consegue che il diritto civile non si limitava alla funzione sussidiaria di fonte giuridica generale cui si ricorreva solo in caso di lacuna nelle fonti giuridiche particolari > la sua funzione era molto più significativa: offriva inquadramento e completamento alla disciplina del diritto proprio, garantendo a questa, in tal modo integrata, stabilità e certezza in virtù della propria indiscussa autori [ex. pagg. 53/54] Possiamo allora comprendere il significato delle affermazioni per le quali le norme di diritto proprio, in particolare quelle degli statuti, dovevano essere interpretate secondo il diritto comune > là dove era possibile, le prime dovevano essere inserite in una delle categorie definite dai testi giustinianei e plasmate dalla dottrina medievale > una volta compiuta tale operazione, la disciplina particolare era letta alla luce dell’interpretazione dei corrispondenti loci giustinianei offerta dalla scienza giuridica e da questa completata. [ex. pagg 55/56] Proprio questo inserimento delle norme di diritto proprio negli schemi di diritto comune riesce a spiegare l'utilizzazione per gli statuti delle medesime regole interpretative cui faceva ricorso la scienza giuridica nella lettura dei testi giustinianei e canonistici. E spiega altresì la ricorrente attenzione dei giuristi della prima età moderna per le norme statutarie non riconducibili al diritto comune. Alberico da Rosate aveva affermato che tali norme erano legittime > la dottrina aveva seguito questa opinione, ma al contempo aveva fissato rigidi limiti all'applicazione delle stesse: dovevano essere interpretate nella maniera meno lesiva del diritto comune e la loro osservanza doveva essere limitata ai casi specifici dalle stesse regolati, senza alcune estensione analogica. La questione fu esaminata in maniera particolarmente approfondita da Stefano Federici, il quale distingueva gli statuti in 3 categorie: “secundum ius commune”, “praeter ius commune” (categoria nella quale rientravano la maggior parte dei testi normativi comunali) e “contra ius commune” > affermava che per le prime due categorie dovevano essere utilizzate le regole interpretative per il diritto comune > per il terzo tipo di statuti, il giurista indicava alcune regole interpretative: dovevano considerarsi legittime e dovevano essere applicate nella loro nudità formale, senza subire quella complessa operazione interpretativa effettuata per le norme inquadrabili nelle categorie di diritto comune. La questione appare di particolare interesse. Il diritto comune era considerato dalla dottrina come onnicomprensivo, dato che le lacune delle norme giustinianee avrebbero potuto essere colmate dall'interpretatio dei giuristi > in quanto onnicomprensivo, esso non ammetteva ulteriori rinvii ad altri diritti dopo di lui > la discussione sviluppatasi intorno al tema degli statuti praeter o contra ius commune ci consente di precisare meglio la natura onnicomprensiva del diritto comune: detto diritto costituiva l’imprescindibile punto di riferimento per ogni diritto particolare e l’unico ordinamento cui norme particolari potessero rinviare > pertanto, anche le norme statutarie praeter ius commune dovevano subire l’interpretatio dottrinaria che le inseriva nelle categorie da quello fornite e solo le norme che facevano eccezione restavano fuori di detto inquadramento > ma per queste ultime non si proponeva un rinvio ad un diritto generale diverso dallo ius commune: esse rimanevano prive di inserimento in categorie più generali e, di conseguenza, della stabilità e dell'autorità che tale inserimento garantiva > erano legittimamente applicate solo in quanto eccezioni, sollecitate dalla prassi, rispetto a 12 15 Matteo d'Afflitto, invece, recuperava l'argomentazione di Marino da Caramanico e la fondeva con quella di Andrea d’Isernia > a suo vedere, il diritto romano doveva essere distinto in 2 parti: 1. la prima costituita dalle norme precedenti la donazione costantiniana > era stata tutta ed immediatamente vigente nei territori meridionali ed aveva continuato ad esserlo per volontà dei pontefici e dei re che si erano succeduti nel governo 2. la seconda dal quelle successive > trovava nella sua natura razionale e nel consenso regione le fondamenta della propria legittimità Matteo d'Afflitto risulta quindi accentuare il distacco dall’impostazione della scienza giuridica delle regioni centrosettentrionali: condizione indispensabile per la loro vigenza del regno era, dunque, la permissio regia, legittima solo nel caso in cui quelle norme si palesassero conformi alla ratio iuris. La distinzione tra leggi romani precedenti la dottrina costantiniana e quelle successiva risulta del tutto abbandonata dalla dottrina successiva a Matteo d'Afflitto + l'argomento non appare più toccato dai giuristi napoletani i quali sembrano dare per unanimemente accolta nel regno l’idea della vigenza del diritto romano come diritto comune grazie alla sua intrinseca autorità > e ‘al pari delle regioni centrosettentrionali, lo ius commune era inteso sostanziarsi nella grande tradizione interpretativa iniziata sui testi giustinianei a partire dalla glossa. La medesima natura di diritto comune riconobbe al diritto canonico e quindi anche alla lettura che delle raccolte canonistiche era stata elaborata dalla scienza giuridica. Per quanto concerne poi la relazione tra lo ius commune romano-canonico e gli iura propria vigenti nel regno la dottrina meridionale sembra condividere l'impostazione della scienza giuridica delle regioni centrosettentrionali. AI pari delle consuetudini gli statuti cittadini dovevano essere interpretati secondo le categorie del diritto comune e quando si discostavano da questo, le loro norme non potevano essere estese a casi diversi da quelli previsti 3 a tal proposito Camillo Borrelli sottolineava che le norme statutarie regolavano singoli casi e per la loro disciplina dettavano un ordine specifico: non poteva, dunque, essere individuata al loro interno una ratio che consentisse la definizione di una categoria astratta più ampia in cui far rientrare anche casi non espressamente previs Altro ius proprium era, poi, il diritto franco, definito da Marino da Caramanico come ius speciale; ancora, i giuristi meridionali prendevano in considerazione tra gli iura propria anche i privilegi concessi ai nobili, e, a quelli che derogavano al diritto comune veniva estesa la medesima regola interpretativa universalmente riconosciuta a statuti cittadini e consuetudini. La dottrina meridionale qualificava come ius proprium anche il diritto regio formato da costituzioni, capitoli e prammatiche, considerandolo al pari degli altri iura propria nel rapporto con lo ius commune > per la costituzione regia valeva, dunque, la medesima regola interpretativa che abbiamo visto per la norma consuetudinaria: sia l'una sia l’altra disciplinavano esclusivamente fatti effettivamente avvenuti e non ipotesi astratte. Allo ius commune era assegnata la tradizionale funzione sussidiaria anche nei confronti delle leggi regie e quando queste (al pari degli altri iura propria) si discostavano dal diritto comune romano, dovevano essere applicate esclusivamente per il caso da loro espressamente disciplinato e non dovevano essere estese a casi analoghi. La scienza giuridica meridionale seguiva quella delle regioni centrosettentrionali anche sotto un altro profilo, quello della funzione dello ius commune romano-canonico nei rapporti con gli iura propria. Le norme regie venivano inserite nelle categorie elaborate dalla dottrina medievale sulla base del diritto romano giustinianeo e, di conseguenza, la disciplina da loro fissata era letta e completata dall’interpretatio 15 16 che quella dottrina era andata formulando > un indirizzo metodologico questo che risulta correntemente seguito sia dai supremi tribunali del regno, sia dai giuristi che raccoglievano e commentavano le loro decisioni: la grande scienza giuridica italiana della tradizione medievale era correntemente richiamata per la lettura delle leggi regie e per la soluzione delle vertenze. Lo ius commune romano-canonico, poi, fungeva da diritto sussidiario > ma i giuristi meridionali, comunque, non si limitarono a ripetere la tesi tradizionale secondo la quale lo ius commune offriva le categorie giuridiche entro cui venivano inquadrate la prassi e le norme di diritto particolare che la regolavano, completava questa disciplina con l'interpretatio e forniva la normativa per i casi non trattati dai diritti particolari > secondo alcuni autori infatti, quando una materia era contemporaneamente disciplinata dal diritto comune e da un diritto particolare, il primo prevaleva sul secondo > la tesi appare originale perché presenta il rapporto ius commune-iura propria in termini più complessi di quelli, lineari, dell'impostazione dottrinaria tradizionale > tuttavia, l'esiguità dei riferimenti a tale tesi rinvenibili nei giuristi meridionali impedisce l'indispensabile approfondimento della questione. Appare legittimo limitarsi a dire che le supreme corti del regno risolvevano il rapporto ius commune-iura propria per lo più applicando le norme dei secondi, lette attraverso l'interpretatio dottrinaria del primo e ricorrendo a questo quando quelle norme mancavano + in alcuni casi si rivolgevano in via immediata ed esclusiva al primo, senza tener conto della disciplina dei secondi + la scelta tra le due soluzioni resta però ancora da individuare. 2. GLI ALTRI IVRA COMMUNIA DELLA DOTTRINA NAPOLETANA L'espressione ius commune era usata nel regno non solo in riferimento al diritto romano-canonico > era, infatti, adoperata anche per diritto che rispetto a questo erano considerati diritti propri, ma al contempo erano ritenuti di carattere generale nei confronti di altri. L'attributo commune riguardava le consuetudini della città di Napoli, che erano state raccolte, dietro autorizzazione di Carlo II, con un testo redatto sotto il controllo del giurista Bartolomeo da Capua (1306) 3 la qualificazione di diritto comune attribuita alla consuetudine di Napoli deriva, non solo dal carattere quasi ufficiale del testo che le raccoglieva, ma anche dalla loro natura di diritto generale vigente nel territorio cittadini e valido per tutti i componenti della comunità urbana a prescindere dai privilegi personali dei singoli > un diritto comune che aveva la mera funzione sussidiaria di intervenire quando mancasse una norma particolare in grado di regolare un caso sorto dalla prassi. lus commune del regno erano definite anche le leggi del monarca > Roberto Maranta proponeva una completa equiparazione tra il diritto romano giustinianeo e le leggi regie come costituenti, al medesimo titolo, lo ius civile nel regno. Il diritto delle leggi regie appariva al giurista al contempo: - diritto particolare rispetto allo ius commune romano-canonico - diritto comune nel regno Nelle regioni del regno avevano entrambi vigenza generale e il primo (diritto delle leggi regie), in quanto diritto particolare rispetto al secondo, poteva anche introdurre alcune correzioni. Diritto comune del regno ed al contempo diritto proprio nei confronti dello ius commune romano-canonico erano le leggi regie anche per Giovanni Antonio de Nigris, il quale proprio in ragione di questo secondo aspetto ne sollecitava un’interpretazione restrittiva. L'assimilazione tra leges regnicole e jura romani risulta condivisa anche dalla dottrina successiva > in merito a questo tema, Miletti ha osservato di recente che la dottrina meridionale, influenzata dal grande impegno editoriale nella pubblicazione dei testi legislativi meridionali che caratterizzava il XVI secolo, condizionava la qualificazione di una legge del sovrano come ius commune del regno al suo inserimento 16 17 nelle raccolte + difatti, de Franchis dichiarava di non poter prendere in considerazione come vigente un capitolo di Carlo Il per tale motivo. letti rileva altresì una tendenza della dottrina e della giurisprudenza delle supreme corti a distinguere all'interno della legislazione regnicola tra le costituzioni sveve ed i capitoli angioini da un canto, le prammatiche aragonesi dall'altro per attribuire a queste ultime una più limitata autorità 3 tale indirizzo non dovette essere unanimemente condiviso: Maranta citò le novellae Pragmaticae tra le fonti legislative che formavano il diritto comune del regno, allo stesso titolo delle costituzioni e dei capitoli. Per quanto poi riguarda il rapporto tra la legge regia e la norma degli ordinamenti particolari, si deve rilevare che esso si poneva in termini del tutto originali, affatto diversi sia da quello meramente sussidiario della norma territoriale verso quelle locali, sia dall'altro tra ius commune romano-canonico e iura propria 3 la legge del sovrano, infatti, trovava la sua ragion d'essere nella necessità di eliminare usi tradizionalmente seguiti dalle comunità del regno, ma contrari alla ragione e all’equità > la legge regia, allora, abrogava tali consuetudini inique e le sostituiva con norme eque e razionali: non era più possibile, pertanto, ipotizzare un rapporto tra quella legge e gli usi locali che la stessa aveva abolito. Inoltre, la qualifica di ius commune risulta anche attribuita ad un diritto feudale generale > si tratta di vedere quale fosse questo ius commune feudorum del regno > il problema appare quanto mai complesso e la sua soluzione sembra passare necessariamente attraverso l’analisi di un'ulteriore questione, quella della vigenza del diritto longobardo nelle regioni meridionali. 3. IL DIRITTO LONGOBARDO NEL REGNO Il problema del diritto longobardo nel regno prende le mosse dalla celebre costituzione Puritatem del Liber Augustalis > tale costituzione indicava ai magistrati provinciali regi la gerarchia delle fonti da seguire nell'esercizio della loro funzione giudiziaria: 1. costituzioni regie, le quali avevano eliminato le consuetudini locali contrarie all’aequitas sostituendole con norme eque 2. consuetudini non modificate dall'intervento legislativo del monarca perché eque e consolidate dalla loro costante applicazione da parte delle corti locali 3. diritto longobardo e diritto romano, indicati nell'ordine ed entrambi definiti come iura communia La qualificazione del diritto longobardo come ius commune ha attirato sin dall'inizio l’attenzione degli esegeti del testo federiciano. Già nei primi decenni del XIX secolo Giovanni Manna ricordò l'antica discussione se il diritto comune del regno fosse il romano o il longobardo + questa discussione si riaccese sulla metà del secolo per opera di Calasso, il quale ha sostenuto la piena vigenza nel regno di quel sistema unitario di diritto comune che egli aveva teorizzato per l'Impero medievale e, di conseguenza, ha visto come unico diritto legittimamente qualificabile come ius commune il romano-canonico ed ha spiegato l'estensione al longobardo di quell’attributo con la circostanza che in alcune regioni meridionali esso costituiva il diritto territoriale generale 3 questa interpretazione è stata accolta e approfondita da Giuliana d’Amelio, la quale ha concluso che il diritto longobardo era nel regno non solo diritto comune generale di alcuni territori, ma anche diritto comune feudale. Il problema della vigenza del diritto longobardo nell'Italia meridionale finisce allora per intrecciarsi con quello della natura del diritto comune feudale e in particolare con quello della definizione dei rapporti con il diritto franco, anch'esso vigente nel regno > tuttavia occorre tenere separati i due aspetti. Sotto il primo aspetto, quello della natura del diritto comune feudale, si deve ricordare che il più recente editore del Liber Augustalis, Wolgang Sturner, ha rilevato come il passo prima citato della Puritatem non 17 20 I due diritti però non sembrano essere collocati dalla dottrina sullo stesso piano, dato che il primo era indicato come speciale e il secondo come comune. Che il diritto franco fosse da ritenere diritto feudale speciale lo ripetevano molti giuristi (Giovanni Antonio Minadoi, Scipione Rovito); mentre il diritto longobardo continuò ad essere riconosciuto come diritto generale in materia feudale > secondo Vincenzo de Franchis i vassalli di natio franca seguivano il loro diritto personale per quanto riguardava la successione, mentre per le rimanenti materie si rifacevano al diritto longobardo, diritto comune a tutti i feudatari. Ma anche ammettendo che il diritto franco si limitasse a disciplinare la successione, mentre il longobardo regolava tutte le altre materie dei rapporti vassallatici, resta sempre da chiedersi se a quest’ultimo si riferisse l'espressione ius commune feudorum > dubbi su tale identificazione nascono dalla distinzione tra diritto longobardo e diritto comune feudale che troviamo in vari giuristi, tra cui Giovanni Tommaso Minadoi + proprio a lui, però, dobbiamo un primo chiarimento di tale materia: egli rilevava che nel diritto delle genti tutti i figli succedevano allo stesso modo, senza alcun privilegio per la primogenitura, ma nelle società che si vennero a costituire prevalse un po’ alla volta la regola della successione nella carica regia del figlio primogenito; regola che non venne però dal diritto romano per il quale i figli succedevano in parti uguali 3 la norma romana fu poi recepita per i feudi dai Libri Feudorum, inseriti nei libri legales > la disciplina longobarda fu innovata da Federico II, che promulgò 2 costituzioni, che recepirono formalmente quella consuetudine secondo la quale era il primogenito a succedere. Il diritto franco, dunque, in virtù della disposizione legislativa del monarca, continuava a disciplinare la successione feudale per i vassalli appartenenti a quella natio, il diritto longobardo valeva per la successione feudale dei Longobardi e disciplinava le altre materie dell'ordinamento feudale del regno > esso era, dunque, diritto comune all’interno del territorio del regno, ma non poteva assumere natura di ius commune feudorum > quest'ultimo era costituito dai Libri Feudorum, che formavano la X Collatio e che in virtù dell'inserimento nei libri legales avevano acquistato autorità di ius commune > sembra legittimo concludere allora che il diritto longobardo in materia feudale presentava per il Minadoi la_medesima duplice natura degli altri diritti generali vigenti nel regno: era al contempo ius commune per gli usi locali e diritto speciale nei confronti dello ius commune feudorum definito dai Libri Feudorum e dalla loro interpretatio. L'opinione di Minadoi risulta condivisa anche da Prospero Rendella, secondo il quale lo ius commune feudorum non si limitava a svolgere una funzione sussidiaria nei confronti dei numerosi diritti propri che disciplinavano la materia, ma offriva anche le categorie interpretative attraverso le quali dovevano essere lette le costituzioni regie che disciplinavano i rapporti vassallatici. La dottrina meridionale della prima età moderna, dunque, identificava lo ius commune feudorum del regno con i Libri Feudorum inseriti come X Collatio nel Volumen giustinianeo. 5. IL SOVRANO E LO IUS COMMUNE ROMANO-CANONICO Per quanto riguarda il problema del rispetto da parte del sovrano napoletano delle norme dello ius commune romano-canonico si deve ricordare che la dottrina meridionale riconosceva al monarca come funzioni primarie la difesa militare del regno e la conservazione della pace interna, cioè l'amministrazione della giustizia interna per assicurare a tutti gli abitanti del regno il rispetto dei loro diritti, ma in un regno come quello meridionale, dove sin dalle origini normanne i sovrani avevano concretizzato il loro comito di giustizia anche attraverso la promulgazione di leggi generali che abrogavano diritti consuetudinari contrari all’aequitas per sostituirli con norme eque, non poteva certamente mancare nella 20 21 dottrina la consapevolezza del valore della potestà normativa del re > perciò Montano aggiungeva che aspetto essenziale della potestà unitaria del monarca, dunque, era la sua funzione legislativa. Ma mentre era chiaro il rapporto tra legge del sovrano e consuetudini inique, meno sicura appariva la relazione tra la prima e le consuetudini eque, nonché tra la prima ed il diritto comune romano-canonico. Giovanni Tommaso Minadoi affermò che il sovrano era tenuto a rispettare le consuetudini, ma non poteva essergli negato il potere di modificarle alla stregua delle altre fonti che costituivano il diritto civile del regno > si presentava ancora una volta il contrasto tra la funzione del re di assicurare la vigenza delle norme esistenti nel regno e la possibilità di partecipare alla loro evoluzione e al loro miglioramento mediante le proprie leggi > Minadoi non affrontò direttamente il problema, ma offrì elementi utili alla soluzione parlando del rapporto tra il sovrano e le leggi dei suoi predecessori + in proposito, poiché le consuetudini costituivano al pari delle leggi regie il diritto civile, si può ritenere che il giurista stabilisse anche per le prime come limite invalicabile per l'intervento innovatore del monarca la presenza in esse della ratio iuris. Ancora più ristretta appare, nel pensiero di Nunzio Pelliccia, la possibilità del principe di modificare le consuetudini: una volta verificata dal principe la corrispondenza di consuetudini locali alla ratio iuris, nessun altro monarca avrebbe potuto modificarle. Se dunque forti risultano i limiti alla modifica legislativa di consuetudini locali, ancora più decisi appaiono quelli delineati nei confronti dello ius commune romano-canonico 3 Roberto Maranta, nell’elencare accanto ai testi giustinianei le costituzioni, i capitoli e le prammatiche come elementi dello ius civile del regno, precisava che le suddette leggi regie si limitavano ad introdurre qualche limitata correzione alle norme giustinianee, al fine di renderle più consone alla realtà sociale e storica del regno. La nuova legislazione veniva, quindi, presentata come diretta soprattutto a reprimere, nella maniera più consona alle concrete condizione del regno, i crimini e le violazioni dei diritti: costitutiva, dunque, lo strumento mediante il quale il monarca esercitava una delle funzioni che costituivano la ragione stessa dell’esistenza della sua carica. Le leggi regie, comunque, non potevano abrogare le norme dello ius comune romano-canonico, dato che queste ultime erano considerate espressione massima della ratio iuris + il criterio decisivo rimaneva la ratio: le modifiche di norme giustinianee potevano presentarsi come legittime solo quando ispirate ad una ratio superiore a quella presente nella legge modificata. La sostanza delle norme romano-canoniche, allora, non poteva essere modificata e la legge regia poteva introdurre legittimamente solo correzioni marginali per rendere la disciplina di quelle più conforme alle necessità concrete delle comunità meridionali > ed in effetti, gli interventi legislativi dei sovrani, sin dall'età normanna, non toccarono mai nella sostanza la disciplina giustinianea dei rapporti negoziali e dei diritti reali > lo ius commune romano giustinianeo, dunque, costituiva anche nel regno il fondamento della certezza del diritto. CapitoLO Ill. DROIT COMMUN COUTUMIER, DIRITTO ROMANO, LEGGI FONDAMENTALI NEI GIURISTI FRANCESI 1. INTRODUZIONE Diversa dalla situazione dell’Italia centrosettentrionale era invece la situazione del Regno di Francia > il regno, che rivendicava la propria estraneità all'impero, era diviso sotto il profilo del diritto vigente in due grandi aree territoriali: 21 22 - pays de droit coutumier > costituiti dalle regioni centrosettentrionali, ognuna delle quali era andata maturando consuetudini comuni, che costituivano il fondamento degli usi affermatisi nelle singole località interne - pays de droit écrit + rappresentati dalle regioni meridionali, nelle quali si osservava il diritto romano Nei pays de droit coutumier sin dal M.E. era stata avviata, per iniziativa privata, la compilazione di raccolte di usi locali regionali, allo scopo di conseguire un testo chiaro e definito delle singole consuetudini e quindi contribuire alla certezza del diritto (la prima raccolta è il Très ancien coutumier de Normandie del XII secolo). è a partire dal XV secolo, il movimento per la redazione degli usi regionali assunse carattere ufficiale: - nel 1454 Carlo VII dispose la messa per iscritto delle consuetudini generali di ogni regione con l'obbiettivo di porre fine all’incertezza ed alla contraddizione che caratterizzavano il loro contenuto e, di conseguenza, arrivare ad una più sicura giustizia: una volta approvati dalle assemblee locali, i testi sarebbero stati promulgati per ordine del sovrano + l'ordine del re fu, però, eseguito in maniera estremamente parziale - nel 1497 Carlo VIII sollecitò di nuovo la redazione delle consuetudini regionali - trail 1505 e il 1510, sotto Luigi XII, tale opera proseguì intensamente - infine, nella seconda metà del XVI secolo le raccolte furono sottoposte a revisione e conseguirono il testo definitivo Il movimento di compilazione delle consuetudini regionali non toccò, se non marginalmente, i paesi di diritto scritto, dato che qui il testo di riferimento degli usi locali rimaneva quello giustinianeo. La pluralità dei diritti francesi si accompagnava, poi, con la pluralità degli ordinamenti e delle giurisdizioni vigenti nel regno > per tutta l’età moderna, infatti, proseguì l'articolazione istituzionale di origine medievale, anche se la monarchia operò (spec. nel XVII sec.) per ampliare la propria giurisdizione unitaria > quindi, le giurisdizioni signorili, cittadine, ecclesiastiche continuarono a funzionare intrecciandosi con quella regia 3 quest’ultima, competente soprattutto per i territori demaniali (di dominio diretto del sovrano) si esprimeva all'inizio del XVI secolo nelle corti di: - prévotes è costituivano il grado più basso della giustizia regia; avevano competenza per cause civili di valore minore e in vertenze penali non riguardanti nobili, ecclesiastici o persone sotto la garde del sovrano > nel corso del XVI sec. la loro attività si ridusse a vantaggio delle corti di grado superiore, ad eccezione dello Chatelet di Parigi - baillages - sénéchaussées Il grado superiore era costituito dalle corti dei baillages e delle sénéchaussées, che nella prima età moderna erano tra loro sostanzialmente equivalenti e fungevano sia da tribunali di primo grado (es. per le vertenze di nobili, per i cas royaux riservati alla giurisdizione regia) sia di appello contro le sentenze dei prevosti e delle corti signorili/municipali. AI vertice dell'ordinamento giudiziario regio vi erano le corti sovrane 3 nate nel M.E. all’interno delle grandi signorie francesi, esprimevano il momento più elevato della funzione di giustizia unitaria del principe. Designate col titolo di Parlements o con quello di Grands Jours, esse vennero mantenute in vita con competenza sul territori dell'antica signoria quando questa passò sotto l'autorità unitaria del sovrano francese + nel periodo in esame (inizi XVI secolo - metà XVII) erano in funzione i Parlamenti di Parigi, Tolosa, Grenoble, Bordeaux ecc. 22 25 consuetudinario affermatosi spontaneamente nelle varie comunità/diversi ordinamenti particolari del regno, ma doveva esprimersi anche nell’abrogazione degli usi contrari all’aequitas e nella loro sostituzione con norme eque + quindi, le consuetudini non modificate dalle leggi del sovrano erano da lui approvate, ma non per questo perdevano la loro natura originaria e si trasformavano in leggi regie > dunque, l'approvazione regia degli usi locali aveva il significato di definizione ufficiale del loro contenuto, di rafforzamento della loro osservanza. Non sembra che da questa tradizione si discostino i giuristi successivi al XVI secolo > la tesi di Piano Mortari, secondo la quale ad una crescente enfatizzazione della potestà legislativa del sovrano sarebbe corrisposta una altrettanto crescente esaltazione della derivazione dell'autorità delle coutumes dall’approvazione regia, non sembra trovare adeguato riscontro nei testi dell'epoca > la redazione delle coutumes, infatti, aveva l’obiettivo non di trasformarle in leggi del sovrano, ma di registrarne in maniera definitiva il contenuto, dando vita ad un testo certo, completo e facilmente accessibile dalle corti giudicanti. 3. DROIT COUTUMIER COME IUS COMMUNE Le coutumes costituivano un diritto particolarmente importante per le comunità del regno, un diritto che la dottrina definì comune di ciascuna regione > in proposito, Charles Du Mulin metteva a confronto la situazione italiana con quella francese, per evidenziare che gli scolari francesi, educati secondo gli schemi elaborati dalla scienza giuridica dello ius commune romano-canonico, non riuscivano a cogliere la vera natura delle coutumes regionali ed erroneamente le consideravano diritto proprio al pari degli statuti comunali. Nel regno di Francia, dunque, non era riconosciuto lo ius commune romano-canonico: qui lo ius commune era costituito per ciascuna regione dalle consuetudini locali, le quali, di conseguenza, non potevano essere qualificate, come avveniva nell'Italia centrosettentrionale, diritto proprio > tuttavia, solo le consuetudini regionali potevano essere così qualificate, mentre non potevano esserlo le costituzioni regie: l'autorità delle coutumes, quella che le rendeva diritto comune per gli abitanti della regione, risiedeva nella forza della tradizione vissuta dall'intera collettività, una tradizione che aveva plasmato e continuava a forgiare le regole rispondenti alle necessità della vita sociale > ben diversa invece si presentava la natura delle costituzioni regie, che risultavano prive di un radicamento altrettanto profondo nella vita concreta della società, che provenivano per lo più da istanze di singoli e che necessariamente erano destinate ad una vita breve. Secondo Du Mulin, dunque, la Francia non conosceva un unico diritto comune, ma ogni regione ne aveva uno proprio, costituito dalle coutumes messe per iscritto > tali diritti comuni riguardavano in particolare le materie contrattuali, successorie, testamentarie, le servitù prediali ecc., ma tale elenco fornito da Du Mulin non appariva esaustivo > infatti, gli stessi giuristi che proclamavano la natura di droit commun. delle coutumes regionali erano pienamente consapevoli della presenza nelle stesse di lacune ed indicavano i modi per colmarle + secondo Charondas Le Caron ove le coutumes regionali non disponessero bisognava ricorrere al “diritto di Parigi”. La coutume di Parigi, dunque, era presentata come diritto sussidiario delle coutumes delle altre regioni del regno + una qualificazione che si giustificava non solo per la superiorità politica della capitale, ma anche per l'ampiezza della circoscrizione territoriale rientrante nella giurisdizione del Parlamento di Parigi e per l'autorevolezza di questa corte sovrana. Qualche obiezione sollevava in proposito Guy Coquille, il quale riteneva che il ricorso alla coutume di Parigi era legittimano non da una sua intrinseca superiorità, ma dall’interpretazione giurisprudenziale che ne dava il Parlamento di quella città, la cui competenza territoriale riguardava numerose regioni e la cui autorità superiore era riconosciuta in tutto il regno. La tesi che assegnava alla coutume parigina la funzione di di 26 sussidiario per le coutumes delle altre regioni, al di là delle motivazioni che la giustificavano, appare generalmente accolta dalla dottrina. 26 27 4. DIRITTO ROMANO IN FRANCIA I giuristi francesi, allora, segnalavano una netta differenza tra lo ius commune romano-canonico elaborato dalla dottrina tradizionale italiana e il droit commun delle regioni del regno: - ilprimo era in sé completo e costituiva un punto di riferimento ultimo per i diritti propri - il secondo doveva necessariamente essere integrato e rappresentava un momento importante e significativo di uniformità, non il definitivo D'altro canto, se andiamo ad analizzare i testi delle coutumes regionali, ci accorgiamo che le materie trattate erano piuttosto limitate (disciplina feudale, rapporti patrimoniali tra coniugi, patria potestà, successioni, ecc.) 3 una tale ristrettezza di materie non soltanto lasciava spazio agli usi locali e particolari dei singoli luoghi, ma aveva anche la conseguenza di far rientrare in gioco il diritto romano giustinianeo, nella lettura offertane dalla scienza giuridica italiana, francese ed europea. In realtà, l'atteggiamento della dottrina francese della prima età moderna nei riguardi del diritto romano e della scienza giuridica italiana medievale risulta non univoco. Nelle università prevaleva il mos gallicus iura docendi, che criticava la tradizione italiana perché fondata su testi filologicamente scorretti, perché ignorante della lingua latina classica e quindi incapace di cogliere il significato autentico dei termini e delle espressioni usate nei testi giustinianei, perché fuorviata dall'idea del valore universale delle norme stesse, idea che le impediva di leggerle come prodotto della società e della cultura specifica del singolo momento storico in cui erano state formulate > e contro questo indirizzo proponeva un nuovo metodo scientifico, fondato sugli studia humanitatis, teso alla visione di un ordine giuridico sistematico e razionale imperniato non sul modello, casistico e disorganico, del Digesto, ma su quello unitario delle Istituzioni. L'ostilità verso la tradizione medievale raggiungeva forme estreme nel rifiuto non della sola scienza bartolistica, ma dello stesso diritto romano giustinianeo. Francois Hotman confermava con vigore l’estraneità del diritto giustinianeo alla tradizione giuridica delle comunità francesi, motivando tale estraneità sia con la sua natura di diritto esclusivo del popolo romano, sia con la conseguente impossibilità di identificarlo con il diritto naturale o aequitas constituta, sia, infine, con la mancata recezione nelle Gallie della compilazione giustinianea. Per altri giuristi invece la conformità del diritto giustinianeo all’ aequitas, la chiarezza delle sue norme, il suo accoglimento da parte della maggior parte dei popoli cristiani lo rendevano indispensabile punto di riferimento costante per giuristi colti e pratici anche in Francia: esso costituiva allora la ratio scripta cui giuristi, giudici, principi potevano trarre ispirazione e riferimenti nelle loro decisioni > tale tesi aveva origini antiche e nel XVI secolo appare largamente diffusa: l’accoglieva anche Du Mulin 3 secondo tale opinione, allora, il diritto romano non era automaticamente vigente in Francia (o meglio, nei pays de droit coutumier) per propria o superiore autorità, ma costituiva il punto di riferimento teorico cui giudici, giuristi e legislatori potevano richiamarsi in caso di dubbio o di mancanza di norme di diritto francese > la regola dello ius commune utilizzata si trasformava, in virtù di detto richiamo. in norma vigente nell'ordinamento francese. Infine, un terzo gruppo di giuristi affermava che in dette regioni il vero diritto comune era costituito non dalle coutumes, bensì ancora una volta dal diritto romano plasmato dalla dottrina medievale > in realtà, la disputa più vivace si svolse proprio tra i fautori dello ius civile come ius commune del regno e i difensori delle coutumes regionali come diritto comune dei Francesi. 27 30 monarchia ed in particolare la povertà dei suoi interventi legislativi: poche di numero e per lo più inapplicate, le leggi del sovrano avrebbero lasciato la disciplina dei diritti privati alle coutumes e avrebbero regolato soprattutto materie diverse, come quella processuale 3 ma anche coloro che seguono questo nuovo indirizzo interpretativo riconoscono che il ruolo della monarchia andò aumentando nel corso del XVI secolo e nella prima parte del successivo > i giuristi vennero pertanto posti di fronte al problema della conciliabilità tra una autorità regia che assumeva nuovi compiti e il rispetto dei diritti tradizionali delle comunità (quindi, tra legge del sovrano e consuetudine). La maggior preoccupazione dei giuristi francesi a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo era quella di evitare che l'autorità regia abusasse della propria posizione per violare i diritti delle comunità + alcuni sottolineavano il dovere morale e religioso del sovrano di non abusare della propria autorità, perché altrimenti avrebbe tradito la missione affidatagli da Dio: infatti la funzione tradizionalmente svolta dal sovrano era l'amministrazione della giustizia (il sovrano aveva il dovere di abrogare con un proprio provvedimento gli usi cattivi ed iniqui) > tali affermazioni rappresentano un cambiamento significativo della dottrina rispetto alle posizioni di Rebuffi, che escludevano ogni forma di intervento del sovrano nel campo delle consuetudini; peraltro, la dottrina avvertiva che l'intervento legislativo del sovrano nei riguardi delle consuetudini richiedeva necessariamente il preventivo consenso delle assemblee popolari, significativi progressi lungo la linea della prevalenza della legge sulla consuetudine troviamo nel pensiero di Charondas Le Caron, il quale riteneva la forza della legge svincolata dal fine di eliminare usi contrari all'equità e alla ragione ed giustificata in sé, in quanto fondata sul potere del sovrano e sul compito di questo di garantire giustizia non solo formale ma anche sostanziale > un potere così rilevante da indurre il giurista a sostenere la tesi opposta a quella di Rebuffi: “se l’editto è fondato su una ragione generale. questo deroga a tutte le consuetudini”. Un ulteriore passo avanti troviamo, poi, in Charles Loyseau, il quale nell’elencare i diritti delle signorie sovrane metteva al primo posto quello di “faire loix” > tuttavia, non poteva dimenticare che il re non era l’unica fonte del diritto: altre fonti, in particolare le coutumes, continuavano ad operare e queste producevano la maggior parte delle norme vigenti nel regno + il rapporto tra potestà legislativa e ordinamento consuetudinario, allora, veniva delineato dal giurista nei seguenti termini: le coutumes regionali e locali restavano in vigore solo in virtù della permissio del sovrano > la superiorità della volontà legislativa del re veniva in tal modo fermata e trovava adeguata spiegazione lo scarso intervento normativo del monarca, che veniva attribuito alla volontà del principe di consentire la vigenza degli usi tradizionalmente seguiti dalle comunità del suo regno. Il problema non era certamente di facile soluzione: si trattava di definire un punto di equilibrio tra, da un lato, il progressivo rafforzamento del ruolo unitario del sovrano francese e della sua superiore potestà di comando e, dall'altro, la forza della tradizione. La dottrina del periodo in esame non poteva ammettere la superiorità della legge regia sulla consuetudine > anche se di fatto i monarchi non intervennero in maniera significativa nelle materie disciplinate dalle coutumes e il Parlamento di Parigi (insieme alle altre corti sovrane) fu attento custode della tradizione, sul piano teorico si preferiva riconoscere alla legge regia l'autorità di innovare gli usi seguiti dalle comunità > comunque, la dottrina sottolineò in maniera sempre crescente il dovere del sovrano di rispettare le coutumes regionali. Si deve ricordare al riguardo che per la maggior parte del XVI secolo i giuristi francesi guardarono alla loro monarchia come al prototipo della monarchia temperata (vedi sopra) > tale mito comportava la ricerca continua di un equilibrio tra autorità monarchica e ordinamento tradizionale: alla crescita della prima, per i difensori del secondo doveva corrispondere il consolidamento del dovere del sovrano di rispettare il diritto consuetudinario delle comunità del regno. 30 31 Si tratta comunque di un'evoluzione che sembra segnare il periodo successivo a quello in esame: tra l’inizio del XVI secolo e la metà del successivo, la difesa delle coutumes non sembra aver ancora assunto i toni decisi che saranno successivamente usati, proprio perché il rafforzamento dell’autorità unitaria del re non era ancora letto come un pericolo per la continuità delle coutumes regionali e quindi il rapporto tra queste e le leggi rege poteva ancora essere interpretato secondo i canoni tradizionali. 6. LE LEGGI FONDAMENTALI L'idea di monarchia temperata implicava anche l’altra della subordinazione della monarchia stessa a norme superiori, norme che la dottrina giuridica della prima età moderna considerava poste alla base dell'ordinamento monarchico francese per disciplinare l'esercizio della potestà monarchica. Claude Seyssel indicava, accanto al rispetto della religione e della giurisdizione del parlamento di Parigi e delle altre corti sovrane, la “politia” (insieme di leggi o leggi regie confermate dai successori del promulgatore?) > Seyssel tuttavia non precisava quali fossero tali leggi, limitandosi ad indicarne una sola, l’inalienabilità del patrimonio regio Secondo il giurista, dunque, i vincoli alla potestà del sovrano, che garantivano la natura temperata della monarchia francese, nascevano da leggi regie, atti di imperio espressi da un monarca e continuamente confermati dai suoi successori > per quanto riguarda l’inalienabilità, egli metteva in evidenza la legge che era stata promulgata durante il regno di Carlo V, nell’intento di evitare alla monarchia francese l’esperienza che andava conoscendo quella imperiale (ricorreva di continuo alla cessione di beni demaniali per far fronte alle spese crescenti, privandosi del patrimonio fondiario indispensabile per esercitare un'effettiva signoria territoriale). Charles Du Mulin riteneva che l'autorità della monarchia francese si fondava non solo sulla sua derivazione da Dio, ma anche sulla sua straordinaria continuità nel tempo + di qui l’importanza della legge che regolava la successione al trono, la legge salica. La legge salica era stata invocata per la prima volta alla morte di Carlo IV (1328), privo di eredi maschi, quando la corona venne assegnata al cugino germano di Carlo, Filippo di Valois, per non cedere alle pretese di successione avanzate da Edoardo III d'Inghilterra, figlio della sorella di Carlo IV > si trattava dunque di una legge fondata su una tradizione costantemente confermata dai sovrani > la sua autorità derivava in primo luogo dall'antichità della sua vigenza e non dalla conferma regia (a differenza di Seyssel, Du Mulin non metteva l'accento sulla volontà regia, ma sulla tradizione) > la sua lettura della legge salica appare pienamente condivisa dalla dottrina successiva. Bodin invece considerava la legge salica connaturata alla monarchia francese e di conseguenza immodificabile; aggiungeva anche che i mutamenti legislativi delle consuetudini erano legittimi purché relativi a quelle che non riguardano la struttura fondamentale del regno. Alla fine del XVI la dottrina era concorde nell'assegnare alla tradizione l'autorità della legge salica > lo stesso sembra accadere anche per la norma dell’inalienabilità del demanio regio. Coquille precisò la natura ed il contenuto delle norme che regolavano la monarchia francese: erano quelle leggi assurte a leggi fondamentali del regno, leggi non derivate dalla volontà dei sovrani, ma dalla tradizione che aveva plasmato in maniera definitiva la natura della potestà monarchica francese + quindi, (secondo la dottrina) solo le norme consuetudinarie che disciplinavano lo stato della monarchia erano immutabili, mentre tutte le altre (generali o particolari) erano modificabili. Se allora mettiamo a confronto lo ius commune romano-canonico e il droit commun consuetudinario francese, rileviamo che il primo era presentato dalla dottrina come immutabile, ma al tempo stesso violabile (in casi di estrema eccezionalità dalla potestas absoluta del principe, mentre il secondo poteva 31 32 essere modificato dal sovrano il quale però si trovava di fronte ad alcune consuetudini ( leggi fondamentali), riguardanti lo status regni, che da lui non potevano essere né mutate né violate. Si deve aggiungere, tuttavia, che nel periodo successivo a quello in esame, tra le leggi fondamentali fu inserito, in particolare negli arrets dei Parlamenti, l'osservanza delle coutumes regionali (vd. sopra sul rapporto tra legge regia e coutumes). 7. DIRITTI PARTICOLARI, DROIT COUTUMIER, RATIO SCRIPTA.] CAPITOLO IV. IL COMMON LAW IN INGHILTERRA 1. DEFINIZIONE DI COMMON LAW NELLA DOTTRINA INGLESE Il common law è definito dalla dottrina inglese (XVI e XVII secolo) come il diritto consuetudinario della tradizione comune a tutti gli inglesi, a prescindere dai privilegi derivanti dallo status o dall’appartenenza ad ordinamenti particolari. Diritto comune, non unico che non pretende di essere l’unico diritto del regno ma si pone in rapporto dialettico con gli ordinamenti particolari (signorile, cittadino, feudale, ecclesiastico) e gli usi locali. In realtà sin dal XII secolo, nel regno era maturata una profonda fusione tra le consuetudini popolari dei conquistatori normanni e quelle degli Anglo Sassoni conquistati, al punto che si poteva legittimamente parlare di consuetudini comuni all'intera università dei liberi, senza riguardo all'origine etnica degli stessi Alla formazione del common law britannico hanno contribuito, secondo la dottrina britannica della prima età moderna e quella successiva, tre elementi: 1) 2) 3) innanzitutto, il common law nasce, intorno al XII secolo, con l'introduzione del sistema del writ regio attraverso il quale un soggetto libero poteva far valere il proprio diritto di possesso ottenendo dal sovrano un writ cioè l'ordine scritto, inviato allo sceriffo della contea di residenza del libero, di istituire un consiglio di dodici uomini saggi il quale avrebbe avuto il compito di istruire la vicenda dinanzi alla corte dei giudici itineranti che avrebbe poi deciso in merito alla legittimità del possesso. Inizialmente, durante il regno di Enrico Il (XII secolo) il sistema del writ regio era previsto per cinque ipotesi tassative denominate petty assizes o possessory assizes che costituiscono il primo embrione del common law britannico anche se poi, col passare del tempo, il sistema del writ fu esteso ad altri casi. Alla formazione del common law ha contribuito notevolmente l’attività delle tre corti centrali di giustizia nate tra il XII e il XIII secolo dalla curia regis di origine normanna: la Corte dello Scacchiere, composta dai magnati laici e competente soprattutto in materia di entrate fiscali; la Court King's Bench, formata dai familiari e dai fedelissimi del sovrano che aveva una competenza generale e seguiva il re ovunque egli andasse; la Court Common Pleas, formata da esperti del diritto e competente soprattutto in materia di common law. Accanto alle tre corti centrali di giustizia operava sin dall'inizio del XII sec. un'altra corte: la Magna Curia Regis che costituiva la suprema corte di giustizia del regno. In particolare, la Magna Carta Libertatum del 1215, oltre ad aver chiarito una volta per tutte, quali fossero i diritti vigenti nel regno, aveva stabilito che la Magna Curia Regis dovesse essere convocata necessariamente ogni qualvolta vi era una richiesta di sussidio straordinario da parte del monarca ai suoi vassalli diretti qualificandolo come “commune consilium regni nostri” > agli inizi del XIII secolo, dunque, la Magna Curia Regis risultava ancora formata da due componenti: il re e i suoi ministri, da un lato e la nobiltà laica e gli alti dignitari ecclesiastici, dall'altro > durante il regno di Edoardo I, nella seconda metà del XIII secolo, si affermò l’uso del monarca di convocare dinanzi all'Assemblea Generale i rappresentanti di contea che ben presto divennero una componente importante della Magna Curia Regis la quale, dunque, sul finire del XIII secolo risulta già composta da due camere: la House of Lords, composta dal re e i suoi ministri nonché dai nobili laici ed ecclesiastici e l' House of 32 35 L'idea non era condivisa dai sostenitori del partito monarchico + Robert Filmer sottolineava le differenze tra witenagemot e Parlamento, in particolar modo il fatto che quest’ultimo era nato durante il regno di Enrico I, come concessione del re stesso e non come espressione di un originario diritto del popolo. Anche Edward Coke si schierò contro le tesi regaliste arrivando ad affermare addirittura la piena identità tra witenagemot e Parlamento, senza soffermarsi sull'evoluzione dall'una all’altra assemblea avvenuta col passare del tempo e con il succedersi delle dominazioni. 4. LE FONDAMENTA DEL COMMON LAW: B) LA CONFORMITÀ ALLO IUS NATURALE La mera continuità ab immemorabili non era da sola sufficiente a giustificare la superiore autorità del common law ragion per cui essa era sostentata da un altro argomento fondamentale: la conformità del common law al diritto naturale > secondo Selden il diritto naturale rispondeva non soltanto all'essenza universale dell'uomo, ma anche alla specifica natura delle varie comunità inglesi e poiché il common law era il diritto radicato nella natura della comunità inglese era, di conseguenza, il diritto naturale del popolo inglese. 5. LE FONDAMENTA DEL COMMON LAW: B) LA RATIONABILITAS Il common law oltre ad essere antico e conforme al ius naturale era anche conforme alla ratio: era, per dirla con la dottrina inglese, reasonable e ciò costituiva il terzo elemento fondamentale che giustificava la superiore autorità del common law anzi, per alcuni era persino considerato principale rispetto agli altri due 3 così John Davies, nel ricostruire la formazione di una norma di common law affermava che “un comportamento conforme alla ragione, fondato sulla natura umana e ripetuto costantemente nel tempo diventava norma vincolante" > quindi, la rationabilitas appariva come il presupposto primo della trasformazione dell'atto in norma di diritto positivo. Edward Coke specificò ulteriormente il concetto sostenendo che la ratio che compone il common law non era la ragione umana propria di ogni singolo individuo ma era una “ragione artificiale” frutto di una lunghissima esperienza e di approfonditi studi > una ragione che poteva essere riconosciuta soltanto ai giudici operanti nelle corti di common law. 6) COMMON LAW E STATUTE LAW Se mettiamo a confronto il common law con lo ius commune romano-giustinianeo e con il droit commun coutumier francese, ci accorgiamo che in esso si possono trovare elementi che caratterizzano gli altri due: - al pari del droit commun coutumier esso trae la sua radice prima dalla tradizione - al contempo, si avvicina allo ius commune per il fatto di trovare legittimità soprattutto nella sua rispondenza a principi superiori che, nel suo caso, sono individuati nel diritto naturale e nella ragione artificiale Questo particolare fondamento del common law consente di comprendere il contenuto della riflessione elaborata dai giuristi del XVI secolo su due grandi temi: quello dei rapporti tra Parlamento e common law e quello del rapporto tra common law e prerogativa regia. La dottrina inglese del XVI secolo attribuisce al Parlamento la funzione di suprema corte di giustizia del regno > esso aveva non soltanto il compito di garantire la certezza del diritto, assicurandone il rispetto, ma anche quello di far chiarezza sul diritto vigente, cancellando gli usi desueti e svelando quanto gi implicitamente contenuto nel common law attraverso la definizione di nuove norme + il Parlamento era, cioè, titolare cioè dello stesso arbitrium riconosciuto dalla dottrina italiana ai giudici dei comuni medievali, arbitrium che si sostanziava nel facoltà concessa al giudice di formulare direttamente la norma da applicare al caso concreto quando vi fosse una lacuna nel diritto positivo + il giudice, quindi, doveva esercitare tale 35 36 arbitrium secondo l'aequitas e nel perseguimento dell’utilitas publica e, di conseguenza, le sue decisioni dovevano necessariamente essere coordinate con il diritto vigente. In Inghilterra, tale potere di arbitrium era riconosciuto al Parlamento i cui statutes, però, pur con il rispetto dei limiti in questione, finivano spesso per contrastare con il common law > la dottrina inglese della prima età moderna, dunque, si chiese, in caso di contrasto tra statute e common law, quale dovesse prevalere. Il rilievo dato dalla dottrina alla potestà arbitrale del Parlamento ha indotto alcuni storici a ritenere che anche tra i common lawyers prevalesse l'opinione secondo la quale il Parlamento era legittimato a spingere la sua interpretazione del common law fino a modificarne le norme. Tuttavia, la tesi di gran lunga dominante nella dottrina inglese è quella della superiorità del common law sul Parlamento > in particolare, Edward Coke ebbe modo di spiegare il suo pensiero nel celebre Dr. Bonham's case del 1606: nel 1606 il medico Thomas Bonham fu sottoposto a giudizio dal Royal College of Physicians per aver esercitato la professione medica senza aver ottenuto la licenza da parte del collegio medesimo. Giudicato colpevole, venne multato e gli venne ordinato di non esercitare la professione. Il Dr. Bonham trasgredì l'ordine e fu arrestato e condannato una seconda volta > egli si appellò dinanzi alla Court Common Pleas, presieduta da Coke, contestando la giurisdizione del collegio in quanto, a suo parere, quest'ultimo avrebbe operato come parte in causa e, al tempo stesso, come giudice + la domanda fu accolta da Coke con un dispositivo che sanciva la superiorità del common law sullo statuto e dava ai giudici delle corti di common law il compito di verificare la conformità del secondo al primo. Il motivo di questa decisione appare chiaro se si pensa al significato dell'espressione “ragione artificiale” adottata dallo stesso Coke e che costituisce uno dei tre fondamenti del common law: i giudici delle corti di common law erano in possesso di un'esperienza ed una cultura giuridica che non potevano vantare i membri del Parlamento + perciò erano considerati i più idonei a controllare la conformità degli statutes al common law. Quindi, le conclusioni della dottrina inglese a riguardo sono che il Parlamento poteva modificare le singole norme di common law in virtù dell'arbitrium di cui era titolare e le nuove norme entravano immediatamente a far parte del common law, ma la loro effettiva vigenza era pur sempre subordinata al controllo di conformità operato dalle corti di common law e qualora tale controllo avesse avuto esito negativo, nel senso della inconciliabilità delle nuove norme con il vigente ordinamento di common law, gli atti del Parlamento sarebbero rimasti privi di efficacia. 7. IL SOVRANO E IL COMMON LAW Accanto al problema del rapporto tra common law e statute law si poneva l’altro della relazione tra il common law e la potestà regia > problema ampliamente trattato dalla storiografia soprattutto per via delle sue implicazioni politiche. Ad ogni modo, la dottrina inglese della prima età moderna era pienamente concorde nel ritenere che il monarca, all’interno del regno, fosse titolare di un'autorità superiore a quella di ogni altra potestà terrena, temporale o spirituale, in modo da escludere la dipendenza del regno da qualsiasi altra autorità > la dottrina, però, si divideva quando esaminava il rapporto tra il monarca e l'ordinamento interno di common law. Uno dei giuristi che ha trattato con maggiore originalità la questione è l'italiano Alberico Gentili, deciso fautore dell'autorità monarchica, secondo il quale si poteva applicare anche in Inghilterra la distinzione tra potestas ordinaria e potestas absoluta elaborata dalla dottrina italiana del diritto comune: la stessa dottrina, pur considerando il diritto romano giustinianeo come un diritto eterno ed immutabile, ammetteva, in via del tutto eccezionale, la violazione delle norme del ius commune romano-canonico da parte del monarca, ma comunque non è mai giunta a legittimare un'ipotesi di modifica o abrogazione delle stesse > la teoria della potestas absoluta assume in Alberico Gentili contenuti originali: lo studioso, infatti, 36 37 sembra identificare la potestas absoluta con quel potere che in Inghilterra veniva definito “regia prerogativa”, in virtù della quale il monarca poteva derogare al common law > per il Gentili, dunque, la potestà assoluta consisteva nel tradizionale potere di arbitrium di cui era titolare il giudice di un comune medievale (che gli consentiva di risolvere la questione sottoposta al suo esame e non disciplinata, affatto o in maniera insoddisfacente, mediante la creazione di una nuova norma) il quale era tenuto ad esercitarla conformemente all’aequitas e in vista del perseguimento dell’utilitas publica > per questa ragione la potestas absoluta, nel suo significato di prerogativa regia o arbitrium del re, era funzionale al perseguimento del bene della collettività; e se legittimava il mancato ossequio al diritto comune, non era assolutamente illimitata ma doveva essere conforme alla ratio altrimenti gli atti del sovrano sarebbero rimasti privi di efficacia. Certamente, parlando di ratio, il giurista non si riferiva alla ragione artificiale di cui parlavano i common lawyers, ma alla ragione naturale che ogni uomo, in primo luogo il principe, possedeva. Limiti ulteriori alla potestas absoluta del monarca venivano individuati da John Cowell secondo il quale i provvedimenti adottati dal re in virtù della sua potestà assoluta dovevano comunque rispettare i diritti dei terzi e conciliarsi con le norme del vigente ordinamento di common law > più tardi, ammetterà la legittimità dei provvedimenti regi volti a tutelare meglio il bene della collettività cioè aventi una utilitas pubblica. Una più significativa estensione dell’autorità monarchica era teorizzata da Robert Filmer, la cui opera principale, Patriarcha, si inserisce nel filone di pensiero europeo che modellava l'autorità di comando del principe su quella del padre di famiglia, ritenendo la famiglia, in quanto spontanea forma di società fornita dal diritto naturale, l'archetipo a cui ogni altro ordinamento doveva ispirarsi 3 nella famiglia, infatti, l'autorità superiore ed indiscussa era esercitata dal padre per il bene comune e ad essa erano sottoposti tutti i componenti della famiglia stessa > secondo Filmer, dunque, alla radice della consuetudine si trovava la concessione del sovrano + in giurista quindi ne deduceva “la piena dipendenza e soggezione del common law all'autorità del sovrano”. Diametralmente opposto era il pensiero del Edward Coke per il quale la prerogativa regia non poteva violare il common law in quanto era parte o derivava da quest’ultimo e quindi non poteva essere usata contro di esso > la dottrina inglese contemporanea e successiva a Coke concordava con la tesi di quest’ultimo e, infatti, non finì mai per riconoscere al monarca la potestas plaena o absoluta. Il problema del rapporto tra common law e potestà monarchica, comunque, rimaneva aperto in dottrina 3 di fatto, la difesa del common law si espresse in un concreto movimento politico che proclamò il diritto di resistenza contro le pretese monarchiche. 8. LEGGI FONDAMENTALI E MASSIME GENERALI DEL COMMON LAW La dottrina inglese della prima età moderna, quando parlava di “fundamental laws”, era solita riferirsi all'intero complesso di norme consuetudinarie o statutarie facenti parte del common law e non già ad un nucleo preciso di consuetudini o statuti > dunque, a differenza della dottrina francese che qualificava come leggi fondamentali solo alcune norme consuetudinarie, quelle riguardanti l'assetto istituzionale del Regno (status regni), la dottrina britannica, invece, difendeva l’intero complesso di norme del common law (in quanto mancava una distinzione all’interno delle norme comuni e tutte erano ritenute basilari per l'ordinamento) perché convinta che esse fossero l’insostituibile strumento per garantire ad ogni cittadino la tutela sia del diritto di proprietà sui suoi beni e sul prodotto della propria attività, sia del diritto di libertà personale: quindi, liberty and property costituivano la sostanza del common law + le singole norme di questo avrebbero potuto essere modificate purché le nuove norme non fossero in contrasto con quei due diritti. 37 40 - una situazione politica vecchia e intricata premeva anche sul famoso Placito di Marturi del 1076 3 qui c'è il reperimento del passo che contribuì alla resurrezione del Digesto. La lite riguardava alcuni beni a Papaiano, donati a Ugo marchese di Toscana e da questo ceduti al monastero di S. Michele. Morto nel 1001 il marchese Ugo, questi beni erano stati usurpati dal marchese Bonifacio tra il 1002 e il 1012. Oscuri eventi di illegittime alienazioni avevano poi consegnato parte di quei terreni e una chiesetta a un certo Sigizio fiorentino, il quale, alla rivendica proposta nel 1076 dall'abate, poteva ormai opporre un possesso ultraquarantennale (a quei tempi, eccepire l'avvenuta prescrizione era il mezzo più usato per dirimere le controversie sulla proprietà). Le res litigiosae erano sotto il controllo o la protezione dei signori di Canossa, di cui probabilmente il possessore Sigizio era un fedele > ciò basta a spiegare perché i precedenti reclami inoltrati dal monastero non avessero sortito alcun effetto: erano stati ignorati dai giudici, a causa della cui negligenza, quindi, la prescrizione era effettivamente scattata. Nella delicatezza della situazione emerge la bravura dei causidici del monastero ai quali incombeva l'onere, in quanto rappresenti della parte attrice, di esibire al tribunale non solo i documenti comprovanti il diritto da far valere, ma anche la norma da applicare in sua tutela. È facile immaginare quegli avvocati alla ricerca affannosa di una scappatoia legale per aggirare lo scoglio della prescrizione, e poi raffigurarseli trionfanti quando s’imbatterono nella disposizione del pretore (contenuta nel Digesto) che concedeva la restituito in integrum anche ai maggiorenni qualora fosse risultato che la mancanza di giudici aveva reso impossibile la tutela tempestiva dei loro diritti 3 una norma straordinariamente adattata al caso. Non è escluso che, a capitar nelle mani degli avvocati del convento, fosse una raccolta di estratti da Giustiniano, più o meno ampia e più o meno fedele, nel quale fossero presenti frammenti delle Pandette. Si sa che al giudizio partecipò un certo Pepo legis doctor + ci sono dei dubbi sulla sua figura, se fosse veramente il famoso Pepo predecessore di Irnerio e sul suo operato nella causa. 3. IL DIGESTO IN TOSCANA Nel 1150 i giudici diventano sapientes e sono richiesti di consilia. Vi sono diverse testimonianze delle riscoperte toscane delle leges (romane): - 1124-1127, celebre lettera scritta da un monaco di S. Vittore di Marsiglia al suo abate, desideroso di andare a studiare leges a Pisa > il che testimonia che a Pisa vi fosse un rinomato centro di studi romanistici; - Reperimento di un foglio del Digesto che si supponeva della prima metà del secolo XI e di mano toscana; - Famoso libello in cui il Vescovo di Arezzo confutava le pretese del Vescovo di Siena, nella secolare contesa circa l'appartenenza di una chiesa in cui la tomba di un santo era stata profanata 3 ricorrono puntuali citazioni del Codice e generiche dei Libri Digestorum > la datazione del libello risale al primo decennio del XII secolo. 4. DIRITTO ROMANO E DIRITTO LONGOBARDO. LA SCUOLA DI PAVIA In Toscana, il rapporto tra diritto romano e diritto germanico, variava da zona a zona: - a Pisa > applicazione del diritto longobardo era in forte regresso - ad Arezzo > applicazione del diritto longobardo restava intensa - a Canossa > si preferisce al sistema probatorio germanico quello romano, incardinato su documenti e su testimonianze > ne è un segno il placito di Garfagnolo del 1098, che molti hanno interpretato, al contrario, come prova di un tradizionalismo filo-longobardo di Matilde di Canossa > in quell'occasione, la contessa impose ai giudici Ubaldo e Bono, entrambi amanti del diritto 40 41 romano, di annullare una sentenza già resa in tema di beni contestati, per consentire l'esperimento di un germanico duello + l'ordine di Matilde era corretto: voleva far applicare la procedura ufficiale vigente nel Regnum Italiae: il Capitolare italico di Ottone I, compreso nel Liber Papiensis, il quale prevedeva il duello come mezzo probatorio nelle cause, e ne estendeva l’uso anche ai Romani. Tuttavia nella coscienza comune, la procedura romana, tendeva a sostituire quella germanica vigente. Infatti, vi sono tracce di una penetrazione del diritto romano in quello longobardo nella scuola di Pavia > qui, non solo Editti e Capitolari erano commentati e integrati col Codice, con le Istituzioni e con il Digesto, ma si giunge ad affermare che la romana è “lex generalis omnium” (dichiarazione né nuova né rivoluzionaria: era già stata enunciata come tale dai maestri antiqui). Quindi, è probabile che nella Lombardia preirneriana, anche le fonti giustinianee avessero cominciato ad eccitare studi e forse insegnamenti + anche le più tarde redazioni francesi delle Exceptiones Petri, potrebbero essersi avvalse di più antiche fonti italiane: di raccolte di norme o testualmente riprodotte o parafrasate > talune dovevano comprendere frammenti del Digesto o insufficientemente indi individuati con l’iscrizione (nome e opera dell’autore latino), anziché con il libro delle Pandette. EMERSIONE DI ESIGENZE FILOLOGICHE 5.RAVENNA. ROMA, COLLECTIO BRITANNICA E IL DIGESTO: L'unità del ceto dei giuristi traspare anche dai legami stretti tra l’attività didattica e l’attività forense: l'insegnamento era rivolto alla formazione di altri giudici > anche Pier Damiani, a Ravenna, sostiene che l’obiettivo della scienza fosse pratico. Tuttavia perduranti erano i nessi tra diritto e arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica), le quali costituivano pur sempre il presupposto di ogni costruzione culturale: tali nessi non solo sono rivelati dalle qualifiche di gramaticus o di scholasticus assegnate ai giurisperiti, ma anche dal fatto che nel secolo seguente l'aderenza alla tradizione delle arti caratterizzerà taluni indirizzi della glossa. D'altronde erano certo persone colte, ma difficilmente appartenevano al ceto forense, quei dotti gregoriani autori della Collectio Britannica, che avevano reperito e usato il Digestum vetus, non per dirimere una causa dibattuta nei tribunali, come nel caso di Marturi, ma ai fini d’investigazione e di studio, per redigere collezioni canoniche atte a consolidare l'ordinamento della chiesa gregoriana. La ricerca era talvolta condita con un impegno filologico, pur sempre limitato all'epoca, che comunque cedeva alla mentalità canonistica di allora, rivolta ad accertare più l'autorità dei pezzi che non la loro autenticità nel senso moderno. È probabilmente nel 1090 che la Collectio Britannica apre le porte a 93 frammenti del Digesto. Va detto che gli obiettivi degli ambienti ecclesiastici nei quali nasceva la raccolta, restavano di politica legislativa e non erano scientifici: infatti, non ne scaturì nessuno studio né alcuna interpretazione. Solo nel corso del XII secolo si verificò trasformazione dell’incerta filologia gregoriana in una nova methodus, tesa ad accertare che il testo oggetto dello studio sia genuino. 6. MATILDE, IRNERIO E IL PROGETTO DI UN'EDIZIONE CRITICA DEL TESTO GIUSTINIANEO Quella fin qui descritta, è la cornice storica degli inizi dell'attività irneriana. Come Pepo aveva forse avuto legami con la prassi forense, così anche Irnerio ci compare innanzi come causidicus in diversi placiti del 1112/1113, come iudex in vari processi tenuti dall'Imperatore Enrico V, sempre come iudex in un arbitrato del 1125. Ebbe, inoltre, interesse anche per l’arte notarile (a lui si deve la nuova formula del contratto di enfiteusi). 41 42 D'altronde, l'alta scienza e il foro si conservarono in contatto ancora per qualche anno dopo Irnerio > si sa, infatti, che i 4 dottori (i discepoli di Irnerio) erano qualificati sia doctores e directores legum, sia iudices e causidici 3 tuttavia proprio Irnerio appare il responsabile dell'inizio di un distacco tra la scienza e il foro, tra i dotti edi pratici. Tra le forze che contribuirono a dare un taglio prevalentemente teorico alla neonata scuola bolognese, ci fu quell'impegno filologico alla ricostruzione del testo; un impegno legato al gusto per la ricerca e per l'edizione delle fonti antiche, diffuso fra i giuristi negli ultimi decenni del XI secolo. Inoltre, che anche Irnerio fu impegnato in imprese filologiche è indicato dalla cronaca di Burcardo di Ursperg, secondo il quale il giurista si occupò, su richiesta della contessa Matilde di Toscana, delle fonti giustinianee 3 anch'esse avevano bisogno di una sistemazione: non solo circolavano raccolte parziali in cui si mischiavano passi tolti da libri diversi, ma anche manoscritti di singole parti della compilazione presentavano difformità sia nella scelta delle leggi, sia nella loro collocazione. Anche il Digesto doveva apparire ad Irnerio bisognoso di interventi: si sa, in effetti che le tante forme vulgate del Digesto, a parte gli errori o i fraintendimenti di copisti che le caratterizzavano, furono anche frutto di un consapevole lavoro filologico dei primi glossatori, e in questo lavoro Irnerio fu certamente coinvolto, non che della vulgata egli sia stato l’autore, ma dovette di sicuro procedere qua e là ad una scelta di varianti. Burcardo di Ursperg, inoltre, parla di “lavoro di distinctio”: i primi glossatori non accantonarono le vecchie forme abbreviate del Codice per sostituirle con un testo completo e genuino miracolosamente ritrovato, ma continuarono a integrare l’una con l’altra le epitomi tradizionali per arricchirle, risistemarle e giungere ad un'edizione criticamente accettabile dell’opera. È ben possibile che Irnerio abbia in un certo modo seguito quel programma editoriale critico che Burcardo dice essergli stato richiesto dalla contessa Matilde > un indizio proviene dal suo comportamento nei confronti delle Novelle: le escluse dapprima dai libri legales perché questi dovevano consistere dei soli testi di cui fosse accertata l'autenticità e la forma originale; in un secondo tempo però, sembra che Irnerio avesse cambiato parere e avrebbe finito col riconoscere la validità delle Novelle, tanto da introdurne alcuni estratti (come authenticae) alle corrispondenti norme del Codice. Tuttavia, più che contestare la validità delle Novelle, si suppone che Irnerio, si limitasse a contestare la genuinità delle redazioni che aveva per le mani > e, ritenendo necessario di presentarle tuttavia alla scienza e alla prassi (perché non si trascurassero gli aggiornamenti fatti da Giustiniano stesso alle proprie leggi) ne introducesse degli stralci nel Codice, curando comunque puntigliosamente che fossero distinti dal testo: mettendo insomma in chiaro che si trattava di semplici note editoriali. A ciò probabilmente alludeva Burcardo quando racconta minuziosamente che Irnerio avrebbe compiuto la sua renovatio testuale. 7. Lo STUDIO E L’APPRENDIMENTO DI QUESTO TESTO COME PRINCIPALE OBIETTIVO DEI PRIMI MAESTRI BOLOGNESI. PROGRESSIVO DISTACCO DALLA PRASSI COEVA L'interpolazione delle authenticae potrebbe forse indicare che l'operazione filologica irneriana era rivolta, oltre che agli studiosi, anche alla pratica forense, alla quale non sarebbe stato corretto fornire il complesso delle costituzioni imperiali privo del ius novissimum delle Novelle. Per quanto riguarda i modi in cui si attuò il lavoro di Imerio, è lecito supporre che sull’operazione filologica s'innestasse con naturalezza l’uso delle glosse, per assicurare la necessaria, corretta comprensione delle fonti > prende così avvio una cultura che, unendo critica del testo ed esegesi, rivela qualche aspetto preumanistico 3 diventava così inevitabile che fosse una cultura destinata a volare più alto di quanto 42 45 conservatrice di preservare l’idea preirneriana che il Giustiniano riscoperto andasse adattato ai tempi > a onor del vero, l'apertura di Martino e dei suoi seguaci all'ordinamento longobardo appare difficilmente dimostrabile, ma quella verso il diritto canonico ha per sé qualche prova. Anche le tendenze “artistiche” di cui sopra si è discorso, possono rappresentare un segno dell’atteggiamento conservatore dei gosiani, e in generale delle scuole “minori” italiane e provenzali che alle idee gosiane, infatti, usavano prevalentemente conformarsi: sono giuristi e scuole che restavano più legati alla tradizionale cultura delle Arti, mentre la Bologna dei seguaci di Bulgaro, dietro la bandiera della stretta fedeltà ai verba giustinianei, spingeva innanzi una nuova cultura tutta legistica. 45 46 12. LA CONDANNA BOLOGNESE DELLE INTEMPERANZE POETICHE (GRAMMATICALI) DEI GIURISTI IN UNA QUAESTIO DI AZZONE: LA SCIENTIA LEGUM TENDE A VENIR RAPPRESENTATA COME LA NUOVA SAPIENTIA CIVILIS La scuola di Bologna condannò i gusti grammaticali dei giuristi, in particolar modo con Azzone, il quale affermò “la cultura letteraria non serve all'argomentazione legale, e anzi la fuorvia; il metodo del giurista è autonomo; occorre dunque isolarlo e rivendicarne la tecnicità assoluta, per costruire invece scientificamente” Per la prima volta si contesta apertamente che il diritto si muova entro la cornice di una cultura tradizionale e si dà il via ad un diritto che non è solo scienza tecnica, ma cultura generale, le cui fonti sono interamente comprese entro il templum iustitiae eretto da Giustiniano > quindi, progetto di rinvenire in Giustiniano una sapientia autosufficiente: una sapientia civilis adattata al cittadino vivente nel mondo comunale (che comprenda, quindi, anche i dettami dell'etica e della religione). Fino a Pillio, erano stati i rapporti con le arti liberali a far talvolta scambiare il giurista con il filosofo 3 dopo Azzone, il giurista costruisce una filosofia propria sulla scorta delle leggi scritte, e quanto alla giustizia, essa conserva solo occasionalmente la vecchia trascendenza alimentata da implicazioni teologiche, ma per lo più diventa un dato tecnico. Nelle norme giustinianee sono manifestati lo ius naturale che raccoglie principi etici, lo ius gentium e civile che li adattano alla pratica: solo il giureconsulto sa trarne un ordine delle istituzioni e dei rapporti civili e presentarlo come accettabile dagli uomini e da Dio. Dalla seconda metà del Duecento, quindi, il mondo del diritto si pose accanto e separato da quello filosofico della Scolastica. 13. LA VANITÀ DEI DOCTORES LEGUM E LE LORO ASPIRAZIONI NOBILIARI I glossatori, rappresentanti di una cultura nuova di successo, vogliono tradurre questo prestigio in riconoscimenti sociali. Dopo Irnerio e i quattro dottori, le qualifiche professionali di “iudex”, “causidicus” e forse “magister”, non sono più in voga tra i dotti: - già Alessandro II nel 1159 distingueva i dottori della legge dai magistri; - Piacentino testimonia che ai suoi tempi, il termine “magister”, anteposto a nome, serviva solo a designare l’insegnante dell’arte letteraria > il fatto è che nella scala dei professori, quelli di leges erano stati prestissimo collocati al vertice È significativo che il civilista tenga ad assumere, invece, il titolo di dominus + all’inizio l’uso dovette apparire consono a quel rapporto di societas tra maestri e discenti > si è detto che si trattasse di: - una societas generale comprensiva di tutto il corpo docente e dell'intera massa studentesca, così da rappresentare quasi la prima forma giuridica di un'istituzione accademica > ipotesi senza senso - una societas che discendeva direttamente dall'omonimo contratto romano e pone le due parti, allievi e professori, su un piano di parità negoziale > ipotesi da escludere - si è ripiegato infine sull'idea che il maestro chiamasse gli scolari socii solo con significati atecnici e affettuosi 3 frutto di una deviazione semantica sopravvenuta col tempo nel linguaggio medievale In realtà, alle origini, la societas si doveva stringere tra il singolo professore e i suoi studenti sul modello di quel rapporto tra maestro artigiano e apprendista ch'era tipico delle Arti di mestiere, chiamate appunto societates, nelle quali all’apprendista era riservato uno status di subordinazione per cui diventava naturale ch'egli chiamasse dominus il capo della bottega 3ma tale qualifica di “dominus” aveva anche implicazioni 46 47 nobiliari (e furono probabilmente queste a sollecitare la vanità dei civilisti) 3 quindi, nel ‘200 vi fu la scalata sociale dei giuristi dotti. 14. LA CONSULENZA DATA AL COMUNE IN VESTE DI SAPIENS COME FUNZIONE PUBBLICA DEL DOTTORE Si badi bene, era l'alta dignità della scienza giuridica, e non il controllo dei centri di esercizio del potere, ad assegnare prerogative e distinzioni + infatti originariamente, l'acquisto del potere spicciolo, non sembra essere stato compreso nei programmi del giurista. Occorre attendere il 1201 per vedere Ugolino Gosia trasferirsi come podestà ad Ancona e abbandonare definitivamente la cattedra > solo nel 1229 lacopo Balduini esercitò la sua podesteria entrando momentaneamente in un giro politico ma al contempo lasciando l'insegnamento bolognese per due anni. Nella sede didattica, a ogni modo, il professore è chiamato a svolgere funzioni di consulenza oppure ottiene incarichi temporanei, ma non ricopre uffici comunali. La funzione pubblica del docente è legata, piuttosto, a quella tradizionale dei sapientes citta Infatti, nei Comuni sin dalla loro nascita, ci si rivolgeva all'esperto quando si aveva un grosso problema tecnico da risolvere > pertanto, è naturale che il professore civilista diventi presto il sapiens per antonomasia ovunque siano coinvolti i massimi problemi della vita comunale, ossia quelli politico-giuridici > così, a Bologna, dal 1189 o anche prima, il docente di leges deve giurare al podestà di prestargli auxilium e adiutorium > successivamente, nel Duecento, dovrà partecipare ai consigli cittadini per esplicita disposizione statutaria. Da tutto ciò risulta che il diritto romano finisce inevitabilmente col rappresentare lo strumento tecnico della politica, sicché di questa il giurista diventa di necessità il teorico. Non per nulla le sue opere costituiscono oggi fonti primarie per lo storico delle dottrine politiche medievali. 15. 1 DIRITTI “PRATICI” VIGENTI: PRIMI INTERESSAMENTI A FATTISPECIE FEUDALI La “philosophia civilis” celebrata dai glossatori sin dalla prima metà del Duecento, pretendeva di spiegare l’intero ambito dei rapporti umani > ciò contribuiva a sospingere lo sguardo verso tutti gli aspetti giuridici della vita pratica e quindi a tutti i diritti che nella prassi si mostravano più vitali > la conseguenza fu che si viene attuando il contegno della distaccata sufficienza con cui Bologna aveva osservato le norme feudali, canoniche e statutarie, e anche i civilisti cominciarono a stringere quei legami tra le leges e i vari diritti concorrenti dai quali nacque il “sistema del Diritto comune” (disegnato specialmente dal Calasso). La prima strada fu aperta in direzione del diritto feudale, di cui i romanisti si impadronirono > ad es. Gaudenzi aveva congetturato in uno studio, che il Volumen, destinato a diventare il quinto tomo del Corpus iuris civilis, fosse in origine costituito di una Lex Romana comprensiva dell'Epitome luliani e allargata dalla Lombarda > l’Epitome sarebbe stata poi sostituita dall’Authenticum, la Lombarda dai Libri feudorum 3 l’unico fondamento reale era il fatto che la sorte dei testi feudali fu effettivamente legata a quella delle leggi longobarde prima, e delle Novelle poi (dalle prime, si vennero distaccando; alle seconde, si accodarono). Si badi, il distacco dal vecchio mondo germanico fu fecondo: l'abbandono dell'ordinamento del Regnum Italiae aprì le frontiere alla libera circolazione dei Libri feudorum ed il trasferimento dalle scuole longobardistiche in rapida decadenza a quelle romanistiche in rapida ascesa assegno alla feudistica italiana un brillante destino scientifico. Per propiziare una svolta culturale decisiva, rispetto al passato, occorreva che anche fonti normative feudali entrassero nel gioco della scienza > una spinta in tal senso esercitò la pretesa degli Imperatori che le 47 50 Ad ogni modo, le generazioni dei glossatori successivi a Martino continuano, in linea di massima, a citare il diritto canonico con grande parsimonia: - una glossa parigina che esibisce tre richiami del Decreto è attribuita al Piacentino, ma è dubbio che gli appartenga veramente - Giovanni Bassiano mostra qualche apertura a problemi ecclesiastici, ma è ben lungi dal maneggiare disinvoltamente i canoni e tanto meno si mostra disposto a preferirli alle leges - Roffredo, pur sensibilissimo alla pratica, ignora quasi del tutto il diritto canonico nelle sue Quaestiones e lo cita poco anche nei Libelli iuris pontificii; Invece: - Accursio ne fa numerose citazioni, ma nemmeno la glossa magna fa del diritto canonico un uso sostanziale per l'argomentazione; - solo Ugolino comincia a ragionare in utroque e sembra effettivamente interessato ad allargare gli orizzonti della scienza romanistica, anche se bisogna riconoscere che la sua propensione per il diritto canonico si manifesta nella materia processuale, dove maggiormente urgeva la sintesi dei due ordinamenti, sintesi che portò al processo romano-canonico Comunque, il panorama complessivo della glossa civilistica rivela, a grandi linee, non certo l'ignoranza del diritto canonico, e tanto meno il disconoscimento della sua efficacia nella vita forense, ma una certa ritrosia ad assumerlo come componente di una scientia iuris che continuava a temere invasioni di campo e attentati a Giustiniano 3 ciò che pesava sui legisti, era la scarsa stima per una scienza fondata per oltre mezzo secolo sul solo Decreto grazianeo (Concordia discordantium canonum, una raccolta di fonti di diritto canonico redatta da Graziano, con cui si mise ordine in oltre mille anni di canoni contrastanti della cristianità), una compilazione dal carattere ambiguo, che non si sapeva se classificare tra le opere giuridiche o teologiche. 18. LE APERTURE DEI CANONISTI AL DIRITTO ROMANO SOSPINGONO LA SCIENZA VERSO IL SISTEMA DELL'UTRUMQUE IUS. L'INTERVENTO DELLE TESI IFROCRATICHE È sulla sponda canonistica che, dopo qualche decennio d'incertezza (fine del XII secolo), l'integrazione dei due ordinamenti registra rapidi progressi, grazie a due fenomeni: a) una folta produzione di decretali di buona qualità, emanate da Pontefici, talvolta tecnicamente formati nelle scuole bolognesi b) la massiccia irruzione del diritto romano nella didattica e nella dottrina Non bisogna pensare ad atteggiamenti negativi della Chiesa nei confronti delle leges: nei primi tempi imeriani e immediatamente postirneriani qualche sospetto vi fu (anche per via dei rapporti dei romanisti con imperatori invisi), ma presto prevalse il peso della tradizione. Il più antico personaggio che compare (in un discusso epitaffio) prima dello scoccare del ‘200 come “ doctor” in entrambi i diritti, è Baziano, che conosciamo, invece, come canonista > la sua identificazione con Giovanni Bassiano rimane del tutto incerta > sta di fatto che poco tempo dopo Baziano, a partire dal primo ‘200, prese piede l'abitudine che maestri canonisti o tengano addirittura cattedre di leges o almeno acquisiscano una buona formazione civilistica. Tuttavia, il problema dei rapporti con il diritto romano e della divisione delle sfere di competenza cominciò ad affiorare e si interseca col problema politico del conflitto tra le due spade >il generico principio che la norma della Chiesa prevale in ogni caso, sente il bisogno di giustificazioni: se ne trova una (attraente ma pericolosa) nella “ratio peccati”, proclamata aequitas sufficiente a legittimare ogni interferenza del potere spirituale in quello secolare. 50 51 Il collegamento del problema dei conflitti tra i due ordinamenti con le rivendicazioni politiche papali, diventa esplicito quando i canonisti cominciano a recepire le tesi ierocratiche (tesi che sostengono la supremazia pontificia): - Alano, che è tra i primi portavoce di queste tesi tra i giuristi, sostiene che soltanto nei negozi e nel foro secolari l'osservanza di norme contrarie ai canoni può essere ammissibile, a condizione che si accolga il presupposto che l'Imperatore è indipendente dal Papa negli affari temporali Quindi, l'accoglimento delle tesi ierocratiche si proietta sul sistema degli iura communia dando nuovo taglio e una nuova giustificazione, di natura politica alla tradizionale pretesa del diritto canonico di subordinare a sé il romano. 19. L’IMPEGNO NELLA PROFESSIONE FORENSE FINISCE CON L'INIZIARE | CIVILISTI DUECENTESCHI AL DIRITTO CANONICO Il civilista, però, stenta a farsi consapevole dell'avanzata del diritto canonico. Se nella decretalistica duecentesca più autorevole e destinata al pubblico più vasto, l'integrazione dei diritti canonico e civile in un'unica scientia iuris si rivela un fatto pressoché compiuto; se sul versante canonistico si cominciano a rilevare le concordantiae che uniscono i due ordinamenti anziché le differentiae che li separano, colpisce che da parte civilistica, persista una diffusa ignoranza dei canoni col conseguente indifferenza per la prospettiva di un matrimonio scientifico. Particolarmente sorprendente è il fatto che Dino del Mugello, civilista di fama rinomata, fosse accusato di ignoranza del diritto pontificio > situazione sorprendente, se non altro perché una tradizione lo designa come collaboratore della stesura delle regulae iuris del Sextus di Bonifacio VIII; per di più la qualifica di “doctor utriusque iuris” gli è assegnata dal quasi contemporaneo Giovanni Villani e da una serie di testimonianze; tuttavia, altre fonti fanno invece di Dino unicamente un “doctor legum” > insomma l'apertura di Dino alla scienza dell'utrumque ius (ossia all'equilibrato intreccio delle auctoritates di entrambi gli ordinamenti ai fini dell'argomentazione) appare ancora timida: lo cita, ma non tanto da dimostrarne un'assoluta padronanza. L'uso di auctoritas tolte dai due diritti fa solo capolino nelle opere scientifiche dei grandi civilisti dell'inizio del Trecento 3 è comunque anche la prassi a premere sempre più per l'integrazione: la conoscenza di entrambi i diritti giovava, ovviamente, agli avvocati e ai giudici > tuttavia la separazione dei fori ecclesiastico e civile continuava a ostacolare la fusione dei due ordinamenti e delle due dottrine. Dove invece non agiva la separazione dei fori, le quaestiones contribuirono assai più incisivamente alla recezione dei diritti pratici 3 lo si vede bene proposito di una forma legislativa che proprio nel Duecento andava prosperando, quella statutaria > ad essa le quaestiones si dedicarono in modo sempre più massiccio, per questa via gli statuti vennero assunti entro la scientia iuris, si esaminò il rapporto dialettico tra ius commune e iura propria e ne uscì il disegno del sistema del Diritto comune. 20. L’ASSUNZIONE DEGLI STATUTI COMUNALI TRA GLI OGGETTI DELLA SCIENZA PER IL TRAMITE DELLE QUAESTIONES DE FACTO EMERGENTES La quaestio (problema, disputa scolastica) è in effetti una molla importante per il progresso della dottrina e la costruzione di quel sistema. Le quaestiones legitimae erano entrate nello strumentario didattico sin dall'epoca di Bulgaro, con finalità (a quei tempi) esegetiche e di coordinamento di quelle fonti giustinianee le cui frequenti disarmonie costituivano uno dei problemi teorici più pungenti + presto si cominciò a discutere di guaestiones de facto, inizialmente inventate dai maestri, poi tratte da episodi della vita quotidiana realmente accaduti (furono 51 52 queste a collegare la dottrina con la prassi) > assunsero la veste di quaestiones sia i consilia prestati da dotti, sia i dibattiti processuali sfociati in sentenze suggestive. Sono le consuetudini a fare per prime il loro ingresso nei ragionamenti e successivamente (secondo decennio del ‘200), anche statuti veri e propri. Roffredo, dichiarava di voler sostituire le sue Quaestiones alla raccolta di Pillio, cui si ricorreva usualmente nella scuola, perché riteneva le proprie svolte su fatti reali, quindi più efficaci per la didattica (quaestiones de facto) > Roffredo intendeva affermare di aver introdotto una più ampia e aggiornata utilizzazione dell'esperienza pratica, in special modo di quella locale > con un risultato inevitabile: che tale esperienza pratica finiva con l’attrarre l’attenzione anche sugli statuti comunali. Dal punto di vista teorico non vi erano difficoltà ad assumere questi ultimi nel ragionamento romanistico, sebbene, ovviamente, nessuna traccia ne fosse reperibile nelle leges > bastava assimilarli a quella consuetudine cui Giustiniano dava un autonomo potere precettivo ed ampi riconoscimenti > in effetti, statuti e consuetudine vanno ad accomunarsi nelle trattazioni della scuola come species di uno stesso genus. Il giurista, insomma, che non poteva certo far finta di ignorare l’esistenza degli ordinamenti municipali e anzi, nel suo crescente impegno forense, era sempre più costretto a maneggiarli, con le quaestiones aggirava la loro esclusione dall'ordine ufficiale degli studi per dare loro ugualmente dignità scientifica e posto nella dida [21. I GENERI LETTERARI DEI GLOSSATORI COME ESPRESSIONE DEI VARI METODI SCIENTIFICI. LA SVOLTA DUECENTESCA: | COSIDDETTI TRACTATUS E LE SUMMAE QUAESTIONUM] NON HO CAPITO QUASI NULLA Una caratteristica dell’epoca postaccursiana sta nel favore riscosso dal genere letterario del “tractatus” 3 questo testimonierebbe la nascita della “monografia scientifica” (composizione dedicata ad un tema specifico e al contempo pensata e scritta tutta da un autore). V'è da notare che non si è mai accertata la natura del supposto tractatus medievale come forma di scrittura a sé > gli editori cinquecenteschi e gli studiosi moderni hanno attribuito con larghezza questo nome sia a opere dei primi glossatori, sia a opere diversissime dalle prime prodotte dai postglossatori. Quanto però alle fonti coeve, non solo esse fanno uso di quell’appellativo con molta parsimonia, ma rimane spesso il dubbio che gli assegnino solo il valore generico di “trattazione”; talvolta, il termine “tractatus”, compare col significato specifico di “disciplina normativa”: si può allora parlare di un genere letterario determinato? Per rispondere occorre considerare il quadro complessivo dei generi in voga dall'età di Irnerio. Le tante forme in uso nel corso del XII secolo, sebbene non si pieghino sempre ad una classificazione rigida, hanno in buona parte la caratteristica comune di legarsi alla lezione universitaria > il che agevola per lo meno l’individuazione a grandi linee sia dell'obiettivo, sia del metodo da cui sono ispirati molti dei modelli. L'insegnamento rivela due finalità: a) quella esegetica (glosae, lecturae, commenta, casus); b) quella sistematica, che si manifestava nelle: a. continuationes > brevi note poste a raccordare un titolo della compilazione con il seguente b. summae di singoli titoli c. summulae su particolari temi summae complessive d’intere parti dei libri legales 52 55 presupposti per la costituzione di un'arte autonoma, quando avevano modellato i propri rapporti con gli studenti-socii su quell’'apprendistato che proprio allora veniva prendendo forma nella consuetudine, destinato a svolgersi all'interno proprio di corporazioni > gli sviluppi corporativi della scuola dovettero però essere interrotti sia dalle proclamate finalità non economiche dell’insegnamento, sia soprattutto dal sorgere delle università degli scolari che tennero a regolare i rapporti con i professori e a fissare l'ordine degli studi, anziché lasciarli, come a Parigi, nelle mani di una “Corporation” dei maestri. Quando i maestri legisti si diedero alla vita forense, essi non ebbero altro sbocco che confluire in massa nella societas iudicum, che prese a chiamarsi “dei dottori, degli avvocati e dei giudici” > questo fu il luogo per antonomasia di incontro tra scienza e attività professionali e ritorno ad un'unità del ceto dei giuristi, pur con decise differenziazioni interne e con il singolare distacco dai notai > un'unità propiziata dunque da: a) netto miglioramento della formazione culturale dei pratici che rivelavano persino tendenze dotte; b) coinvolgimento della scienza romanistica nell'attività dei tribunali e nello studio dei vari diritti vigenti: il feudale e poi lo statutario e il canonico. 25. LA SCUOLA DI ORLÉANS: METODI NUOVI E VECCHIE ISPIRAZIONI In Francia della seconda metà XIII secolo vi era la rinomata Scuola di Orléans > questa rappresentò una grande novità 3 effettivamente, a partire da Revigny, elaborò soluzioni nuove di problemi, affrontandoli con serrate argomentazioni in discorsi approfonditi e si avvalse del metodo della scolastica tomistica (di cui proprio allora l'ordine dei domenicani si andava facendo difensore). Questa scuola era destinata al clero al quale appartenevano tutti gli studenti, ed era governata da un ecclesiastico nominato dal vescovo. Occorre tener conto che il suo insegnamento e la sua scienza appaiono ancora molto teorici; le aperture a fattispecie pratiche vi sono, non per risolvere quaestiones de facto, ma per illustrare il testo giustinianeo e adattarlo alla mentalità moderna. Se è vero che non vi sono vere e proprie fratture scientifiche tra l'Italia e la Francia tardoduecentesche date le innegabili tendenze unitarie del mondo intellettuale europeo, resta tuttavia che sfumature diverse sono incontestabili > sembra, ad esempio, perdurare a Orléans una mentalità plasmata dalle arti liberali, del tipo di quella dei glossatori fino al Piacentino e a Pillio 3 la cosa si esprime, tra l’altro, nella scelta di certi generi letterari. Colpisce ad esempio il Dictionarium iuris di Revigny: la sua novità consiste nella trattazione circoscritta a voci giuridiche, ma il modello dell’enciclopedia era da tempi remoti delle Arti 3 che Revigny a mescolasse in quest'opera intenti di giurista con intenti di grammatico può essere dedotto da talune voci che sono di mera erudizione antiquaria. Anche ad Orléans, comunque, si dedicavano quaestiones a quel diritto pratico che era rappresentato dalle consuetudini: una particolare attenzione si rivolgeva alle consuetudini feudali, che avevano ovviamente la massima rilevanza in un pays de droit coutumier percorso da fitte reti di rapporti vassallatici > ma quelle quaestiones feudali non miravano tanto all'applicazione pratica quanto all’illustrazione delle fonti giustinianee > la cosa la si riscontra anche in Italia, ove l’uso dei Libri feudorum mise molto tempo a intaccare l'originario monopolio delle leges nei temi feudali. Quel che impressiona oltralpe è che Revigny resti dichiaratamente insensibile alla varietà dei tanti iura homagii in vigore e destini espressamente le proprie quaestiones feudorum a mettere in luce nient'altro che i notabilia secundum iura: cioè le “cose notevoli” di diritto romano da rilevare nelle fonti giustinianee. Quanto ai Libri feudorum, nel corso del secolo essi avranno anche potuto penetrare in Francia nei pays de droit écrit meridionali, ma è abbastanza naturale che non interessassero Orléans: essi descrivevano infatti il 55 56 feudo italiano, e ancora alla fine del secolo non avevano tagliato tutti gli originari vincoli con le leggi longobarde > si comprende quindi che, in una scuola ove i Libri feudorum non venivano usati, nessuno dedicasse loro summae o lecturae o trattati di alcun genere > e in effetti l’opera feudale attribuita dalle stampe cinquecentesche al Belleperche è probabilmente da assegnare all'italiano Giovanni Faseolus o Fazioli. Inoltre, le quaestiones feudorum del Revigny non mostrano nemmeno di prendere lo spunto da fattispecie emerse dalla prassi, e questo è forte indizio della scarsa popolarità di cui godevano le quaestiones ex facto emergentes; piuttosto, l'uso di scegliere i casus da vicende reali era comparso in qualche questione civilistica (non feudale) del predecessore di Revigny, Guido de Cumis. Quindi la scuola orleanese è sì, per certi versi un “fatto nuovo”, ma per altri sembra piuttosto rimaner fedele a molti aspetti di quel “fatto vecchio” che è il magistero del secolo XII. 26. TALUNE DISCORDANZE DA BOLOGNA Occorre ricordare che la Bologna della prima metà del XIII secolo non era uno stagno d'acque uniformemente chete e grigie 3 e Orléans, che non poteva fare a meno di alimentarsi dall’alma mater, lo fece attingendo non tanto dall'indirizzo dottrinale azzoniano-accursiano prevalente, quanto piuttosto da quello definito “alternativo”, e si esprime nel magistero di lacopo Balduini e del suo allievo Odofredo > da questo indirizzo scolastico provengono molti degli iniziatori della scienza orleanese: de Cumis, di Parigi, Revigny. La nascita della scuola orleanese sotto il segno di una certa freddezza nei confronti di Accursio, potrebbe essere testimoniata dal celebre episodio dell'attacco portato da Accursio stesso al futuro maestro orleanese Guido de Cumis durante il suo esame di laurea, quasi che l’inimicizia tra i due potesse simbolicamente spiegare tale freddezza > una freddezza che si accosterebbe agli atteggiamenti di indipendenza assunti dalla nuova scuola verso la magna glossa, la cui autorità sarebbe stata ragionevolmente contenuta oltralpe, quando in Italia era invece soffocante. Tutto ciò non vuol dire comunque che Accursio era stato trascurato: per Revigny anzi ha rappresentato una pietra di paragone costante ed è stato l'oggetto delle citazioni più frequenti. Tuttavia, le dissonanze c'erano e provenivano soprattutto dalle divergenze di mentalità e di metodi: - il genere letterario in cui sfociano i corsi orleanesi è la lectura reportata; mentre, nella scuola di Accursio era sempre stato preferito l’apparatus - gliorleanesi appaiono più legati alle artes rispetto ai bolognesi - la scuola orleanese, situata com'era in un paese di diritto consuetudinario, invitava a trattare il complesso delle leges con intenti più culturali che tecnico-forensi - infine i giuristi d'oltralpe erano ecclesiastici e parlavano ad ecclesiastici ed erano tutt'altro che digiuni di teologia e di metodi filosofici scolastici: continuavano a chiamarsi magistri, quando in Italia i dotti nelle leges rifiutavano questo titolo considerato degradante perché li assimilava ai disprezzati insegnanti del Trivio 27. ANALOGIE DI FONDO CON LO STUDIUM DI NAPOLI DELL'EPOCA ANGIOINA In una Francia in cui il clero manteneva un posto di spicco nella curia regis, Orléans fu una delle fucine che fecero del diritto romano una cultura di funzionari. Questo però è un fenomeno che, pur con delle varianti, si riscontra anche in Italia 3 non solo nel mondo comunale la formazione giuridica venne sempre più richiesta per le carriere politiche e amministrative, ma la cosa assunse tinte marcatissime nelle monarchie. 56 57 In particolare nella Napoli angioina si vede il re chiamare spesso i professori di diritto ad alti uffici pubblici, anzi, la cattedra diventa un trampolino per ottenere cariche importanti > curioso il fatto che parecchi dei cancellieri della prima età angioina erano stati o maestri proprio a Orléans oppure avevano tenuto cattedra a Tolosa. Ma vi è una caratteristica che distacca la scienza dell'alta ufficialità napoletana da quella d’oltr'Alpe: l'insegnamento nell'Università di Napoli è solo romanistico e la didattica si svolgeva secondo gli schemi normali della glossa e dell’additio al Corpus giustinianeo (con infiorettatura di quaestiones) > quest'epoca ha lasciato, oltre alle glosse, anche lecturae: quelle più note si concentrano sui Tres Libri, ossia sui testi che nella didattica erano accessori e affidati tutt'al più a corsi suppletivi. Tuttavia, la produzione del Mezzogiorno più originale e massiccia nasce fuori dalla scuola (carattere peculiare della scienza napoletana) 3 sono estranee infatti all'ordine degli studi fonti come le Costituzioni federiciane, che sollecitano glosse e commenti spesso rilevanti, così come ne meritano i capitoli angioini, le consuetudini napoletane redatte per ordine di re Carlo Il e infine la Lombarda, che entro la metà del Trecento riceve un vastissimo commento da parte del giurisperito e avvocato Biagio da Morcone, preposto di Atina e consiliarius regis. Napoli offre insomma il primo segnale di un fenomeno storico molto rilevante: vi si vede infatti formarsi sin dal Duecento una rigogliosa “cultura giuridica di funzionari” che si esercita sui fonti speciali, diverse dalle leges, e affianca e presto sovrasta la scienza accademica, ch'è invece tradizionalmente solo romanistica. Ad assumere il maggiore spicco è così una dottrina i cui fasti si celebrano fuori dall'Università: e ciò contribuisce molto a spostar gradualmente il punto di forza del ceto dei giuristi verso l’ambiente degli alti burocrati e dei grandi giudici. 28. DALLE AULE ACCADEMICHE A QUELLE DEI TRIBUNALI: LE DECISIONES È stata proprio la valenza filosofico-speculativa del diritto, tanto lodata nelle aule accademiche, a subire, all’aprirsi del Trecento, gli attacchi dell'esterno. La teologia è venuta nel frattempo crescendo in autorevolezza con il diffondersi del pensiero di Tommaso, e il giurista, nei suoi confronti, perde terreno: c'è chi dice che questo non ha i mezzi per trattare approfonditamente la “specula rationis”. La vecchia gramatica comincia, dalla fine del Duecento, ad assumere il nuovo volto umanistico, e da una parte affascina taluni ambienti di giuristi pratici, dall'altra se la prende con i metodi dei doctores: li dichiara obsoleti e inefficienti culturalmente + il giurista allora cerca di ammodernarsi affrontando temi umanistici, ma quando si occupa di diritto continua ad affrontare gli stessi temi, a usare degli stessi metodi dialettici, a percorrere insomma le strade consuete: per parecchio tempo quindi, è incapace di fondere insieme umanesimo e diritto. Dal punto di vista dei generi letterari, il giurista trecentesco non si ostina a presentarsi soltanto come il sacerdote della “specula rationis”, ma propende a trovare realisticamente nei tribunali il concreto e solido piedistallo del proprio prestigio. Lo testimonia il successo crescente che vanno incontrando le raccolte di consilia, ossia dei pareri legali richiesti al sapiente in vista di controversie giudiziali, quindi un tipo di libro nato nella pratica per la pratica 3 sono sillogi che diventano tanto preziose da sostituire quelle antologie di quaestiones che fino al primo ‘300 erano di gran moda. Vi è soprattutto un altro genere di opera compilatoria, la serie di decisiones, che quando si affaccia, nel Trecento, avvia un nuovo indirizzo scientifico > si affaccia in quella Francia che si rivela così, una volta di 57
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