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Riassunti Frankenstein Educatore, Pedagogia sperimentale, Lucisano, Sintesi del corso di Pedagogia Sperimentale

Riassunti Frankenstein Educatore, Pedagogia sperimentale, Lucisano

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunti Frankenstein Educatore, Pedagogia sperimentale, Lucisano e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia Sperimentale solo su Docsity! Introduzione Esistono ginevrini e ginevrini... ovvero della legittimità di un approccio mitologico nell’educazione La città di Ginevra si vanta di essere la “Mecca della pedagogia”. Primo di tutti Jean-Jacques Rousseau vi nacque nel 1712. Ebbe, dopo la pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale dei problemi con la giustizia del paese: Il Piccolo Consiglio della città ordinò di strappare e bruciare i suoi libri davanti all’Hotel de Ville poiché considerati scandalosi e con l’inclinazione a distruggere la religione cristiana e tutti i governi. Ovviamente nessun potere può approvare opere che sembrano fare apertamente appello alla disobbedienza civile, ma quello che Ginevra ha rifiutato al Rousseau vivente, lo ha prodigato dopo la sua morte. Anche se la personalità di Rousseau innervosiva al tempo i poteri ginevrini, essi non possono non riferisti a lui come personificazione dell’originalità intellettuale e politica della piccola repubblica. Ginevra, infatti, ritiene che Jean-Jacques incarti lo spirito di libertà e tolleranza, la modestia attiva al servizio della pace tra i popoli, il disprezzo degli onori e del formalismo e la fiducia nell’uomo e nelle virtù dell’educazione. Così, dall’inizio del ventesimo secolo, Ginevra diventa la casa delle questioni pedagogiche: ricordando qualche esempio - Adolphe Ferriere, a favore della scuola attiva, fonderà nel 1899 il Bureau International des Ecoles Nouvelles e poi nel 1925 partecipò attivamente alla creazione del Bureau International d’Éducation; - Edouard Claparede fonderà nel 1912 un Istituto di Scienze dell’Educazione, che verrà chiamato proprio come Rousseau; - Pierre Bovet animerà la rivista di riferimento del Bureau, l’Educateur; - Robert Dottrens creerà nel 1927 Fecole du Mail, che sperimenterà forme di lavoro individualizzato ritenute in grado di suscitare il desiderio di imparare e di consentire al bambino di superare i suoi interessi immediati.  Ginevra diventa la seconda patria dei militanti pedagogisti di tutto il mondo, accogliendo gli universitari più rinomai nell’ambito della psicologia e della riflessione sull’educazione (tra cui il famoso Jean Piaget) A questo punto Mierieu ci parla di un altro “pedagogista” che, se fosse esistito, avrebbe avuto delle discussioni appassionate sulla pedagogia con Rousseau. Victor Frankenstein era ginevrino di nascita e apparteneva a una delle famiglie più distinte della città. Come Jean-Jacques aveva percorso il mondo in lungo e in largo alla disperata ricerca di una pace interiore che non arriverà mai. Aveva lavorato in Germania, doveva aveva studiato la filosofia naturale e fatto la sua prima grande esperienza pedagogica. Victor avrebbe potuto incontrare Rousseau nelle strade di Ginevra. L’ardente partigiano della filosofia naturale, fiducioso nelle possibilità della tecnica del controllo sull’evoluzione dell’uomo grazie al processo scientifico (Victor), che incontra l’uomo convinto dell’impossibilità di un progresso scientifico che non sia la conseguenza dei nostri vizi e che non accentui la disuguaglianza e la violenza tra gli uomini (Jean-Jacques). Purtroppo, però Victor Frankenstein è frutto della fantasia di una giovane diciannovenne inglese, figlia di grandi intellettuali liberali britannici e moglie di un celebre poeta romantico. Annoiata propose ai suoi amici un concorso letterario: scrivere una storia di fantasmi. Il concorso proposto non ha avuto seguito, infatti solo Mary Shelley scrisse un testo, stranamente sobrio e intenso, al punto che la sua lettura lascia un’insolita e persistente sensazione di inquietudine, la cui importanza letteraria supera di gran lunga la sua qualità letteraria. Presentato il personaggio di Victor Frankenstein, è proprio da lui che Mierieu vuole partire per farci riflettere sull’educazione.  Sceglie di partire proprio da Frankenstein per il gusto della provocazione. Vuole scommettere sul fatto che, stranamente, il mito di Frankenstein ci possa far avvicinare più di qualunque altra cosa alla conoscenza approfondita della questione educativa. Frankenstein secondo Mierieu è il mito che risponde in modo più significativo a quello che è l’interrogativo fondamentale del pedagogista: Come si fanno, allora, i bambini? Il dottor Frankenstein “fa un uomo”, lo “fabbrica”, ed è così spaventato dal suo atto che crolla in uno stato di profondo abbattimento che lo porta ad abbandonare a sé stessa la creatura senza nome. La creatura fabbricata è lontana dall’avere una malvagità innata, è una creatura che farà il suo percorso educativo un po’ come l’Emilio di Rousseau, e che alla fine, quando all’abbandono del suo creatore si aggiungerà la stupidità degli uomini, si abbandonerà alla violenza. Frankenstein è l’esempio dell’uomo alle prese con l’arrivo di un “altro”, che, usando le parole di Daniel Hameline, un giorno si ha “tra le braccia” e ben presto “sulle spalle”, senza sapere troppo bene quello che se ne è fatto e quello che se ne può fare. Desideriamo, come educatori, “farli riuscire al meglio”, ma comprendiamo anche che questa riuscita li sottometterebbe a limitazioni, violando la loro libertà. Mierieu insiste ancora dicendo, abbiamo “fatto” un bambino e vogliamo “farne un uomo libero”, ma, nel momento in cui lo si “fa”, non sarà libero, o almeno, non lo sarà veramente, e, se fosse libero, non potrà non sottrarsi alla volontà di fabbricazione del suo educatore. Perché allora, l’atto di Frankenstein ci appare sacrilego? L’atto di “fabbricare un uomo” è terribile come espressione, “fare un corpo con della carne” è ancor di più insopportabile, poiché si riflette su ciò che è la nostra umanità, il motivo per cui non abbiamo il diritto di alienare il nostro corpo o dissotterrare un morto. Tuttavia, l’impresa di “fabbricare un uomo” è quotidiana, e si ripete ogni volta che vogliamo “costruire un soggetto addizionando delle conoscenze”. “Fabbricare un uomo” è qualcosa che ci inquieta e si tratta di qualcosa che per noi è così vicino, così intimo, da farci rabbrividire al solo evocarlo. Mierieu prende in considerazione anche altri miti, come a esempio Icaro e Prometeo che giocano con la vita e con la morte, e dice che anche noi giochiamo con un progresso tecnico a cui non possiamo sfuggire. Come Frankenstein, l’educatore che “non sa quello che fa” arriva a dar vita a un essere che gli assomiglia abbastanza da essere considerato riuscito e che sfugge al controllo del suo “fabbricatore”, per il meglio, ma soprattutto per il peggio. È questo che ci trasmette questo mito: ci pone di fronte al “nocciolo duro” dell’avventura educativa, cioè quello che si trova al centro di una storia che tutti dobbiamo riscrivere per conto nostro e in cui l’esperienza degli altri, alla fine, non ci è di grande utilità. In queste condizioni, quando lo scarto tra le generazioni aumenta e la trasmissione culturale è sacrificata, si scoprono degli adolescenti “bolidi”, senza radici né storia, dedicati interamente alla soddisfazione dei loro impulsi primari. I pericoli di una generazione del genere sono molto evidenti, ed è per questo che bisogna credere nella convinzione che la nostra socialità deve iscriversi in una storia e svilupparsi grazie alla trasmissione di una cultura  Kant diceva: L’uomo è la sola creatura suscettibile di essere educata. L’uomo può diventare uomo solo attraverso l’educazione. L’uomo può ricevere questa educazione solo da altri uomini che l’abbiano a loro volta ricevuta. Pigmalione, ovvero la fortuna pedagogica di una strana storia d’amore L’uomo è “fatto” da altri, non da se stesso. C’è sempre qualcuno che si occupa della sua educazione. Chi è responsabile dell’educazione altrui deve metterci tutta la propria energia per dare all’altro gli strumenti migliori perché possa assumersi al meglio la responsabilità delle scelte personali, professionali e politiche che dovrà fare. - Nel diciottesimo secolo si parla di “perfettibilità” dell’uomo, in cui l’educazione poteva tutto, anche far ballare gli orsi; - Nel 1984 si parla di “educabilità” in cui si insisteva sulla necessità di scommettere che tutti i bambini possono riuscire. Nessuno può dire di un altro “non è intelligente, non ci arriverà” poiché nessuno può essere certo di aver usato tutti i mezzi e tentato tutti i metodi possibili per farlo riuscire; - Nel 1994 si parla di “modificabilità cognitiva” intendendo combattere contro la “psicologia dei doni” che spiega tutto e scusa senza troppa fatica la passività, il fatalismo e l’incompetenza dell’educatore. Oggi, educatori e psicologi si applicano alla “rieducazione” di coloro che una volta erano ritenuti esclusi per sempre dall’accesso al linguaggio e alla cultura. Li seguono con la convinzione che un’azione educativa e terapeutica ben condotta possa ricostruire gli equilibri fondamentali. In più, esistono pratiche pedagogiche e progetti d'istituto che consentono di sperare in riuscite che pongono fine all' atteggiamento fatalistico (Filosofia per cui il mondo è governato da una necessità ineluttabile e del tutto estranea alla volontà e all'impegno dell'uomo). In altre parole, mentre una volta ci si rassegna go che le cose fossero fatte in modo aleatorio oggi si vogliono controllare al meglio i processi educativi e agire sul soggetto da educare in modo coerente per il suo bene supremo. L’educatore moderno vuole fare dell’uomo la sua opera. Nel suo tentativo di fare dell'alunno la sua opera l'educatore influenza considerevolmente l'individuo. Questo effetto che l'educatore a sull’alunno prende il nome di “Effetto aspettativa “. L'educatore facendosi un’immagine di un alunno determina risultati che esso otterrà durante la sua evoluzione. Rosenthal e Jacobson nel 1971 Ci spiegano che se si comunica ad alcuni insegnanti Che degli alunni hanno grandi capacità intellettuali, ci sono tutte le possibilità che ne ottengano risultati efficienti. Per esempio, nella correzione dei compiti andranno in qualche modo a censurare determinati errori affinché risultati non smentiscano le certezze che hanno. Ovviamente questo effetto “funziona” anche al contrario, quindi se si pensa che un alunno non sia bravo. Alain parlava di un modo di interrogare che uccide la risposta corretta, cioè per mettere in difficoltà il ragazzo da cui non ci si aspetta niente. L'alunno che avrà questo trattamento, perché non si sente sostenuto negli scorsi che cerca di fare, smetterà di fare sforzi per cambiare questa immagine che gli è stata data.  IL MITO DI PIGMALIONE (preso in considerazione per spiegare l’effetto aspettativa), Ovidio Pigmalione è uno scultore taciturno, un po’ misantropo, che vive in solitudine, consacrando tutte le sue energie nella realizzazione di una statua d’avorio che rappresenti una donna la cui immensa bellezza non può esserle stata donata dalla natura. Una volta terminata la sua opera Pigmalione la base e si immagina di questi baci sono ricambiati, La adorna con i vestiti più belli, la ricopre di regali e gioielli e la notte si corica accanto a lei. Venere, dea dell'amore, è toccata da questa strana scena eccetera la richiesta di Pigmalione, dare vita alla statua, che diventa così la moglie dello scultore. È una strana storia d’amore e di potere: un uomo che consacra le sue energie e la sua intelligenza nell’intento di “fare” una donna, che è la sua opera. Qui pigmalione rappresenta l’immagine dell’educatore che ha come sola intenzione fondamentale di fare dell’altro la propria opera, un’opera vivente che rinvii al suo creatore l’immagine di una perfezione sognata. La storia di Pigmalione si ferma quando la statua prende vita, facendoci supporre che probabilmente finiranno, come tutte le fiabe, per sposarsi e avere figli. Nella realtà però, quando ci si prende il rischio di dare vita a delle statue, esse non sono mai del tutto affidabili  Il Pigmalione di Brendan Shaw, ci racconta di cosa succederebbe se la statua prendesse vita Il dottor Higgins (che sarebbe il Pigmalione di questa storia) accetta la sfida di trasformare una fioraia, Lisa, in una duchessa. Ci riuscirà perfettamente, al punto che Lisa susciterà l’ammirazione di tutta l’aristocrazia londinese. La giovane acquista fiducia e sopporta a fatica che Higgins ricordi alla propria madre che non è altro che il “risultato di un esperimento”. Tra Higgins e Lisa i rapporti diventano difficili: È evidente che si amano, ma Higgins ha “fatto” Lisa e non può dimenticarlo. In realtà, ama la sua opera e il suo successo educativo, ma non può sopportare che questo successo gli sfugga. - Queste storie ci fanno comprendere al meglio il mito dell’educazione come fabbricazione Ogni educatore cerca di creare un essere che non sia il prodotto passivo delle sue imprese, ma che esista per se stesso e possa anche ringraziare il suo creatore. Però, una fabbricazione che non sia altro che il risultato dei nostri atti da un piacere insignificante, speriamo sempre che l’educando vada oltre questo risultato, potendo accedere alla libertà che gli permette di aderire a quello che abbiamo fatto per lui. Pigmalione vuole una compagna interamente fatta da lui e liberamente dedicata a suo marito, l’educatore vuole “fare l’altro” ma vuole anche che l’altro sfugga al suo potere perché possa aderirvi liberamente. Pinocchio, ovvero le facezie impreviste di una marionetta impertinente  PINOCCHIO, Collodi, 1987 Le sue avventure non si interrompono con la fabbricazione Mastro ciliegia aveva tra le mani un ceppo e voleva farne la gamba di un tavolino, ma aveva abbandonato il progetto subito, terrorizzato quando, dopo aver assestato un colpo di accetta, aveva udito una strana vocina… È difficile credere che colui che si vuole educare possa esistere di fronte a noi, resistere e soffrire per la nostra impresa emancipatrice. Quando la nostra determinazione educativa si appoggia sulla certezza di agire nel “suo interesse”, ci importa poco di sapere “quello che gli interessa”. Ci imponiamo e decidiamo per loro. Senza dubbio abbiamo anche ragione, anche perché se potessero decidere da se la loro educazione sarebbe già terminata. Mastro Ciliegia davanti al ceppo decide che non porterà a compimento l’educazione di Pinocchio e se ne sbarazzerà velocemente, cedendolo a Geppetto, che gli aveva appena chiesto con cosa fare un burattino. Geppetto, nonostante gli affronti del ceppo, porterà a termine la fabbricazione, finché il burattino gli sfuggirà dalle mani. La storia di Pinocchio si conclude con un finale a proposito del quale l’autore ha affermato di non ricordarsi. Pinocchio dice “com’ero buffo quando ero un burattino”, ma non era buffa, faceva solo fatica a “trovare la sua strada”, a “mettersi in prima persona”, perché è difficile farlo, soprattutto quando si è un oggetto fabbricato dalla mano dell’uomo e con l’inclinazione proprio a essere manipolato. Dopo aver fatto andare suo padre in prigione, Pinocchio ha la sua prima avvenuta in un teatro di marionette. Ne salva anche una dalla morte, sottolineando la sua appartenenza a quel mondo ma anche la sua differenza. Poi verrà manipolato a turno dal gatto e la volpe, dal giudice che lo accusa di un crimine che non ha commesso, dai compagni di classe, da Lucignolo, perfino dalla bambina con i capelli turchini. Ma tutte queste manipolazioni sono possibili solo perché Pinocchio è in qualche modo manipolato dall’interno, prigioniero di se stesso, che gli impedisce di mettersi in prima persona. Passa il tempo a rimpiangere i suoi errori e ad accusarsi di tutti i suoi mali. Nel finale vediamo una specie di rinascita, Pinocchio ritrova Geppetto nella pancia del pescecane. Il padre si crede prigioniero e Pinocchio si rivolge a lui dolcemente per tranquillizzarlo. Pinocchio capisce che per uscire di là bisogna calmarsi e sapersi dominare. Non si tratta più di trovare un modo per soddisfare i desideri dell’adulto, si tratta di andare verso qualcosa che assomiglia alla sua volontà, al mettersi in prima persona. Qui pinocchio non incolpa nessuno e non si lamenta più della sua sorte, neanche se stesso. È cresciuto, e osa fare un gesto che viene da lui, non dall’immaginario di altre persone. La storia finisce con Pinocchio che si trasforma in un bambino determinato, che non esita ad affermare la sua volontà, senza violenza. Smette di farsi comandare dai propri impulsi. L’educazione arriva nella vita non per miracolo, bisogna farla capitare nel quotidiano con ostinazione. Dal Golem a Robocop, passando per Jules Verne, H. G. Wells, Fritz Lang e molti altri, ovvero la strana persistenza di un progetto paradossale Sia da pigmalione che da Pinocchio emerge un’identica intenzione: arrivare al segreto della fabbricazione dell’essere umano. Durante l’infanzia vive delle tensioni con la matrigna che lei considera abbastanza mediocre rispetto alla madre persa e idealizzata. A 15 anni suo padre la invia in Scozia presso un amico “perché sia allevata come un filosofo, anzi come un cinico”. Mary sarà la degna erede di suo padre, ma nel 1814 incontra il poeta Shelley, dalla fama ancora modesta, ma dal fascino senza dubbio forte. Shelley si innamora di Mary e anche lei è affascinata dal personaggio innamorandosi anche lei. Mary e Shelley fuggono nella notte del 28 luglio 1814 e intraprendono un viaggio attraverso la Francia, la Svizzera, la Germania e l’Olanda, prima di tornare a Londra e affrontare Godwin. Nel 1816 sulle rive del lago di Ginevra, iniziò a scrivere Frankenstein come sfida nata da una scommessa tra amici. La pubblicazione sarebbe dovuta essere a Londra nel 1818. L’opera ebbe tante critiche. Solo Walter Scott, credendo che l’autore sia Shelley e non Mary, elogia l’opera sottolineando che gli sembra rivelare “facoltà d’immaginazione poetica poco comuni, capaci di suscitare nuove riflessioni e inedite fonti di emozioni”. In più anche i giudizi sulla qualità letteraria non mancano: Il lettore, infatti, può essere sorpreso quando il personaggio di Justine, accusata dell’omicidio di William, fratello del dottor Frankenstein, viene presentato da una lettera in cui si racconta la sua storia. Questo è dovuto al fatto che Mary ha scoperto dopo la necessità di inserirla nell’intrigo. Oppure non convince la storia della famiglia De Lacey, presso la quale la creatura si formerà come uomo. Questi difetti però sono compensati da un’organizzazione generale del romanzo, che si sviluppa in un sistema di “incastri” e di racconti diversi che strutturano un’organizzazione narrativa molto precisa. Il romanzo si apre con le lettere di un esploratore, Walton, che cerca di raggiungere il Polo Nord e il cui battello rimane incagliato nei Ghiacci. Walton raccoglie il dottor Frankenstein e racconta la tremenda impressione che quest’uomo fa a lui e al suo equipaggio. Poi, attraverso il diario di Walton segue il racconto di Frankenstein e della sua creatura. Il romanzo si chiude nuovamente con una lettera di Walton il quale, dopo aver ascoltato la storia di Frankenstein e aver visto morire il creatore e la sua creatura, rinuncerà alla propria ricerca. Il romanzo si caratterizza, in più e stranamente, per il “realismo” delle intenzioni. Se il lettore è colto da “fremiti” forse è proprio perché lo stile del racconto è relativamente semplice e perché non siamo di fronte a una forma letteraria originale. Mary Shelley dice le cose con l’ingenuità di una ragazza di diciannove anni, senza ricercare la coerenza stilistica e usando le parole che le sembrano d’istinto le più adatte. Queste imperfezioni fanno emergere con più efficacia la forza del mito. Questo spiega perché il successo popolare del romanzo. È per questo che oggi non può essere classificato facilmente in nessun genere letterario. Frankenstein e la sua creatura, ovvero lo stupefacente gioco di specchi del “non sono io, è l’altro” Perché quando si parla di Frankenstein tutti pensano alla creatura? Sappiamo che Frankenstein non è il mostro ma il suo creatore. Jean-Jacques Leclercle ci spiega che lo sappiamo ma non vogliamo saperlo. La confusione non è un semplice lapsus e non è nemmeno solo un effetto degli adattamenti cinematografici. La confusione è inscritta da Mary Shelley sul corpo della creatura che porta nella carne la sua condanna, il suo avvenire. La creatura è opera di Frankenstein, il corpo è Frankenstein, perché il dottore ci ha messo tutto il suo sapere, tutta la sua energia e tutta la sua volontà. Lo ha voluto. Per mesi il dottore ha vissuto nell’ossessione più totale per la sola cosa per lui importante, scoprire il segreto della generazione della vita. Così ha creato un’opera sperando che un giorno si sarebbe potuto chiamare “un Frankenstein”. Una speranza di farsi riconoscere attraverso la propria creazione, di sopravvivere in essa e di arrivare ad una forma particolare di clonazione che conferisce l’immortalità. Un pittore o uno scultore in segreto sognano di fondare una “scuola” e di avere dei discepoli che siano imitatori fedeli, ma imperfetti. Ma le opere, una volta eseguite, sono in una relazione di esteriorità con il loro creatore, al punto che quest’ultimo se ne disfa, vendendole. “Il mio lavoro mi appartiene, ma non è veramente mio, poiché io posso barattarlo con del denaro. Conservo una tenerezza segreta per quello che ho fatto, ma sono felice che altri vi si riconoscano.” Nel dottor Frankenstein non c’è nulla del genere. La sua opera non sarà consegnata a nessun pubblico ipotetico perché altri uomini vi si riconoscano e condividano emozioni essenziali. La sua opera resta sua: la creazione è una paternità nervosa e possessiva. Vuole essere padre e creatore nello stesso tempo. Vuole la riuscita materiale e il riconoscimento dell’opera stessa, ignaro che non c’è altro riconoscimento per il creatore che quello da parte dei suoi simili, cioè di altri uomini. Di un bambino si dirà che in lui si ritrova un sorriso, un’espressione, un aspetto del carattere ecc… La creatura porta in se tali tracce: condivide con suo padre il gusto per la solitudine, è ragionatrice, esaltata, testarda fino all’ostinazione. Come Frankenstein non avrà pace finché non avrà creato un essere vivente, così, dopo tutte le sue avventure, la creatura non avrà pace senza avere una compagna a sua immagine con cui condividere il proprio destino. E quando il dottore avrà rinunciato alla creazione di questa compagna si realizzerà la maledizione del “figlio”: visto che il mostro non ha avuto diritto ad una compagna neanche il dottore potrà averne una. E questa maledizione continuerà nell’inseguimento attraverso il mondo fino al Polo Nord. La confusione tra il dottore e il mostro non è il semplice frutto di un errore di comprensione, ma sottolinea il mimetismo nel cuore del rapporto di filiazione. Questo mimetismo è ineluttabile e infernale: ineluttabile perché nessuno deve a se stesso la propria origine e ciascuno porta su di se le tracce dell’educazione di colui o coloro che l’hanno introdotto al mondo. Infernale perché non si può essere in due, identici o simili, per uno stesso posto. La violenza è inevitabile quando la somiglianza è tale che ciascuno pretende di occupare il posto. Infernale soprattutto per quelli che non possono liberarsi dal rapporto di “fabbricazione”. “tu sei il mio creatore, e sia, ma il padrone sono io. Tu mi obbedirai!” dice il mostro “ti sbagli, è passata l’ora della mia indecisione, e anche quella del tuo potere” risponde il creatore (Shelley, 1978) Non si può spiegare meglio la violenza che si impossessa di quelli che confondono l’educazione e l’onnipotenza, che non sopportano che l’altro sfugga e che vogliono controllare completamente la sua “fabbricazione”. Lo spavento del dottor Frankenstein, ovvero la scoperta troppo tradiva che a “quelli che non sanno quel che fanno” non sempre è concesso il perdono Una volta effettuata l’operazione e realizzato il sogno tanto agognato, il dottor Frankenstein è colto da una profonda inquietudine e cade in un sonno popolato di incubi. Si risveglierà poche ore dopo spaventato da quello che ha appena fatto e di cui non si rende ancora bene conto. Al suo risveglio la mano del mostro accenna un gesto verso di lui e scopre “l’orrore” che gli ispira la sua creazione e così scappa, poiché gli appare l’unica possibilità. La creatura non è piacevole a guardarsi, come non lo è troppo un neonato prima di essere lavato e vestito. La creatura in quel momento è profondamente buona, non il mostro sanguinario che diventerà, piena di sentimenti di compassione e nata chiedendo solo di essere amata. È maldestra e impacciata, ignorante dei costumi degli uomini, ma non è cattiva o aggressiva.  La creatura è come IL MITO DEL BUON SELVAGGIO Un uomo allo stato di natura che non ha mai conosciuto la società sarebbe un uomo profondamente buono, lontano dalle depravazioni sociali e dai pregiudizi culturali. Un uomo che scoprirebbe il mondo pian piano e ne costruirebbe una rappresentazione a partire dalle prime immagini e impressioni che si fisserebbero nella sua coscienza. Un uomo che tenderebbe la mano verso l’altro per testimoniare “voltontà buona”. La creatura sarebbe come il buon selvaggio. Abbandonata dal suo creatore, la creatura cercherà di “fare la sua educazione”. Scoprirà il mondo attraverso i sensi. Scoprirà la molteplicità di sensazioni che si impossessano del suo essere, poi scoprirà i vari fenomeni, come il caldo al sole o vicino al fuoco, che si dorme meglio al riparo dalla pioggia ecc… La creatura si “civilizza” e costruisce una sua intelligenza. acquisisce un certo numero di conoscenze essenziali attraverso il “metodo naturale”. Farà poi l’incontro con la famiglia De Lacey; si nasconderà nel loro capanno scoprendo i costumi degli uomini, come per esempio il linguaggio. La creatura impara a parlare con facilità e, per testimoniare la sua gratitudine ai suoi involontari benefattori, di notte rende loro piccoli servizi per aiutarli nei lavori più difficili/pesanti. 6. A METÀ DEL PERCORSO: PER UNA VERA RIVOLUZIONE COPERNICANA IN PEDAGOGIA L’alunno deve essere posto al centro del sistema educativo. Nel 1892 si parlava della necessità di una “vera rivoluzione copernicana in pedagogia” per cambiare i programmi in modo tale che le lezioni fossero fatte per gli alunni e non gli alunni per le lezioni. Bisognava superare l’idea di pedagogia che cerca di ammaestrare il bambino per imporgli dei saperi. La pedagogia deve concentrarsi sul bambino che, scoprendo e costruendo in prima persona quello che è necessario al suo sviluppo, diventa l’attore principale della propria educazione. Poiché il bambino non sa ancora cosa è necessario e giusto per il suo sviluppo, la decisione va all’adulto. L’adulto deve organizzarsi in modo che il bambino scopra da se quello che è stato deciso per lui e desideri quello che l’adulto giudica desiderabile. La pedagogia si sviluppa intorno all’interesse del bambino, ma facendo in modo che quest’ultimo veda quello che lo interessa in quello che è nel suo interessa. Quello che vuole l’uomo è creare un po’ di vita con la morte, fabbricare un soggetto accumulando degli elementi e sperando che magicamente una “scintilla di vita” arriverà a collegare e animare tutto. Il problema è che gli elementi, cioè le discipline scolastiche, che insegniamo non conservano il significato per cui sono nati, le risposte alle domande fondatrici per cui sono stati analizzati. Biologia, storia, letteratura, non sono più tentativi di dare una risposta agli interrogativi essenziali dell’uomo e che il bambino ben presto avrà. Le discipline scolastiche non sono altro che delle briciole di conoscenze strappate dai trattati degli scienziati e copiate nei manuali. Non sono più abitate da quello che le potrebbero rendere vive, che potrebbe permettere a chi entra nel mondo di appropriarsene e di crescere. Per avere una rivoluzione copernicana in pedagogia non serve ne un puerocentrismo ingenuo (una teorica che pone il bambino al centro del educativo e lo consideri quindi nella sua spontaneità, libertà, autonomia, espressività creativa) e neppure una “fabbricazione attraverso un accumulo di conoscenze”, bensì ha bisogno di una costruzione di un essere che diventa artefice di se stesso attraverso delle domande poste dalla cultura nelle forme più elevate.  L’educazione deve concentrarsi sulla relazione del soggetto con il mondo. Il suo compito è di fare di tutto perché il soggetto entri nel mondo e riesca a stare in piedi sulle proprie gambe. La vera rivoluzione copernicana in pedagogia consiste nel voltare con risolutezza le spalle al progetto del dottor Frankenstein e “all’educazione come fabbricazione”. Tuttavia, non si tratta di subordinare l’intera attività educativa ai capricci di un bambino-re. L’educazione deve centrarsi sulla relazione del soggetto con il mondo degli uomini che lo accoglie. Come fare? “Un bambino è nato fra noi”, ovvero perché la paternità non è un caso “Un bambino è nato fra noi”. Il carattere incredibile e miracoloso di ogni nascita va sempre riconosciuto. Soprattutto bisogna accettare che la nascita di un essere non è un semplice prolungamento di se stessi. È chiaro che non esiste nascita senza genitori. Ma chi non è capace di accettare una nascita come un dono sarà sempre attanagliato dal desiderio di dominio e sconvolto all’idea che colui che è appena nato possa non appartenergli. “La paternità è la relazione con un estraneo che è radicalmente altro rispetto a me e che in qualche modo, tuttavia, me” (Emmanuel Levinas, 1985). Accettare il bambino come un dono, rinunciare al nostro desiderio di dominio senza rinnegare la nostra influenza o tentare di cancellare una paternità è molto difficile.  Questa è la prima esigenza della rivoluzione copernicana in pedagogia: rinunciare a fare del rapporto di paternità un rapporto di casualità o di possesso. Non si tratta di fabbricare una creatura, ma di accogliere il nuovo arrivato come un soggetto che appartiene a una storia e rappresenta la promessa di un superamento radicale. “Un essere ci resiste”, ovvero della necessità di distinguere tra la fabbricazione di un oggetto e la formazione di una persona I bambini non sono affatto docili e quando accade, il più delle volte lo fanno per fare di testa loro. Non desiderano mai quello che sarebbe opportuno al momento giusto: Anche se ci sforziamo di fargli capire che le materie umanistiche e la scienza apporteranno molte soddisfazioni nel loro futuro rispetto a una serie tv che stanno guardando, non abbiamo tante probabilità di convincerli facilmente. Quando alla fine si decideranno a fare quello che consideriamo utile per loro, non lo fanno mai come dovrebbero. Se tentiamo di spiegargli come fare diventano o dei saputelli o si trincerano nel silenzio, protestando che non vuol dire niente o che non gli interessa. Questo esempio per dire che nell’educazione la “normalità” è che l’altro resiste, si sottrae o si ribella. La “normalità” è che la persona che si costruisce di fronte a noi non si lascia “fare” e cerca di opporsi, solo per ricordarci che non è un oggetto che viene costruito. Quando gli insegnanti si trovano davanti a comportamenti del genere sono costretti a scegliere: rinunciare o impelagarsi in un rapporto di forza? In casi del genere la tentazione all’estromissione è forte, sperando di poter continuare a esercitare il proprio mestiere di insegnante con tranquillità. Però gli insegnanti sanno bene che l’estromissione è un segno di sconfitta e conferma un abbandono: nessun educatore degno di questo nome può accettare l’allontanamento come soluzione alle difficoltà che incontra. Così l’insegnante per evitare l’esclusione si impegna in uno scontro; Però, arriva un giorno in cui l’alunno vorrà sapere fino a che punto l’insegnante può essere messo alla prova e quali sono i suoi limiti e così il conflitto si intensifica. Qualche volta l’insegnante ne esce vittorioso, ma spesso succede il contrario: il problema è che se l’alunno non sa tradurre la sua rabbia in parole, probabilmente ha imparato a difendersi con altri mezzi, tipo sfruttare le debolezze dell’avversario. La domanda che si fa quindi l’insegnante è come poter trasmettere le conoscenze senza allontanare quelli che gli resistono.  La seconda esigenza consiste nel riconoscere il nuovo arrivato come una persona che non posso plasmare a mio piacimento. È inevitabile che qualcuno resista a chi lo vuole “fabbricare”. L’ostinazione dell’educatore nel sottometterlo al suo potere suscita dei fenomeni di rifiuto. Educare significa rifiutare di entrare in una logica di scontro o allontanamento. “Ogni insegnamento è chimera”, ovvero come uscire dalla magica illusione della trasmissione È necessario mettere in discussione la possibilità della “trasmissione”? se il maestro vuole che l’alunno impari, deve astenersi dall’insegnare. A parte l’aspetto provocatorio della formula, essa dice che l’attività del maestro deve essere subordinata al lavoro e ai progressi dell’alunno. Non è la qualità dello spettacolo che determina il progresso intellettuale dello spettatore, ma il modo in cui esso viene presentato e cosa provoca in lui. La logica che presiede all’insegnamento è del tutto diversa da quella che presiede l’apprendimento: un insegnamento ricevuto è un empirismo. Un insegnamento impartito è un razionalismo. (vi ascolto, son tutto orecchi; vi parlo, son tutta testa). Insegnare significa esporre in maniera ordinata ciò che si è scoperto in modo più o meno fortuito. Quando ci sono delle incoerenze mi metto alla ricerca di articolazioni soddisfacenti e così costruisco il mio pensiero e il mio discorso. Se ci si sforza di seguire un ragionamento in modo lineare dal principio alla fine ci saranno delle cose che colpiranno gli alunni più di altre, perché ci rinvieranno a domande che gli stanno a cuore. Esistono delle condizioni di insegnamento che funzionano meglio e in cui gli studenti apprendono in modo completo. Queste situazioni dipendono da una combinazione di condizioni in cui i discenti hanno rimodellato il loro modo di apprendere nel sistema del metodo d’insegnamento. Capiscono il corso perché hanno imparato ad aspettare gli esempi al momento in cui arrivano e ricordano le formule di sintesi. Da parte di altri invece c’è resistenza e la trasmissione è difficile e si ritorna al discorso dell’allontanamento e dello scontro.  La terza esigenza consiste nell’accettare il fatto che la trasmissione dei saperi e delle conoscenze non avviene mai in modo meccanico e non può essere concepita sotto forma di duplicazione. Essa suppone una ricostruzione di quei saperi e di quelle conoscenza che il soggetto stesso deve inserire nel suo progetto e du cui deve cogliere gli aspetti che contribuiscono al suo sviluppo. “Solo il soggetto può decidere di imparare”, ovvero il riconoscimento dell’impotenza dell’educatore Anche se a volte è necessario rinunciare a insegnare, non bisogna mai rinunciare a “far imparare”. Significherebbe decidere di tenere un essere deliberatamente fuori della Partiamo col dire che nessuno è mai del tutto autonomo, per esempio, quando decido di fare dei lavori idraulici nella mia stanza da bagno non sono completamente autonomo e dipendo dall’aiuto, dai consigli e dal sostegno di un amico competente. Un essere completamente autonomo sarebbe un essere “sufficiente”, insopportabile per i propri simili. Un essere invece completamente eteronomo, incapace di bastare a se stesso, sarebbe in pericolo continuo di morte. Se si vuole quindi parlare di autonomia conviene precisare la sfera di autonomia che si cerca di sviluppare, il livello di autonomia che si vuole raggiungere e gli strumenti che si decide di usare. LA SFERA DI AUTONOMIA rinvia alla specificità dell’istituzione nella quale ci troviamo e le competenze particolari degli educatori che vi lavorano. La scuola deve porsi come obiettivo l’autonomia degli alunni nella gestione dei loro processi di apprendimento. IL LIVELLO DI AUTONOMIA rappresenta un livello superiore e tuttavia accessibile rispetto al livello già raggiunto dagli alunni. Non bisogna pretendere di portare una persona a un livello di autonomia troppo superiore rispetto a quello a cui si trova, poiché si richià di condannarsi a una dconfitta e condannare l’altro alla regressione. Lo sviluppo richiede MEZZI SPECIFICI e un sistema di aiuto e di guida che sarà alleggerito gradualmente. L’autonomia è un approccio che permette a ciascuno, secondo la formula di Pestalozzi, di “farsi opera di se stessi”. È per questo che sarebbe più corretto parlare di “processo di autonomizzazione”, solo per combattere l’illusione di un’autonomia che sarebbe una condizione definita e globale nella quale collocare la persona una volta per tutte. L’autonomizzazione è intesa come “principio regolatore” dell’azione pedagogica. questo principio serve da guida e per l’azione e l’orientano in modo opportuno. L’educatore deve sforzarsi di rendere il soggetto autonomo. Non deve supporlo già autonomo, ma organizzare un sistema di aiuti che gli permetta di raggiungere gli obiettivi che si fissa prima di portarlo a fare progressivamente a meno di questi aiuti e ad applicare per conto suo quello che ha acquisito. Questo processo non è mai realmente concluso e in cui la rottura persegue lungo l’intero corso dell’esistenza di ognuno. L’intento di rendere autonomi è il contrario di ciò che guida l’attività di dottor Frankenstein nei confronti della sua creatura: quando bisognerebbe aiutarlo a costruirsi, Frankenstein pretende di realizzare e compiere questa costruzione da solo e quando bisognerebbe creare nuovi legami tra il nuovo arrivato e il mondo, Frankenstein lo abbandona in un universo ostile.  La sesta esigenza consiste nell’inserire nel cuore di qualunque attività educativa la questione dell’autonomia del soggetto. È durante tutto il corso dell’educazione che si guadagna l’autonomia, ogni volta che una persona si appropria di un sapere, che lo fa suo, lo riutilizza in modo indipendente e lo reinveste altrove. Questa operazione di appropriazione/riutilizzazione è ciò che deve presiedere all’organizzazione di ogni impresa educativa. Del soggetto in educazione, ovvero del perché la pedagogia è incessantemente punita nell’ambito delle scienze umane per osare affermare il carattere non scientifico dell’opera educativa Nel 1967 ci fu la creazione ufficiale delle “scienze dell’educazione”, che però ha creato numerosi dibattiti e polemiche. Per il grande pubblico queste scienze sono la stessa cosa della pedagogia, ma, per andare all’essenziale, le scienze dell’educazione riuniscono insegnanti, ricercatori e studenti, il cui obbiettivo è un approccio interdisciplinare alle questioni educative. All’interno delle scienze dell’educazione coesistono più tipi di lavoro: esistono più ricerche di sociologia, psicologia clinica, ricerche storiche ed economiche su un fenomeno come il fallimento scolastico. In materia educativa esistono talmente tante variabili da prendere in considerazione che è difficile arrivare alla certezza scientifica. Per questo molti ricercatori tentano di verificare approcci derivanti da diverse discipline di supporto. La ricerca pedagogica non può aderire completamente al paradigma della prova e della predicibilità. Il suo approccio deve far propria l’imprevedibilità della praxis pedagogica, il fatto che si tratta di un’attività che pone la libertà dell’altro al centro delle sue preoccupazioni e non può avere la pretesa di predire niente con certezza scientifica. Si possono produrre invece, dei discorsi che aiutino gli esperti ad accedere alla comprensione della partica. Questi discorsi sono ibridi: a volte usano lo stile epico, altre volte il discorso è mediocre e non riesce a competere con quelle delle “discipline nobili”. Però è un discorso che l’esperto dell’educazione riconosce come proprio, perché vi si ritrova e perché vi si riflette la difficoltà del suo compito.  La settima esigenza consiste nell’accettare “l’insostenibile leggerezza della pedagogia”. L’uomo vi riconosce la sua impotenza sull’altro, dal momento che ogni incontro educativo è inevitabilmente singolare e che il pedagogista non può costruire il suo operato in un campo teorico di certezze scientifiche. Oggi si vorrebbe ridurre la pedagogia a un assemblaggio di conoscenze derivate dalle scienze umane, però, queste scienze, non costituiscono la pedagogia più di quanto i brandelli strappati da Frankenstein ai cadaveri nel cimitero permettano l’emergere di un uomo. La pedagogia è progetto, essa è speranza attiva dell’uomo che verrà. Bisogna sempre ricordarsi che gli uomini ci hanno tramandato più piani di mondi immaginari che di città concrete. Tutti ci consegnano lo stesso mito fondatore della città che prolunga nello spazio collettivo il progetto infernale di Frankenstein: il controllo dei suoi abitanti in uno spazio in cui ogni uomo occupa il posto che gli è destinato. C’è una certa fascinazione per la simmetria e l’organizzazione. Razionalità ed efficacia nella distribuzione dei compiti. Trionfo assoluto della geometria che si impone sugli uomini dimenticando che sono “pietre vive” e nutrendo la speranza segreta che si irrigidiranno nella disposizione perfetta delle proiezioni dello spirito. Però sappiamo che il “migliore dei mondi” è in realtà il peggiore. Abbiamo avuto modo di osservare quello che il dottor Frankenstein ha prodotto quando il suo progetto ha lambito le frontiere della dimensione collettiva. Disastro. La vita non si prevede e niente permette di anticiparla con esattezza, a rischio di circoscriverla ad avvenimenti prevedibili, cioè tutt’altra cosa rispetto alla vita. Forse esiste un’altra scuola possibile. Sarebbe una scuola con gente strana che non fa mai veramente quello che ci si aspetta che faccia, una scuola con delle specie di spazi in cui ci si possa avventurare senza preoccuparsi troppo. In questa scuola tutto è strano. Per fortuna quest’altra scuola è la sola che esista veramente, purché gli uomini e le donne sappiano accompagnarvi il bambino ed esservi sorpresi con lui e purché vi si impari ad accogliere l’imprevisto, e non a estirparlo, per osservarlo con occhio curioso. È sufficiente che in questa scuola ci siamo dei pedagogisti. 7. LA PEDAGOGIA CONTRO FRANKENSTEIN, OVVERO I PARADOSSI DI UN’AZIONE SENZA OGGETTO: FARE PERCHÉ L’ALTRO FACCIA” “Fare tutto non facendo niente” (J. J. Rousseau) Il principio basilare della pedagogia è “Fare tutto non facendo niente” cioè organizzare l’ambiente di vita affinché il bambino sia stimolato il più possibile, tanto dal punto di vista sensoriale che da quello intellettuale. Si tratta il bambino come un soggetto che apprende “liberamente”, attivando la sua volontà in situazioni costruite e controllate dall’educatore. Questo principio non implica quindi l’astensione pedagogica. Il bambino non sa niente ed è alla mercè dell’educatore. Senza dubbio non deve fare ciò che vuole, ma deve volere solo quello che voi volete che faccia. Questo principio, ideato da Rousseau venne criticato indicandolo come manipolatorio. Però dicendo così ci si scorda che Rousseau era il primo a parlare di “rispetto per il bambino”. Infatti, aveva capito perfettamente che per rispetto non si intendeva assecondare tutti i capricci del bambino, bensì che, il bambino, non educato, non può scegliere cosa imparare e decidere ciò che è importante per lui. Fare tutte non facendo niente non significa rinunciare a fissare gli obbiettivi dell’apprendimento e nemmeno rinunciare a intervenire sull’educazione dei bambini. Significa esercitare pienamente la propria autorità di educatori, non per agire direttamente sulla volontà del bambino, ma utilizzando delle mediazioni che gli permettono di diventare un “artefice della propria educazione” Questo progetto serve da principio organizzatore di quelle che noi chiamiamo “situazioni- problemi”: l’allievo deve svolgere un compito nel quale investe il proprio desiderio, ma deve inserirsi in un sistema di limitazione e risorse che gli permettono di conquistare nuove competenze. Qui si tratta di rinunciare a chiedere semplicemente di “elaborare”. Bisognerebbe formulare un compito preciso da svolgere e assicurarsi che ciascuno abbia potremmo chiamare “la sindrome del jokari” (gioco costituito da una palla attaccata con un filo elastico a una base di legno che può essere fissata a terra). Se l’altro si allontana da noi, noi dobbiamo dire addio per sempre al desiderio di controllarlo. Per far si che l’altro si allontani da noi bisogna equipaggiarlo. Solo un insegnamento le cui acquisizione sono utilizzabili al di fuori del controllo dell’insegnante e della situazione formativa stessa, permette la reale emancipazione del soggetto. Non esiste una capacità generale di valutazione che potremmo vestire e svestire a piacere con contenuti diversi a seconda dei contesti. L’importanza del trasferimento è nella necessità che esso costituisce. Può sembrare singolare attribuire più importanza alla necessità che all’esistenza, ma la pedagogia si interessa per prima cosa, di quello che deve far accadere. È per questo che la pedagogia si differenzia dalla psicologia. Lo psicologo cerca di sapere se il trasferimento esiste, il pedagogista afferma che è necessario che esiste e che bisogna farlo esistere affinché l’attività di insegnamento sia emancipatrice. Per liberarsi dal paradigma dell’”educazione come fabbricazione” dobbiamo riuscire a collocare la preoccupazione della trasmissione nel cuore stesso dell’apprendimento. L’esigenza del trasferimento contraddice la “pedagogia del cammello”, quella che consiste nell’accumulare saperi senza preoccuparsi del loro uso e supponendo semplicemente “che un giorno o l’altro serviranno pure a qualcosa”. Preoccuparsi del trasferimento significa innanzitutto restituire i saperi come risposte a domande che gli uomini si sono posti e che colui che impara può chiamare in causa per rispondere egli stesso alle domande che si pone o si porrà. Significa portare il discente a proiettarsi mentalmente nel mondo del lavoro e ricordarsi delle situazioni che ha vissuto. Una tale esigenza richiede la costante preoccupazione di “creare dei ponti” tra quello che viene appreso in classe e la realtà psicologica, sociale, tecnica e culturale nella quale il giovane vive. Vuol dire identificare le rive come universi distinti, senza rassegnarsi ad abitare solo su una di esse. A scuola le difficoltà sono presentate in ordine di complessità crescente e le informazioni sono caratterizzate dalla preoccupazione per l’obbiettività e l’esaustività. Nella vita le cose si presentano sempre in modo disordinato e noi siamo incalzati dall’urgenza. Gombrowicz diceva, se la vita è un “caos”, la scuola deve essere un “cosmos” organizzato dall’intelligenza dell’uomo. Ma il cosmos ordina il caos e non si costituisce come un “mondo altro” accanto al primo. Il compito della scuola non è abolire tra i muri dell’alula “il caos della vita” per sostituirvi “il cosmos della cultura scolastica” che sarà esso stesso abolito quando si tornerà nella “vita”. Quello che si deve fare è trasformare il caos in cosmos, lavorare per ordinare il disordine, per capirlo e averne il controllo all’esterno della scuola. Sfortunatamente succede il contrario, la scuola costruisce un cosmos che giustappone al caos e l’allievo vive tra due culture. È questo il motivo per il quale quelli e quelle che esigono che vengano impediti tutti gli sforzi per “costruire ponti” tra saperi scolastici e il mondo in cui vivono gli allievi sono gli affossatori della cultura scolastica. Bisogna non fossilizzarsi sulla cultura dei “profitti scolastici” destinati solo alla riuscita nella scuola e incapaci di mettere in discussione la vita di colui che apprende. Tutto questo è difficile. Tutte le questioni fondatrici di cui abbiamo parlato per gli allievi sono più interessanti. È fondamentale permettere loro di accedere al significato propriamente umano dei saperi che vengono insegnati. Una volta effettuato questo lavoro è molto più interessante chiedere agli allievi di mettersi alla ricerca da soli, di situazioni nei quali questa conoscenza possa essere utilizzata. Parliamo adesso del ruolo essenziale, nel processo di appropriazione emancipatrice dei saperi, di quella che chiamiamo la metacognizione: questa consiste nel ritornare sul proprio processo di apprendimento e nel mettere in discussione la dinamica stessa del trasferimento di conoscenza. È un modo di lavorare su questo trasferimento senza essere più nel processo, ma di fronte al processo, un modo per dire “ecco quello che ho imparato. Ecco cosa questo mi rimanda.” È l’alunno stesso che può definire la pertinenza di questo rapporto. Non permette a nessuno di tenerlo in suo potere usando le emozioni senza esserne consapevole. Non controlla tutto ovviamente, ma attraverso il suo pensiero si eleva sopra le situazioni scolastiche e le situazioni sociali. Non capisce completamente tutto questo ma capisce il rapporto che c’è tra le sue conoscenze e le sue esperienze, facendosene padrone di questo rapporto. Il ruolo dell’educatore è quello di assecondare questo processo senza controllarlo. “Fare come se...”, ovvero l’educazione come sforzo instancabile per attribuire ad un soggetto i suoi atti Nessuno sa davvero né quando né come un bambino diventi effettivamente responsabile dei propri atti. È sempre possibile ricostruire a posteriori una catena causale e far apparire una nostra piccola azione come la conseguenza di influenze e di determinazioni nel quale non c’è posto alcuno per la volontà di un soggetto. Finché ci si limita a un approccio descrittivo, la liberà e la responsabilità sono metodologicamente negate. Allora esiste un’ipotesi di una “nolontà”, cioè una volontà di sospendere l’influenza delle determinazioni esteriori, fino a quelle che si impongono maggiormente su di me, proprio come “evidenze” o forze alle quali non credo di poter resistere. Però quello che bisogna capire è che nelle situazioni in cui le mie scelte appaiono come imposizioni su di me in modo ineluttabile, mi resta sempre la possibilità di dire NO, di resistere, di sospendere il mio giudizio o di decidere di fare altrimenti. Se non faccio uso di questa possibilità il fatto che avrei potuto farlo conferisce al mio atto la portata di un gesto libero. Qui ancora una volta il pedagogista deve preferire la necessita all’esistenza di questa possibilità. Il pedagogista non sa mai se il bambino è libero né se lo potrà diventare veramente, ma è suo compito far accadere questa libertà che costituisce colui che gli è affidato nella sua umanità. Come si fa a dare a un bambino la possibilità di rifiutarsi di fare quello che i suoi educatori gli chiedono di fare? Finché non disporrà degli strumenti mentali e della cultura necessaria per percepire la posta in gioco di quello che gli accede, con quale diritto si può considerarlo responsabile dei suoi atti? Pinocchio è “libero” di seguire Lucignolo nel “paese dei balocchi” o di resistergli, ma questa libertà è solo un’illusione perché non ha altra scelta se non quella tra la soddisfazione del proprio piacere o di quello dell’altro. D’altronde Pinocchio finché non nasce la libertà nella pancia del pescatore non si assume per niente la responsabilità delle sue azioni. Nessuno, sul suo cammino, gli propone un’altra strada, nessuno gli dice “quello che fai dipende da te”. L’educatore deve attribuire al bambino i suoi atti senza accusarlo. Questa necessita non è semplice ma essenziale: non attribuire significa impedire alla libertà di emergere, accusare significa supporre questa libertà già costituita, quando invece bisogna farla ancora concretizzare. L’educatore deve onorare una libertà con la convinzione che questa emergerà pian piano dall’atto che l’istituisce. Ci può essere una sorta di ingiustizia nell’imputare un bambino la responsabilità delle sue azioni, la cui formazione non è ancora conclusa. Lui stesso può percepire tutto questo come qualcosa di insopportabile e nutrire del risentimento, avendo l’impressione di “pagare per qualcun altro”. Per esempio, come si può rimproverare un alunno di lavorare solo per i voti quando, è chiaro, la sua famiglia, i suoi professori e l’intera istituzione scolastica promuovono una visione puramente strumentale e utilitaristica della cultura? Capire l’altro non significa deresponsabilizzarlo. Significa riconoscere le influenze a cui è soggetto ed essere in grado di esprimerlo a parole insieme a lui e fornirgli i mezzi per mettersi a distanza da quello che vive. La questione di cui parliamo è lo statuto dell’attribuzione nell’impresa educativa. Non attribuiamo un atto o un risultato a qualcuno solo perché questo è un modo affinché lui prenda in qualche modo possesso della propria persona. Non è un modo per sanzionarlo, collocarlo, compararlo e nemmeno stimolarlo. È prima di tutto un modo per dirgli di assumersi la responsabilità di ciò che fa è decidere di fare solo ciò che si attribuirà e di cui potrà dire “sono io ad esserne responsabile”. La sanzione non ha alcuna portata educativa, se quando la subisce il bambino non si considera responsabile di quello che ha fatto. Vi si può ricorrere per ragioni di “mantenimento dell’ordine” ma se colui che viene sanzionato si considera vittima di un’ingiustizia non ne trarrà alcuna conseguenza positiva. Quando invece questa è intesa come segno di fiducia e come un’opportunità può diventare un trampolino nello sviluppo del soggetto. È per questo che è più formativo il modo nel quale la sanzione è applicata piuttosto che il suo contenuto formale. Per quanto riguarda la valutazione scolastica, il metodo delle “cinture di Judo” è tutt’altra cosa rispetto a una riorganizzazione del sistema abituale del giudizio. In questo metodo la classe è suddivisa in un sistema complesso di piccole “classi di livello”. Il maestro riconosce i diversi livelli a cui si trovano gli alunni nelle varie materie o nei diversi ambiti scolastici. Assegna a loro un colore che indica la natura dei problemi che l’allievo è in grado di affrontare. Sta a ogni allievo esercitarsi e superare le prove che permettono di accedere al livello superiore. La valutazione non è progettata per far inciampare qualcuno, ma per permettere a ciascuno di misurarsi con una sfida da raccogliere e di raggiungere un livello che può rivendicare come suo. Con questa visione nessuno nega i problemi che l’alunno incontra o gli ostacoli. Però non si metteranno bei voti solo per far piacere o per incoraggiare. Il maestro e l’alunno sono perfettamente a corrente del livello di quest’ultimo. L’alunno non è del tutto responsabile delle sue difficoltà, ma potrebbe diventare l’artefice del suo stesso progresso, fissarsi degli obbiettivi e raggiungerli. Ovviamente può anche rinunciare, ma se lo facesse il maestro non ne avrebbe alcun merito, è una scelta tutta dell’alunno. Potrebbe anche lavorare solo per far piacere al maestro. L’unica cosa che può fare il maestro è aiutare l’alunno nella sua decisione: dargli gli strumenti, consigli, mezzi e metodi. Quando l’allievo capirà che questo provvedimento l’autorizza a conquistare forme di espressione più elevate e soddisfacenti, gli permette di liberarsi dal godimento immediato per accedere a un desiderio e mettere in gioco la sua volontà. Però, nell’istante in cui viene bloccato l’impulso, l’alunno la vivrà con molta frustrazione. Facendosi carico delle frustrazioni dell’”interdizione”, il maestro, con l’andare del tempo, fa capire come questa autorizzi l’alunno. “Far condividere la cultura”, ovvero la modestia dell’universale Si dirà che il maestro non insegna quello che pensa, ma quello che sa, quello che a lui stesso è stato trasmesso da altri maestri. Anche se i saperi si sono evoluti, quello che ne fa una cosa diversa dalle opinioni è che hanno fondamento in una storia. A certi riguardi, si ha dunque ragione a dire che la scuola deve essere “conservatrice”, poiché essa conserva il legame tra generazioni, lo ricostruisce quando è minacciato, permette a ogni generazione di non dover ripartire da zero ed esorcizza questa paura dell’abbandono. Gli allievi non vanno a scuola per imparare quello che pensa il maestro, ma proprio per sapere chi sono, chi li ha creati, quali eredità possono rivendicare e cosa possono sovvertire. Per spiegare meglio il ruolo di insegnante parliamo del pensiero di Jacques Muglioni, il quale descrive la “lezione di filosofia” come l’espressione di un pensiero vivente che si costruisce davanti agli allievi e che può invitarli a esercitare una riflessione personale. Da una parte il professore esercita la sua riflessione su oggetti culturali e, dall’altra, lo stesso rigore di questa riflessione fa parte dell’eredità fondatrice attraverso la quale il bambino si può costruire.  L’insegnante è un “passatore”, un mediatore verso una cultura senza la quale il nuovo arrivato vagherebbe disperatamente alla ricerca delle sue origini. È ovvio che la cultura non garantisce la comprensione. Infatti il suo possesso non significa che grazie a essa sarei capace di andare verso l’altro e di capirlo. Ma, permettendomi di accedere a quello che mi unisce a lui, essa mi da gli strumenti senza i quali non esiste un reale esercizio dell’intelligenza, senza i quali non ci sono che dispersione e delirio. Gli insegnanti sono “passatori”, le discipline scolastiche rappresentano delle scelte culturali implicite. Ogni società istituisce delle discipline scolastiche, ne traccia i confini e ne definisce i saperi costitutivi in funzione di quello che considera come essenziale trasmettere. Le scelte non sono affatto innocenti. Sono scelte decisive che testimoniano il profilo dell’uomo e della società che si vuole preparare. Tutto è discutibile quindi all’interno di una società che deve chiedersi quali saperi e quale cultura sono necessari per inserirsi nella sua storia. Insegnare significa voler comunicare quello che di più grande e più bello gli uomini hanno elaborato, ma significa anche volerlo comunicare a tutti. Rinunciare a insegnare determinate cose non significa solo entrare a far parte di un processo di selezione ed esclusione, ma significa anche ammettere che ciò che si insegna “non vale per tutti” cioè non porta in sé alcuna universalità e perde qualunque legittimità a essere insegnato. Il maestro non può imporre dei saperi in nome della loro universalità, ma deve mettere questa universalità alla prova nell’atto stesso della loro trasmissione. L’universalità non è qualcosa che deriva dall’adesione degli uomini a un argomento, bensì a come gli insegnanti hanno trasmesso e cosa sono arrivati a comunicare con quell’argomento, e soprattutto, che emozioni essenziali sono riusciti a suscitare negli alunni. In questo modo la trasmissione non è un’imposizione e negazione della libertà dell’altro, ma è proprio riconoscimento di questa libertà.  E perché non devo sottomettere l’altro al mio sapere, ma sottoporre questo a lui, che sfuggo definitivamente alla tentazione demiurgica di Frankenstein. Congedo: evitare sempre la fretta di concludere Dominique Lecourt considera il racconto di Mary Shelley come un monito contro il fascino che “l’inebriante bevanda” della conoscenza esercita sugli uomini. Per Shelley l’ordine naturale merita rispetto, e può indicare ciò che separa il bene dal male. Per l’uomo, voler infrangere questo ordine significa compiere “un’opera empia” e il dottor Frankenstein lo ha scoperto a sue spese. Per Dominique, la scelta di Shelley di far rinunciare Walton, l’esploratore, alla sua ricerca da a intendere che la scienza ha raggiunto i suoi limiti e sarebbe pericoloso oltrepassarli. In un certo senso si parla di “congelare il progresso delle conoscenze più preziose”. Invece di inventare nuovi valori che corrispondano a un accrescimento dell’essere, si parlerebbe di demonizzare qualunque prospettiva perché nessuno metta in discussione i dogmi e le sette che li difendono. Frankenstein diventerebbe una fiaba filosofica in grado di scongiurare le pericolore avanzate di una scienza minacciosa. Però, l’accusa contro la conoscenza, quand’anche fosse quella scientifica, non è mai innocente. “scienza senza coscienza significa solo rovina dell’anima” ripetono molti. Ma cosa sarebbe invece la coscienza senza la scienza? Solo un pensiero, qualcosa che si avvicina a un’emozione schiacciata sotto il peso di avvenimenti che non sarebbe in grado di comprendere e dominare. Questo perché la scienza è lo strumento con cui prevediamo e anticipiamo, per non dover rifare sempre gli stessi errori. La scienza è libertà, acquisita a così caro prezzo nel corso dei secoli, per predisporre un territorio in cui vivere senza dipendere da intemperie e di comunicare con i nostri simili capendoci. La scienza è la speranza di non soffrire molto nel fisico e di far arretrare la malattia. Bisogna quindi diffidare del mito di Frankenstein, preoccuparsi per l’oscurantismo di cui potrebbe essere la culla. Bisogna evidenziare i limiti che escono fuori dal racconto per studiare e fare ancora ricerca sull’educazione. Non si fabbrica un soggetto accumulando influenze o condizionamenti; non si fa un allievo aggiungendo conoscenze su conoscenze; non si produce meccanicamente l’intenzione di imparare organizzando dei dispositivi. In più, non si permette neppure che un soggetto si costruisca da solo, restando indifferenti alle influenze che riceve e privandolo di conoscenze.  La pedagogia non deve ingannarsi sul suo compito. Deve inventare senza sosta condizioni che rendano possibile la condivisione dei saperi, la gioia di scoprirlo, la felicità di trovarsi nella posizione di accettare l’eredità degli uomini, di prolungarla e di superarla. Essa deve perseguire e intensificare le sue ricerche e i suoi lavori su questioni che restano ampiamente inesplorate.  La pedagogia è praxis e deve lavorare per questo incessantemente sulle condizioni per lo sviluppo delle persone e nello stesso tempo circoscrivere il suo potere per lasciare che l’altro occupi il suo posto. Essa è azione precaria e difficile, ostinata e tenace, ma che diffida sempre dalla fretta di concludere.
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