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Riassunti interamente sostitutivi Il processo esecutivo volume 3 LUISO, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Riassunti interamente sostitutivi de Il processo esecutivo volume 3 LUISO XI edizione - luglio 2020

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 11/02/2021

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paolo365 🇮🇹

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Scarica Riassunti interamente sostitutivi Il processo esecutivo volume 3 LUISO e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Il processo esecutivo Cap.1 L’esecuzione forzata nel quadro dell’ordinanento Per delineare la funzione dell'esecuzione forzata, disciplinata nel II libro del c.p.c., dobbiamo richiamare alcune nozioni generali. Qualunque sistema normativo opera prendendo in considerazione i comportamenti umani e qualificandoli alternativamente come leciti o doverosi. Alcune norme danno facoltà di compiere certe attività e altre norme viceversa vietano il compimento di altre attività. Di solito, al di fuori del settore penalistico, il legislatore prevede che il comportamento, qualificato come doveroso, sia funzionale alla realizzazione di un interesse altrui, che assurge quindi alla dignità di situazione sostanziale protetta. Il legislatore assicura una certa utilità ad un soggetto, gli garantisce cioè un bene della vita. Qui dobbiamo fare la prima, importante distinzione: alcune situazioni sostanziali protette si attuano, per cosi dire, fornendo al loro titolare poteri di comportamento in relazione ad un determinato bene e facendo semplicemente obbligo a tutti gli altri soggetti dell' ordinamento di non inframmettersi tra il titolare del diritto e il bene garantito: cioè imponendo a carico di tutti gli altri soggetti dei doveri di astensione. Se si pensa, ad es., alla struttura del diritto di proprietà o di un diritto personale di godimento come la locazione, si capisce che il conduttore e il proprietario non hanno bisogno della cooperazione di nessun altro per trarre dal bene tutta l'utilità che l'ordinamento loro garantisce. Essi hanno bisogno solamente che non sia loro impedito di utilizzare i poteri che l'ordinamento loro attribuisce. Queste situazioni sono chiamate finali. Talvolta, al contrario, si constata che l'interesse, che costituisce la situazione sostanziale protetta, è garantito non dall'attività indisturbata del titolare del diritto, ma da un comportamento attivo (non di astensione) di un altro soggetto, senza il quale comportamento la situazione sostanziale non è soddisfatta. Queste situazioni sono chiamate strumentali. Accanto a questa prima distinzione fra situazioni finali e situazioni strumentali, ne dobbiamo porre una seconda fra doveri di comportamento primari e secondari. Talvolta i doveri sono primari, nel senso che attuano lo svolgimento fisiologico della situazione sostanziale: si tratta di tutti quei casi in cui, sul piano del diritto sostanziale, è previsto come obbligo primario quello di tenere un certo comportamento attivo. Talvolta i doveri sono secondari, in quanto nascono da un precedente illecito: nascono dal fatto che esisteva un altro dovere a monte, che non è stato rispettato; a ciò consegue, per regola di diritto sostanziale, la nascita di un dovere di contenuto diverso che possiamo chiamare secondario, perché origina da un precedente dovere inadempiuto, e che ha una funzione in senso lato ripristinatoria. Esempio: l'art. 2043 c.c. prevede il risarcimento del danno per fatto illecito. La norma stabilisce in primis il dovere di non ledere i diritti altrui; se il dovere primario è violato, dall'illecito compiuto nasce un obbligo risarcitorio, che è un obbligo secondario perché sorge dalla violazione di un dovere primario. Ora, il problema che si deve porre qualunque ordinamento è il seguente: che cosa accade quando il soggetto, che dovrebbe tenere il comportamento satisfattivo del diritto altrui, in realtà non tiene tale comportamento e contravviene all'obbligo che l'ordinamento gli impone (cioè realizza un illecito)? Dal punto di vista che ci interessa è assolutamente indifferente che i doveri di comportamento violati siano omissivi o commissivi (cioè siano correlati ad una situazione finale o ad una situazione strumentale), oppure siano primari o secondari. Ai fini della tutela esecutiva, è sufficiente che sul piano del diritto sostanziale - in prima battuta come per il mutuo (dovere primario), o in seconda battuta come per la restituzione del bene al proprietario, o il risarcimento dei danni da fatto illecito (doveri secondari) - non sia stato tenuto quel comportamento, che è necessario per dare al titolare del diritto l'utilità che l'ordinamento gli garantisce, allorché gli riconosce una situazione sostanziale protetta rispetto ad un certo bene. Quando ci troviamo di fronte alla violazione di un dovere di comportamento, previsto a favore di un altro soggetto (fenomeno che in seguito chiameremo "inadempimento, anche se non sempre tale termine è tecnicamente corretto) evidentemente non serve una tutela in via dichiarativa: quella tutela, disciplinata nel II libro del c.p.c., che porta a statuire sui reciproci diritti ed obblighi delle parti. Qui occorre far sì che l'avente diritto riceva quell'utilità che, secondo diritto sostanziale, gli dovrebbe provenire dall'adempimento dell'obbligato. Oltretutto la tutela dichiarativa è insutficiente, perché, quand'anche si giunga a stabilire che effettivamente Tizio ha sottratto il bene a Caio e quindi è obbligato a restituirlo, niente esclude che l'inadempimento dell'obbligato come esisteva prima della pronuncia dichiarativa cosi permanga anche dopo di essa. A fronte dell'inadempimento di obblighi imposti dal diritto sostanziale, talvolta è lo stesso avente diritto che può sostituirsi all'obbligato con la propria attività sul piano del diritto sostanziale, per ottenere quel risultato utile che l'ordinamento gli garantisce e che non ha ottenuto con lo spontaneo adeguamento dell'obbligato alla regola di condotta di diritto sostanziale. Talvolta il titolare della situazione protetta, a fronte dell'inattività dell'obbligato, può sul piano del diritto sostanziale fare qualcosa per procurarsi autonomamente quella utilità che non gli è provenuta dal comportamento dell'obbligato; e ciò sia prima che dopo l’eventuale processo di cognizione che statuisca sul modo di essere dei rapporti tra le parti. Esempio: il conduttore Tizio ha diritto che il locatore Caio faccia delle opere di restauro del bene locato. Caio non compie tali opere. Anche in questo caso Tizio, vuoi prima dell'eventuale processo di cognizione, vuoi anche dopo che il giudice abbia accertato che il locatore effettivamente è tenuto a quell'opera di manutenzione, può fare da solo le opere di manutenzione a cui era obbligato il locatore, residuando così un diritto al rimborso delle spese sostenute, ed eventualmente ai danni. Anche in questo caso l'avente diritto può sostituirsi a colui che doveva rendersi attivo nel suo interesse. Ma non sempre sul piano del diritto sostanziale è possibile quest'attività sostitutiva. Non sempre l'avente diritto può autonomamente (cioè con strumenti di diritto sostanziale) procurarsi l'utilità che gli era garantita dall'ordinamento (salvo sempre e ovviamente l'eventuale risarcimento dei danni nei confronti dell'inadempiente). Il diritto sostanziale è definitivamente impotente: occorre uno strumento che possa fornire all' avente diritto quell'utilità, che gli spetta secondo diritto sostanziale, e che non ha ricevuto. Questo strumento è appunto l'esecuzione forzata. Ma prima di procedere oltre dobbiamo chiarire che, da un punto di vista generale, la tutela dichiarativa non costituisce affatto un prius, logico e cronologico, rispetto alla tutela esecutiva. Sarebbe un grave errore pensare che in sede esecutiva si attui quanto previsto in sede dichiarativa, e che l'oggetto dell'esecuzione sia appunto l'atto di accertamento (sentenza, lodo). Ciò può essere vero, dal punto di vista del diritto positivo, solo se l'ordinamento prevede che lesistenza di un atto di accertamento costituisce presupposto indispensabile per avere accesso alla tutela esecutiva. Ma non è così per l'esecuzione forzata civile, presupposto della quale possono essere anche atti, che non hanno la caratteristica di impartire tutela dichiarativa (atti di notaio, titoli di credito), sicché il previo ricorso alla tutela dichiarativa da parte del titolare del diritto possibile garantisce maggiormente il raggiungimento del risultato voluto. L'esecuzione indiretta in astratto potrebbe essere usata sia per gli obblighi infungibili che per quelli fungibili (si pensi all'arresto per debiti, previsto fino a poco più di cento anni fa), ma di solito è utilizzata prevalentemente per quelli infungibili, perché come tecnica esecutiva ha degli inconvenienti. a) anzitutto, gli strumenti coattivi operano sulla volontà dell' obbligato, e quindi possono essere inefficaci, ove l'obbligato sia particolarmente determinato a non adempiere. b) in secondo luogo, lo strumento coattivo di natura penale costituisce un ulteriore appesantimento per una giurisdizione - quella penale - sovraccarico, non riesce ad applicare la sanzione che è già sovraccarica, e che spesso, proprio a causa di questo c) lo strumento coattivo di natura civile, a sua volta, è un'arma spuntata nei confronti di chi non ha un patrimonio con cui rispondere dell'obbligazione pecuniaria. In direzione speculare, l'esecuzione indiretta non serve se l'obbligato ha un patrimonio talmente ingente, da essere insensibile al pagamento della somma. E noto l'episodio del ricchissimo romano che si divertiva a schiaffeggiare le persone che incontrava, ed era seguito da un servitore, che pagava immediatamente allo schiaffeggiato la sanzione pecuniaria prevista per le percosse. Inoltre, se la somma dovuta va alla controparte, è necessario porre un limite massimo ad essa, per evitare che si verifichi un ingiustificato arricchimento dell'avente diritto. Questo inconveniente è evitato se si prevede una misura coercitiva, nella quale le somme pagate dall'inadempiente vadano alla collettività (ad es., allo Stato), invece che all'avente diritto. Ci dobbiamo ora chiedere cosa accada nell’ipotesi in cui l'esecuzione indiretta sia utilizzata per un diritto (accertato poi) inesistente. Le soluzioni astrattamente possibili sono due. Da un lato, si può affermare che, ai fini della sussistenza dell'illecito, basta il mero dato della inottemperanza, essendo del tutto irrilevante la sorte che il provvedimento inottemperato ha nelle ulteriori fasi del processo. Dall'altro lato, si può affermare che, ove nelle successive fasi del processo si accerti che il comportamento era lecito (o, più in generale, venga rimosso, caducato, annullato l provvedimento inottemperato), viene meno l'illecito. Non si commette alcun illecito, rimanendo inottemperanti ad un provvedimento riconosciuto ingiusto, illegittimo, etc., nella sede prevista appositamente per sindacarne la conformità al diritto. Solo la seconda soluzione è conforme ai principi costituzionali, che sul punto sono molto chiari: non si può sanzionare l'inottemperanza ad un provvedimento autoritativo, che sia dichiarato illegittimo o inefficace nelle sedi previste dall'ordinamento. Esempio: una legge stabilisce che chi critica il capo dello Stato paga una multa. Durante il processo che ha ad oggetto l'applicazione della sanzione pecuniaria, viene sollevata questione di costituzionalità, e la Corte costituzionale dichiara la norma illegittima. Il soggetto, che ha criticato il capo dello Stato, non può più subire la sanzione, perché la caducazione della norma ha effetto retroattivo. Esempio: il T.A.R. dichiara illegittimo un provvedimento amministrativo che obbliga Tizio a pagare una certa somma. Una volta che il provvedimento è annullato, Tizio non deve più pagare, perché cadono tutti gli effetti connessi al provvedimento. E, se ha pagato, ha diritto alla restituzione. In tutti i casi sopra visti, l'interessato ha il diritto di non ottemperare al provvedimento autoritativo (legge, atto amministrativo) che è stato dichiarato illegittimo; ed ha diritto anche a non essere sanzionato per la mancata ottemperanza, giacché la sua inottemperanza era secundum ius. Ma se ciò è vero, perché solo per i provvedimenti giurisdizionali dovrebbe valere il contrario? Perché solo i provvedimenti giurisdizionali dovrebbero avere questa sorta di super- efficacia? Perché solo ai provvedimenti giurisdizionali dovrebbe essere dovuta una "obbedienza pronta, cieca e assoluta"? E’ evidente allora che l'unica soluzione che rispetta i principi costituzionali è la seconda: se il giudice, nella sede competente, dichiara che chi ha subito l'esecuzione indiretta aveva il diritto di tenere oppure di non tenere il comportamento a lui rispettivamente vietato o imposto, allora ha fatto bene quel soggetto a non ottemperare all' ordine del giudice: egli aveva il diritto di non ottemperare. Quindi, una volta riformato il provvedimento, cade la sanzione penale e, se si tratta di sanzione civile, le somme pagate gli devono essere restituite. Se accettassimo l'altra tesi, si ritornerebbero ad applicare, ai provvedimenti del giudice, principi superati da due secoli: si ritornerebbe allo stadio anteriore allo Stato di diritto. Come si è già detto, l'esecuzione diretta deve diversamente strutturarsi a seconda del tipo di comportamento che deve sostituire: se il comportamento da sostituire è quello di pagare una somma di denaro, l’ufficio esecutivo deve compiere certe attività, se il tipo di comportamento da sostituire è quello di consegnare un bene individuato, l'ufficio esecutivo deve compiere altre attività; se il tipo di comportamento è fare una qualunque cosa diversa da quelle precedentemente viste, l’ufficio esecutivo deve compiere altre attività ancora. Abbiamo cosi, nel nostro sistema, tre diverse tecniche di tutela esecutiva (diretta): l'espropriazione forzata, per i crediti di danaro; l’esecuzione per consegna o rilascio, per il trasferimento del potere di fatto su beni mobilio immobili; l'esecuzione per obblighi di fare, in via residuale, per tutti i comportamenti diversi dai due visti finora (cioè pagamento e consegna o rilascio), e che siano fungibili. Se il comportamento da sostituire è infungibile, si fuoriesce dalla sfera di utilizzabilità dell'esecuzione diretta, e si deve passare all'esecuzione indiretta. Questa, peraltro, come vedremo, è utilizzabile anche per gli obblighi fungibili diversi dal pagamento di somme di denaro. Cap.3 I presupposti e il contenuto delle misure giurisdizionali esecutive Prima di passare all'esame delle tre tecniche di tutela esecutiva diretta che abbiamo individuato, dobbiamo premettere alcune notazioni generali relative alle norme contenute nel titolo I del libro II del c.p.c., in quanto tali norme valgono per tutti i tipi di esecuzione forzata (espropriazione, esecuzione per consegna e rilascio, esecuzione degli obblighi di fare). Dal punto di vista generale esiste una differenza fondamentale fra la tutela dichiarativa (disciplinata nel II libro del codice) e la tutela esecutiva. Constatiamo subito che i presupposti perché si metta in moto la macchina processuale, perché divenga doverosa l'attività dell'ufficio giurisdizionale, sono nettamente diversi nell'una e nell'altra ipotesi. Il presupposto della tutela dichiarativa è costituito dalla semplice affermazione, da parte di chi richiede tale tutela giurisdizionale, che esiste una situazione sostanziale che ha bisogno di quel tipo di tutela; in altri termini, affinché nel processo cognitivo si possa giungere alla emanazione della sentenza che determina i comportamenti leciti e doverosi delle parti, è sufficiente oltre ovviamente al rispetto dei presupposti processuali, quindi delle regole processuali che disciplinano l'agire delle varie parti del processo che sia affermata l'esistenza di una situazione sostanziale e che per tale situazione sia richiesta una tutela dichiarativa. L'unico limite che si incontra è quello dell'interesse ad agire: non si ha diritto di chiedere una tutela dichiarativa, quando ciò che si chiede non è utile, oppure può essere ottenuto per altra via. Tuttavia, se è vero che è sufficiente affermare l'esistenza del diritto, di cui si chiede la tutela dichiarativa, per ottenere dal giudice la sentenza, è anche vero (e qui sta la prima, rilevante differenza tra tutela dichiarativa e tutela esecutiva) che la sentenza, che il giudice dovrà emettere sulla base della sola richiesta, può essere di contenuto positivo o negativo per il richiedente. Può essere, cioè, una sentenza con cui si dà ragione all' attore, tutelando la situazione sostanziale da lui affermata, e dando regole di condotta che soddisfano l'attore; cosi come può essere una sentenza con cui si dà torto all'attore, negandogli la tutela richiesta. Quindi: nel processo di cognizione, sulla base della sola affermazione dell'esistenza della situazione sostanziale, rispetto alla quale si chiede di determinare le regole di condotta, il giudice è nel dovere di emettere la sentenza; tuttavia niente assicura che tale sentenza dia le regole di condotta che l'attore invoca: ben può essere invece che, al termine del processo di cognizione, il giudice stabilisca che l'attore ha torto e non ha diritto alla tutela giurisdizionale che ha richiesto. Ampliando il discorso ai possibili esiti del processo di cognizione, vediamo che i contenuti della misura giurisdizionale dichiarativa possono essere cosi definiti: in primo luogo, avremo una sentenza con cui il giudice dichiara che non esistono le condizioni processuali per dare le regole di condotta relative al diritto dedotto in giudizio. Tali sentenze che convenzionalmente si chiamano sentenze di rito per contrapporle alle sentenze di merito sono provvedimenti che il giudice emette quando è carente anche una sola delle condizioni affinché possa scendere all'esame del merito. Esempio: il giudice che non ha giurisdizione o che non ha competenza non può scendere all' accertamento della realtà sostanziale, ma deve fermarsi sulla « porta » del merito e dire: « siccome non ho giurisdizione, mi manca il potere di determinare le regole di condotta con riferimento al diritto che l'attore ha affermato esistente nell'atto introduttivo del processo»; e lo stesso per la carenza di qualunque altro presupposto processuale. Una volta che si sia superato positivamente l'esame delle condizioni per la pronuncía di merito, ecco che il contenuto della sentenza di merito si bipartisce: da un lato avremo la sentenza di merito con cui si accoglie la domanda e si dà la tutela richiesta, in quanto si accerta esistente il diritto dedotto in giudizio, meramente affermato dall'attore nel suo atto introduttivo e divenuto oggetto del processo di cognizione; dall'altro lato avremo una sentenza di merito con cui si rigetta la domanda, si rifiuta la tutela richiesta, in quanto si accerta che non esiste il diritto meramente affermato dall’attore. Avremo quindi nel secondo «corno» del dilemma cioè in quello relativo alla sentenza di merito una sentenza di merito di accoglimento della domanda, di accertamento dell'esistenza del diritto, e una sentenza di merito di rigetto della domanda, di accertamento della inesistenza del diritto. Il fatto che la pronuncia di merito possa avere, nel processo di cognizione, un contenuto positivo o negativo, é un fenomeno strettamente collegato a ciò che, per giungere a tale sentenza- oltre ovviamente al rispetto dei presupposti processuali- è sufficiente che l'attore si limiti ad affermare che esiste il diritto, proprio perché l'attività da compiere prima di giungere alla sentenza di merito è quella di raccogliere tutto il materiale necessario per decidere se quel diritto esiste o meno. E quindi evidente che, essendo scopo del processo di cognizione proprio determinare le regole di condotta relative ad un certo bene della vita giuridicamente protetto, per mettere in moto il processo è sufficiente che l'attore affermi esistente il proprio diritto. Se passiamo al processo esecutivo, ci accorgiamo che la situazione è diversa. Perché si possa giungere all'emanazione della misura giurisdizionale esecutiva, non è affatto sufficiente che il creditore procedente si affermi titolare di un diritto che, per essere soddisfatto, necessita dell’ adempimento della controparte; sono necessarie ulteriori condizioni (oltre all'affermazione del diritto e, ovviamente, alla sussistenza dei presupposti processuali) perché si possa giungere all' emanazione della misura giurisdizionale che il creditore richiede. Inoltre, e principalmente, la tipologia delle risposte dell’ufficio esecutivo non è tripartita, durata. II titolo esecutivo costituisce «l'energia» del processo esecutivo. Quindi non è sufficiente che il titolo esecutivo sopravvenga nel corso del processo esecutivo; come, inversamente, non è sufficiente che il titolo esecutivo esista quando si inizia il processo, se esso viene meno in corso di causa. L'art. 474, I c.p.c. stabilisce che l’esecuzione forzata non può aver o luogo che in virtù di un titolo esecutivo « per un diritto certo, liquido, ed esigibile ». La giurisprudenza e la dottrina hanno discusso molto al riguardo, giungendo alle seguenti conclusioni. a) L'espressione "diritto certo” si riferisce essenzialmente all'esecuzione per consegna o rilascio, all'esecuzione per obblighi di fare ed all’esecuzione indiretta. La certezza consiste nell'individuazione del bene oggetto dell'intervento esecutivo e del «fare» che deve essere compiuto. L'individuazione di ciò che dev'essere compiuto non è necessaria nella consegna o rilascio, perché è già tipizzata dal legislatore: si tratta sempre del trasferimento della materiale disponibilità di un bene mobile o immobile da colui, che esercita attualmente siffatta materiale disponibilità ed è obbligato alla consegna o rilascio, a colui che ha diritto di ottenere la materiale disponibilità del bene. L'esecuzione per obblighi di fare non è invece tipizzata dal legislatore: il fare può consistere nel costruire una strada, un acquedotto, nel demolire un muro; e quindi il titolo esecutivo deve contenere l'individuazione non solo del bene su cui si deve operare, ma anche del tipo di intervento necessario. Anche l'esecuzione per obblighi di omettere non è tipizzata dal legislatore. b) L'espressione "diritto liquido” si riferisce essenzialmente ai crediti relativi a somme di denaro (o più in generale a quantità di cose fungibili) ed è l'equivalente della « certezza » riferita ai diritti su beni individuati; il credito che spetta deve essere quantificato numericamente, direttamente nel titolo esecutivo, oppure quantificabile con operazioni matematiche sula base di elementi contenuti nello stesso titolo. La liquidità, pertanto, sussiste sia quando la somma dovuta è già numericamente quantificata nel titolo esecutivo (ad es., la sentenza condanna Tizio a pagare a Caio 1.000,00E), oppure quando il titolo esecutivo, pur non individuando numericamente la somma dovuta, contiene gli elementi per poterla calcolare con operazioni matematiche. Esempio: la sentenza condanna Tizio a pagare a Caio la somma di 1.000,00 E, più gli interessi legali dalla domanda al saldo. Il titolo esecutivo non quantifica gli interessi, che però possono essere determinati moltiplicando il saggio degli interessi legali per il periodo di tempo intercorrente dalla domanda giudiziale al pagamento: 1.000,00 per tre anni al tasso di interesse del 5% danno altri 150,00. Più incerta è la disciplina della rivalutazione. La condanna alla rivalutazione è certamente calcolabile con un'operazione matematica, perché basta moltiplicare il tasso d'inflazione per il capitale. Il problema è che il tasso di inflazione di solito non risulta dal titolo esecutivo. Occorre tuttavia tener conto che la giurisprudenza fa un’eccezione per il titolo esecutivo giudiziale (Cass. 2 luglio 2012 n. 11066). Prendendo spunto dal fatto che, in materia di efficacia dichiarativa della sentenza, per chiarire la portata precettiva della stessa pacificamente si può far riferimento a elementi esterni ed extratestuali, non desumibili dal titolo, ma risultanti dagli atti del processo, la Cassazione ha esteso la stessa regola anche al titolo esecutivo giudiziale. Un'altra rilevantissima eccezione alla regola della liquidità sopra enunciata è costituita, come vedremo a suo tempo, dall'art. 614-bis c.p.c. c) Il diritto esigibile significa non sottoposto a termine o condizione (naturalmente sospensiva). Ovviamente il dato dell'esigibilità non deve deve essere riferito al momento della formazione del titolo ma al momento dell'esecuzione forzata. Un'ipotesi di non esigibilità è prevista dall' art. 478 c.p.c., quando e l'efficacia del titolo esecutivo è subordinata alla prestazione di una cauzione. In taluni casi il giudice può emettere un provvedimento che ha efficacia esecutiva, subordinando l'esecutività dello stesso al fatto che il creditore presti una cauzione. In questi casi, secondo l'art. 478 c.p.c., « non si può iniziare l'esecuzione forzata finché questa non sia stata prestata ». Analogamente dispone lart. 669-novies, Ill c.p.c., con riferimento ai provvedimenti cautelari. La cauzione, quindi, non costituisce requisito per l'emanazione del provvedimento, sibbene presupposto dell'efficacia esecutiva dello stesso. I secondo comma dell'art. 474 c.p.c. elenca i titoli esecutivi, suddividendoli in tre categorie. La prima categoria è quella dei titoli esecutivi giudiziali. Sono tali le sentenze di condanna e non quelle di mero accertamento; non quindi, le sentenze con le quali si accerta il diritto di una delle parti in relazione alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, ma quelle con le quali si condanna l'obbligato a tenere una certa prestazione. Tutte le sentenze di condanna, in qualunque sede emesse, hanno efficacia esecutiva, Ai titoli esecutivi giudiziali si possono ricondurre anche le ordinanze (ad es., l'ordinanza di convalida di licenza o sfratto oppure quelle previste dagli artt. 186-bis, ter e quater c.p.c.), e dei decreti (ad es., il decreto ingiuntivo o il decreto previsto dall'art. 28 dello statuto dei lavoratori). La riforma del 2006 ha aggiunto l'espressione "e gli altri atti" alle parole "le sentenze e i provvedimenti". Con ciò si è voluto risolvere la vexata quaestio dell'efficacia esecutiva del verbale di conciliazione giudiziale: la conciliazione è quel modo di chiusura del processo che si ha quando le parti si trovano d'accordo per una risoluzione consensuale della controversia; l'accordo è recepito nel verbale della causa, che viene sottoscritto in udienza dalle parti e dal giudice, e costituisce titolo esecutivo (art. 185, ult. comma, c.p.c.). Poiché, per talune forme di esecuzione, l'ordinamento prevede l'esistenza di un titolo esecutivo giudiziale, ci si chiedeva se tale verbale fosse titolo esecutivo giudiziale (e quindi idoneo per qualunque forma di esecuzione torzata) o stragiudiziale (e quindi idoneo solo per l'espropriazione e non anche per le altre forme di esecuzione per le quali occorre un titolo giudiziale). Infatti, il verbale di conciliazione non è certamente un provvedimento. La modifica introdotta nel 2006 ha eliminato ogni dubbio, equiparando il verbale di conciliazione ai titoli esecutivi giudiziali. E ciò del tutto opportunamente: se le parti, durante l processo di cognizione, si trovano d'accordo, è assurdo che l processo debba andare avanti soltanto al fine che il giudice recepisca nella sua sentenza il loro accordo, perché altrimenti il verbale di conciliazione non sarebbe idoneo come titolo esecutivo. Ciò costituirebbe un assurdo spreco di attività processuale La seconda categoria di titoli esecutivi, prevista dall'art. 474 c.p.c., è costituita dalle scritture private autenticate e dai titoli di credito: le cambiali, gli assegni e gli altri titoli ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. Le scritture private autenticate costituiscono titolo esecutivo relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenute. Quindi non tutti gli obblighi contenuti in una scrittura privata sono suscettibili di dare luogo all'esecuzione forzata; lo sono soltanto gli obblighi relativi a somme di denaro. Pertanto le scritture private sono titoli esecutivi solo per l'espropriazione, e non per le altre forme di esecuzione forzata. Cosi il contratto di compravendita, stipulato di fronte al notaio in forma di scrittura privata (e non di atto pubblico), è titolo esecutivo per l'obbligo del compratore di pagare il prezzo, e non lo è invece per l’obbligo del venditore di consegnare il bene: infatti, l’obbligo del compratore ha ad oggetto il pagamento di una somma, e quindi il contratto è titolo esecutivo; l’obbligo del venditore ha ad oggetto la consegna del bene, e quindi la scrittura privata non è sotto questo aspetto titolo esecutivo. Si noti, peraltro, che quando l'art. 474 c.p.c. parla di scrittura privata fa riferimento non solo ai contratti, ma anche agli atti unilaterali, ad es., alle promesse di pagamento ed alle ricognizioni di debito (che sono quegli atti con cui un soggetto si obbliga a pagare una certa somma di denaro: art. 1988 c.c.). Per quanto riguarda, invece, i titoli di credito, la legge sulla cambiale e quella sull'assegno prevedono che questi siano titoli esecutivi solo se in regola con il bollo fin dal momento della loro emissione. Se non sono in regola con bollo fin dall'origine, valgono come titoli di credito, però non hanno efficacia esecutiva. La terza categoria di titoli esecutivi è costituita dagli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. Come espressamente previsto dall'art. 474, II c.p.c., l'atto pubblico costituisce titolo esecutivo anche in relazione all'esecuzione per consegna e rilascio. Dunque, quel contratto di compravendita che se stipulato di fronte al notaio per scrittura privata autenticata è titolo esecutivo solo in relazione all'obbligo dell'acquirente di pagare il prezzo e non anche in relazione all'obbligo del venditore di consegnare il bene -qualora, invece, di fronte allo stesso notaio sia stipulato per atto pubblico, costituisce titolo esecutivo sia a favore del venditore sia a favore dell'acquirente. Infine vi sono centinaia, se non migliaia, di altri titoli esecutivi che il legislatore individua qua e là, in tutta una miriade di leggi speciali. Si può dire che quasi non c'è legge in cui non sia previsto un titolo esecutivo. L'efficacia di titolo esecutivo deve comunque essere prevista espressamente dal legislatore e non può essere attribuita in via di interpretazione analogica. Fra le varie fattispecie di titolo esecutivo, mette conto segnalarne alcune che presentano un particolare interesse. Una di esse negli ultimi tempi è sempre più spesso prevista dal legislatore: si intende dire della conciliazione stragiudiziale, cioè di quel procedimento, che è volto a favorire una soluzione negoziale della controversia. Ebbene, proprio a questo scopo e cioè per invogliare le parti ad esperire il procedimento conciliativo, garantendo loro un risultato che, se la conciliazione riesce, è perfettamente equivalente alla tutela data da una sentenza il legislatore attribuisce all'accordo, raggiunto nelle sedi conciliative che lo stesso legislatore indica, l'efficacia piena di titolo esecutivo. Infatti, il verbale di conciliazione, autenticato dai legali che hanno assistito le parti oppure munito dell'exequatur del tribunale, costituisce titolo esecutivo "per l'espropriazione forzata, per l'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca giudiziale". Anche l'art. 5 del D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito con L. 10 novembre 2014 n. 162, stabilisce che l'accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita costituisce titolo esecutivo. Un'altra interessante fattispecie è prevista dall'art. 12 del D.Lgs. 23 aprile 2004 n. 124. Sulla base di tale disposizione, ove il personale delle direzioni provinciali del lavoro, in occasione dello svolgimento della loro attività di vigilanza, verifichi la inosservanza, da parte del datore di lavoro, di disposizioni da cui scaturisce la sussistenza di crediti a favore del lavoratore, diffida lo stesso datore di lavoro a corrispondere quanto dovuto. Tale diffida decorsi trenta giorni senza che sia stato trovato un accordo fra datore di lavoro e lavoratore acquista efficacia di titolo esecutivo a favore del lavoratore per le somme ivi indicate. La particolarità di questa fattispecie di titolo esecutivo sta in ciò, che qui l'atto amministrativo della P.A. costituisce titolo esecutivo non già a favore della P.A. stessa, sibbene a favore di un terzo. Ovviamente l'atto della P.A. non ha alcuna efficacia preclusiva, e quindi il datore di lavoro può far valere tutte le sue difese di merito in sede di opposizione all'esecuzione, senza limite alcuno. Inoltre, dal momento che non è previsto alcun onere di impugnativa, il datore di lavoro può far valere in sede di opposizione all'esecuzione anche le eventuali invalidità dell'atto. Dopo aver visto quali sono i titoli esecutivi enunciati nell’art. 474 c.p.c. e quali sono le condizioni in presenza delle quali l'ordinamento riconosce ad una situazione sostanziale il dichiarativa strumentale solo all'ottenimento della tutela esecutiva Cap.5 Il titolo esecutivo in senso sostanziale e il titolo esecutivo in senso documentale Bisogna ora chiarirei rapporti tra il titolo esecutivo ed il diritto che si vuol tutelato con l'esecuzione: il titolo esecutivo sta fuori e prima dell'esecuzione; esso non è l'oggetto dell'esecuzione, ma la fattispecie in presenza della quale si ha l'azione esecutiva, il diritto processuale alla tutela esecutiva del diritto sostanziale. Oggetto della tutela esecutiva non è il titolo esecutivo, sibbene il diritto sostanziale da tutelare. Ciò significa che l'esecuzione forzata costituisce l'attuazione non del provvedimento del giudice, sibbene della situazione sostanziale protetta. Questa fondamentale precisazione è avvenuta in sede di processo civile e non di processo amministrativo o penale, perché in questi ultimi l’esecuzione presuppone sempre un provvedimento giurisdizionale (o quantomeno con riferimento alla giurisdizione amministrativa, ma solo da poco un atto di accertamento, come il lodo arbitrale), mentre nel processo civile l’esecuzione può prescinderne, in quanto esistono anche i titoli esecutivi stragiudiziali. L'esistenza dei titoli esecutivi stragiudiziali ha costretto a rimeditare sulla specificazione del termine « esecuzione » e ha imposto di concludere che l termine « esecuzione » si riferisce non al provvedimento giurisdizionale, ma al diritto sostanziale. Infatti non avrebbe senso parlare di « esecuzione della cambiale », o di « esecuzione della scrittura privata, o dell'atto notarile ». Si può parlare di una esecuzione in base ala sentenza, ma non di esecuzione della sentenza. Se, invece, si guarda il codice di procedura penale, si trova tuttora che la parte relativa all'esecuzione forzata è intitolata come « esecuzione delle sentenze ». E nel processo amministrativo l'esecuzione forzata si chiama «esecuzione del giudicato». La esistenza dei titoli esecutivi stragiudiziali ha consentito di mettere a fuoco i rapporti tra titolo ed esecuzione, e di rendersi conto che il titolo esecutivo è la fattispecie che consente lo svolgimento dell'esecuzione forzata, ne costituisce un presupposto processuale specifico, e non è invece l'oggetto dell'esecuzione, l'elemento che deve essere preso in considerazione per affrontare i vari problemi che sorgono in tema di esecuzione forzata. L'attenzione va sempre concentrata sulla tutela esecutiva del diritto sostanziale, consentita dal e non misurata sul titolo esecutivo. I rapporto tra il titolo esecutivo ed il diritto da tutelare è il rapporto tra la fattispecie che rende possibile lo svolgimento dell'esecuzione forzata e l'oggetto dell’esecuzione stessa. L'aver riportato l'oggetto dell'esecuzione all'attuazione non del provvedimento del giudice ma del diritto sostanziale è determinante, perché la struttura del processo esecutivo si deve adattare al tipo di diritto che si vuole tutelare (più specificamente al tipo di dovere correlato a tale diritto), e non al tipo di provvedimento che funge da presupposto. L’attenzione va quindi portata sulla situazione sostanziale, perché è questa determinante per stabilire che cosa si deve, che cosa si può, e che cosa non si può o non si deve fare all'interno dell'esecuzione forzata, e non sul fatto che titolo esecutivo sia un provvedimento del giudice, o una cambiale, o un atto notarile. I titolo esecutivo costituisce l presupposto, non l'oggetto dell'attuazione esecutiva; quindi non al provvedimento, sibbene al diritto occorre rifarsi per stabilire come deve atteggiarsi la tutela esecutiva: se cambia il presupposto, ma resta immutato il diritto da tutelare, l'esecuzione forzata rimane sempre la stessa. Al contrario, se è identico il presupposto, ma muta il diritto da tutelare, l’esecuzione forzata è, per necessità di cose, diversa. Quanto appena detto ci porta ad un'altra, importante considerazione: l’esistenza del titolo esecutivo è condizione sufficiente per la tutela esecutiva. La fattispecie prevista dall'art. 474 c.p.c. produce da sola il seguente effetto giuridico: il titolare della situazione sostanziale, descritta nel titolo esecutivo, ha il diritto di rivolgersi all'ufficio esecutivo e I'ufficio esecutivo ha il dovere di porre in essere la propria attività, di svolgere la propria funzione a tutela della situazione sostanziale indicata nel titolo. Il titolo esecutivo è condizione sufficiente per la tutela esecutiva, e chi ha suo favore il titolo esecutivo ha diritto a pretendere l'intervento giurisdizionale (naturalmente nel rispetto delle regole del processo esecutivo). L'effetto di natura processuale (cioè il diritto all'intervento dell' ufficio esecutivo ed il dovere dell' ufficio esecutivo di attivarsi) scaturisce dal titolo esecutivo e solo dal titolo esecutivo; tuttavia l'esistenza di questo effetto (processuale) non incide sulla liceità dell'esecuzione forzata sul piano del diritto sostanziale. Non è sufficiente che sussista un titolo esecutivo, perché l'intervento degli organi esecutivi - che è dovuto sul piano processuale - sia lecito sul piano sostanziale. Affinché l'attività esecutiva sia lecita sul piano sostanziale, è necessaria l'effettiva esistenza del diritto da tutelare. L'aver diritto alla tutela esecutiva significa che colui che la richiede deve ottenerla, anche se nei confronti della controparte sta commettendo un illecito. L'ufficio esecutivo non può rifiutare la propria attività. Però quanto l'ufficio esecutivo compie costituisce, sul piano del diritto sostanziale, un illecito di cui risponde chi ha chiesto all'ufficio esecutivo di intervenire. Ciò può essere agevolmente ricavato dall'art. 6, l c.p.c., in base al quale si può fruire della tutela esecutiva, e tuttavia essere obbligati al risarcimento dei danni, se non esiste il diritto, di cui si è richiesta la tutela esecutiva. Dobbiamo quindi distinguere il piano del diritto processuale alla tutela esecutiva (che si fonda esclusivamente sulla fattispecie enunciata nell'art. 474 c.p.c.) e la liceità dell'attività esecutiva sul piano del diritto sostanziale, perché la liceità dipende dall'esistenza del diritto che si vuole avere tutelato e non dall'esistenza del diritto alla tutela esecutiva. Da quanto appena visto, emerge chiaramente la possibilità di una utilizzazione illecita della tutela esecutiva. Dal momento che i risultati dell'esecuzione forzata non sono leciti (= conformi al diritto sostanziale) per il solo fatto che sono prodotti da uno strumento giurisdizionale, ciò significa che l'esecuzione forzata può essere utilizzata [si può accertare, ad esecuzione conclusa, che essa è stata utilizzata] per produrre un effetto contrario al diritto sostanziale, e che, quindi, chi la utilizza commette la può accertare, ad esecuzione conclusa, che chi l'ha utilizzata ha commesso] un illecito dal punto di vista del diritto sostanziale. Né sembri strano che colui, il quale fa uso di un diritto (addirittura costituzionalmente protetto, come il diritto di azione), possa commettere un illecito. Difatti, altro è il diritto alla tutela, che è un diritto processuale verso lo Stato; altro è il diritto da tutelare, che è un diritto. sostanziale verso la controparte. Se l’esistenza del primo prescinde dall' esistenza del secondo; se quindi ha diritto di ottenere la tutela esecutiva anche chi non ha un diritto sostanziale da tutelare; da ciò consegue che chi ha fatto uso di uno strumento, messogli a disposizione dalla Stato, per tutelare diritti inesistenti, ha commesso un illecito sul piano del diritto sostanziale. La tutela esecutiva è come un'arma che lo Stato fornisce: chi la usa male, ne risponde sul piano del diritto sostanziale. Dobbiamo ora distinguere le nozioni di titolo esecutivo in senso sostanziale e di titolo esecutivo in senso documentale. Per titolo esecutivo in senso sostanziale si intende la fattispecie da cui sorge l'effetto giuridico di rendere tutelabile in via esecutiva una situazione sostanziale protetta. l titolare di questa situazione ha diritto all'intervento degli organi giurisdizionali, che hanno l'obbligo di attivarsi. Nel rapporto (di diritto processuale) istante-organi esecutivi, l'esistenza di un titolo esecutivo in senso sostanziale fa si che vi sia una pretesa fondata dell'istante ed un dovere di comportamento dell'organo esecutivo: l'istante ha diritto alla tutela giurisdizionale esecutiva e l'ufficio esecutivo ha il dovere di attivarsi. Invece, nel rapporto (di diritto sostanziale) istante-esecutato, il titolo esecutivo non è idoneo a modificare la situazione di diritto sostanziale ed a rendere lecito un intervento esecutivo che, se doveroso sul piano processuale, è illecito sul piano del diritto sostanziale (e viceversa). I titolo esecutivo in senso sostanziale, nonostante il nome con cui è tradizionalmente identificato il fenomeno, costituisce quindi un istituto di diritto processuale ed è costituito dalla fattispecie da cui sorgono il diritto dell'istante ad ottenere la tutela esecutiva ed il dovere dell'ufficio esecutivo di attivarsi per fornire la tutela esecutiva. Come tutte le fattispecie produttive di effetti giuridici, anche questa e composta di elementi che possiamo distinguere in due settori. Da un lato vi sono gli elementi costitutivi dell'effetto giuridico: l'effetto si produce, allorché è completata la fattispecie costitutiva. Nasce allora, a favore del titolare del diritto, la pretesa esecutiva, il diritto processuale ad ottenere la tutela esecutiva ed il dovere dell'ufficio esecutivo di prestare la propria attività. Dall' altro lato vi sono gli elementi impeditivi, modificativi, estintivi in presenza dei quali l'effetto giuridico, pur quando si sia completata la fattispecie esecutiva, o non sorge (effetti impeditivi), oppure, una volta sorto, si modifica o si estingue. Diverso è il concetto di titolo esecutivo in senso documentale. Si è visto che il diritto (processuale) alla tutela esecutiva è l'effetto di una fattispecie complessa, composta da elementi costitutivi, impeditivi, modificativi, ed estintivi. Abbiamo indicato tale fattispecie, nella sua interezza, come titolo esecutivo in senso sostanziale. Accanto al titolo esecutivo in senso sostanziale esiste, però, anche il titolo esecutivo in senso documentale. Il nostro legislatore spesso utilizza lo stesso termine, senza distinguere, per indicare le due nozioni, e ciò rende più complesso il discorso. I titolo esecutivo in senso documentale è un documento che rappresenta in modo non completo la fattispecie del diritto a procedere ad esecuzione forzata. E una rappresentazione parziale della fattispecie del titolo esecutivo in senso sostanziale, perché tale rappresentazione può essere carente di un tatto costitutivo. Ad es., manca costantemente nel titolo esecutivo in senso documentale l'eventuale decorso del termine, che è fatto costitutivo del diritto a procedere ad esecuzione forzata. Ma al di là di tale ipotesi, in cui eccezionalmente nel titolo esecutivo in senso documentale manca la rappresentazione anche di un fatto costitutivo del diritto di procedere ad esecuzione forzata, la principale divergenza fra titolo esecutivo in senso documentale e titolo esecutivo in senso sostanziale si verifica nel settore dei fatti estintivi e modificativi del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Nella sentenza di primo grado, ad es., sono documentati solo i fatti costitutivi del diritto di procedere ad esecuzione. Ma il titolo esecutivo in senso documentale non può riportare l'eventuale sospensione dell'esecuzione da parte del giudice d'appello; oppure la riforma della. sentenza di primo grado in sede di appello; oppure la dilazione concessa dal creditore al debitore. Questi, ed altri, sono elementi successivi alla formazione del documento, e come tali in nessun modo possono essere rappresentati nel titolo esecutivo in senso documentale. Tali elementi sono tuttavia rilevanti per l'esistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale, cioè del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Allorché le norme parlano di « titolo esecutivo », dobbiamo quindi distinguere a seconda che si riferiscano al titolo esecutivo in senso sostanziale o al titolo esecutivo in senso documentale. Nell'art. 474, I c.p.c. il legislatore si riferisce al titolo esecutivo in senso sostanziale, e quindi alla fattispecie del diritto di procedere ad esecuzione forzata, completa dei suoi elementi costitutivi, impeditivi, estintivi e modificativi. somma di 1.000,00 €". L'unica eccezione è data quando, essendo venuta meno una parte, la riassunzione è effettuata nei confronti dei suoi eredi nominativamente ed impersonalmente ai sensi dell'art. 303,II c.p.c. In tal caso il titolo esecutivo sarà attualizzato nel precetto, nel quale Tizio dovrà indicare Sempronio e Mevio come eredi di Caio. I problema che dobbiamo affrontare è se si può avere un processo esecutivo da e contro soggetti diversi da quelli individuati nominativamente dal titolo esecutivo. E cioè se e quando il titolo esecutivo è utilizzabile da un soggetto diverso da colui, che nello stesso titolo esecutivo è indicato come il titolare del diritto; oppure se e quando l'avente diritto può utilizzare il titolo esecutivo contro un soggetto diverso da quello individuato nello stesso titolo come obbligato; oppure se e quando ci può essere una variazione sia dal lato del creditore come da quello del debitore. Molte sono le norme che prevedono esplicitamente o implicitamente che un certo atto è efficace verso soggetti diversi da quelli individuati nell'atto stesso. Per i provvedimenti giurisdizionali, l'art. 2909 c.c. prevede che la sentenza passata in giudicato ha effetti fra le parti, gli eredi e gli aventi causa. L'art. 111 cp.c. prevede che la sentenza emessa fra le parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti del successore nel diritto controverso. L'art. 1595 c.c. prevede che la sentenza emessa nei confronti del conduttore ha effetto anche verso il subconduttore. Queste norme (e le altre simili) non sono però idonee a risolvere il problema, perché prevedono, sì, che i provvedimenti in questione hanno "effetti" verso certi terzi, ma non anche che costituiscono titolo esecutivo verso questi terzi. Si potrebbe anche intendere - e qualcuno ha inteso - che ai terzi è estesa solo l'efficacia dichiarativa della sentenza e non anche l'efficacia esecutiva della stessa. Esempio: il proprietario Tizio agisce in rivendicazione verso il possessore Caio, il quale nel corso del processo cede il possesso del bene a Sempronio. La sentenza che accoglie la domanda di Tizio fa certamente stato anche nei confronti di Sempronio, il quale quindi non può contestare che il proprietario del bene è Tizio. Si potrebbe peraltro sostenere ed è stato sostenuto - che Tizio non può utilizzare contro Sempronio il titolo esecutivo che indica Caio come obbligato al rilascio. Se cosi è, allora Tizio deve procurarsi un autonomo titolo esecutivo contro Sempronio, instaurando un nuovo processo di rivendicazione nei suoi confronti; all'interno di tale nuovo processo, farà stato verso Sempronio la precedente sentenza pronunziata nei confronti di Caio (nel senso che la proprietà di Tizio è accertata con efficacia preclusiva anche nei confronti di Sempronio). La distinzione, sopra vista, fra efficacia preclusiva (o di accertamento) ed efficacia esecutiva è sistematicamente e logicamente possibile. Vedemmo del resto a suo tempo che l'efficacia propria della sentenza è quella dichiarativa: l'efficacia esecutiva è disomogenea rispetto all'efficacia di accertamento. Non si può dunque fondare l'efficacia del titolo esecutivo verso i terzi sulle norme che prevedono genericamente l'efficacia versoi terzi dell' atto, in cui il titolo esecutivo consiste, ma bisogna ricorrere alle norme che prevedono specificamente l'efficacia del titolo esecutivo nei confronti di determinati terzi, per ricavare- se possibile- un principio generale che consenta di dare, alle ipotesi non espressamente contemplate, una disciplina ricavata in via analogica dalle norme che esamineremo. In altri termini, constatare che l'atto (che funge da titolo esecutivo) è efficace verso certi terzi non vuol dire necessariamente che esso sia utilizzabile come titolo esecutivo da e contro questi terzi. Bisogna quindi prendere in esame le norme che trattano espressamente di efficacia del titolo esecutivo verso i terzi e vedere se è possibile trarre da queste un principio generale da applicare ai casi in cui non è prevista espressamente tale efficacia esecutiva, casi che però presentano la stessa ratio di quelli regolati. Esaminiamo dapprima l'art. 475, II c.p.c.: la spedizione del titolo in forma esecutiva è possibile anche a favore di soggetti, non individuati nel titolo stesso come creditori, che siano « successori » dell'avente diritto. L'efficacia del titolo esecutivo a favore dei successori non è espressamente prevista nella norma, ma è da essa necessariamente presupposta, allorché essa dispone che il successore può farsi rilasciare il titolo esecutivo in senso documentale. Qui siamo certi di avere individuato un'ipotesi di efficacia del titolo esecutivo a favore di terzi per un duplice motivo: da un punto di vista strutturale, in virtù delle caratteristiche secondarie del titolo esecutivo in senso documentale rispetto a quello in senso sostanziale (il primo rappresenta documentalmente il secondo); e da un punto di vista funzionale, poiché non ha senso che il successore si possa far rilasciare il titolo esecutivo in senso documentale, se poi non lo può utilizzare. La successione nel diritto porta alla nascita, a favore dell'avente causa, di un diritto diverso oggettivamente e soggettivamente da quello del dante causa, ma a questo connesso per pregiudizialità-dipendenza. Sul piano sostanziale si verifica il seguente fenomeno: esiste il diritto (pregiudiziale) del dante causa; viene in essere una successione; un diritto, diverso ma dipendente, sorge in capo all'avente causa. Dall'art.475, II c.p.c. si ricava che, insieme alla successione nel diritto sostanziale, si ha successione anche nel diritto (processuale) alla tutela esecutiva, che spettava al dante causa. La « successione » si definisce, infatti, come quel fenomeno, in virtù del quale gli effetti prodottisi in relazione ad un'entità giuridica si mantengono anche in relazione ad un'altra entità giuridica: la situazione sostanziale dipendente mantiene integre le caratteristiche che aveva la situazione pregiudiziale. La situazione del successore, oggettivamente diversa da quella del dante causa ma connessa per pregiudizialità-dipendenza con quest'ultima, acquista la tutelabilità esecutiva che aveva la situazione pregiudiziale. Inoltre, poiché la successione è avvenuta dopo la formazione dell'atto-titolo esecutivo, l'atto in questione ha, nei confronti del successore, e relativamente al modo di essere del diritto pregiudiziale, gli stessi effetti preclusivi che ha verso il dante causa. Il diritto pregiudiziale è accertato dall' atto con identica efficacia sia nei confronti di Tizio che nei contronti di Sempronio, suo successore. Le stesse difese ed eccezioní che ha l'uno contro l'atto, le ha anche l'altro. L'efficacia preclusiva riguarda il solo diritto pregiudiziale, non anche il diritto dipendente. La cambiale emessa a favore di Tizio ha ad oggetto il diritto di Tizio, non il diritto dell'erede Sempronio. Il titolo esecutivo utilizzato da Sempronio si caratterizza, quindi, non solo e non tanto perché in esso Sempronio non è indicato come creditore, quanto e soprattutto perché il diritto (di Sempronio) oggetto dell'esecuzione è diverso da quello (del de cuius Tizio) oggetto del titolo esecutivo. Il titolo esecutivo è utilizzato per la tutela esecutiva di un diritto oggettivamente diverso da quello consacrato nel titolo stesso, diritto che è però connesso a quello di cui al titolo per pregiudizialità dipendenza. Riassumendo: dall'art. 475 c.p.c. si ricava che il titolo esecutivo, esistente a favore di Tizio per il diritto X, è utilizzabile da Sempronio per il diritto Y quando fra X e Y vi è un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, e l’esistenza del diritto X è accertata dall'atto-titolo esecutivo, nei confronti di Sempronio, con efficacia preclusiva identica a quella che tale atto ha nei confronti di Tizio. Il successore non ha obbligo di dimostrare, neppure documentalmente, al soggetto che deve spedire il titolo in forma esecutiva, la sua qualità di successore, cioè l'effettiva esistenza del fatto successorio. La tutela contro i falsi successori, che hanno ottenuto la copia esecutiva affermando esistente una successione che in realtà non si è verificata, è data dall'opposizione all'esecuzione, che può proporre chi si vede minacciata l'esecuzione da un falso successore. L'efficacia, a favore del successore, del titolo esecutivo formatosi a favore del dante causa ha la funzione di evitare la necessità di instaurare un processo di cognizione nei confronti del debitore, al solo fine di accertare l'esistenza della successione: ciò che è superfluo, se il debitore non la contesta. Lo scopo è quindi di evitare un processo di cognizione che potrebbe essere inutile, e che diviene necessario solo se l'esecutato contesta l'esistenza della successione. L'ordinamento si trova di fronte ad un'alternativa: da un lato, se nega l'efficacia, a favore del successore, del titolo esecutivo esistente a favore del dante causa, rende inevitabile la instaurazione di un processo di cognizione fra avente causa e debitore, al solo fine di formare un titolo esecutivo diretto fra costoro. In tale processo di cognizione vi sarebbe solo da accertare l'effettiva esistenza del fatto successorio, in quanto l'altro elemento della fattispecie del diritto oggetto del processo (e cioè l'esistenza del diritto pregiudiziale) è già contenuto nell'atto-titolo esecutivo, che è efficace nei confronti del successore. Dall' altro lato, se l'ordinamento afferma l'efficacia, a favore del successore, del titolo esecutivo esistente a favore del dante causa, rende concreto il rischio che l'esecuzione sia iniziata da chi non è effettivamente un successore. Orbene, di fronte a tali due rischi contrapposti necessità di un processo di cognizione; possibilità che il titolo esecutivo sia utilizzato da chi non è effettivamente successore-il nostro ordinamento sceglie il secondo, rimettendo l'iniziativa dell'accertamento della qualità di successore all'eventuale contestazione dell'esecutato. Se l'esecutato non si oppone, non c'è contestazione e viene evitato un processo di cognizione che sarebbe stato inutile, perché non sarebbe intervenuto a risolvere alcuna controversia. Nell'eventuale processo di opposizione spetta comunque al creditore dimostrare ciò che ha affermato al momento in cui ha chiesto la spedizione del titolo esecutivo: e cioè la sua qualità di successore di colui, che risulta creditore secondo il titolo esecutivo. Sulla base dell'art. 477 c.p.c., il titolo esecutivo contro il de cuius ha efficacia contro gli eredi. Sul piano sostanziale si ha una situazione analoga, ma rovesciata, rispetto a quella prevista dall'art. 475 c.p.c.: si ha la successione nell'obbligo. L'erede è titolare di un obbligo connesso per pregiudizialità-dipendenza con l'obbligo del de cuius. Esempio: Tizio muore dopo aver sottoscritto una cambiale a favore di Sempronio. Caio, erede, succede nell'obbligo cambiario e quindi anche nella soggezione all'efficacia esecutiva della cambiale. Anche qui oggetto dell'esecuzione è l'obbligo di Caio, diverso da quello di Tizio, e dipendente da quello; anche qui la cambiale ha efficacia vincolante verso Caio come l'aveva verso Tizio, con riferimento, è chiaro, all'esistenza dell'obbligo pregiudiziale (di Tizio) e non all'esistenza dell'obbligo dipendente dell'erede, perché nella cambiale è contemplato l'obbligo del de cuius e non quello dell'erede. Caio può rifiutarsi di adempiere alternativamente a due condizioni: perché non è erede (questione estranea all'atto-titolo esecutivo: pertanto, in ordine a tale punto la sua contestazione non incontra limiti); oppure perché Tizio non era obbligato: e qui può contestare I'obbligo pregiudiziale negli stessi limiti in cui lo avrebbe potuto contestare direttamente Tizio. L'art. 477 c.p.c. non impone al creditore di provare che l'esecutato è effettivamente l'erede. E’ sufficiente che colui, che vuole procedere ad esecuzione forzata, affermi che l'esecutato è l'erede di colui che risulta debitore secondo il titolo esecutivo. Eventuali false dichiarazioni del creditore sono fronteggiabili dall'esecutato con l'opposizione all'esecuzione e l’onere della prova della qualità di erede è a carico di chi procede ad liquidazione. Orbene, se al momento della cancellazione un creditore aveva già un titolo esecutivo contro la società cancellata, può utilizzarlo contro i singoli soci naturalmente nei limiti delle somme da questi riscosse in sede di liquidazione. L'efficacia del titolo esecutivo a favore e contro terzi costituisce un'ulteriore ipotesi di non coincidenza fra titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale. Nei casi in cui l’esecuzione a favore o contro terzi è consentita dall'ordinamento, dal titolo esecutivo in senso documentale utilizzato non risulta che il terzo, il quale pretende di utilizzare, o contro il quale si pretende di utilizzare ll titolo stesso, è effettivamente successore, e quindi non risulta neppure l'esistenza del diritto che si vuole vedere tutelato con l'esecuzione. Quando l’erede del creditore usa il titolo esecutivo esistente a nome del deceduto, oggetto del titolo esecutivo in senso documentale è il credito pregiudiziale del de cuius, ma la situazione sostanziale, oggetto dell'esecuzione e della quale l'erede chiede la tutela, è il suo diritto, e non quello del dante causa. Il titolo esecutivo in senso documentale contiene quindi la rappresentazione di una situazione sostanziale che sta a monte di quella oggetto dell'esecuzione. L'efficacia del titolo esecutivo a favore e contro terzi non comporta problemi di diritto di difesa e contraddittorio, come invece il parallelo, ma diverso fenomeno dell'efficacia della sentenza verso terzi. L'efficacia della sentenza verso terzi deve essere rapportata al rispetto del diritto di difesa, perché vincolare al contenuto della sentenza un soggetto, che non è stato parte del processo di formazione della sentenza stessa, in linea di principio costituisce lesione del principio del contraddittorio: nessuno può essere vincolato ad un provvedimento emesso senza che egli si sia potuto difendere. Nel caso dell'efficacia verso i terzi del titolo esecutivo tutto questo non accade, perché ciò che consegue a tale efficacia è la possibilità che un soggetto, estraneo al procedimento di formazione del titolo esecutivo, possa usare, o contro di lui possa essere usato, tale titolo esecutivo. Ma ciò non incide sul diritto di difesa, perché l'esecutato ha gli strumenti idonei per contestare la pretesa efficacia ultra partes del titolo esecutivo, con onere della prova a carico di chi afferma la sussistenza di tale efficacia. Non c'è mai il vincolo dell'esecutato alle affermazioni del creditore procedente; ci può essere, al contrario, una sorta di provocatio ad probandum da parte dell'esecutato, che può richiedere l'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 475 e 477 c.p.c., con l'opposizione all'esecuzione, che apre un ordinario processo di cognizione, e con onere della prova a carico dell'istante. Ne consegue che il legislatore è libero nel creare ipotesi di efficacia del titolo esecutivo verso terzi, mentre non è libero nel creare ipotesi di efficacia della sentenza verso terzi. Rispetto a tale secondo fenomeno, egli è frenato dall'art. 24 Cost. e può vincolare i terzi agli effetti della sentenza solo se ciò non contrasta con l'art. 24 Cost. Nel primo caso, invece, il legislatore è libero di articolare l'efficacia soggettiva del titolo esecutivo come meglio crede (così come è libero di stabilire quali atti siano titoli esecutivi), trattandosi di una scelta di opportunità che non è vincolata da principi costituzionali. Cap.7 La notificazione del titolo esecutivo e del precetto Secondo l'art. 479 c.p.c., il titolo esecutivo in senso documentale deve essere notificato all' esecutando prima dell'inizio dell'esecuzione forzata. Contestualmente o successivamente deve essergli notificato anche il precetto, atto disciplinato dall'art. 480 c.p.c. Il precetto è definito come l'intimazione ad adempiere all'obbligo risultante dal titolo esecutivo in un termine non inferiore ai dieci giorni, salvo che ai sensi dell'art. 482 c.p.c. sia autorizzato l'inizio immediato dell'esecuzione, con esonero dal rispetto di tale termine. Col precetto si intima all'esecutato di adempiere in un determinato termine avvertendolo che, in mancanza dell'adempimento, si procederà all'esecuzione forzata. Un elemento essenziale del precetto è l'indicazione delle parti del processo esecutivo. Normalmente queste sono i soggetti che risultano dal titolo esecutivo in senso documentale ma, quando si veriticano le ipotesi degli artt. 475e 477 c.p.c., possono essere anche soggetti diversi. Se il titolo esecutivo è usato da o contro un terzo, le parti individuate nel precetto devono essere quelle nei cui confronti si svolgerà il processo esecutivo. Non è possibile intimare il precetto a un morto: il precetto deve essere fatto all'erede, nonostante il titolo esecutivo porti il nome del de cuius. Lo stesso accade quando la sentenza è pronunciata contro gli eredi, nei confronti dei quali il processo è stato collettivamente ed impersonalmente riassunto ex art. 303, II c.p.c. Il precetto costituisce quindi la necessaria attualizzazione del titolo esecutivo in senso documentale: eventuali divergenze fra titolo esecutivo documentale e titolo esecutivo sostanziale devono essere esplicitate nel precetto. La realtà consacrata nel titolo esecutivo documentale deve essere attualizzata nel precetto per tutti i mutamenti che si sono avuti tra la formazione del titolo e l'esecuzione forzata. Anche dal punto di vista oggettivo il precetto costituisce l'attualizzazione del titolo esecutivo. L'art. 480 c.p.c. stabilisce che l'intimazione, di cui al precetto, deve riguardare l'adempimento di obblighi risultanti dal titolo esecutivo. Però è possibile che il titolo esecutivo in senso documentale debba essere integrato da elementi estranei ad esso. Esempio: se c'è stato un adempimento parziale del diritto di cui al titolo esecutivo, il precetto deve essere fatto per la differenza. E poi: si è già visto che nel titolo esecutivo non devono essere necessariamente effettuate le operazioni che portano alla determinazione della somma dovuta; tali operazioni devono appunto essere sviluppate nel precetto. Anche dal punto di vista oggettivo il precetto costituisce quindi l'attualizzazione del titolo esecutivo, non una sua pedissequa ripetizione. Per quanto riguarda l'individuazione dei beni (che saranno) sottoposti a esecuzione, bisogna distinguere. Se al precetto segue un’esecuzione per consegna o rilascio o per obblighi di fare, bisogna identificare i beni oggetto dell'esecuzione, beni che, del resto, sono già necessariamente individuati nel titolo esecutivo (salva, come al solito, l'eventuale attualizzazione del contenuto del titolo). Se al precetto segue un’espropriazione, è necessario individuare il credito tutelato, ma non i beni che saranno pignorati. L'art. 480 c.p.c. prevede che nel precetto sia contenuta l'indicazione o della data di notificazione del titolo esecutivo, sempre che il titolo esecutivo sia stato notificato separatamente. l precetto deve inoltre contenere la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione, nonché lavvertimento che il debitore può ricorrere agli strumenti che l'ordinamento prevede per le situazioni di sovraindebitamento. Il riferimento e alla L, 27 gennaio 2012 n. 5, che istituisce degli strumenti per far fronte alle situazioni in cui un debitore, non assoggettabile a procedure concorsuali, si trova in stato di incapienza provvisoria o definitiva. La sottoscrizione del precetto è l'ultimo elemento. E’ sufficiente anche la sottoscrizione personale del creditore, e non è necessaria quella del legale. Non c'è ancora, in questa fase, obbligo di difesa tecnica, che invece scatta con l'inizio dell'esecuzione forzata. Un'eccezione all'obbligo di notificare il titolo esecutivo, ed una conseguente modificazione del contenuto del precetto, sono previste per i titoli esecutivi documentali che vengono utilizzati in originale, e non in copia esecutiva ex art. 475 c.p.c. Si tratta delle scritture private autenticate (che non siano eccezionalmente depositate presso il pubblico uffciale che le ha autenticate), degli accordi raggiunti in sede di mediazione e di negoziazione assistita, e dei titoli di credito. In questi casi, non è evidentemente possibile notificare il titolo esecutivo originale, e dunque il legislatore prevede che tale notificazione sia effettuata mediante la trascrizione del titolo esecutivo nel precetto. Il precetto è un atto del processo esecutivo, anche se anteriore all'inizio dell'esecuzione forzata. L'inizio del processo esecutivo non coincide con l'inizio dell'esecuzione forzata. L'art. 617 c.p.c., che regola uno dei possibili processi di cognizione incidentali al processo esecutivo, dispone, nel disciplinare l'opposizione agli atti esecutivi, che tale opposizione è proponibile in relazione al titolo esecutivo ed al precetto, così come a tutti gli altri atti del processo esecutivo. La norma, equiparando il titolo esecutivo (in senso documentale) e il precetto a tutti gli altri atti del processo esecutivo, consente di qualificare il precetto come un atto del processo esecutivo anteriore all'inizio dell'esecuzione forzata: da ciò si ricava che il processo esecutivo inizia prima dell'esecuzione forzata. Il precetto ha la funzione della domanda giudiziale: esso individua il diritto di cui si richiede la tutela esecutiva. Come atto, che ha la stessa funzione che nel processo di cognizione hanno la citazione o il ricorso, anche il precetto produce gli ettetti sostanziali della domanda giudiziale: l'impedimento della decadenza, l'interruzione e la sospensione della prescrizione, e così via (art. 2943, I c.c.). Rispetto alla citazione e al ricorso, il precetto presenta peraltro una diversità: nella citazione e nel ricorso, contestualmente all'indicazione del diritto di cui si chiede la tutela, è presente anche la richiesta del provvedimento del giudice; nel precetto la richiesta di intervento dell'ufficio esecutivo non è contestuale ala notifica del precetto, ma avviene successivamente. Prima si individua il diritto, si notifica il precetto alla controparte e con ciò è proposta la domanda esecutiva ed è individuato il diritto da tutelare; poi, scaduto il termine per adempiere dato nel precetto, ci si rivolge all'utficio esecutivo per un suo intervento. La richiesta di intervento dell'uficio esecutivo è posteriore e separata rispetto alla proposizione della domanda. Il precetto perde efficacia se entro novanta giorni dalla notifica non è iniziata l'esecuzione forzata., Ex art. 481, II c.p.c. l'opposizione contro il precetto non sospende il processo esecutivo: tuttavia il creditore procedente, quando è presentata opposizione contro il precetto, non è obbligato a dar corso all'esecuzione forzata. Può procedere ugualmente all'esecuzione, nonostante l'opposizione (e sempre che il giudice non sospenda l'esecuzione), assumendosi la responsabilità dei danni per l’esecuzione ingiusta ex art. 96, I c.p.c.; oppure può aspettare l'esito del processo di opposizione. Se sceglie di aspettare, l'art. 481, II c.p.c. gli garantisce che il precetto non perde efficacia. La validità del precetto permane per tutta la durata del processo di opposizione così che, se a distanza anche di tre o quattro anni lopposizione viene rigettata, il creditore può iniziare l'esecuzione forzata senza bisogno di notificare un altro precetto. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, il termine di perenzione del precetto essendo un termine di decadenza e non di prescrizione è fatto salvo da un pignoramento etfettuato tempestivamente. Altri pignoramenti, successivi al primo, possono quindi essere effettuati ancorché, rispetto ad essi, il termine di novanta giorni sia già decorso. Cap.8 La struttura generale del processo esecutivo Gli articoli da 483 a 490 c.p.c. sono redatti con riferimento all'espropriazione forzata, ma sono utilizzabili come parte generale del processo esecutivo, quindi anche con riterimento all'esecuzione in forma specifica. Bisogna richiamare quanto già detto in ordine alla funzione della tutela esecutiva nel quadro generale della tutela giurisdizionale dei diritti. Come abbiamo già visto, l'esecuzione forzata non ha il compito di stabilire i diritti e gli obblighi delle parti: tale compito spetta al processo di cognizione. L'esecuzione forzata non interviene per stabilire autoritativamente quali comportamenti siano leciti e quali siano doverosi. Lo scopo dell'esecuzione torzata è di procurare la vendita, ecc.). Se l'ufficio esecutivo ritiene di rispondere negativamente, rifiuta di compiere l'atto che è stato richiesto. Il rifiuto è un non-provvedimento, che può avere forma diversa dal provvedimento. Se l’interessato si lamenta del comportamento dell'ufficio, sostenendo che la misura esecutiva è stata illegittimamente rifiutata o concessa, la relativa controversia non può mai essere decisa nel processo esecutivo, come invece accade nel processo di cognizione. Nel processo esecutivo deve essere creato un ambiente adatto a decidere la questione, aprendo un processo di cognizione incidentale. In quella sede si stabilirà se gli atti compiuti sono o meno conformi alla legge processuale. Il processo esecutivo, poiché non è strutturato per risolvere le controversie relative al modo di essere della realtá sostanziale, non ha neanche la struttura idonea per risolvere le controversie che possono sorgere in ordine alle questioni processuali. Mentre nel processo di cognizione le questioni di rito e di merito possono essere cumulate e risolte dallo stesso tipo di attività dell'organo giurisdizionale e delle parti - e ciò perché la funzione del processo di cognizione è dichiarativa e quindi la sua struttura è decisoria - il processo esecutivo non è finalizzato a statuire circa il modo di essere della realtà sostanziale e quindi non è strutturato in modo idoneo a decidere neppure delle questioni processuali che possono sorgere al suo interno. Ciò non significa che non ci sia « cognizione » dell'organo esecutivo; questi, prima di emanare la misura giurisdizionale, deve pur sempre verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalle norme. Solo che tale cognizione è strumentale ad un provvedimento che non ha funzione decisoria. L'ambito della cognizione degli organi del processo esecutivo il giudice dell esecuzione, l'ufficiale giudiziario, etc. ha la stessa portata. Il giudice dell'esecuzione si trova in situazione non diversa da quella dell'ufficiale giudiziario e degli altri soggetti che compongono l’ufficio esecutivo. Le condizioni minime indispensabili per emettere una misura esecutiva equivalgono alle condizioni per la decisione del merito nel processo dichiarativo e sono costituite dai presupposti processuali del processo esecutivo, in mancanza dei quali la richiesta di tutela non può essere accolta perché il processo è viziato, tanto da rendere contra ius l'emanazione della misura giurisdizionale esecutiva richiesta. La sussistenza di tali condizioni è richiesta anche nel processo esecutivo, perché anche in questo l'ufficio esecutivo deve avere giurisdizione e competenza, le parti devono essere capacı, legittimate e rappresentate tecnicamente, etc. La rilevazione dei presupposti processuali segue la disciplina contenuta nel primo libro del c.p.c., la quale stabilisce da chi e fino a che momento l'eventuale carenza del presupposto processuale può essere rilevata. Regola generale, in mancanza di diversa disposizione normativa, è che i vizi dei presupposti processuali sono rilevabili anche d'ufficio, senza precusione alcuna, A tale regola generale fanno eccezione le norme che restringono la rilevabilità del vizio quanto ai soggetti e quanto alle fasi del processo, nelle quali il vizio deve essere rilevato. Le norme in questione, che sono scritte nel primo libro del c.p.c. nell' ottica del processo dichiarativo, e quindi con riferimento ad istituti propri di tale processo, devono essere trasferite nell'ambito del processo esecutivo. Talvolta il legislatore prevede la prima udienza come termine ultimo per la rilevazione dei vizi di certi presupposti processuali: la incompetenza, ad es., può essere rilevata di ufficio al massimo entro la prima udienza di trattazione. Secondo la opinione più convincente, alla prima udienza del processo dichiarativo corrisponde, nel processo esecutivo, la prima udienza di fronte al giudice dell'esecuzione. Nell' espropriazione forzata, normalmente questa è l'udienza in cui si decide circa la vendita o assegnazione del bene. Nell'esecuzione per obblighi di tare o di non fare, è l'udienza issata a seguito della presentazione del ricorso previsto dall'art. 612 c.p.c. Nell'esecuzione per consegna e rilascio, dato che non ci sono udienze, le preclusioni riferite alla prima udienza non hanno modo di operare. Al di là dei casi espressamente previsti, la carenza di un presupposto processuale è rilevabile anche d'ufficio senza limiti di tempo. Esempio: l'ufficiale giudiziario carente di giurisdizione deve rifiutarsi di effettuare il pignoramento. Così pure il giudice dell'esecuzione carente di giurisdizione deve rifiutarsi di compiere i successivi atti del processo esecutivo. In conclusione: se un vizio del processo, consistente nella carenza di un presupposto processuale, è rilevato nei tempi e nei modi previsti, l'ufficio esecutivo deve rifiutare l'emanazione dell'atto che gli è stato richiesto Altra questione che deve essere esaminata dall'ufficio esecutivo attiene alla nullità dei singoli atti del processo. La differenza tra la carenza di un presupposto processuale e la nullità dei singoli atti del processo sta in ciò, che la carenza del presupposto processuale produce la nullità di tutti gli atti del processo, mentre alla nullità dei singoli atti occorre applicare gli artt. 156 e ss. c.p.c.; tali norme, non essendo espresse con terminologia propria del processo dichiarativo, possono essere estese senza adattamenti al processo esecutivo. Secondo l'art. 157 c.p.c., la nullità dei singoli atti del processo è rilevabile dall'ufficio solo se lo prevede la legge. E la regola inversa a quella dei vizi dei presupposti processuali, che sono rilevabili anche d'ufficio salvo diversa disposizione di legge. La nullità dei singoli atti può essere posta dall' ufficio esecutivo a fondamento del suo rifiuto di provvedere solo se la legge prevede che tale nullità possa essere rilevata d'ufficio, oppure se essa è stata tempestivamente eccepita dalla parte che aveva il potere di farlo. Nel processo dichiarativo, quando viene sollevata una questione relativa alla nullità formale o extraformale di un atto, essendo il processo strutturato in modo tale da poter decidere della questione, il giudice la decide con lo stesso provvedimento con cui decide il merito della controversia. Invece, la cognizione dell'ufficio esecutivo che esaminala sussistenza dei presupposti per la sua attività e quindi anche la carenza di un presupposto processuale o la nullità dei singoli atti ex art. 157 c.p.c., non è finalizzata alla pronuncia di un provvedimento decisorio e l’esito di tale ricognizione in nessun caso può intendersi come decisione della questione: la ricognizione è strumentale a stabilire se emettere o meno la misura esecutiva. L'esito dell'esame è quindi o l'emanazione della misura esecutiva (se l'ufficio ritiene che la nullità non vi sia) o il rifiuto dell'emanazione della misura esecutiva (se l'ufficio ritiene che la nullità vi sia). Esempio: il giudice rileva la propria incompetenza, oppure l'omesso o viziato avviso ai creditori iscritti prescritto dall'art. 498 c.p.c., e non dà luogo all'emissione dell'ordinanza di vendita. Se, al contrario, il giudice ritiene di essere competente oppure che l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. è stato regolarmente effettuato, emette l'ordinanza di vendita. Nel processo dichiarativo, le questioni di rito sono decise; nel processo esecutivo vengono delibate per orientare l'azione dell'ufficio esecutivo, senza che ciò costituisca attività decisoria, perché il processo non ha una struttura idonea a decidere. Occorre, pertanto, che vi sia uno strumento per decidere le contestazioni relative alla correttezza dell'operato dell'ufficio esecutivo. L'ordinamento offre, allora, come strumento I'opposizione agli atti del processo esecutivo, cioè un processo di cognizione che ha come oggetto l'accertamento della validità dell' atto esecutivo e nel quale sono decise quelle stesse questioni, che nel processo esecutivo sono state affrontate per stabilire se emettere o meno la misura esecutiva. La delibazione dell'ufficio esecutivo sbocca in un atto che pone in essere la misura esecutiva o la rifiuta, e che può essere contestato dalle parti interessate attraverso l’opposizione agli atti esecutivi. Si apre cosi un processo dichiarativo, dove si discute della validità dell'atto esecutivo, e si decide la questione che è già stata delibata, in via incidentale, dall' ufficio esecutivo. Si è già detto e occorre ribadire che l'ufficio esecutivo non ha mai il potere di valutare l'esistenza della situazione sostanziale di cui si chiede la tutela, perché lo scopo del processo esecutivo non è quello di accertare, ma di compiere l'attività necessaria per tutelare il diritto, che viene presupposto come esistente. L'esecutato non può quindi sollevare, all'interno del processo esecutivo, contestazioni circa l'esistenza di tale diritto, ma lo deve fare, fuori del processo esecutivo, proponendo opposizione all' esecuzione ex art. 615 c.p.c. Rimane il problema se l'ufficio esecutivo deve accertare la sussistenza di un titolo esecutivo in senso sostanziale. Secondo la soluzione che appare preferibile, l'ufficio esecutivo salve le eccezioni espressamente previste dalla legge: ad es., gli art. 104, III e 118, III rispettivamente della legge sulla cambiale e della legge sull'assegno) non ha il potere di rilevare d'ufficio l'inesistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale; per l'ufficio esecutivo rileva solo il titolo esecutivo in senso documentale e quindi non sono rilevabili di ufficio tutti i fatti modificativi ed estintivi dell'efficacia esecutiva del titolo. Esempio: se è iniziata un'esecuzione forzata in base a una sentenza successivamente riformata o cassata, l procedente si deve fermare spontaneamente; se non lo fa, l'ufficio esecutivo non può rifiutarsi di dare la tutela esecutiva. Come si vedrà, uno dei possibili oggetti dell'opposizione all' esecuzione ex art. 615 c.p.c. oltre all'inesistenza del diritto sostanziale di cui si chiede la tutela esecutiva è costituito anche dall'inesistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale. L'esecutato può quindi aprire un incidente di cognizione, se l'esecuzione viene iniziata o proseguita in carenza di un titolo esecutivo in senso sostanziale (cioè del diritto di procedere ad esecuzione forzata). Tale opposizione può essere proposta solo dall'esecutato e non dal creditore procedente o dalle altre parti del processo esecutivo. Se aderiamo alla soluzione, che afferma rilevabile d'ufficio la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo in senso sostanziale, l'ufficio esecutivo, qualora ritenga che il titolo esecutivo in senso sostanziale sia venuto meno, dovrebbe rifiutare di procedere oltre. Il creditore procedente dovrebbe contestare la decisione dell'ufficio con l'opposizione agli atti esecutivi, e quindi la stessa questione - sussistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale - sarebbe oggetto di due processi di cognizione (che, come vedremo, sono fra di loro diversi) a seconda del dato, del tutto casuale, che l'ufficio esecutivo ritenga esistente o inesistente il diritto di procedere ad esecuzione forzata. Se lo ritiene esistente, emette la misura esecutiva, e l'esecutato propone un'opposizione all'esecuzione; se lo ritiene inesistente, rifiuta la misura esecutiva, ed il procedente propone opposizione agli atti esecutivi. II che è assurdo. Sul punto ritorneremo immediatamente. Se invece si ritiene che la carenza del titolo esecutivo in senso sostanziale non è rilevabile dall'ufficio esecutivo, il quale si deve attenere solo al titolo esecutivo in senso documentale, si arriva al seguente risultato: di fronte alla richiesta del procedente, l'ufficio esecutivo deve comunque procedere, ma l’esecutato può proporre l'opposizione all'esecuzione, instaurando un processo di cognizione idoneo a decidere sulla questione dell'esistenza o meno del titolo esecutivo in senso sostanziale. Ovviamente, l'inconveniente non si verifica qualora si ritenga che le questioni, attinenti all' esistenza del diritto a procedere ad esecuzione forzata, siano comunque oggetto dell'opposizione agli atti esecutivi. In tal caso, niente osterebbe a riconoscere all'ufficio esecutivo anche il potere di valutare la sussistenza del titolo esecutivo in senso essere emessa, perché il giudice è incompetente; e cosi via. L'art. 486 c.p.c. dispone che le domande delle parti si propongono con ricorso da depositare in cancelleria o oralmente, nel verbale di udienza. Fin qui non constatiamo alcuna posizione privilegiata del creditore rispetto al debitore. Qualcuno ha ritenuto che il creditore abbia posizione preminente rispetto all’esecutato, perché l’esecuzione è a senso unico, cioè tutela il solo creditore. L'equivoco sta nell'assolutizzare le caratteristiche del processo di cognizione. Nel processo dichiarativo, se si giunge a una pronuncia di merito, tale pronuncia può essere favorevole sia all'attore sia al convenuto. Ma questa è una caratteristica specifica del processo di cognizione (in quanto strettamente correlata alla sua funzione di statuire circa il modo di essere della realtà sostanziale), non è una caratteristica assoluta, tale da far concludere che, ove essa non si realizzi, non ce contraddittorio perché le parti non sono sul piede di parità. Per quanto riguarda il processo esecutivo, è vero che, se esso ha luogo, necessariamente produce effetti a favore di una sola delle parti; però è anche vero che, se escludiamo dall'ambito del processo esecutivo ciò che è irrilevante, cioè l'esistenza del diritto da tutelare, per tutto quanto riguarda gli elementi rilevanti per il suo svolgimento, non troviamo che il creditore ha più poteri del debitore; quando si tratta di convincere l'ufficio esecutivo a compiere o non compiere una certa attività, la parola del creditore non è più attendibile di quella del debitore. Nel discutere di ciò che è rilevante, le parti non sono in una posizione di squilibrio. Quindi le due obiezioni (la prima, secondo la quale nel processo esecutivo non si discute dell'esistenza del diritto; la seconda, secondo la quale nel processo esecutivo le parti non sono su un piano di parità) alla vigenza del principio del contraddittorio sono infondate. L'art. 487 c.p.c. prevede che i provvedimenti del giudice dell'esecuzione abbiano la forma dell'ordinanza, che può essere modificata o revocata fino a che non ha avuto esecuzione; una volta che sia stata eseguita, il giudice non può più modificarla. Esempio: con l'ordinanza il giudice dispone la vendita del bene con certe modalità; finché la vendita non è avvenuta, il giudice può modificare l'ordinanza; quando la vendita è avvenuta, l'ordinanza non è più modificabile. Passiamo ora ad analizzare la composizione dell’ufficio esecutivo. Gli uffici giudiziari competenti per l'esecuzione forzata sono indicati dagli art. 9, 26 e 26-bis c.p.c. In senso verticale, per l'esecuzione forzata è sempre competente il tribunale. In senso orizzontale, territorialmente competente per l'espropriazione immobiliare e mobiliare (ivi compresa l’espropriazione di beni presso terzi) è il giudice del luogo dove si trova il bene; per l'esecuzione forzata su autoveicoli e motoveicoli è competente il giudice della residenza dell'esecutato; per l'esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l'obbligo deve essere adempiuto; per l'esecuzione forzata per consegna e rilascio ritorna competente il giudice del luogo dove si trovano i beni. Per l'espropriazione forzata di crediti (art. 26-bis c.p.c.) occorre distinguere: a) è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore, se il debitore esecutato è una pubblica amministrazione; b) è competente il giudice del luogo dove risiede il debitore esecutato in ogni altro caso. La ragione di questa differenziazione sta nella volontà del legislatore di evitare una eccessiva concentrazione sul tribunale di Roma delle espropriazioni di crediti quando debitore è una pubblica amministrazione. La competenza territoriale è, ex art. 28 c.p.c., inderogabile dalla volontà delle parti: le parti non possono accordarsi per far svolgere l'esecuzione da un giudice diverso da quello indicato dagli artt. 16 e 26 c.p.c. Quindi l'incompetenza è rilevabile anche di ufficio non solo dal giudice, ma anche dall' ufficiale giudiziario. Da non confondersi con la competenza per l'esecuzione ex artt. 9 e 26 c.p.c. è la competenza per le cause di cognizione incidentali all'esecuzione, che sono veri e propri processi di cognizione, la competenza per i quali è disciplinata dagli artt. 17 (competenza per valore) e 27 (competenza territoriale) c.p.c. Con la riforma del 1990 è stata estesa anche al processo di fronte al tribunale la regola della monocraticità. Tutti i processi incidentali all'esecuzione forzata sono quindi decisi dal giudice monocratico. L'ufficio esecutivo non è composto dal tribunale nel suo complesso, ma da uno o più giudici, ai quali vengono attribuite le mansioni di giudice dell'esecuzione. Ovviamente anche il cancelliere fa parte dell'ufficio esecutivo. Assume un ruolo importante nel processo esecutivo (più di quanto accade nel processo di cognizione) l'ufficiale giudiziario che, in talune forme di esecuzione forzata, è l'unico soggetto a svolgere attività. Le mansioni affidate al giudice dell'esecuzione e all' ufficiale giudiziario sono variabili a seconda dei vari procedimenti e vedremo volta per volta quali attività sono compiute dall'uno e quali dall'altro. Cap.9 L’espropriazione forzata Terminato l'esame dei profili comuni a tutte le forme di esecuzione forzata, vediamo ora la tutela esecutiva per i crediti pecuniari. Il processo con cui si tutelano esecutivamente i crediti relativi a somme di denaro è l'espropriazione forzata, disciplinata dal titolo II del libro II. Il fondamento dell'espropriazione forzata non sta nel c.p.c., ma nel c.c., in particolare nell'art. 2740, che va letto insieme all'art. 2910. In queste due norme, viste una dal punto di vista del debitore (art. 2740 c.c.) ed una del creditore (art. 2910 c.c.), sta il fondamento dell'espropriazione forzata, cioè la regola in virtù della quale i beni del debitore rispondono dell'adempimento delle obbligazioni e il creditore ha il potere di farli espropriare. La responsabilità patrimoniale, di cui all'art. 2740 c.c., costituisce il fondamento di ogni forma di espropriazione forzata. Il principio della responsabilità patrimoniale sembra autoevidente a noi, che viviamo nel XXI secolo, ed abbiamo alle spalle 2.500 anni di evoluzione giuridica. Ma esso non è così ovvio: tant'è vero che i sistemi più antichi arrivavano addirittura a concepire la possibilità che il creditore si soddisfacesse sulla persona del debitore (magari vendendolo come schiavo), ma non sui suoi beni. Infatti, per poter concepire un principio come la responsabilità patrimoniale, occorre affermare la prevalenza del credito sulla proprietà, e che quindi i beni del debitore siano assoggettati al potere del creditore. E questo risultato è il frutto di un'evoluzione secolare. Il secondo principio attiene al tipo di potere che il creditore ha sui beni del debitore. Ciò è chiarito dall'art. 2910 c.c., che è la norma speculare all'art. 2740 c.c.: è lo stesso principio, visto a latere creditoris. Ebbene, la norma non dice che il creditore può impadronirsi dei beni del creditore per soddisfare il suo diritto: essa stabilisce che il creditore può far espropriare i beni del debitore, e non espropriare. Quindi il creditore non ha un diritto sostanziale sui beni del debitore, bensì ha un diritto processuale verso lo Stato, acciocché lo Stato eserciti il suo potere espropriativo nei confronti del debitore. Fra creditore, debitore e Stato si crea quindi una triangolazione: - lo Stato ha verso il debitore il potere (pubblicistico: di solito giurisdizionale, ma non necessariamente. Ad es., nella liquidazione coatta amministrativa e nell' amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza il potere è amministrativo) di espropriare; - il creditore ha verso lo Stato il diritto (processuale) di ottenere che questo eserciti il potere di espropriare; - il creditore ha verso il debitore il diritto (sostanziale) di credito. Il debitore, a sua volta, risponde con i propri beni dei suoi debiti non nel senso che i beni non sono suoi, ma nel senso che essi sono soggetti al potere espropriativo dello Stato, che è esercitato allorché lo richieda un creditore che ne ha diritto. Il processo di espropriazione forzata è il più complesso di tutti, perché passa necessariamente attraverso tre momenti indispensabili e (di solito) non sostituibili. ll primo momento è costituito dall'individuazione e conservazione dell'elemento attivo del patrimonio del debitore. Quando l'art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore « risponde con tutti i suoi beni », evidentemente non fa riferimento al bene materiale, ma al diritto sul bene. Non è il bene nella sua materialità ciò che è oggetto della espropriazione forzata, ma il diritto che il debitore ha su quel bene. Dalla garanzia generica si passa alla garanzia specifica: non più un generico diritto su tutti quanti gli elementi attivi, ma uno specifico e concreto diritto processuale del creditore su singoli ed individuati elementi attivi del patrimonio del debitore. La funzione di individuare e conservare l'elemento attivo è svolta dal primo atto dell'espropriazione, che è il pignoramento. Il secondo momento è costituito dalla trasformazione del diritto pignorato. L’elemento attivo, come sopra individuato e conservato, deve essere liquidato, trastormato in una somma di denaro. Ovviamente tale fase non è necessaria quando oggetto del pignoramento la proprietà del debitore su) una somma di denaro. In tal caso non c’è necessità di liquidare l'elemento attivo, che è già liquido. Il terzo momento è costituito dalla distribuzione del ricavato. Il diritto del debitore, oggetto del pignoramento, è liquidato, cioè trasformato in una somma di denaro, e con tale somma si paga il creditore. L'ultima fase non è possibile quando non si realizza una liquidità; se la fase di liquidazione non dà un risultato utile (ad es., non si trova nessuno che acquista il bene pignorato), la fase di distribuzione del ricavato non può avere luogo. Il processo di espropriazione opera, quindi, giuridicamente sull'elemento attivo del patrimonio del debitore, individuandolo, conservandolo, liquidandolo e distribuendo il ricavato al creditore. Pertanto l'espropriazione è più complessa delle altre forme di tutela esecutiva, in quanto entrano in gioco due situazioni sostanziali: il diritto del creditore da tutelare e il diritto del debitore, l'elemento attivo del patrimonio del debitore che deve essere individuato, conservato, liquidato. Alla fine del processo di espropriazione, se tutto è andato bene, il diritto di credito viene soddisfatto, ed il diritto del debitore, cioè l'elemento attivo del suo patrimonio, di cui prima dell'esecuzione egli era titolare, dopo l'esecuzione è nella titolarità di un terzo. Abbiamo quindi il trasferimento di un elemento patrimoniale attivo dal debitore ad un terzo, e l'estinzione del diritto di credito, a tutela del quale è stata posta in essere l'attività esecutiva. L'espropriazione opera su un duplice oggetto: trasferendo l'uno ed estinguendo l'altro. L'espropriazione si differenzia dall'esecuzione in forma specifica, proprio perché l‘espropriazione opera su due situazioni sostanziali, mentre l'esecuzione in forma specifica opera su una sola situazione sostanziale: il diritto che deve essere tutelato. Se l'espropriazione forzata passa attraverso i tre momenti indicati (individuazione/conservazione; liquidazione; soddisfazione del creditore), siccome gli elementi attivi circolano in modo diverso sul piano del diritto sostanziale, ne consegue che l'esecuzione si deve adattare al diverso modo di circolazione e quindi si deve strutturare in L'art. 492, VIII c.p.c. introduce infine una speciale forma di ispezione per gli imprenditori commerciali. Sempre su istanza del creditore procedente, ed a sue spese, l'ufficiale nomina un professionista che esamina le scritture contabili, e redige una relazione che il professionista trasmette all'ufficiale giudiziario ed al creditore istante. Se dalla relazione risultano elementi attivi che il debitore non aveva dichiarato ai sensi dei comma IV e V, le spese sono a carico del debitore. I due punti critici per rendere fruttuosa l'espropriazione forzata riguardano la individuazione degli elementi attivi del patrimonio e la loro liquidazione a prezzo di mercato. Di questo secondo profilo ci occuperemo quando tratteremo della vendita forzata. Ora dobbiamo. occuparci del primo profilo. Ai sensi dell'art. 492-bis c.p.c., il creditore procedente (o un altro creditore, munito di titolo esecutivo), decorso il termine dilatorio previsto dall'art. 482 c.p.c., deve anzitutto munirsi dell'autorizzazione del presidente del tribunale del luogo ove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, presentando una istanza ed esibendo un. titolo esecutivo. Il tribunale deve verificare il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, allo stesso modo con cui questo diritto è verificato dall'ufficiale giudiziario: cioè attraverso l'esame del titolo esecutivo in senso documentale. Dopo di che il presidente del tribunale autorizza l'ufficiale giudiziario a procedere alla ricerca telematica. Si tratta, per la verità, di una autorizzazione superflua. Infatti, da un lato la verifica del presidente del tribunale circa la esistenza di un titolo esecutivo non può essere più approfondita di quella che fa l'ufficiale giudiziario; dall'altro, e fondamentalmente, non si vede come possa il presidente del tribunale negare l'autorizzazione, una volta appurato che listante ha un titolo esecutivo. Ora, è evidente che scomodare un giudice per fargli emettere un provvedimento a contenuto vincolato non ha senso: sicché l'autorizzazione prevista dall'art. 492-bis, I c.p.c. diviene un inutile (e costoso: perché occorrerà pagare un contributo unificato!) passaggio. Ottenuta l'autorizzazione, l'ufficiale giudiziario accede a tutte le banche dati tenute dale pubbliche amministrazioni, o alle quali le stesse possono accedere. Fra queste sono da segnalare - oltre ai registri immobiliari e dei beni mobili registrati, che erano accessibili al creditore anche in precedenza - l'anagrafe tributaria, compreso l'archivio dei rapporti finanziari, e le banche date degli enti previdenziali, dalle quali potrà ricavarsi l'esistenza di elementi attivi del patrimonio del debitore nei confronti delle banche e di altri istituti finanziari, oppure l'esistenza di rapporti di lavoro o pensionistici. Una volta individuati questi elementi attivi, l'ufficiale giudiziario può procedere all'immediato pignoramento degli stessi (art. 492-bis, III e V c.p.c.) oppure indicarli al creditore affinché questi taccia una scelta fra i più elementi attivi (art. 492-bis, VI c.p.c.) Se l'ufficiale giudiziario non è dotato delle strutture tecniche necessarie, il creditore può ottenere direttamente dai gestori delle banche dati le informazioni necessarie (art. 155- quinquies disp. att. c.p.c.). Dopo aver visto le disposizioni generali sul pignoramento, esaminiamone ora le singole fattispecie. A) Iniziamo dal pignoramento mobiliare. Ex artt. 513 e ss. c.p.c., la richiesta di effettuare il pignoramento mobiliare è fatta dal creditore procedente all' ufficiale giudiziario in forma libera che, di solito, è orale. Poiché l'espropriazione ha lo scopo di trasformare gli elementi attivi del patrimonio del debitore in somme di denaro, con le quali soddisfare il creditore, oggetto del pignoramento sono i diritti che sul bene appartengono al debitore esecutato. Pignorabile è il diritto di proprietà e qualunque altro diritto reale minore che abbia il carattere della trasferibilità. L'art. 2740 c.c. prevede la responsabilità patrimoniale in relazione a situazioni sostanziali che appartengono al patrimonio del debitore. Bisognerebbe dunque, prima del pignoramento, effettuare una ricognizione della consistenza del patrimonio mobiliare del debitore per individuare i beni mobili, su cui il debitore ha la proprietà o altro diritto reale minore trasferibile. Peraltro, il modo di circolazione dei diritti sui beni mobili è caratterizzato da elementi molto evanescenti; accertare l’effettiva esistenza, in capo al debitore, di un diritto pignorabile sul bene mobile comporterebbe indagini complesse e di esito incerto. Bisogna dunque giungere ad una semplificazione, per evitare che si renda necessaria la previa ricognizione degli elementi e condizioni in presenza dei quali il debitore può considerarsi effettivamente proprietario(o titolare di altro diritto reale minore) del bene mobile. Tale semplificazione non rende irrilevante il fatto che il debitore sia vera mente proprietario del bene. Infatti, se viene pignorato un bene che non è di proprietà del debitore esecutato, il vero proprietario può far valere il suo diritto di proprietà ex art. 619 c.p.c. Inoltre, ex art. 2919 c.c., se chi ha subito l'esecuzione non era titolare del diritto trasferito con la vendita forzata, l'aggiudicatario, in linea di principio, non acquista nulla (ma per i beni mobili vale tendenzialmente, come vedremo, la regola opposta). Ma quelle sopra accennate sono vicende eventuali: ai fini del pignoramento non c'è bisogno di accertare previamente che il debitore abbia la proprietà del bene; c'è bisogno invece di un elemento processuale, rilevante solo nel processo esecutivo, e diverso da tutti gli altri rapporti fra soggetti e beni conosciuti dal diritto sostanziale: I'appartenenza. La nozione di appartenenza si ricava dalla dislocazione spaziale dei beni mobili, dal fatto che essi si trovano collocati in beni immobili di cui il debitore esecutato abbia la disponibilità. Tale relazione ha una portata esclusivamente processuale, serve solo a determinare quali siano i beni sottoponibili a pignoramento Tutte le volte in cui l'appartenenza non coincide con la proprietà del bene, diviene utilizzabile lo strumento per far valere la non coincidenza fra il diritto processuale (per il quale è rilevante l'appartenenza) ed il diritto sostanziale per il quale è rilevante la proprietà, o altro diritto reale trasferibile, del bene): l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. L'appartenenza costituisce un criterio di semplificazione che evita di esperire, prima del pignoramento, indagini incerte e difficoltose circa la proprietà dei beni da sottoporre al pignoramento. Bisogna quindi distinguere l’oggetto dell' esecuzione dall'oggetto del processo esecutivo. Oggetto dell'esecuzione, in base agli art. 2740 e 2919 c.c., è la titolarità, in capo all'esecutato, di un diritto sostanziale trasferibile sul bene pignorato, perché solo a quelle condizioni un bene fa parte del suo patrimonio (e solo a quelle condizioni può essere efficacemente trasterito). Oggetto del processo esecutivo è invece l'appartenenza del bene, la sussistenza di quella situazione di natura processuale prevista dall'art. 513 c.p.c. L'ordinamento ovviamente spera che tali situazioni coincidano: se non coincidono, sono previste le adeguate contromisure. L'art. 513 c.p.c. tornisce la nozione fondamentale di appartenenza. a) Possono essere pignorati i beni mobili che si trovano in un bene immobile (casa ed altri luoghi) « appartenente » al debitore. Non si parla ovviamente di proprietà di tali beni immobili, ma della loro disponibilità materiale da parte del debitore, a prescindere da qualsiasi titolo che possa legittimare tale disponibilità materiale. A queste condizioni, scatta l'appartenenza, e il pignoramento può essere effettuato sui beni mobili che siano collocati in questi beni immobili. b) Tuttavia l'art. 513, II c.p.c., prevede che, su ricorso del creditore, il giudice può autorizzare il pignoramento mobiliare anche in relazione a beni che non si trovano in luoghi appartenenti al debitore, ma dei quali egli può direttamente disporre senza che colui, al quale appartiene l'immobile, in cui il bene mobile si trova, possa rifiutare all'esecutato di disporre direttamente di tale bene mobile. Ciò accade, ad es., per l'autovettura nella rimessa o per i valori nella cassetta di sicurezza della banca. c) La terza possibilità di pignoramento mobiliare diretto si ha quando I’ufficiale giudiziario sottopone a pignoramento le cose del debitore che il terzo possessore consente di esibirgli. Della cosa mobile il debitore non ha la disponibilità materiale, perché tale cosa mobile è nel possesso o detenzione di terzo, ad es., a titolo di comodato, locazione, deposito. In questi casi le possibilità sono due: o il terzo riconosce volontariamente che il bene posseduto è di proprietà del debitore e ne consente il pignoramento, come prevede l'art. 513, IV c.p.c., o, se il terzo rifiuta il consenso al pignoramento diretto, diviene necessario ricorrere al pignoramento presso terzi, in quanto occorre accertare la proprietà del bene mobile in capo al debitore, nel contraddittorio del terzo detentore o possessore. Gli artt. 514-516 c.p.c. indicano una serie di cose mobili in relazione alla quale la pignorabilità è assolutamente (art. 514) o parzialmente esclusa (art. 515) o consentita in condizioni particolari di tempo (art. 516). Sono norme che riguardano beni di primaria necessità per il debitore e/o di scarso valore economico. Le questioni relative alla pignorabilità dei beni danno luogo a opposizione all'esecuzione (art.615, II c.p.c.). Il pignoramento mobiliare si svolge attraverso la ricerca dei beni mobili, nei luoghi previsti dall'art. 513 c.p.c., e nei limiti stabiliti dagli artt. 514-515-516 c.p.c., da parte dell'ufficiale giudiziario. Sono irrilevanti le eventuali affermazioni del debitore esecutato circa la non corrispondenza fra appartenenza e proprietà. Se anche il debitore afferma che i beni, che si trovano in quei determinati luoghi, non sono suoi, ciò non esime l'utficiale giudiziario dal procedere ugualmente al pignoramento, tranne che il creditore, presente al pignoramento stesso, non decida di rinunciare, in quanto si convinca della fondatezza delle affermazioni del debitore. Quest’ultimo non è legittimato a far valere diritti altrui (art. 81 c.p.c.). Spetta a chi si afferma proprietario dei beni pignorati tutelare il suo diritto nella forma che il processo esecutivo prevede (e cioè con l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c.). Ex art. 517 c.p.c. l'ufficiale giudiziario deve preferire i beni di maggior valore e di più sicura realizzazione (denaro, oggetti preziosi, titoli di credito) e, al di fuori di tali beni, deve scegliere le cose che possono essere liquidate più facilmente. La quantità di beni pignorati deve corrispondente ad un presumibile valore di realizzo pari all’entità del credito indicato nel precetto, aumentato della metà. L'ufficiale giudiziario, man mano che individua i beni coni criteri dell'art. 517 c.p.c., li descrive, mediante rappresentazione fotografica o altro strumento simile, con l'assistenza di uno stimatore. E’ possibile il differimento delle (sole) operazioni di stima. In altri termini, l'ufficiale giudiziario effettua prima un pignoramento provvisorio; poi interviene lo stimatore, che ha la possibilità di accedere al luogo in cui si trovano i beni pignorati. Una volta effettuata la stima, sulla scorta dei risultati di questa l'ufficiale giudiziario procede al pignoramento definitivo. L’ufficiale giudiziario trasmette copia del verbale di pignoramento al creditore e al debitore che lo richiedono. L'art. 518, VII c.p.c. prevede la possibilità di procedere al completamento del pignoramento, quando lo richieda il creditore entro il termine per il deposito dell'istanza di vendita, e il giudice ritenga errato il valore di realizzo dei beni determinato in sede di pignoramento. In sostanza, ricorrendo al giudice il creditore ha la possibilità di ottenere un riesame delle valutazioni effettuate dall'ufficiale giudiziario in sede di pignoramento. Una disposizione analoga è contenuta nell'art. 540-bis c.p.c.: qualora, all'esito della vendita, la somma ricavata non sia sufficiente, il giudice dell'esecuzione, su istanza di uno dei creditori, ordina l'integrazione del pignoramento. l beni così pignorati sono venduti senza che sia necessario presentare un'altra istanza di vendita. Ai sensi dell'art. 165 disp. att. c.p.c., al pignoramento può partecipare il creditore, a sue spese. Dopo aver redatto il verbale di pignoramento, l'ufficiale giudiziario provvede ad asportare i collaborazione del custode: si pensi, ad esempio, ad un terreno non recintato confinante con una strada pubblica, e quindi facilmente accessibile. L'art. 559, VI c.p.c. stabilisce che i provvedimenti di nomina e sostituzione del custode sono dati dal giudice con ordinanza non impugnabile, e dunque non modificabile o revocabile -- salve, ovviamente, le sopravvenienze- neppure nei limiti previsti dall'art. 487 c.p.c. Ovviamente, il provvedimento del giudice è controllabile con l'opposizione agli atti esecutivi. L'art. 560 c.p.c. ha recepito le esperienze di alcuni tribunali, che avevano mostrato la necessità, in sede di espropriazione immobiliare, di una figura simile al curatore delle espropriazioni concorsuali. E, nella sostanza, il custode del bene immobile pignorato è una sorta di mini-curatore, che differisce dal fratello maggiore concorsuale soprattutto per il fatto che là e non qui l'esecutato perde la legittimazione processuale. Rilevante, in questa direzione, è soprattutto l'art. 560, V c.p.c., nella parte in cui dispone che "il custode provvede in ogni caso, previa autorizzazione del giudice dell'esecuzione all'amministrazione e alla gestione dell'immobile pignorato ed esercita le azioni previste dalla legge e occorrenti per conseguirne la disponibilità". Lo stesso art. 560, V c.p.c. stabilisce che spetta al giudice dell'esecuzione, nel disporre la vendita del bene, prevedere le modalità con cui i potenziali acquirenti possano esaminare lo stesso. Si ricordi che, in questa fase, ormai l'esecutato non e più normalmente custode, salvi i casi previsti dall'art. 559, IV c.p.c. Gli art. 560, III e IV c.p.c. prevedono la liberazione in via amministrativa dell'immobile pignorato, senza oneri per l'acquirente in vendita forzata. La liberazione è disposta dal giudice dell'esecuzione quando non autorizza l’esecutato a continuare ad abitare l'immobile, quando revoca l'autorizzazione concessa in precedenza, ed in ogni caso quando pronuncia il provvedimento di aggiudicazione o assegnazione. Il custode provvede alla liberazione in via amministrativa, cioè utilizzando i suoi poteri autoritativi, se necessario con l'ausilio della forza pubblica. Non si ha più, quindi, come invece si aveva in precedenza, la formazione di un titolo esecutivo e la successiva esecuzione per rilascio ex art. 605 ss. c.p.c. e se l'immobile è nella disponibilità di un terzo il cui diritto è opponibile all'esecuzione, questi può proporre l’opposizione agli atti esecutivi per tar accertare I'esistenza e l'opponibilità del proprio diritto, ed evitare quindi il rilascio del bene. Si tratta evidentemente di ipotesi in cui l'ufficio esecutivo non si è accorto della presenza del terzo, oppure più facilmente ritiene che il titolo di costui non sia opponibile all’esecuzione. Esempio: Tizio è il debitore esecutato, il quale ha concesso il bene in locazione a Caio in data anteriore al pignoramento. L'ufficio esecutivo ritiene il contratto non opponibile all'esecuzione, ad es. perché non ha data certa. Caio invece sostiene che l'atto abbia data certa. Caio propone dunque opposizione agli atti esecutivi avverso il provvedimento di liberazione. Si noti bene che incontriamo qui per la prima volta l'utilizzazione dell'opposizione agli atti esecutivi per risolvere non già una controversia di diritto processuale, come di solito accade, sibbene una controversia di diritto sostanziale. Altre ipotesi le vedremo fra poco. C) Vediamo ora il pignoramento dei crediti. Qui l'ordinamento non si accontenta della semplice affermazione del creditore, e neppure è possibile quell'indice di appartenenza che forma il presupposto del pignoramento mobiliare. Il legislatore, perché si possa procedere al pignoramento di crediti (o beni mobili del debitore in possesso di terzi), istituisce un variegato meccanismo che può avere una disciplina diversificata. Si noti, per inciso, che, se il terzo debitore è solvibile, il pignoramento dei crediti è la forma più sicura e meno dispendiosa di espropriazione forzata, cui si ricorre di preferenza. Occorre tuttavia tener presente che vi sono limiti alla pignorabilità dei crediti (art. 545 c.p.c.). Il pignoramento si effettua notificando al debitore esecutato e al terzo debitore un atto che deve contenere (art. 543 c.p.c.): l'indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del precetto e I’indicazione, almeno generica, delle somme o cose dovute dal terzo debitore al debitore esecutato. Nell'atto di pignoramento deve essere fissata un’udienza dinanzi al tribunale competente ex art. 26-bis c.p.c., e deve inoltre essere indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata (pec del creditore procedente (rectius, del suo difensore). L'art. 26-bis, II c.p.c. individua come competente il giudice del luogo ove il debitore esecutato ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Eccezionalmente, se debitore esecutato è una pubblica. amministrazione, competente è il giudice dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Questa speciale regola di competenza serve ad evitare che si accentrino sul tribunale di Roma la gran parte dei pignoramenti contro la pubblica amministrazione. Il debitore esecutato deve essere citato a comparire all'udienza fissata, mentre il terzo debitore è invitato a rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. mediante lettera raccomandata o pec, da inviare al (difensore del) creditore nel termine di dieci giorni dalla notificazione dell'atto di pignoramento. Egli inoltre deve essere avvertito delle conseguenze della sua eventuale inerzia (art. 543, II n. 4 c.p.c.). Con la notifica di tale atto si producono già tutti quanti gli effetti del pignoramento. La produzione di tali effetti è però provvisoria e condizionata al completamento del procedimento che illustreremo. Ex art. 543 c.p.c. l'atto di pignoramento contiene l'ingiunzione al debitore di non disporre del bene ai sensi dell'art. 492 c.p.c. La posizione del terzo debitore, dal momento in cui gli viene notificato il pignoramento, è quella del custode (art. 546 c.p.c.). Egli non deve più adempiere nei confronti del debitore esecutato. L'eventuale adempimento è inopponibile al creditore procedente, e quindi il terzo debitore sarà costretto a ripetere I'adempimento al creditore o, più in generale, a colui al quale l'esecuzione forzata trasferirà il credito pignorato. Vi è tuttavia un limite agli effetti del pignoramento: il credito dell'esecutato è pignorato per l'entità massima del 150% della somma oggetto del pignoramento (art. 546, I c.p.c.). Se il credito pignorato, dunque, è superiore a tale entità, per la parte eccedente il terzo non è soggetto agli obblighi di custodia, e quindi può tranquillamente adempiere. Esempio: Tizio, fornitore, notifica a Caio, appaltatore debitore, ed a Sempronio, appaltante debitor debitoris, un atto di pignoramento del credito che l'appaltatore ha verso l'appaltante per i lavori effettuati. Il credito di Tizio verso Caio, quale risulta dall'atto di precetto, è di 1.000,00 euro; il credito di Caio verso Sempronio è di 10.000,00 euro. L'atto di pignoramento costituisce Sempronio custode per 1.500,00 euro. Gli altri 8.500,00 euro possono tranquillamente essere pagati da Sempronio a Caio. L'ulteriore sviluppo del procedimento di pignoramento dei crediti differisce a seconda che il terzo debitore renda o meno una dichiarazione conforme a quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento. Se il terzo rende una dichiarazione conforme a quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento, questo si perfeziona e si consolidano quegli effetti che si erano provvisoriamente prodotti con la notifica dell'atto stesso. Se dunque il creditore riceve dal terzo la lettera o la pec, nella quale quest' ultimo rende una dichiarazione conforme a quanto contenuto nell'atto di pignoramento, egli all'udienza produce il documento, e il processo esecutivo può andare avanti, perché il pignoramento si è perfezionato. Se, viceversa, il creditore non riceve risposta dal terzo, e lo dichiara all'udienza, il giudice, con ordinanza, fissa un'udienza successiva. L’ordinanza è notificata al terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Il pignoramento dei credití costituisce, dunque, una fattispecie a formazione progressiva. Gli effetti si producono provvisoriamente dal momento della notificazione dell'atto ex art. 543 c.p.c. e sono condizionati al perfezionamento della fattispecie. Se la fattispecie non si perfeziona, gli effetti sono eliminati retroattivamente: anche quegli effetti provvisori, che fino all'udienza si erano prodotti, vengono meno. A questo punto occorre affrontare l'ipotesi in cui il terzo non renda una dichiarazione conforme: quindi che egli rimanga inerte, oppure renda una dichiarazione negativa o comunque difforme da quanto affermato dal creditore nell'atto di pignoramento. Ma per intendere bene la disciplina introdotta nel 2012, occorre fare un breve riepilogo di quella precedentemente in vigore. Nella versione originaria del c.p.c. del 1942, il terzo debitore era sempre chiamato a partecipare all'udienza per rendere la dichiarazione. Per questa ragione la competenza era determinata dalla residenza del terzo debitore: per facilitare la sua presenza all'udienza. Se il terzo si presentava e rendeva una dichiarazione conforme, il giudice assegnava il credito. Se il terzo non si presentava, o presentandosi taceva o rendeva una dichiarazione non conforme, il creditore procedente aveva l’onere di proporre una domanda di accertamento dell'obbligo del terzo. La domanda del creditore sospendeva automaticamente il processo esecutivo ed apriva un ordinario processo di cognizione, al termine del quale poteva accadere che fosse accertato esistente o non esistente l'obbligo del terzo. Nel primo caso il pignoramento si perfezionava, nel secondo invece il processo esecutivo si estingueva ed il pignoramento ovviamente perdeva effetti, trattandosi di una fattispecie a formazione progressiva che non si era completata. Nell'espropriazione dei crediti, dunque, il pignoramento si pertezionava alternativamente sulla base di una sentenza di accertamento oppure sulla base della dichiarazione del terzo debitore, dichiarazione avente natura lato sensu confessoria (lato sensu perché sappiamo che la confessione ha ad oggetto fatti, mentre qui la dichiarazione del terzo riguarda diritti) e che valeva (come vale tutt' oggi) ad accertare l'esistenza del diritto del debitore oggetto del pignoramento. L'accertamento che deriva dalla dichiarazione è sostanzialmente equivalente a quello che deriva dalla sentenza. Ricapitoliamo la disciplina originaria del c.p.c.: l'assegnazione del credito poteva avvenire solo dopo che tosse stata accertata l'esistenza del credito pignorato, cioè dell'obbligo del terzo. Tale certezza era raggiunta alternativamente o in virtù di una dichiarazione del terzo, conforme all'atto di pignoramento o, se difforme, non contestata dal creditore; oppure in virtù di una sentenza. Quando, dunque, il creditore assegnatario, a fronte dell'eventuale inadempimento del terzo, si fosse trovato costretto a procedere ad esecuzione forzata contro di lui - ciò che egli poteva (e può) fare utilizzando come titolo esecutivo l'ordinanza di assegnazione – il terzo avrebbe potuto, per negare l'esistenza del proprio debito, sollevare soltanto le contestazioni compatibili con l'efficacia preclusiva o della sua dichiarazione o della sentenza: nella sostanza, solo allegando tatti modificativi ed estintivi successivi alla sua dichiarazione o all'udienza di precisazione delle conclusioni del processo da cui era scaturita la sentenza che aveva accertato il suo credito. Esempio: Tizio, appaltatore, per soddisfare il proprio credito di 100,00 euro, sottopone a pignoramento un credito che Cai0, appaltante, ha verso Sempronio. Sempronio rende una dichiarazione conforme, affermando di essere debitore di Caio per 100,00 euro. Il giudice assegna a Tizio il credito che Caio ha verso Sempronio. Se Sempronio paga, tutto bene. Se non paga, Tizio può procedere ad esecuzione forzata contro Sempronio in virtù dell'ordinanza di assegnazione. Sempronio si oppone all'esecuzione intrapresa contro di lui, affermando di non essere debitore: ebbene, egli potrà opporre solo fatti Intatti, in assenza di un'assegnazione, il creditore non può vantare alcun diritto contro il terzo pignorato al di fuori del processo esecutivo; si produce una situazione analoga a quella che, come vedremo, si verifica per le controversie in sede di distribuzione: avendo eliminato il processo di cognizione che, in precedenza, decideva tali controversie ed avendo affidato la soluzione delle stesse al giudice dell'esecuzione, mentre le contestazioni fra creditore e debitore trovano una sede dichiarativa esterna, quelle fra creditori non possono più essere oggetto di un processo di cognizione. Diviene quindi necessario individuare uno strumento cognitivo contenzioso, a tutela del creditore procedente che si veda rifiutata l'assegnazione sulla base di un «accertamento » compiuto dal giudice dell' esecuzione, e quindi senza efficacia decisoria. Vedremo meglio, quando esamineremo le controversie in sede di distribuzione, che questo strumento può essere l'opposizione agli atti esecutivi. La riforma del 2015 ha modificato gli artt. 548 e 549 c.p.c., dando rilevanza al problema della identificazione del credito o dei beni del debitore in possesso del terzo. Si è visto, intatti, che nell'atto di pignoramento i crediti del debitore verso il terzo o i beni del debitore che si trovano presso il terzo possono essere individuati in modo anche generico. Ove il creditore individui, con l'atto di pignoramento, i crediti che il suo debitore ha verso il terzo, o i beni del suo debitore che si trovano presso il terzo, e quest'ultimo rimanga inerte, ai fini del processo esecutivo ciò è sufficiente. Esempio: Tizio, creditore, afferma nell'atto di pignoramento che Caio, suo debitore, è creditore dei canoni di locazione di un immobile affittato a Sempronio. Tizio, creditore, afferma nell’atto di pignoramento che Caio, suo debitore, ha dato in comodato a Sempronio un dipinto del Caravaggio raffigurante S. Giovanni decollato. Ma se il creditore non individua il credito o i beni, oppure li individua ma sorgano contestazioni relativamente ad essi, si pone il problema della identificazione degli stessi. Esempio: Tizio, creditore, afferma nell' atto di pignoramento che Caio, suo debitore, ha un credito verso la banca Alfa, tondato su un contratto bancario, senza essere in grado di precisare ulteriormente di che tipo di contratto si tratti, né tantomeno l'entità del credito. Tizio, creditore, afferma nell' atto di pignoramento che Caio, suo debitore, è proprietario di alcuni mobili, posti nel magazzino di Sempronio. Per affrontare il problema, occorre tener conto che l'« accertamento» da compiere in sede esecutiva è funzionale esclusivamente alla prosecuzione del processo esecutivo. Esso dunque non deve necessariamente avere le caratteristiche proprie del processo di cognizione. Da questo punto di vista è evidente che le cose stanno diversamente per i crediti e per i mobili. Per i crediti, non è necessario accertare né il titolo né l'entità. Non è necessario accertarne il titolo, perché quest'ultimo è rilevante ai fini del pagamento che il terzo debitore deve fare al creditore assegnatario; non è necessario accertarne l'entità, perché questa è parametrata al credito per cui si procede Esempio: riprendendo l'esempio precedente, se il credito di Tizio verso Caio è di 1.000 €, e la banca non rende alcuna dichiarazione, ai fini esecutivi non serve stabilire di che tipo di credito si tratti né di quale entità esso sia: il credito può essere assegnato per 1.000 euro più le spese del processo esecutivo. Le cose cambiano invece per i beni: poiché essi, una volta perfezionato il pignoramento, dovranno essere prelevati dal terzo e venduti. Quindi occorre sapere con esattezza quali sono i beni: altrimenti come può il delegato alla vendita prelevare, dalla congerie di mobili esistenti nel magazzino del terzo, quelli di proprietà del debitore esecutato? Pertanto, oltre che per la contestata dichiarazione, anche in caso di mancata dichiarazione può essere necessario preventivamente individuare il bene. Cap.11 Gli effetti conservativi del pignoramento La disciplina degli effetti conservativi del pignoramento è contenuta nel codice civile, perché così era nel codice napoleonico, e nel codice civile è rimasta per tradizione storica. E bene evidenziare che la normativa che esamineremo, come del resto quella degli effetti sostanziali della vendita forzata che vedremo in seguito, è comune all'espropriazione singolare, all'esecuzioni concorsuali ed alle espropriazioni speciali. Per capire meglio i meccanismi previsti dal codice civile, occorre previamente individuare i pericoli che corre il creditore per il fatto che la tutela esecutiva, che egli richiede, non gli è concessa subito, ma dopo un determinato periodo di tempo. Non è possibile accordare al creditore, nel momento stesso in cui propone la domanda, la tutela che egli richiede. Ci sarà inevitabilmente un certo intervallo di tempo fra il pignoramento e la vendita forzata, intervallo di tempo in cui si possono verificare eventi capaci di pregiudicare la tutela esecutiva richiesta. I pericoli che egli corre sono due: da un lato, vi sono le modificazioni della realtà materiale che riguarda il bene su cui cade il diritto pignorato. A tale pericolo si fa fronte mediante la custodia. Esempio: la sottrazione del bene mobile, il danneggiamento del bene pignorato, la mancata amministrazione e custodia del bene immobile pregiudicano il diritto del creditore. Con l'affidamento del bene alla cura di un custode si garantisce la sicurezza del bene stesso. In materia di custodia sono previste anche sanzioni penali ex artt. 388 e 388-bis c.p. Dall' altro lato, vi sono le modificazioni attinenti alla titolarità del diritto pignorato, attraverso atti di disposizione idonei a sottrarre il bene alla garanzia del credito. Esempio: se la alienazione del bene pignorato fosse idonea a produrre i suoi effetti tipici, il bene, venduto dal debitore esecutato, non figurerebbe più nel suo patrimonio come elemento attivo e cosi il creditore sarebbe costretto a rinunciare alla esecuzione forzata e ad agire su un altro elemento attivo del patrimonio del debitore. L'ordinamento fa fronte a questo secondo pericolo modificando la disciplina ordinaria degli atti di disposizione, e prevedendo una disciplina speciale per gli atti di disposizione compiuti dal debitore esecutato dopo il pignoramento. Nell'individuazione di tale disciplina speciale occorre seguire il principio del minimo mezzo: l'alterazione delle regole ordinarie deve essere contenuta nei limiti strettamente indispensabili al raggiungimento dello scopo. Di fronte alle varie, astrattamente possibili alterazioni della disciplina sostanziale ordinaria, occorre scegliere quella che è sufficiente a raggiungere lo scopo di tutelare il creditore e che al tempo stesso altera meno delle altre la disciplina di diritto comune. Abbiamo applicato il principio del minimo mezzo anche in tema di successione nel diritto controverso. Esaminiamo dunque gli art. 2912 ss. c.c., tenendo conto che il pignoramento ha lo scopo di impedire che la circolazione del diritto pignorato pregiudichi il creditore che effettua il pignoramento. Ex art. 2912 c.c. il pignoramento comprende le pertinenze, gli accessori ei frutti del bene pignorato. I frutti che maturano dopo il pignoramento vengono acquisiti all’esecuzione, sia quelli civili che quelli naturali. Ciò è possibile perché, dal momento del pignoramento, il bene è affidato alla custodia di un soggetto, che ha obbligo d'amministrarlo nell'interesse dell'esecuzione, percependone all'uopo i relativi frutti. Al termine dell'espropriazione egli dovrà rendere il conto. Ex art. 1148 c.c. i frutti sono percepiti dal possessore e quindi la percezione dei frutti è conseguenza della situazione possessoria. Col pignoramento il debitore pignorato perde il possesso del bene, che è affidato ad un custode; e se anche custode è l debitore stesso, egli non esercita più il possesso come specchio di un diritto reale, ma esercita la detenzione nell'interesse di terzi. Egli è obbligato al rendiconto appunto perché esercita un'attività nell'interesse altrui. Si è già detto, tuttavia, che con riguardo ai beni immobili non è affatto sicuro che il pignoramento cada su un bene, di cui l'esecutato abbia il possesso. Mentre, nel pignoramento dei beni mobili, l'art. 513 c.p.c. fa coincidere la materiale disponibilità col pignoramento (i beni mobili pignorati "appartengono all'esecutato e col pignoramento si ha il suo spossessamento), per gli immobili è possibile che il pignoramento cada su beni di cui l'esecutato non abbia il possesso, dato che il pignoramento immobiliare non presuppone che il bene immobile sia posseduto dall'esecutato. In tal caso l'esecutato non perde il possesso del bene semplicemente perché non lo aveva in precedenza, e quindi l'art. 2912 c.c. non può operare e gli eventuali frutti continuano ad essere percepiti dall'effettivo possessore del bene in questione. Quindi, se il bene immobile pignorato è in possesso dell'esecutato, si applicano le norme sulla custodia: il debitore diviene custode del bene con i relativi obblighi ex art. 2912 c.c.; e, infine, i frutti maturati dopo il pignoramento sono percepiti solo materialmente dall' esecutato, che non può più farli propri ma deve conservarli nell'interesse dell' esecuzione. Se il bene pignorato è posseduto da terzi al momento del pignoramento, allora il debitore esecutato non può diventarne custode, perché non ne ha originariamente il possesso. Come il debitore esecutato fino al pignoramento non percepiva i frutti del bene, che erano percepiti dal terzo possessore, così, dopo il pignoramento, il debitore esecutato non puo percepirli perché i frutti continuano ad essere percepiti (art. 1148 c.c.) dal possessore del bene stesso. Il debitore esecutato, possessore del bene al momento del pignoramento, perde dunque il possesso del bene: se ne mantiene la materiale disponibilità, ciò avviene a titolo di custodia. Il possesso, peraltro, non viene acquisito dal creditore procedente né, più in generale, dall'esecuzione. II possesso si congela: I'esecutato lo perde, ma nessuno acquista il possesso civilistico sul bene. Ciò in quanto il creditore procedente, con il pignoramento, acquista un diritto non di natura sostanziale, ma processuale, inidoneo a far sorgere il possesso, il quale esige (art. 1140 c.c.) un'attività corrispondente all'esercizio di un diritto reale: non è sufficiente l’esercizio di un diritto processuale-strumentale, quale quello del creditore pignorante. II possesso rimane in una sorta di limbo fino a che, effettuata la vendita forzata, il bene non sarà consegnato all'aggiudicatario che acquisterà di nuovo il possesso corrispondente al diritto (sostanziale) acquistato in sede di vendita forzata. Ex art. 2913 c.c., gli atti di alienazione dei beni pignorati non hanno etfetto in pregiudizio del creditore procedente e degli eventuali creditori che intervengano nell'esecuzione. L'eccezione, prevista dallo stesso art. 2913 c.c., riguarda il possesso di buona fede per i beni mobili non iscritti in pubblici registri. Il debitore esecutato (ma più in generale chi ha la disponibilità materiale del bene) può tar nascere a favore di un terzo, a titolo originario, un diritto sul bene pignorato sulla base della regola prevista dall' art. 1153 c.c. (acquisto in buona fede di beni mobili). Tale regola vale anche ed a più forte ragione quando- come nel caso di specie l'alienante incontra limiti al suo diritto di disposizione del bene, pur essendone proprietario; quando, cioè, ciò che manca all'alienante non è la titolarità del diritto, ma il potere di disporne. L'art. 1153 c.c., in sostanza, sana non solo un difetto di titolarità, ma anche un difetto di potere dispositivo. Se il terzo acquirente del bene mobile pignorato riceve il possesso in buona fede, acquista un diritto che è opponibile anche al creditore procedente, e che travolge gli effetti del pignoramento. Per il pignoramento dei beni mobili il legislatore ha posto quindi una particolare attenzione alla custodia del bene, in quanto il custode dei beni mobili pignorati, avendone la materiale disponibilità, ha sempre la possibilità di sottrarre il bene dell'espropriazione rimane dunque il diritto del debitore Tizio e non quello dell'acquirente del bene pignorato Sempronio. Il titolo d'acquisto di Mevio si forma contro il debitore Tizio e non contro l'acquirente Sempronio: e ciò per non privare Sempronio dei titoli di proprietà del bene diversi e ulteriori rispetto a quello proveniente dal debitore esecutato. E’ necessario paralizzare il titolo d'acquisto di Sempronio da Tizio, e non gli ulteriori titoli di acquisto che Sempronio abbia, oltre a quello derivante dal debitore esecutato: ciò sarebbe eccessivo e Mevio, con la vendita forzata, acquisterebbe più diritti di quanti ne aveva Tizio. L'art. 2914 c.c. costituisce l'applicazione concreta dell'art. 2913 c.c., e individua i criteri per risolvere il conflitto fra l'esecuzione e gli aventi causa del debitore esecutato, cioè coloro che abbiano acquistato diritti sul bene pignorato. L'art. 2914 c.c. fornisce le regole che determinano la priorità fra l'atto di pignoramento e l'atto di alienazione: cosi che, se prioritario è l'atto di pignoramento, si determina l'inefficacia prevista dall'art. 2913 c.c.; se, invece, prioritario è l'atto di alienazione, si applica la regola dell'efficacia dell'atto di alienazione nei confronti del creditore procedente: e quindi l'acquirente prevale sul creditore, salvo, l'esperimento, da parte di quest'ultimo in separata sede, delle azioni a tutela del creditore (revocatoria, simulazione, nullità, etc.). L'art. 2914 c.c. prevede quattro fattispecie, che risolvono il conflitto fra creditore procedente e terzo acquirente dal debitore esecutato attraverso gli stessi criteri, con i quali si risolve il conflitto fra due aventi causa dello stesso dante causa, equiparando cosi il creditore procedente, nel conflitto con gli aventi causa del debitore esecutato, ad un avente causa del debitore stesso. L'ipotesi presa in esame dall'art. 2914 c.c. è la seguente: Caio pignora un bene di Tizio; Sempronio avanza diritti sul bene stesso in quanto atterma di averli derivati da Tizio. Chi prevale? Ex art. 2914 c.c., il conflitto fra Caio e Sempronio si risolve come il conflitto fra due aventi causa da un comune dante causa, equiparando la posizione di Caio a quella di un avente causa del debitore esecutato. Col pignoramento Caio acquista un diritto processuale- strumentale che è equiparato, nel conflitto con Sempronio, ad un diritto reale. Esaminiamo ora le singole ipotesi previste dall' art. 2914 c.c. Al n. 1, con riferimento ai beni immobili, si stabilisce che fra Sempronio, avente causa del debitore esecutato Tizio, e Caio, creditore pignorante, prevale colui che per primo ha trascritto, rispettivamente, l'atto di acquisto o il pignoramento. Secondo l'art. 2644 c.c., nel caso di doppio atto di disposizione sullo stesso bene immobile, prevale quello, dei due soggetti, che ha trascritto per primo il proprio atto. E la stessa regola dell'art. 2914 n. 1 c.c. Al n. 2 si stabilisce che, nell'ipotesi in cui oggetto di pignoramento è un credito che sia stato ceduto da parte del debitore esecutato a un terzo, il contlitto fra creditore pignorante (che vuole sottoporre il credito del suo debitore all'espropriazione forzata) e il cessionario (che vuole far valere ciò che ha acquistato dal debitore esecutato) si risolve sulla base della priorità fra il pignoramento e la notificazione della cessione al debitore ceduto, o l'accettazione della cessione da parte di costui con atto di data certa. Bisogna chiarire che l'atto di pignoramento, in quanto posto in essere da un pubblico ufficiale -l'ufficiale giudiziario- è un atto pubblico che ha data certa, per definizione. L'art. 1265 c.c., che riguarda la doppia cessione del credito, dà la stessa disciplina dell'art. 2914 n. 2 c.c.: fra i due creditori cessionari, prevale quello che ha notificato per primo la cessione oppure che ha visto per primo accettata la propria cessione con atto avente data certa. Nel caso di pignoramento, la priorità della notifica della cessione o dell' accettazione della stessa mediante atto avente data certa, rispetto alla notifica del pignoramento, dà al cessionario la prevalenza rispetto al creditore procedente, e viceversa; il creditore procedente è quindi equiparato ad un avente causa del debitore esecutato. Per quanto riguarda l'art. 2914 n. 3 c.p.c., occorre prendere atto che, nel codice civile, non esiste una norma che disciplina il conflitto derivante dalla doppia alienazione di universalità di mobili. Ciò perché in tale ipotesi, torna applicabile la regola generale, valida laddove il legislatore non stabilisca diversamente, e cioè che fra i due acquirenti prevale quello che ha un atto di data certa anteriore. Se venissero cancellati dal nostro sistema gli artt. 2644, 1265, 1155 c.c., il criterio che dovrebbe essere utilizzato per risolvere il conflitto fra due aventi causa da un comune dante causa sarebbe quello della priorità dell'atto di acquisto. Ma l'atto di acquisto, per essere opponibile ai terzi, deve avere data certa. Allora, nel caso in cui non esistessero gli artt. 1155, 1265, 2644 c.c., il conflitto fra i due aventi causa da un comune dante causa sarebbe risolto attraverso il criterio dell'atto di data certa anteriore. In conseguenza, anche per l’ipotesi dell'art. 2914 n. 3 c.c. il creditore procedente è equiparato a un avente causa del debitore esecutato, dato che la doppia alienazione di universalità di mobili è l'unica ipotesi residua nel nostro ordinamento in cui si applica il criterio generale dell' atto di data certa anteriore, criterio che sarebbe applicabile a tutti i casi di doppia alienazione, se non ci fossero gli artt. 1155, 1265 e 2644 c.c. II codice civile, in sostanza, ha disciplinato solo le ipotesi che derogano al criterio generale dell' atto di data certa anterioree non quelle che ne fanno applicazione, anche se tale criterio è divenuto, causa le molte deroghe, residuale perché si applica solo alla doppia alienazione delle universalità di mobili. Vediamo ora l'ultima ipotesi: il conflitto fra il creditore pignorante e l'acquirente di un bene mobile dal debitore esecutato. L'art. 1155 c.c. contiene due criteri per risolvere il conflitto derivante da una doppia alienazione mobiliare: a) una delle parti ha acquisito in buona fede il possesso e allora è preferita all'altra: si ha qui un'applicazione dello stesso principio previsto dall'art. 1153 c.c.; b) se nessuno degli acquirenti acquisisce in buona fede il possesso del bene mobile, vale l criterio generale dell'atto di data certa anteriore Nell'art. 2914 n. 4 c.c. ci accorgiamo che c'è qualcosa di particolare. Colui che ha acquistato il bene mobile dal debitore prevale sul creditore procedente in due casi: se ha conseguito in buona fede il possesso del bene prima del pignoramento; oppure se il suo acquisto risulta da un atto di data certa anteriore al pignoramento. Il primo criterio ovviamente non interessa, perché costituisce piena applicazione dell' art. 1155 c.c. Dobbiamo invece soffermarci sull'altro criterio. Si presuppone, in tale ipotesi, che il debitore esecutato abbia venduto il bene mobile; che la vendita sia consacrata in un atto avente data certa, ma il venditore non abbia trasmesso il possesso del bene mobile all' acquirente e lo abbia conservato presso di sé; il bene si trova quindi nei luoghi immobili appartenenti al debitore (art. 515 c.p.c.) e qui è pignorato. L'acquirente del bene mobile propone opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., dimostra che il bene gli era stato venduto con atto di data certa anteriore al pignoramento e vince l'opposizione. Se l'art. 2914 n. 4 c.c. fosse la trasposizione dell'art. 1155 c.c. quale sarebbe la soluzione? Chi consegue per primo il possesso del bene prevale sull'altro e allora il creditore procedente dovrebbe prevalere su chi, pur avendo acquistato il bene mobile dal debitore con atto di data certa anteriore al pignoramento, tuttavia non ha conseguito il possesso del bene stesso. Esempio: Tizio vende il bene mobile prima a Caio e poi a Sempronio. Se Sempronio ha un titolo di data certa anteriore, prevale finché Caio non consegue il possesso del bene. Ma se Caio consegue in buona fede il possesso del bene mobile, nonostante non abbia un titolo di data certa anteriore, la prevalenza passa da Sempronio a Caio. Vediamo ora l'ipotesi analoga in materia di pignoramento. Caio è il creditore pignorante; Sempronio è l'avente causa del debitore esecutato Tizio. Se Tizio vende il bene a Sempronio possono succedere due cose: che Sempronio consegue in buona fede il possesso, e allora prevale su Caio; che Sempronio ha un titolo di data certa anteriore al pignoramento, e prevale ugualmente su Caio. Ma con il pignoramento il possesso viene tolto al debitore esecutato, e così, se il creditore pignorante Caio fosse equiparato ad un avente causa di Tizio, col pignoramento Caio dovrebbe acquistare il possesso ex art. 1155 c.c. e prevalere su Sempronio, anche se questi ha un titolo di data certa anteriore. Ma ciò non succede. Se viene pignorato un bene mobile che precedentemente è stato alienato da Tizio a Sempronio con atto di data certa anteriore al pignoramento, tale acquisto continua ad essere prevalente sull' acquisizione del possesso da parte di Caio col pignoramento. La spiegazione è la seguente. E’ vero che col pignoramento il possesso viene tolto al debitore, però, come abbiamo già visto, ciò non fa acquisire al creditore pignorante una situazione possessoria, perché il diritto del creditore procedente non ha natura sostanziale, ma processuale; egli non è titolare di un diritto reale, il cui esercizio possa essere qualificato come possesso. I| possesso del bene pignorato rimane congelato, paralizzato fino a che con la vendita forzata l'acquirente del bene, al quale sarà consegnato, instaurerà di nuovo un rapporto possessorio, come specchio del diritto di proprietà o del diritto reale minore, che avrà acquistato in sede di vendita forzata. Il creditore, col pignoramento, non acquisisce il possesso del bene ex art. 1155 c.c. e così non può scattare a suo favore la fattispecie di tale norma. Con la vendita forzata, invece, l'aggiudicatario acquisisce il possesso del bene che, in base alle previsioni dell'art. 1155 c.c., gli dà un titolo prevalente su Sempronio, che continua quindi a mantenere la prevalenza, che gli deriva dall'atto di data certa anteriore al pignoramento, fino alla vendita forzata. Se il creditore procedente col pignoramento acquisisse il possesso del bene, l'art. 2914 n. 4 c.c. dovrebbe essere formulato diversamente e non dovrebbe contenere le ultime parole « salvo che risulti da atto avente data certa ». Perché allora: o l'acquirente dal debitore ha acquisito il possesso del bene e quindi il pignoramento presso il debitore non è più possibile, perché il bene si trova presso l'acquirente; o l'acquirente non ha acquisito il possesso del bene e quindi, nel momento del pignoramento, se questo desse al creditore pignorante un possesso idoneo ex art. 1155 c.c., il creditore pignorante, acquisendo per primo il possesso del bene, acquisterebbe pure la prevalenza. Siccome, però, il possesso del bene non viene acquisito dal creditore, continua a rimanere prevalente, fino alla vendita forzata, la posizione dell'acquirente del bene mobile che ha un titolo di data certa anteriore al pignoramento, ancorché non abbia conseguito il possesso. Passiamo ora ad esaminare l'art. 2915, I c.c. Tale norma detta una disciplina identica a quella che si ha quando un soggetto acquista un diritto sul quale grava un vincolo di indisponibilità (ad es., costituzione fondo patrimoniale ex art. 167 c.c.; cessione dei beni a creditori ex art. 1980 c.c.). Anche in questo caso, se il vincolo è trascritto prima della trascrizione dell'atto di acquisto, il vincolo prevale sull'atto di acquisto (beni immobili o mobili registrati). Se invece è trascritto prima l'atto di acquisto e poi il vincolo di indisponibilità, allora prevale il primo sul secondo. Nel caso di beni mobili o universalità di mobili è invece rilevante l'atto di data certa anteriore. Più complesso è l'esame dell'art. 2915, I c.c. Occorre far riferimento agli artt. 2652 e 2653 c.c. Essi prevedono una serie di domande giudiziali che sono soggette a trascrizione per essere opponibili ai terzi. La trascrizione della domanda giudiziale, come sappiamo, ha un duplice etfetto. Anzitutto ha un effetto di natura processuale: rispetto ai terzi la litispendenza si determina con riguardo al momento della trascrizione della domanda. Ove la trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto sia anteriore alla trascrizione dell'acquisto del terzo contro il convenuto, la posizione dell'avente causa del convenuto è disciplinata dall'art. 111 c.p.c. Quindi la sentenza emessa al termine di quel Primo esempio: il 17.12 è trascritta la domanda di rivendicazione di Tizio contro Caio; il 18.12 è trascritto il pignoramento di Sempronio contro Caio. La sentenza che otterrà Tizio contro Caio avrà efficacia anche contro Sempronio (e contro l'aggiudicatario). Secondo esempio: il 17.12 è trascritto il pignoramento di Sempronio contro Caio; il 18.12 è trascritta la domanda di rivendicazione di Tizio contro Caio. La sentenza che accerterà che Tizio è proprietario non sarà efficace nei confronti di Sempronio (e neppure, conseguentemente, dell'aggiudicatario). Ma Tizio, sapendo che la sentenza non sarà efficace verso Sempronio (e quindi neppure verso l'aggiudicatario) può proporre la domanda di rivendicazione nelle torme dell’opposizione ex art.619 c.p.c., dimostrare in quella sede di essere proprietario, nel contraddittorio del debitore Caio e del creditore pignorante Sempronio, ed ottenere una sentenza efficace anche verso Sempronio (e quindi verso l'aggiudicatario). Terzo esempio: il 17.12 è trascritta la domanda di risoluzione del contratto, proposta da Tizio contro Caio; il 18.12 Sempronio trascrive il pignoramento contro Caio. La sentenza fra Tizio e Caio sarà efficace anche verso Sempronio (e verso l'aggiudicatario). I bene tornerà a Tizio e Sempronio non potrà più proseguire T'esecuzione contro Caio, perché il bene non appartiene al patrimonio di Caio. Se il bene è stato trasferito all'aggiudicatario, questi dovrà restituirlo all'attore. Quarto esempio: il 17.12 è trascritto il pignoramento di Sempronio contro Caio; il 18.12 è trascritta la domanda di risoluzione del contratto, con cui Tizio ha venduto a Caio il bene pignorato da Sempronio. Sul piano del diritto sostanziale la posizione di Sempronio (e quindi quella dell’aggiudicatario) è divenuta intangibile da parte dell'attore. L'attore ha diritto al risarcimento dei danni nei confronti di Caio (primo acquirente) ma non può soddisfarsi sottraendo il bene all'esecuzione (o, se già trasferito, all' aggiudicatario). Il creditore pignorante (e dopo di lui l'aggiudicatario) ha la stessa posizione sostanziale di intangibilità di un avente causa del debitore esecutato. Se anche l'attore propone domanda di risoluzione del contratto nelle forme dell'opposizione ex art. 619 c.p.c., tale opposizione è rigettata, perché il creditore pignorante ha trascritto il pignoramento prima della trascrizione della domanda di risoluzione. Infatti, il pignoramento dà al creditore (e dopo di lui all'aggiudicatario) la stessa tutela che l'atto di acquisto dà ad un avente causa del convenuto. Qualora per la salvezza del diritto del subacquirente si renda necessaria, oltre all'anteriorità della trascrizione del suo titolo rispetto alla trascrizione della domanda, anche la presenza degli altri elementi variamente previsti dall'art. 2652 c.c. (buona fede, titolo oneroso, decorso del tempo), la sussistenza di tali elementi deve essere valutata con riferimento al creditore pignorante. Terminiamo l'esame degli effetti sostanziali del pignoramento. Dall'art. 2916 c.c. ricaviamo due principi. Anzitutto, il pignoramento "congela” le ragioni di prelazione dei vari creditori. Nella distribuzione del ricavato si tiene conto solo delle ragioni di prelazione esistenti alla data del pignoramento: quelle sorte dopo il pignoramento non sono opponibili alla massa dei creditori. In secondo luogo, il pignoramento non effettua il blocco dei crediti, i quali possono essere tatti valere all'interno del processo di espropriazione anche se sorti dopo il pignoramento. Se il credito sorto dopo il pignoramento è privilegiato, la ragione di prelazione non ha efficacia; però il creditore può sempre intervenire come chirografario. II credito sorto dopo il pignoramento legittima l'intervento del suo titolare nell'espropriazione (anche lo stesso creditore procedente può fare intervento per i crediti sorti dopo il pignoramento). Questa costituisce una delle differenze principali fra espropriazione singolare ed espropriazione concorsuale. Nell'espropriazione concorsuale non possono tarsi valere crediti sorti dopo la dichiarazione di insolvenza (che equivale ad un pignoramento generalizzato di tutti i beni trasferibili dell'insolvente). Più complesso è il discorso a proposito dell'art. 2917 c.c. Gli effetti del pignoramento del credito sono (ex artt. 2913 e 2914 c.c.) l'inopponibilità all'esecuzione forzata degli atti di disposizione compiuti dopo il pignoramento dal titolare del diritto di credito pignorato. Il pignoramento rende indisponibile il credito in capo al debitore esecutato e gli atti di disposizione che il debitore esecutato compie dopo la notifica dell'atto previsto dall'art. 543 c.p.c. sono inefficaci processualmente verso il creditore procedente e i creditori intervenuti Verso il debitore esecutato gli effetti del pignoramento sono dunque analoghi a quelli del pignoramento di beni diversi dai crediti. II terzo debitore, con la notifica dell'atto previsto dall'art. 543 c.p.c., diventa custode (art. 546 c.p.c.). Quando oggetto del pignoramento è un bene mobile del debitore che si trova presso il terzo e occorre, quindi, far ricorso all'espropriazione presso terzi, il terzo assume gli obblighi della custodia del bene mobile: il terzo non lo può consegnare ad altri soggetti, tanto meno al debitore esecutato, cioè al proprietario del bene stesso. Quando oggetto del pignoramento è un credito, il terzo debitore è obbligato a non adempiere nei confronti del debitore esecutato. Se il terzo adempie nonostante l'intervenuto pignoramento, ex art. 2917 c.c. il pagamento, pur avendo effetti estintivi sul piano del diritto sostanziale, non è opponibile al creditore procedente. Sul piano processuale il terzo debitore è obbligato a corrispondere ugualmente la somma una seconda volta all'esecuzione forzata. II pignoramento congela il credito così com’è al momento in cui il pignoramento è stato effettuato, e le vicende ulteriori che intervengono tra debitore esecutato (titolare del diritto pignorato) e terzo debitore (obbligato sul piano sostanziale a adempiere verso il debitore esecutato), non sono processualmente opponibili al creditore procedente e ai creditori intervenuti, se derivano da atti di disposizione del debitore pignorato, oppure da comportamenti volontari del terzo debitore. Ove, invece, i fatti estintivi del credito si sono prodotti anteriormente al pignoramento, oppure non dipendono da atti di disposizione dell’esecutato, o da comportamenti volontari del terzo debitore, essi sono opponibili al debitore. Esempio: il creditore Tizio pignora il 19.10 un credito che l'esecutato Caio ha nei confronti di Sempronio. In data antecedente al 19.10 si erano maturati i presupposti per la compensazione del credito pignorato (ad es., era divenuto esigibile un controcredito di Sempronio verso Caio). Sempronio può tar valere efficacemente la compensazione nei confronti di Tizio. Cap.12 Le vicende anomale relative al pignoramento Dobbiamo ora esaminare una serie di istituti che si collocano fra il pignoramento e la vendita forzata; istituti che, fra l'altro, dimostrano che nel processo esecutivo è rispettato il principio del contraddittorio, e che la posizione del debitore esecutato e del creditore procedente sono paritarie per ciò che non attiene all’an dell'esecuzione (irrilevante, come si è detto, nell'ottica esecutiva). Ex art. 493, I c.p.c. ci può essere un'unica istanza di pignoramento e un solo atto di pignoramento a tutela di più creditori, anche sulla base di titoli esecutivi diversi. Si ha in tale ipotesi un pignoramento congiunto. L'unicità del pignoramento comporta che le eventuali nullità inerenti alla fase del pignoramento si verificano per tutti, perché, essendo unico l'atto, la nullità che lo colpisce riguarda tutti quanti i creditori. Non così, invece, per le vicende dei rispettivi titoli esecutivi e dei rispettivi crediti. Esempio: è effettuato un pignoramento congiunto su istanza di più creditori; si ha un solo processo esecutivo in cui, in comune, ci sono le attività svolte dal pignoramento (compreso) in poi. Se ad uno dei creditori manca il titolo esecutivo (in senso sostanziale), l’accoglimento dell'opposizione non ha effetti per gli altri creditori. Ma se il debitore fa valere una nullità del pignoramento, e tale nullità viene accertata esistente dal giudice, il pignoramento cade con effetti per tutti. Lo stesso deve dirsi per le nullità successive al pignoramento L'art. 523 c.p.c. disciplina l'unione di pignoramenti. Più ufficiali giudiziari, separatamente richiesti, si trovano congiuntamente ad effettuare un pignoramento mobiliare. Si tratta di un'ipotesi rara, in cui si verifica un unico pignoramento, e quindi la stessa disciplina descritta in precedenza, dalla quale I'unione dei pignoramenti si differenzia perché l'art. 493, I c.p.c. postula un'unica istanza di pignoramento. L'art. 493, II c.p.c. regola il pignoramento successivo. L'istituto è poi ripreso dagli art. 524 (per l'espropriazione mobiliare), 550 (per l'espropriazione dei crediti) e 561 (per l'espropriazione immobiliare) c.p.c., che dettano le modalità con cui si effettua il secondo pignoramento. Esempio: il creditore Caio sottopone un bene immobile di Tizio a pignoramento. Dopo il pignoramento, ma prima della vendita del bene, Sempronio, altro creditore di Tizio, munito di titolo esecutivo, deve scegliere se limitarsi ad intervenire nel processo in corso (ponendo in essere, quindi, un'attività più semplice e meno costosa), oppure effettuare un pignoramento successivo dello stesso bene (ponendo in essere, quindi, un'attività di maggior impegno e più costosa: occorre, infatti, che il creditore notifichi titolo esecutivo e precetto, e compia un secondo pignoramento). Vediamo che differenza c'è fra le due alternative. Ipotizziamo dapprima che si abbia il semplice intervento, secondo la seguente successione: il 13.01 si ha il pignoramento di Caio; il 31.01 si ha l'intervento nell'esecuzione di Sempronio; il 15.02 il debitore esecutato Tizio vende il bene pignorato a Mevio. Se l'esecuzione iniziata da Caio e nella quale Sempronio è intervenuto puramente e semplicemente va in porto senza che il debitore Tizio lamenti vizi del pignoramento, mancanza di titolo esecutivo, etc., L'alienazione del bene pignorato non pregiudica Sempronio, che è intervenuto nell'esecuzione, e che parteciperà alla distribuzione del ricavato della vendita forzata del bene pignorato. Ma qual è la posizione di Sempronio se il pignoramento, effettuato da Caio il 13.01, dovesse essere caducato perché viene dichiarato nullo, oppure perché il creditore Caio non era munito di idoneo titolo esecutivo? II creditore Sempronio intervenuto nel processo esecutivo subisce la stessa sorte di Caio: il processo esecutivo instaurato da Caio non può andare avanti. E ciò costituisce un primo e sicuro pregiudizio, ancorché meramente processuale: Sempronio deve iniziare di nuovo l'espropriazione, notificando titolo esecutivo e precetto, facendo un nuovo pignoramento, e quindi ritardando la sua soddisfazione. Ma se, come nell'esempio fatto, il debitore esecutato Tizio pone in essere un'alienazione in pendenza del processo esecutivo, il creditore Sempronio subisce un pregiudizio anche Il contrasto fra i due aggiudicatari sarà risolto con un ordinario processo di cognizione, che si svolgerà tra di loro. Per stabilire chi degli aggiudicatari ha ettettivamente acquistato il diritto, occorre stabilire se il diritto spettava a Tizio oppure a Mevio. Non ha ovviamente alcuna rilevanza la priorità della trascrizione dell' un pignoramento rispetto all'altro, poiché ciascuno di essi è effettuato contro un soggetto diverso (Tizio e Mevio). lI contrasto può essere risolto anche in via preventiva, attraverso lo strumento dell’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. II creditore pignorante Caio può proporre opposizone di terzo nel processo esecutivo instaurato da Sempronio, e viceversa il creditore pignorante Sempronio può proporre opposizione di terzo nel processo esecutivo instaurato da Caio, ciascuno affermando che il diritto da lui pignorato prevalente sul diritto pignorato dall'altro creditore. Quanto appena detto vale per il pignoramento degli immobili, delle universalità di mobili e dei crediti. Se, invece, è pignorato un bene mobile, i processi esecutivi debbono essere riuniti, anche se i debitori sono diversi. E ciò perché - sempre ex art. 2919 c.c. - la vendita forzata mobiliare ha di regola natura di acquisto a titolo originario, e quindi prevale normalmente la vendita effettuata per prima, a prescindere dal fatto che l'esecutato sia o meno proprietario del bene. Riuniti i processi, e venduto il bene mobile, in sede di distribuzione del ricavato (art. 512 c.p.c.) si accerterà quale dei due debitori era l'effettivo proprietario del bene mobile: il ricavato della vendita sarà distribuito ai creditori di quel debitore. Esempio: Caio pignora contro Tizio il bene mobile X; Sempronio pignora contro Mevio lo stesso bene mobile. I due processi esecutivi devono essere riuniti, e si procede alla vendita. In sede di distribuzione del ricavato, si stabilisce preliminarmente se del bene mobile era proprietario Tizio o Mevio. Se risulta che proprietario era Tizio, il ricavato va al suo creditore Caio; se risulta che proprietario era Mevio, il ricavato va al suo creditore Sempronio. Il principio, che impedisce che due processi esecutivi abbiano luogo, quando pignorato è lo stesso diritto nei confronti dello stesso debitore (nel caso dei beni mobili, anche nei confronti di debitori diversi) è il ne bis in idem. Principio, questo, che si trova anche nel processo di cognizione, perché non è possibile avere due sentenze aventi lo stesso oggetto; così nel processo esecutivo non è possibile che lo stesso diritto possa essere oggetto di più atti di trasferimento. Invece si può avere una pluralità di crediti tutelati con lo stesso processo esecutivo e si possono avere anche più processi esecutivi diversi a tutela dello stesso credito (art. 483 c.p.c.). Ciò significa che il creditore, avendo un titolo esecutivo, può chiedere cumulativamente la tutela dello stesso credito con le varie forme di espropriazione (ad es., un pignoramento mobiliare, un pignoramento di crediti, un pignoramento immobiliare), oppure possono essere fatte più esecuzioni dello stesso tipo su beni diversi. Il cumulo trova però il limite dell'art. 291l c.c., in base al quale il creditore che ha ipoteca, pegno o privilegio speciale sui beni del debitore non può pignorare altri beni dello stesso debitore se non sottopone ad esecuzione anche i beni gravati da prelazione a suo favore. La ratio di tale norma è di evitare che il creditore, che ha una garanzia su un bene, pignori un altro bene per soddisfarsi su quest'ultimo continuando a mantenere la sua prelazione sull'altro. A parte tale eccezione, il cumulo dei mezzi di espropriazione, o anche più espropriazioni dello stesso tipo su beni diversi, sono pienamente ammissibili. Ma il cumulo potrebbe essere eccessivo, cioè il valore dei beni sottoposti a pignoramento potrebbe eccedere il credito per cui si procede. Ma se l'espropriazione è eccessiva (l'art. 483 c.p.c. non lo prevede espressamente, ma è pacifico, sia in dottrina sia in giurisprudenza, che la norma in commento si applica quando il cumulo abbia portato al pignoramento di beni il cui valore complessivo ecceda il credito), su opposizione del debitore il giudice può limitare l'espropriazione al mezzo che il creditore sceglie o, in mancanza, a quello che il giudice stesso determina. Così gli altri processi esecutivi si chiudono ed i beni in essi pignorati sono liberati. Per tale valutazione di eccessività bisogna tener conto, se ci sono già stati, anche dell'intervento di altri creditori. Un altro istituto da esaminare è il pagamento nelle mani dell'ufciale giudiziario (art. 494 c.p.c.). Il primo comma dell'art. 494 c.p.c. consente al debitore esecutato di adempiere nelle mani dell'ufficiale giudiziario: di conseguenza l'esecuzione forzata non ha luogo perché il credito si estingue. Infatti l'art. 494, I c.p.c. stabilisce che in tal modo si evita il pignoramento. Così l'ufficiale giudiziario, invece di effettuare il pignoramento, riceve la somma, che consegna al creditore. Per diritto sostanziale (art. 1188 c.c.) il pagamento va fatto al creditore o ad un suo rappresentante, e se è fatto ad un soggetto diverso non è liberatorio. Ma l’ufficiale giudiziario non è un rappresentante del creditore, sebbene un organo esecutivo, così come il giudice: anche il pagamento fatto al giudice non sarebbe liberatorio. La previsione contenuta nell’art. 494, I c.p.c. è quindi importante perché consente espressamente di effettuare il pagamento con effetto liberatorio anche ad un soggetto diverso da quelli a cui il pagamento dovrebbe essere fatto secondo il diritto sostanziale. L'art. 494, II c.p.c. si riferisce alla ripetizione dell'indebito, regolata dagli artt. 2033 ss. c.c. Colui, che abbia pagato un debito inesistente, può ripetere il pagamento da colui che lo ha ricevuto. II secondo comma dell'art. 494 c.p.c. è peraltro superfuo, perché il diritto di agire in ripetizione dell'indebito non viene meno, anche se la riserva non è effettuata. Si tratta solo di un rafforzativo, che non aggiunge niente alle regole sostanziali. L'istituto è interessante anche sotto un altro profilo. Abbiamo più volte detto che l'esistenza del credito, da tutelare esecutivamente, è irrilevante nel processo esecutivo. Invece qui, eccezionalmente, un effetto di diritto sostanziale (il pagamento e quindi l'estinzione del credito) è rilevante anche sul piano processuale, perché rende legittima l’omissione del pignoramento. Nel caso disciplinato dal terzo comma dell'art. 494 c.p.c. le conseguenze giuridiche sono diverse, anche se il comportamento del debitore coincide materialmente con quello previsto dal primo comma. In ambo i casi l'ufficiale giudiziario vuole effettuare il pignoramento e il debitore gli dà del denaro. Nell'ipotesi disciplinata nel primo comma (pagamento nelle mani dell'ufficiale giudiziario) il denaro è dato come adempimento, e quindi evita il pignoramento. L'esecuzione così non inizia neppure. Nell'ipotesi disciplinata dal terzo comma il debitore dà all'ufficiale giudiziario una somma di denaro maggiore di quella prevista nel primo comma (il credito e le spese sono aumentati del 20%); ma tale somma è percepita dall'ufficiale giudiziario come oggetto di pignoramento. L'ufficiale giudiziario non consegna la somma al creditore, ma la versa nelle casse dell'esecuzione, cosi come accade quando l'ufficiale giudiziario trova del denaro da pignorare (art. 520 c.p.c.). L'ufficiale giudiziario quindi deposita il verbale di pignoramento insieme al denaro, il cancelliere forma il fascicolo dell'esecuzione e si apre il processo di espropriazione. Quali sono, dunque, i vantaggi e gli svantaggi delle due possibilità offerte al debitore? Nel caso del terzo comma il debitore sceglie di sottoporre a pignoramento il denaro per evitare il pignoramento di mobili, immobili o crediti, perché ritiene di poter dimostrare, in sede di opposizione all'esecuzione, che l'esecuzione non deve aver luogo in quanto il creditore non ha il diritto di procedere ad esecuzione forzata. La somma di denaro che egli versa all' ufficiale giudiziario non viene consegnata al creditore, ma è depositata nelle casse dell'esecuzione, e poi distribuita dal giudice. Come vedremo, l'opposizione del debitore consente al giudice di sospendere il processo esecutivo. Quindi il debitore ha in mente di proporre opposizione e di chiedere la sospensione della distribuzione del denaro. Se l giudice accoglie l'istanza di sospensione, e poi l'opposizione all' esecuzione è ritenuta fondata, il debitore ha il vantaggio che la somma di denaro gli verrà restituita, perché è al sicuro nelle casse dell'esecuzione. Al contrario, con il pagamento di cui al primo comma c'è il pericolo che il creditore prenda il denaro, e poi risulti insolvibile di fronte alla sentenza che riconoscerà fondata la ripetizione dell'indebito. Naturalmente se il debitore ritiene di non poter proporre, con speranza di buon esito, l'opposizione all'esecuzione, è inutile che effettui il versamento di cui al terzo comma: tanto vale che effettui il pagamento di cui al primo comma. Lo stesso fenomeno di cui all'art. 494, III cp.c. è previsto anche e nell'art. 495 c.p.c. sotto il nome di conversione del pignoramento. Qui abbiamo una sostituzione dell'oggetto del pignoramento: originariamente sono stati pignorati beni del debitore e il debitore sostituisce ai beni pignorati una somma di denaro, cioè si realizza ex post ciò che si sarebbe potuto fare fin dall'inizio con il meccanismo dell'art. 494, II c.p.c. Ma qui bisogna tener conto che, se ci sono stati interventi di altri creditori, la somma da versare non è calcolata solo sulla base del credito del creditore procedente ma anche dei crediti dei creditori intervenuti, perché altrimenti c'è il rischio che la somma non basti per tutti. La conversione può essere fatta da qualunque soggetto, non solo dal debitore, ma anche dal terzo il quale, ad es., abbia acquistato i beni pignorati. Esempio: viene pignorato un bene di Tizio: dopo il pignoramento Tizio vende il bene al Caio. Caio, al quale interessa avere il bene libero, chiede la conversione del pignoramento, cioè versa una somma di denaro che diviene oggetto di pignoramento al posto del bene acquistato da Caio, bene che viene così liberato dal pignoramento. Il procedimento si svolge in due fasi: all'istanza di conversione del debitore (insieme alla quale dev'essere depositata una somma pari ad un quinto dell'importo dei crediti del creditore procedente e dei creditori intervenuti) segue una prima ordinanza del giudice che determina la somma definitiva da versare e dà un termine al debitore per il versamento del saldo; viene poi fissata una udienza successiva al termine in questione, per verificare se la somma è stata effettivamente versata. Se il versamento è stato effettuato, con una seconda ordinanza il giudice dispone la liberazione dal pignoramento dei beni; altrimenti dispone che il processo esecutivo vada avanti. In tal caso, la somma provvisoriamente versata rimane acquisita all'esecuzione. Il giudice dell'esecuzione può autorizzare anche un pagamento rateale. Affrontiamo ora il problema della riduzione del pignoramento. L'art. 496 c.p.c. stabilisce che, su istanza del debitore o anche d'ufficio, quando il valore dei beni pignorati è superiore all'importo delle spese e dei crediti di cui all'art. 495 c.p.c., il giudice, sentiti il creditore pignorante e i creditori intervenuti, può disporre la riduzione del pignoramento. L'ipotesi è che siano stati pignorati più beni, perché altrimenti la riduzione non sarebbe possibile. Se è stato pignorato un unico bene (ad es., un cavallo del valore di 100.000 € per un credito di 50.000 €) non è possibile ridurre a metà il pignoramento; se, però, sono stati pignorati due beni, può essere ridotto il pignoramento a uno solo. Il valore dei beni pignorati deve essere superiore al credito del creditore procedente, ai crediti degli intervenuti ed alle spese. Con la riduzione del pignoramento, alcuni beni vengono liberati dal pignoramento e ritornano nella libera disponibilità del debitore esecutato. Un istituto analogo è previsto dall'art. 546, II c.p.c.: nel caso di pignoramento di una pluralità di crediti nei confronti di più terzi debitori, il debitore può chiedere la riduzione dei abbiano ad oggetto tutti i beni di un soggetto, o che non possano essere conosciute), perché l'ipoteca deve risultare dal pubblico registro. Pegno e ipoteca, al contrario dei privilegi, sono diritti reali di garanzia, cioè hanno sequela anche nei confronti del patrimonio di soggetti diversi dal debitore. Se un bene è gravato da pegno o da ipoteca e il proprietario lo vende, esso passa all'acquirente gravato dall'ipoteca e dal pegno. Pertanto, come vedremo, il creditore può perseguire il bene anche quando è di proprietà di soggetti diversi dal debitore. A tale scopo esiste un procedimento espropriativo particolare, che è appunto l'espropriazione contro il terzo proprietario. Dalla lettura congiunta degli artt. 2740 e 2741 c.c. si ricava che le ragioni di prelazione sono l'unico meccanismo che incide sul principio della par condicio dei creditori. Le cause di prelazione nascono dal diritto sostanziale e non dal processo: il processo deve rispettare le cause di prelazione che esistono sulla base del diritto sostanziale e di regola non crea ragioni di prelazione che non esistono sulla base del diritto sostanziale, cioè non siano privilegi, pegno o ipoteca. In linea di principio, quindi, nel processo esecutivo si deve rispettare la condizione che i creditori hanno sul terreno del diritto sostanziale. Infatti, la vera portata del principio della par condicio non va cercata sul terreno del diritto sostanziale, sibbene sul terreno del diritto processuale. Tale principio non va inteso nel senso che, sulla base esso, tutti i creditori dovrebbero essere chirografari, e quindi ogni previsione normativa che istituisce una prelazione costituisce una deroga al principio stesso. Al contrario, sul piano sostanziale il legislatore è libero di fare quello che vuole, purché rispetti l'art. 3 Cost. E sul piano della tutela giurisdizionale che non vi debbono essere - salvo eccezioni giustificate prelazioni che non trovino una radice nel diritto sostanziale. Quindi gli artt. 2740 e 2741 c.c. devono essere letti unitariamente come se dicessero: l debitore risponde nei confronti di tutti i suoi creditori, secondo le regole del diritto sostanziale, dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri; la tutela esecutiva dei diritti di credito deve essere strutturata in modo tale da attuare le prescrizioni del diritto sostanziale, e da non alterare le scelte del legisatore sostanziale. Ed infatti, fino alla riforma del 2006 tutti i creditori avevano la possibilità di intervenire nell'esecuzione aperta da uno di essi, per chiedere la soddisfazione del proprio diritto sulla base delle regole previste dal diritto sostanziale. La nuova disciplina dell'intervento dei creditori costituisce una fra le più importanti e - sia detto da subito - sicuramente la più infelice innovazione di questa riforma. Per le ragioni che vedremo fra poco, essa presenta fondati profili di incostituzionalità. Modificando profondamente le scelte effettuate dal legislatore del 1942, l'art. 499, I c.p.c. limita l'intervento: a chi ha titolo esecutivo (anche successivo al pignoramento); a chi, al momento del pignoramento, ha un credito garantito da pegno, da prelazione iscritta o da sequestro; nonché a chi, sempre al momento del pignoramento, è titolare di un credito risultante dalle scritture contabili previste dall' articolo 2214 del codice civile. Per intervenire, il creditore deve depositare, nella cancelleria del giudice dell'esecuzione, un ricorso contenente l'indicazione del credito e del titolo di esso (cioè della fattispecie costitutiva dello stesso), nonché la domanda per partecipare alla distribuzione della somma ricavata: art. 499, II c.p.c. Se l’intervento si fonda sulle scritture contabili, queste debbono essere allegate all'atto di intervento in copia autentica. La disposizione sembrerebbe escludere l'intervento tardivo (di cui tratteremo in seguito), in quanto prevede che l'intervento abbia luogo prima che sia tenuta l'udienza in cui è disposta la vendita o l'assegnazione: ma in realtà gli artt. 528 e 565 c.p.c. sono rimasti, e quindi anche l’intervento tardivo è pur sempre possibile. Il creditore, che non sia munito di titolo esecutivo, e che purtuttavia abbia il potere di intervenire nell' esecuzione in quanto appartenente ad una delle categorie previste al primo comma, deve notificare al debitore (alla residenza dichiarata, al domicilio eletto oppure in cancelleria, sulla base di quanto dispone l'art. 492, II c.p.c.) l'atto di intervento e copia autentica delle scritture contabili, se l'intervento ha luogo in virtù di esse. L'art. 499, V e VI c.p.c. istituisce una sorta di procedimento di verificazione del credito per i soli creditori che sono legittimati ad intervenire, ma non hanno un titolo esecutivo. Con la stessa ordinanza con la quale dispone sulla vendita e sull'assegnazione, il giudice dell'esecuzione fissa un'udienza dinanzi a sé per la comparizione del debitore e dei creditori non muniti di titolo esecutivo. L'ordinanza è notificata, a cura di una delle parti, ai creditori ed al debitore: per quest' ultimo, vale la disposizione di cui all'art. 492, II c.p.c., e pertanto la notificazione gli sarà fatta in cancelleria, se non ha effettuato la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, oppure se – pur avendo effettuato la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio - sia risultato irreperibile ad una successiva notificazione o comunicazione. All’udienza fissata, se il debitore non compare o, comparendo, riconosce l’esistenza in tutto in parte dei crediti, questi acquisiscono il diritto di essere soddisfatti. Viceversa, se i crediti sono in tutto o in parte contestati, il creditore ha l'onere di proporre, nei trenta giorni successivi, una domanda idonea a munirlo di un titolo esecutivo. In tal caso ha diritto all'accantonamento delle somme, nei limiti previsti dall'art. 510 c.p.c., che esamineremo a suo tempo. Ovviamente, nessun onere ha il creditore, se il processo volto ad ottenere il titolo esecutivo è già pendente, come necessariamente accade per i creditori sequestratari, in quanto altrimenti (art. 669-novies c.p.c.) il sequestro sarebbe inefficace. La profonda ristrutturazione dell'intervento dei creditori nell'esecuzione va sicuramente in controtendenza rispetto all'ispirazione della riforma del 2006, che ha teso ad eliminare tutti i processi di cognizione strumentali unicamente alla tutela esecutiva: qui, al contrario, si rende necessario instaurare un processo di cognizione al solo fine di ottenere la soddisfazione del proprio credito in un'espropriazione già in corso. Ma soprattutto è criticabile la scelta di restringere la possibilità di intervenire nell'espropriazione ai soli creditori muniti di titolo esecutivo ed chi, al momento del pignoramento, sia titolare di un credito garantito da pegno, da prelazione iscritta e da sequestro, oppure risultante dalle scritture contabili. I creditori che non rientrano in una di questa categorie non avranno alcuna possibilità di soddisfarsi, a meno che non ricorrano alla tutela di urgenza ex art. 700 c.p.c., allegando appunto il pregiudizio imminente ed irreparabile, che si concretizza nell'evaporarsi della garanzia patrimoniale del loro debitore. La scelta del legislatore della riforma tradisce il principio della par condicio, il quale non è un optional rimesso alle scelte del legislatore ordinario, ma costituisce l'attuazione di un ben preciso principio costituzionale: quello, in virtù del quale il processo deve essere strumento di attuazione, e non di distorsione del diritto sostanziale. Se il legislatore sostanziale ha stabilito, ad es., che i crediti per le retribuzioni ai prestatori di lavoro subordinato, di cui all'articolo 2751-bis del codice civile, debbano essere soddisfatti prima degli altri, non può il legislatore processuale costruire un sistema di tutela esecutiva che, viceversa, impedendo a quei creditori di intervenire e favorendo, invece, la soddisfazione dei crediti degli imprenditori commerciali, fa si che i beni del debitore siano utilizzati per pagare i crediti di questi ultimi, e non i crediti dei primi. Com'è evidente dall' esempio appena fatto, mentre il legislatore sostanziale dispone che il credito di Tizio debba essere soddisfatto prima di quelli di Sempronio e di Mevio, una scelta del legislatore processuale - consentire l'intervento a Mevio, e non a Tizio - fa si che la scelta del legislatore sostanziale rimanga disattesa. L'innovazione, operata dal legislatore della riforma, e che ha portato ad eliminare la possibilità di intervenire liberamente nell'esecuzione, è quindi (oltre che ingiustificata: quale mai sarebbe il beneficio nell'escludere l'intervento generalizzato dei creditori nell'espropriazione?) anche e fondamentalmente incostituzionale, perché viola un canone fondamentale dei rapporti fra diritto sostanziale e processo. Si consideri inoltre che-se per caso il debitore è sottoposto ad una procedura concorsuale- allora la situazione cambia radicalmente, perché in quella sede il lavoratore subordinato sarà soddisfatto con preferenza rispetto al creditore per forniture ed al creditore mutuante. E soprattutto si consideri che il procedimento di verificazione del credito, sopra descritto, ben potrebbe essere utilizzato da tutti i creditori, e non solo da quelli di cui al primo comma della disposizione in commento. In altri termini: niente impedisce al legislatore di restringere l'intervento nell' espropriazione a talune categorie di creditori (ad es., a quelli muniti di titolo esecutivo; oppure a quelli che possono fornire una prova documentale del loro credito, come accade nelle procedure concorsuali) a condizione che consenta, a chi non appartiene ad una delle categorie prescelte, di munirsi (non importa se all’interno o all'esterno del processo esecutivo) di un titolo di legittimazione a partecipare alla distribuzione del ricavato, ottenendo nel frattempo l'accantonamento delle somme a lui potenzialmente spettanti. Oppure, in alternativa, prevedendo un processo concorsuale generalizzato non solo per i debitori indicati nell'art. 1 della legge fallimentare, ma per tutti i debitori, che abbiano un patrimonio insufficiente a soddisfare i creditori. Ma in mancanza dell'uno e l'altro sistema, la restrizione operata dalla riforma del 2006 realizza una palese violazione dei principi costituzionali relativi ai rapporti fra diritto sostanziale e processo. La situazione è destinata a cambiare radicalmente il 15 agosto 2020, con l'entrata in vigore del nuovo codice della crisi (dlgs. 12 gennaio 2019 n. 14): Infatti, l'art. 268, II stabilisce che la domanda per la liquidazione controllata - che costituisce la procedura concorsuale applicabile ai soggetti insolventi diversi dagli imprenditori commerciali che non siano minori - « può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali ». Sicché, ove si verifichi una situazione di sovraindebitamento come quella sopra ipotizzata, il creditore che non ha titolo ad intervenire può chiedere l'apertura della procedura concorsuale ed ottenere che la soddisfazione dei creditori si attui secondo le previsioni del c.c. Gli effetti dell'intervento sono previsti in generale dall'art. 500 c.p.c., cui si aggiungono gli artt. 526 c.p.c. per i beni mobili e 564 c.p.c. per i beni immobili. L'art. 500 c.p.c. fa riferimento a due conseguenze dell'intervento: il diritto di prendere parte alla distribuzione del ricavato, ed il diritto di partecipare attivamente al processo esecutivo. Solo ai creditori, che intervengono muniti di titolo esecutivo, queste due conseguenze sono assicurate in modo incondizionato. Invece, chi interviene senza titolo esecutivo può prendere parte alla distribuzione del ricavato solo se si verificano le condizioni previste dall' art. 499, VI cp.c., e, pur partecipando all'espropriazione, non ha il potere di compiere gli atti necessari per farla procedere verso il suo esito finale (la liquidazione del bene pignorato). Viceversa, il creditore che ha un titolo esecutivo, come si è già visto, ha di fronte a sé la scelta pregiudiziale se intervenire puramente e semplicemente, compiendo un'attività meno costosa e impegnativa (si tratta di redigere un ricorso e di depositarlo nella cancelleria del giudice), oppure se compiere un pignoramento successivo, che ovviamente comporta un'attività più gravosa e costosa. Se il creditore, munito di titolo esecutivo, opta per l'intervento, può anche, ex art. 500 c.p.c., provocare i singoli atti dell'espropriazione, cioè sostituirsi al creditore procedente nel compiere gli atti necessari alla prosecuzione del processo. sono denominati talvolta "privilegi speciali", ma in realtà funzionano come ipoteche) debbono essere resi pubblici attraverso l'iscrizione nei pubblici registri. Il creditore mantiene così il diritto di prelazione nei confronti di qualunque soggetto divenga successivamente proprietario del bene. Perché, dunque, solo i creditori privilegiati iscritti debbono essere avvertiti? L'avvertimento, che il creditore procedente deve dare a tali creditori, costituisce condizione necessaria per procedere alla vendita; sarebbe assurdo imporre al creditore pignorante l'obbligo di avvertire tutti quanti i creditori con prelazione, quando il creditore pignorante non fosse in grado di venire a conoscenza della loro esistenza. Sarebbe per il creditore un onere che non potrebbe soddisfare, perché non sarebbe in grado di individuare i creditori muniti di diritto di prelazione non reso pubblico. E comunque sarebbe poi impossibile controllare, prima di autorizzare la vendita, che il creditore abbia effettivamente avvertito tutti i creditori muniti di ragioni di prelazione, anche di quelle non risultanti dai pubblici registri. Bisogna dunque limitare l'onere del creditore all'ispezione dei pubblici registri per vedere se risultano prelazioni iscritte ed obbligarlo ad avvertire coloro che sono iscritti nei pubblici registri. Però, abbiamo visto, anche i creditori che non risultino iscritti nei pubblici registri perdono la loro prelazione con la vendita forzata del bene: eppure non è necessario che siano avvertiti. La diversità di trattamento si giustifica diversamente a seconda che si tratti di privilegio oppure di diritto reale di garanzia (soprattutto del pegno, che costituisce l'ipotesi principale di diritto reale di garanzia non iscritto). Nel caso del privilegio il problema non si pone perché, come si è già visto, l privilegio sussiste fino a quando il bene permane nel patrimonio del debitore: per il creditore la vendita forzata non ha effetto diverso dalla vendita di diritto comune. L'effetto « purgativo » della vendita forzata vale solo peri diritti reali di garanzia, perché per privilegi l'effetto della vendita forzata non è diverso da quello della vendita che il debitore compia sul terreno del diritto sostanziale; anche in questo ultimo caso il bene esce dal suo patrimonio e il creditore privilegiato perde ogni diritto su quel bene. Per i creditori privilegiati, quindi, la vendita forzata non ha effetti diversi dalla vendita di diritto comune. L'estinzione dei privilegi è un effetto della vendita in genere, e non della vendita forzata in particolare. E poiché la vendita di diritto comune è ovviamente valida ed efficace anche se i creditori privilegiati non sono avvertiti, anche la vendita forzata può essere effettuata senza la necessità di avvertire i creditori privilegiati. Nel caso dei diritti reali di garanzia non iscritti, invece, la vendita forzata ha un effetto estintivo della prelazione che la vendita di diritto comune non ha; il creditore munito di pegno può far valere il suo diritto contro qualunque soggetto a cui il proprietario trasferisca la proprietà del bene, ma non nei confronti dell'aggiudicatario. Dobbiamo però considerare che, per l'esistenza del pegno, occorre che il bene sia sottratto al debitore e sia in possesso del creditore o di un terzo (art. 2786 c.c.). Se il bene è nel possesso del creditore pignoratizio, l’esecuzione forzata va instaurata nei suoi confronti ex art. 543 c.p.c., e quindi il creditore viene necessariamente a conoscenza del pignoramento, e può intervenire. Se il bene si trova presso un terzo, anche qui l’espropriazione si deve svolgere nelle forme dell'art. 543 c.p.c., in quanto costui è terzo detentore del bene che appartiene al debitore esecutato, e per regola di diritto sostanziale egli è obbligato ad avvertire il creditore pignoratizio. Il suo obbligo di custodia gli impone di avvertire il creditore della pendenza del processo esecutivo, affinché il creditore possa intervenire. Per i diritti reali di garanzia che risultano iscritti nei pubblici registri scatta l'obbligo dell'art. 498 c.p.c. l creditore procedente deve notificare a costoro un avviso contenente l'indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede e del titolo. In mancanza di tale notifica, il giudice deve rifiutarsi di emettere l'ordinanza di vendita. Il creditore procedente, sulla base dell'art. 567, I c.p.c., deve allegare all'istanza di vendita i certificati delle trascrizioni ed iscrizioni; egli deve farsi rilasciare dalla conservatoria dei registri immobiliari (o dal conservatore dei registri mobiliari: P.R.A., Registro navale o aeronautico, etc.) un certificato in cui si attesta se vi sono e quali sono le iscrizioni di diritti reali di garanzia sul bene. lI giudice è così in grado di controllare se sono state effettuate le prescritte notifiche ai creditori iscritti. E’ praticamente impossibile, quindi, che si dia luogo alla vendita senza che siano stati avvertiti i creditori iscritti; il mancato avvertimento può derivare o da un errore del conservatore nel controllare il registro da una disattenzione del giudice. In ambo i casi il creditore privlegiato iscritto, che non sia stato avvertito, ha diritto al risarcimento dei danni da parte del creditore pignorante, che abbia omesso la prescritta notifica o da parte del conservatore, se l'errore è imputabile a quest’ultimo, L'intervento dei creditori può essere tempestivo o tardivo. Gli artt. 528 (per l'espropriazione mobiliare), 551 (per l'espropriazione dei crediti), e 565 (per l’espropriazione immobiliare) c.p.c. distinguono i creditori intervenuti tempestivamente o tardivamente con riferimento ai creditori chirografari, cioè ai creditori che non sono muniti di un diritto di prelazione. l creditori con prelazione, in qualunque momento del processo esecutivo intervengano, sono soddisfatti secondo l'ordine delle prelazioni previsto dal codice civile. Naturalmente l'intervento, sia per i creditori chirografari sia per quelli muniti di prelazione, ha come termine ultimo il momento in cui si effettua la distribuzione del ricavato. Dopo tale momento, l'intervento non è più possibile perché il processo esecutivo ormai è concluso. Ora, mentre i creditori chirografari tempestivi sono soddisfatti (ovviamente dopo i creditori con prelazione) in ragione percentuale del loro credito, i creditori chirografari tardivi sono soddisfatti sul residuo che eventualmente avanza, dopo che siano stati soddisfatti per intero i chirografari tempestivi. Abbiamo quindi tre categorie di creditori: con diritto di prelazione, chirografari tempestivi e chirografari tardivi. Il momento che determina la tempestività dell'intervento normalmente è dato dalla prima udienza fissata per stabilire le modalità di assegnazione o di vendita, cioè l'udienza che apre la fase di liquidazione. La specificazione "prima udienza fissata per l'autorizzazione della vendita" comporta che, se alla udienza issata, per qualsiasi ragione, viene effettuato un rinvio ad un'udienza successiva, rilevante è la prima udienza e non quella in cui viene effettivamente autorizzata la vendita. Se l'intervento è effettuato entro tale udienza è tempestivo, se è effettuato dopo è tardivo. Nel caso dell'art. 525, III c.p.c., cioè nel caso della piccola espropriazione mobiliare (che si ha quando il valore dei beni pignorati non supera i 20.000,00 €) la tempestività dell'intervento è misurata invece sull'istanza ovviamente precedente con cui il creditore pignorante chiede che sia fissata l'udienza per determinare le modalità di liquidazione. Ricordiamo che la fase di liquidazione si apre con il ricorso di un creditore munito di titolo esecutivo che chiede al giudice disporsi la vendita o la assegnazione del bene. A seguito di tale ricorso il giudice fissa l'udienza per stabilire le modalità di vendita o assegnazione. Quindi, nella piccola espropriazione la tardività è anticipata rispetto a quella dell'espropriazione ordinaria. Infine, per quanto riguarda l'espropriazione dei crediti, rilevante è la udienza di comparizione delle parti, fissata dal creditore pignorante con la citazione ex art. 543, n. 4 c.p.c. In tale udienza, come vedremo, qualora il terzo renda o abbia reso una dichiarazione conforme, ha luogo anche l'assegnazione del credito, ed il processo esecutivo si chiude. Sicché, un intervento tardivo nell'espropriazione dei crediti è possibile solo se la dichiarazione è omessa o contestata, perché in tal caso il creditore avrà la possibilità materiale di intervenire, sia pur tardivamente. Se, invece, il pignoramento si perfeziona con la conforme dichiarazione del terzo pignorato, il termine per l'intervento coincide con il momento in cui si chiude il processo esecutivo. La ragione per cui il legislatore distingue tra creditori tempestivi e creditori tardivi è la seguente: attraverso tutta una serie di istituti l’ordinamento consente al creditore di muoversi liberamente nella scelta delle varie forme di espropriazione e nella individuazione dei beni da espropriare. Tuttavia, se il creditore esagera nella sua attività di espropriazione, è possibile ricondurre il valore dei beni pignorati all'entità del credito (riduzione del pignoramento, cumulo dei mezzi di espropriazione). Come meccanismo inverso abbiamo l'estensione del pignoramento, che è provocata dall'intervento dei creditori. Tali meccanismi possono funzionare solo nella fase anteriore alla vendita forzata. Ci deve essere un momento in cui ci si ferma: il processo esecutivo non arriverebbe mai alla fine, se l'entità dei beni pignorati venisse di continuo ad ampliarsi o ridursi, a seconda dei creditori che intervengono e del valore dei beni. Tale momento è quello in cui si passa alla fase di liquidazione. L'intervento di un creditore, in un momento successivo al passaggio alla fase di liquidazione, sconvolgerebbe tutti i calcoli che sono stati fatti sul presupposto che vi sia una certa quantità di crediti da soddisfare, con il rischio che i beni, di cui è stata disposta la liquidazione, risultino insufficienti per soddisfare i creditori. Questa è la ragione per cui, da un certo momento in poi, l'intervento del creditore chirografario è tardivo e come tale il creditore è soddisfatto dopo che si sono soddisfatti i creditori tempestivi, se ci sono; in ogni caso, dopo il creditore procedente. E’ chiaro che tale regola non ha ragion d'essere per i creditori privilegiati: in ogni caso questi hanno diritto alla soddisfazione prima dei chirografari, anche tempestivi. Secondo l'art. 499, IV c.p.c., ai creditori, che siano intervenuti tempestivamente, il creditore pignorante ha facoltà di indicare, all'udienza o con atto notificato l'esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili. ll creditore procedente ha ovviamente pignorato certi beni con riferimento al valore del suo credito (altrimenti rischia di subire la riduzione del pignoramento). Oggetto del pignoramento è quindi una quantità di beni di valore pari odi poco superiore al credito. Ma tali beni, che sono sufficienti per il creditore procedente, diventano insufficienti quando intervengono altri creditori. Se i beni pignorati sono tutto quanto c'è di attivo nel patrimonio del debitore, evidentemente si verifica una situazione di incapienza del patrimonio del debitore. Si applicano quindi le regole di diritto sostanziale: si fa una lista di creditori da soddisfare, mettendo prima i creditori con prelazione nell'ordine previsto dal c.c., poi i creditori chirografari in proporzione ai rispettivi crediti. Ma se la quantità dei beni pignorati deriva da una doverosa scelta del creditore procedente, che ha limitato il pignoramento in relazione all'entità del suo credito, e nel patrimonio del debitore vi sono altri beni utilmente pignorabili, è chiaro che il meccanismo della soddisfazione proporzionale non funziona più, perché qui non siamo in una situazione di incapienza. Gli altri creditori sono intervenuti nell'esecuzione non perché nel patrimonio del debitore non vi fossero altri beni, ma per loro scelta (in quanto hanno ritenuto più comodo intervenire, anziché iniziare una esecuzione a parte), oppure perché non hanno titolo esecutivo. Il creditore procedente può allora indicare agli intervenuti l'esistenza di altri beni, ed invitarli ad estendere il pignoramento (se hanno titolo esecutivo) oppure (se non hanno il titolo) ad anticipare a lui le spese, per effettuare l'estensione col proprio titolo. Una volta che il procedente abbia fatto quanto sopra indicato, la palla passa ai creditori intervenuti, i quali, se non rispondono all'invito ad estendere il pignoramento, diventano postergati al creditore procedente al momento della distribuzione. Siamo quindi in presenza di una seconda ipotesi di prelazione di natura processuale (la prima è la tardività dell'intervento dei creditori chirografari). L'art. 499, IV c.p.c. omette di stabilire cosa accade se l'invito è effettuato dal creditore procedente ad un creditore intervenuto non munito di titolo esecutivo, e questi omette di viene fatta un'istanza di vendita o di assegnazione (quest'ultima nei casi in cui è possibile procedere all'assegnazione senza il previo tentativo di vendita), le norme che trovano applicazione sono gli artt. 530 e 569 c.p.c., riguardanti l'uno l'espropriazione mobiliare presso il debitore e l'altro l'espropriazione immobiliare. Per quanto riguarda l'espropriazione presso terzi, l'art. 552 c.p.c. fa rinvio alle disposizioni degli artt. 529 e seguenti c.p.c. Gli artt. 530 e 569 c.p.c. sono abbastanza simili, perché in ambo i casi il giudice, su ricorso di colui che ha proposto l'istanza di assegnazione o di vendita, deve fissare un'udienza per l'audizione delle parti. Ciò conferma che nel processo esecutivo ha piena cittadinanza il principio del contraddittorio, perché non è fatta alcuna situazione di privilegio al creditore procedente, o ai creditori muniti di titolo esecutivo, o ai creditori in genere nei confronti del debitore, ma tutte le parti hanno uguale diritto di partecipare all'udienza onde discutere fra di loro e nei confronti del giudice di quale sia il modo più opportuno per giungere ad una migliore liquidazione del bene. Infatti, in questa sede non si discute dell' an dell'esecuzione, cioè non si discute del se si debba fare l'esecuzione, ma si discute di come debba procedere l'esecuzione, dandosi per scontato ovviamente l'esistenza del diritto da soddisfare, del diritto al quale spetta la tutela esecutiva. All'udienza le parti possono fare osservazioni circa l'assegnazione e circa il tempo e le modalità della vendita (art. 530 c.p.c.). Ovviamente nell'art. 569 c.p.c. non c'è accenno all' assegnazione, perché in relazione ai beni immobili non è mai possibile procedere all'assegnazione se non dopo un previo tentativo di vendita. Molto importante è la disposizione contenuta, sempre in questa parte degli artt. 530 e 569 c.p.c., secondo la quale: «le parti devono e proporre, a pena di decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di proporle». Abbiamo già accennato, e vedremo meglio in seguito, che I'opposizione agli atti esecutivi apre un processo di cognizione, incidentale al processo esecutivo, idoneo a decidere delle controversie relative al rispetto delle regole del processo esecutivo. Se, all'udienza, non è ancora decorso il termine per proporre l'opposizione agli atti esecutivi pregressi, e comunque non è intervenuto un altro motivo di decadenza (ad es., la rinuncia della parte: art.157, ult. comma, c.p.c.), le parti debbono proporre a pena di decadenza le opposizioni agli atti esecutivi relative agli atti compiuti fino a quel momento. L'udienza di assegnazione o vendita forma quindi uno sbarramento nella proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi, e nella rilevanza delle nullità processuali che si siano avute fino a quel momento, perché delle due luna: o le nullità sono fatte valere, ma allora la relativa opposizione agli atti deve essere proposta, a pena di decadenza, entro questa udienza; o le nullità non sono fatte valere, e allora, sempre che non si tratti di nullità extraformali che si producono autonomamente in relazione a ciascun atto del processo, esse diventano irrilevanti perché non possono essere più fatte valere in seguito. Questo sbarramento « ripulisce », per così dire, il processo esecutivo da tutte le nullità (diverse da quelle extraformali rilevabili in ogni stato e grado del processo) anteriori all'udienza. In sostanza, dopo l'udienza non possono più essere fatte valere nullità derivate, per ripercussione, da atti antecedenti l'udienza. Nell'ulteriore corso del processo esecutivo potranno farsi valere solo le nullità originarie (formali ed extraformali) degli atti successivamente compiuti. Può darsi, quindi, che all'udienza siano proposte opposizioni agli atti esecutivi, oppure che sia ancora in corso il processo sorto da un'opposizione proposta prima. Se le parti raggiungono un accordo sulla nullità, la controversia relativa ai vizi dell'atto viene risolta nel modo con cui le parti si sono trovate d'accordo, e il giudice, se l'accordo lo consente, può procedere a disporre la vendita del bene. Se le parti non si mettono d'accordo, il giudice deve decidere le opposizioni agli atti esecutivi prima di disporre la vendita o la assegnazione del bene. Il provvedimento che dispone la vendita del bene è quindi successivo alla decisione dell'opposizione agli atti esecutivi. Il legislatore ha ritenuto necessario condizionare l'emanazione del provvedimento di liquidazione al previo accertamento dell'inesistenza di nullità del processo esecutivo: in altri termini, non si può andare avanti con la vendita o con l'assegnazione, se non dopo aver risolto le questioni relative alla nullità degli atti del processo esecutivo. Ciò costituisce una caratteristica peculiare del processo esecutivo, in relazione alla quale esso si differenzia profondamente dal processo di cognizione, e che discende dalla struttura del processo esecutivo stesso. Infatti, sia il modo con cui si sollevano le questioni relative alla nullità degli atti, sia il coordinamento fra la decisione di tali questioni e i vari provvedimenti esecutivi che vengono emessi, debbono per necessità di cose essere diversi da quelli che si hanno nel processo di cognizione. Sotto il primo profilo, e cioè in relazione alle modalità con cui sono trattate le questioni relative alla nullità degli atti, il processo esecutivo lo abbiamo già rilevato più volte -non costituisce un ambiente idoneo a risolvere controversie, a differenza del processo di cognizione che ha struttura decisoria e nel quale, quindi, le questioni relative al rito sono trattate e decise insieme a quelle relative al merito. Nel processo esecutivo il meccanismo non è cosi semplice, perché il processo esecutivo non è strutturato per decidere, quindi bisogna creare un meccanismo idoneo alla decisione: ciò accade con lo strumento dell'opposizione agli atti esecutivi. Sotto il secondo profilo, e cioè in relazione al fatto che non è possibile procedere alla vendita del bene se non dopo aver deciso le controversie relative alla nullità degli atti del processo esecutivo, occorre tener conto che il processo di cognizione si divide in una fase preparatoria, che si svolge senza che si producano effetti extraprocessuali, e in una fase decisoria, cioè nella pronuncia della sentenza, che è l'ultimo atto del processo. Nel processo di cognizione, dunque, può accadere che una parte sollevi un'eccezione di nullità relativa ad un atto del processo stesso; niente impedisce al giudice di accantonare per il momento la questione e di dar luogo all'istruzione della causa assumendo testimoni, facendo ispezioni e così via. Ma accantonare la questione non significa dimenticarla; l'accantonamento non pregiudica nessuno (al massimo si sarà inutilmente svolta, in tutto o in parte, l'attività dedicata alla trattazione del merito della controversia), perché prima di arrivare alla sentenza non vi sono provvedimenti che abbiano efficacia stabile al di fuori del processo. L'accantonamento della questione di nullità può valere, naturalmente, solo fino al momento della decisione della causa. Quando pronuncia la sentenza, il giudice, che aveva accantonato l'eccezione di nullità dell'atto, deve rispettare l'ordine logico che gli impone l'esame delle questioni e non può emettere una pronuncia di merito se non dopo aver esaminato l'eccezione di nullità e averla trovata infondata. Se il giudice, invece, trova fondata l'eccezione, ciò costituisce motivo sufficiente per impedirgli l'emanazione della sentenza di merito (se si tratta di questione attinente ad un presupposto processuale) oppure per imporgli di non tener conto dell'atto nullo nel decidere il merito (se si tratta di nullità formale). La parte, che ha tempestivamente eccepito la nullità, non riceve alcun pregiudizio, perché è sicura comunque che il giudice, prima di emettere un provvedimento che abbia effetti definitivi sul terreno del diritto sostanziale, deve esaminare e risolvere l'eccezione di nullità sollevata. Nell'espropriazione forzata, invece, gli atti non sono tutti preparatori di un atto finale, che é I'unico a produrre effetti stabili extraprocessuali. Al contrario, vi sono due atti, che hanno effetti extraprocessuali "di merito": la vendita forzata e la distribuzione del ricavato. Non è possibile, pertanto, nel processo esecutivo l'accantonamento della questione di rito, in attesa del provvedimento finale, perché nel processo esecutivo ha effetti extraprocessuali, "di merito", non soltanto l'atto finale (la distribuzione del ricavato), ma anche un atto intermedio (la vendita forzata). Se è stata eccepita la nullità di un atto del processo esecutivo, e si è aperto un processo di cognizione incidentale per accertare tale nullità, qualora non vi fosse un meccanismo di raccordo fra i due processi niente impedirebbe al giudice del processo esecutivo di effettuare la vendita, mentre pende il problema della nullità, ad es., dell'atto di pignoramento; una volta poi che la vendita tosse avvenuta, e magari fosse avvenuta anche la distribuzione del ricavato, se dal processo di cognizione risultasse che il pignoramento era nullo e che il processo esecutivo doveva strutturarsi in maniera diversa, la conseguenza inevitabile sarebbe il travolgimento ex post degli effetti sostanziali prodotti dalla vendita del bene e dalla distribuzione del ricavato, in applicazione del principio di cui è espressione l'art. 336, II. E ciò produrrebbe notevoli inconvenienti, soprattutto con riferimento alla vendita del bene, perché difficilmente si troverebbe un acquirente disposto a pagare l'effettivo valore del bene, se il suo acquisto fosse condizionato all’esito del processo di cognizione. l prezzo della vendita sconterebbe il rischio della possibile caducazione della stessa. La previsione degli artt. 530 e 569 c.p.c. ricostituisce normativamente la necessaria pregiudizialità fra il rito e il merito, che è automatica nel processo di cognizione. In sostanza, tali norme sono espressione del principio, secondo il quale, prima di poter emettere il provvedimento di merito, bisogna essere sicuri che l processo sia corretto dal punto di vista del rito. Se è sollevata una questione di rito con l'opposizione agli atti esecutivi, bisogna decidere la questione di rito prima di emettere la misura giurisdizionale di merito. Come il giudice della cognizione, di fronte a una questione di rito e a una di merito, al momento della decisione deve prima affrontare la questione di rito e poi quella di merito, cosi, nel processo esecutivo, prima di emettere la misura di merito (la vendita) occorre decidere (attraverso l'opposizione degli atti esecutivi) la questione di rito. Gli artt. 530 e 569 c.p.c. stabiliscono che si abbia la decisione, con sentenza, dell'opposizione agli atti esecutivi, e solo successivamente (e quindi, dice l'art. 569, IV c.p.c.), la pronuncia dell'ordinanza di vendita o assegnazione (ovviamente se la sentenza con cui si decide l'opposizione agli atti esecutivi accerta che l'atto esecutivo è valido; se, al contrario, dovesse accertare che l'atto è nullo, ciò impedirebbe - allo stato, e salva un'eventuale rinnovazione dell'atto nullo, se questa è possibile - l'emanazione dell'ordinanza di vendita o di assegnazione). Queste norme, però, non prendono in considerazione l'eventuale, possibile impugnazione della sentenza che decide sull'opposizione agli atti esecutivi: esse non dicono che cosa accade se è impugnata la sentenza, con la quale si afferma la validità, dal punto di vista del rito, del processo esecutivo. La lacuna dipende dal fatto che, nella stesura originaria del codice del 1942, la sentenza che decideva l'opposizione agli atti esecutivi era inimpugnabile, cioè non assoggettabile ad alcun mezzo di impugnazione. Ma, in virtù dell'art. 111, II Cost., la sentenza che decide l'opposizione agli atti esecutivi è suscettibile di impugnazione in Cassazione. Pronunciata la sentenza che rigetta l'opposizione agli atti, e quindi apre la strada alla vendita forzata, le soluzioni possibili sono due: o si aspetta il giudicato (e cioè che la sentenza non sia impugnata oppure, qualora sia impugnata, che sia emessa la decisione della Corte di cassazione); oppure ci si attiene alla lettera degli artt. 530 e 569 c.p.c., e si afferma sufficiente la sentenza di primo e unico grado, ed irrilevante la sua eventuale impugnazione. La soluzione più corretta sembra essere la prima, e quindi che occorra attendere il giudicato. Ciò per due motivi: in primo luogo, il silenzio del legislatore non ha alcun significato. Quando gli artt. 530 e 569 c.p.c. sono stati scritti, la sentenza che decideva l'opposizione gli atti esecutivi era inimpugnabile, e quindi non aveva senso che il legislatore si ponesse il problema. In secondo luogo, la pregiudizialità fra rito e merito deve avvocato, commercialista) iscritto nell'apposito elenco tenuto presso il tribunale. Il procedimento di vendita su delega dei beni mobili registrati ha la stessa disciplina della vendita su delega degli immobili (art. 591-bis c.p.c.), che sarà esaminata a suo tempo. Passiamo ora a vedere come si liquidano i crediti. Si sono già visti i vari modi con cui si perfeziona il pignoramento dei crediti. Perfezionato il pignoramento, si può procedere alla liquidazione del credito, che avviene attraverso il trasferimento del credito dal debitore esecutato, che ne ètitolare, ad un soggetto diverso. In altri termini nell'espropriazione singolare (al contrario che in quella concorsuale) l'ufficio esecutivo non cura la riscossione del credito. Quindi lunica maniera per liquidare il credito è di trasterirlo ad un altro soggetto, il quale poi compirà l'attività necessaria per la riscossione. Il trasferimento del credito costituisce, dal punto di vista del diritto sostanziale, una cessione forzata del credito. L'assegnatario è un cessionario, e quindi diventa il nuovo titolare del credito. Il terzo debitore diventa a sua volta debitore dell'assegnatario, e si applicano tutte le regole della cessione circa l'opponibilità al cessionario delle eccezioni da parte del debitore ceduto. II ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che può opporre a un cessionario che sia divenuto tale in virtù di un atto di diritto sostanziale, secondo le regole del codice civile. Occorre, però, tener presente una differenza; al contrario della cessione di diritto comune, che può aver luogo anche senza alcun previo accertamento di esistenza del credito, qui possiamo avere una vicenda pregressa costituita da una dichiarazione di natura lato sensu confessoria del terzo debitore, dichiarazione alla quale il terzo debitore è vincolato. Quindi le eccezioni opponibili dal terzo debitore all'assegnatario non possono contrastare con il contenuto vincolante della dichiarazione. Esempio: il terzo debitore può opporre in compensazione all'assegnatario un controcredito, che egli vanta nei suoi contronti. La compensazione non poteva essere fatta valere al momento della dichiarazione, perché non c'era ancora stato il trasterimento del credito. Quindi, se il ceduto è a sua volta creditore del cessionario per un altro titolo, è chiaro che l'eccezione di compensazione può essere fatta valere, perché la coesistenza dei due crediti si realizza al momento dell'assegnazione, quindi in un momento posteriore alla dichiarazione. Se, invece, l'assegnazione è avvenuta senza una dichiarazione conforme del terzo debitore - quindi a seguito della sua mancata o contestata dichiarazione ai sensi degli artt. 548 e 549 c.p.c. - abbiamo visto che non sussiste alcuna preclusione alle contestazioni del terzo assegnato. Occorre però tener conto del fatto che, in virtù degli effetti del pignoramento, il terzo debitore non può opporre all'assegnatario o all'acquirente del credito le eccezioni che non può opporre al creditore procedente. Esempio: Tizio, debitore di Caio, paga a Caio dopo aver ricevuto la notificazione del pignoramento da parte di Sempronio, creditore di Caio. Il credito viene assegnato a Sempronio o venduto a Mevio: Tizio non può opporre a questi il pagamento, perché tale fatto estintivo non è efficace nei confronti del creditore procedente. Se il credito pignorato è gia scaduto, o scade entro novanta giorni, l'assegnazione è coattiva: cioè non è necessaria la richiesta dell'assegnatario. L'art. 553 c.p.c. afferma che l'assegnazione ha luogo « salvo esazione »; ciò significa che la cessione avviene pro solvendo. Quello che l'art. 553 c.p.c. esprime sinteticamente è più distesamente previsto dall'art. 2928 c.c.: «l diritto dell'assegnatario verso il debitore che ha subito l'espropriazione non si estingue che con la riscossione del credito assegnato». Pertanto al momento dell'assegnazione non avviene l'estinzione del diritto del creditore assegnatario verso il debitore esecutato, ma tutti e due i diritti di credito rimangono coesistenti. Il creditore assegnatario mantiene i due diritti uno verso il debitore esecutato e l'altro verso il terzo debitore assegnato - fino al momento del pagamento. Nel momento in cui il terzo debitore assegnato paga il suo debito al creditore assegnatario, automaticamente si estingue anche, per la quantità corrispondente, il credito che l'assegnatario vanta nei confronti del debitore esecutato. E se, quindi, il terzo assegnato è insolvente, sul piano del diritto sostanziale il creditore mantiene intatto il suo credito nei confronti del debitore originario. Molto più incerta è invece la disciplina dei crediti che scadono oltre i novanta giorni. L'art. 553, II c.p.c. dispone che i crediti che scadono oltre i novanta giorni possono essere o assegnati o venduti. Sono assegnati se i creditori ne fanno domanda; sono venduti se nessuno dei creditori ne chiede l'assegnazione. Se il credito è venduto, ciò significa che si trova un soggetto, il quale si rende cessionario del credito pagando una somma, che ovviamente è interiore al valore nominale del credito; e ciò perché l'acquirente del credito deve scontare il ritardo nella riscossione, e soprattutto la solvibilità del terzo ceduto. In questo caso, intatti, la cessione avviene pro soluto: pertanto, l’acquirente del credito paga subito, e un domani che va a riscuotere può anche trovare che il terzo debitore è insolvente. Quindi la somma, per la quale è venduto il credito, è maggiore o minore a seconda di tutte le variabili sopra esposte. Il problema nasce se, invece della vendita del credito, i creditori ne chiedono l'assegnazione. Abbiamo visto che, nel caso di crediti scaduti o che scadono entro novanta giorni, l'assegnazione è coattiva ed avviene pro solvendo; invece qui l'assegnazione ha luogo su domanda dei creditori. Essa è pro solvendo o pro soluto? Gli elementi per risolvere il problema sono i seguenti: intanto l'art. 553 II c.p.c., il quale non riporta l'inciso « salvo esazione »; e poi la tradizione, ereditata dal vecchio codice, nel quale si distingueva chiaramente fra le due vicende e si prevedeva che, mentre l'assegnazione coattiva dei crediti scaduti avveniva pro solvendo, l'assegnazione domanda dei crediti da scadere avveniva pro soluto. Dall'altro lato l'art.2928 c.c. stabilisce semplicemente: « se oggetto dell' assegnazione è un credito...», sembrando ricomprendere in un'unica disciplina (l'assegnazione pro solvendo) tutte le ipotesi di assegnazione del credito. L'elemento che ci può aiutare a risolvere il problema è contenuto nell'art. 553, II c.p.c., il quale equipara la vendita del credito all'asse gnazione su domanda. Sicconme la vendita avviene sicuramente pro soluto, si deve pensare che anche l'assegnazione ha luogo pro soluto. Se così fosse, è chiaro che il valore del credito per cui si procede all'assegnazione non è più il valore nominale - come nel caso dell'art.553,I c.p.c. ma è un valore scontato, perché il creditore deve tener conto del fatto non solo che incasserà la somma dopo un certo periodo di tempo, ma anche che assume su di séi rischi dell'inadempimento e dell 'insolvenza del terzo debitore assegnato. Se il credito viene venduto, il terzo acquirente versa una somma di denaro, che poi è oggetto di distribuzione nei modi ordinari. Invece l'assegnazione del credito chiude il processo esecutivo, perché non c’è più niente da fare: come del resto avviene nelle altre ipotesi di assegnazione satistattiva, dove non c'è bisogno di passare alla terza fase del processo esecutivo, che è la distribuzione del ricavato. L'assegnatario si trova nella posizione di chi deve curare (o subito o dopo, alla scadenza), la riscossione del credito di cui è divenuto titolare. Ovviamente, nel caso di assegnazione pro solvendo curare la riscossione è un onere del creditore assegnatario, il quale quindi non può rendersi inattivo, omettendo di compiere quanto necessario per riscuotere il credito dal terzo assegnato e pretendere poi di mantenere il suo credito nei contronti del debitore esecutato. Se vuol mantenere tale credito, deve fare tutto ciò che è necessario per riscuotere dall'assegnato. Invece, nel caso di assegnazione pro soluto, come pure nel caso di vendita, il credito nei confronti del debitore esecutato si è già estinto nel momento della assegnazione, per la somma corrispondente al valore dell'assegnazione stessa. Quindi è interesse esclusivo dell'assegnatario procedere alla riscossione. Se il terzo debitore non paga, l'assegnatario deve provvedere alla tutela giurisdizionale del suo diritto di credito: per poter procedere all' esecuzione forzata nei confronti del terzo debitore assegnato, l'assegnatario deve avere un titolo esecutivo. Se il debitore esecutato era già munito di un titolo esecutivo nei confronti del terzo debitore, l'assegnatario subentra nella possibilità di utilizzare tale titolo esecutivo ex art. 475 c.p.c., in qualità di successore del creditore originario. Se, invece, il debitore esecutato non aveva un titolo esecutivo nei confronti del terzo assegnato, può utilizzare come titolo esecutivo l'ordinanza di assegnazione. Gli artt. 548, I e 549 c.p.c. infatti espressamente prevedono la possibilità di fondare l'esecuzione contro il terzo sull'ordinanza di assegnazione. L'udienza in cui si stabiliscono le modalità per la vendita dell'immobile si svolge in modo analogo. Occorre anzitutto premettere che all'istanza di vendita, che il creditore procedente (o altro creditore intervenuto, munito di titolo esecutivo) deve depositare entro quarantacinque giorni dal pignoramento, deve essere allegata la documentazione prevista dall'art. 567 c.p.c. A seguito della presentazione dell'istanza, il giudice incarica un esperto della stima del bene (art. 568 c.p.c.), e fissa l'udienza, nella quale dispone la vendita del bene, e ne fissa le modalità. Le modalità di liquidazione del bene sono la vendita senza incanto (artt. 570-572 c.p.c.) e la vendita con incanto (artt. 576 segg. c.p.c.). Dapprima si procede alla vendita senza incanto; se questa non dà risultato positivo, allora si passa alla vendita con incanto. In ogni caso alla vendita è data pubblicità, ai sensi dell'art. 490 c.p.c., mediante l’inserimento in un apposito sito del Ministero della Giustizia, denominato « portale delle vendite giudiziarie », e anche attraverso l'inserzione in appositi siti internet, nei quali è inserita anche la relazione di stima dell’esperto (art. 570 c.p.c.), oppure anche in quotidiani. La vendita senza incanto consiste in un invito a tare la propria offerta in cancelleria in busta chiusa, offerta che rimane sconosciuta fino a che non vengono aperte le buste. Possono partecipare tutti gli interessati (quindi anche i creditori), tranne il debitore esecutato, perché non ha senso un acquisto da se stesso. Una forma particolare di modalità di offerta è quella fatta per persona da nominare, ad opera di un avvocato. Costui può offrire una certa somma senza indicare il soggetto interessato all'acquisto; avvenuta l’'aggiudicazione a suo favore (art. 583 c.p.c.), entro tre giorni deve depositare in cancelleria il nome del vero acquirente. Da tale momento in poi la procedura prosegue con l'acquirente effettivo. Se non viene fatta la dichiarazione, l'aggiudicazione diviene definitiva a nome dell’avvocato. Si ricorre questa particolare forma di offerta quando non si vuole far sapere che si è interessati all'acquisto del bene. Con il deposito in cancelleria dell'offerta in busta chiusa si deve versare, a titolo di cauzione, una somma equivalente a 1/10 del prezzo offerto. Quando è scaduto il termine per il deposito in cancelleria delle buste, il giudice dell'esecuzione le apre e vede le offerte effettuate. Poi convoca tutte le parti del processo esecutivo e se l'offerta maggiore è pari o superiore al valore di stima, l'immobile è immediatamente aggiudicato all'offerente (art. Ciò significa che ad un valore inferiore il bene immobile non può essere venduto. In caso di ribasso, tuttavia, non si procede direttamente ad un nuovo incanto, ma si percorre di nuovo tutto l'iter: vendita senza incanto, poi eventualmente vendita con incanto. In alternativa ad un nuovo tentativo di vendita, il giudice può disporre l'amministrazione giudiziaria, che è utile in due direzioni. Anzitutto, quando il bene produce dei frutti tali da poter soddisfare i creditori: in questo caso si ha, lato sensu, una sorta di anticresi processuale (l’anticresi è quel contratto con cui il debitore consegna un bene frutifero al creditore e questi si appropria dei frutti e lo restituisce quando con i frutti percepiti abbia soddisfatto il suo credito: art 1960 c.c.). Quindi il bene viene affidato al custode, il quale lo gestisce, ne prende i frutti, che possono essere distribuiti nel corso dell'amministrazione giudiziaria ai creditori; se con i frutti si soddisfano tutti i creditori, l'amministrazione giudiziaria cessa e il bene viene restituito al debitore; se, viceversa ciò non accade, nel termine massimo di tre anni bisogna procedere alla ulteriore vendita del bene. L'altra ipotesi che può indurre il giudice a disporre l'amministrazione giudiziaria dipende dal mercato: se è un momento in cui le offerte di acquisto sono scarse, il giudice può decidere di aspettare che il mercato immobiliare si « risvegli ». Alcune attività del processo esecutivo possono essere delegate a professionisti: ciò accade per la vendita dei beni immobili e dei mobili registrati. Ove il giudice dell'esecuzione faccia uso di tale possibilità, al professionista vengono affidate le attività previste dagli art. 591-bis, II c.p.c., che quindi non si svolgono più presso l’ufficio esecutivo, sebbene presso lo studio del professionista, o in altro luogo dal professionista stesso indicato: anche la vendita, quindi, non ha più luogo in pubblica udienza, come prevede l'art. 581 c.p.c. II professionista, quindi, provvede a determinare il prezzo della vendita, a dare pubblicità alla stessa, effettuare la vendita senza incanto ed eventualmente quella successiva all'incanto, aggiudicare il bene, ricevere il pagamento del prezzo, etc. Egli predispone anche il decreto di trasferimento, che peraltro resta, anche in caso di delega, atto del giudice dell'esecuzione. L'art. 534-bis c.p.c., rinvia all'art. 591-bis c.p.c. per quanto riguarda la vendita all'incanto dei beni mobili registrati. Se, nel corso delle operazioni affidate al professionista, sorgono difficoltà, il professionista stesso può rivolgersi al giudice dell'esecuzione, il quale provvede con decreto. Le parti possono proporre reclamo al giudice dell'esecuzione avverso tale decreto e avverso gli atti del professionista: il reclamo è deciso con ordinanza, nei confronti della quale può essere proposto reclamo ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. La modifica è conseguenza della riforma del 2015. In precedenza gli artt. 534-ter e 591-ter c.p.c. affermavano: « restano ferme le disposizioni di cui all'art. 617 c.p.c. ». Ora questa dizione è sparita, sostituita dal richiamo all'art. 669-terdecies c.p.c, cioè al reclamo cautelare. La portata della modifica è incerta. Occorre peraltro premettere che un controllo giurisdizionale - nelle forme del processo dichiarativo - della conformità a diritto degli atti del processo esecutivo è irrinunciabile. Il principio di legalità, lo abbiamo visto, vale anche nei confronti degli atti del giudice, il quale non è - solo perché tale legibus solutus. Anzi: l'art. 101, II Cost. afferma che i giudici sono soggetti alla legge, e quindi deve esistere uno strumento per verificare che la legge sia rispettata. Si deve dunque ritenere che il legislatore abbia introdotto un reclamo endoesecutivo, del tipo di quello previsto dall'art. 624, II c.p.c. per la sospensione dell'esecuzione; l'opposizione agli atti esecutivi (cioè lo strumento cognitivo volto a controllare la legalità degli atti del processo esecutivo) non è quindi proponibile avverso il provvedimento che decide il reclamo, ma solo nei confronti del primo atto successivo del giudice, sul quale si trasmettono le eventuali nullità degli atti precedenti del delegato. L'art. 164-bis disp. att. c.p.c prevede un rimedio estremo in caso di infruttuosità dell'espropriazione. Stabilisce la norma che il giudice dispone la chiusura anticipata del processo esecutivo « quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo ». Il giudice deve quindi fare una valutazione dei costi e dei benefici: se i primi superano i secondi, non è utile proseguire l'espropriazione. Gli elementi attivi non liquidati ritornano nella disponibilità del debitore, ed i creditori potranno instaurare una nuova esecuzione, ovviamente se vi saranno altri beni da instaurare. I creditori possono sempre comunque chiedere l’assegnazione dei beni pignorati al prezzo di stima. Cap.16 Gli effetti sostanziali della vendita e dell’assegnazione La natura della vendita forzata è stata molto discussa in dottrina: c’era chi ne affermava la natura privatistica, chi la natura pubblicistica, chi univa profili processuali a profili di diritto sostanziale (ad es., qualificando processuale l'attività dell'ufficio e sostanziale quella dell’offerente). Attualmente il problema è abbastanza sopito, in quanto si ritiene prevalentemente che la vendita forzata è un fenomeno essenzialmente processuale; ciò comporta che anche gli atti che compie l'acquirente sono atti del processo esecutivo e che il provvedimento di trasferimento è un atto del processo esecutivo; la vendita è quindi un procedimento giurisdizionale che però, siccome il processo si muove sempre in vista del diritto sostanziale, naturalmente ha effetti di diritto sostanziale. Di questi effetti si occupano gli artt. da 2919 a 2929 c.c. La prima e fondamentale norma, l'art. 2919 c.c., afferma che la vendita forzata trasferisce all' acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l'espropriazione; dobbiamo tenere presente che gli effetti sostanziali dell'assegnazione forzata sono identici a quelli della vendita forzata, tranne che per alcune particolarità che vedremo a suo tempo. Notiamo per prima cosa che l'art. 2919 c.c. non parla di "debitore ma di "colui che ha subito l'espropriazione": e ciò perché vi sono anche ipotesi in cui l'espropriazione è subita da chi non è debitore. In tali casi la vendita trasferisce all'acquirente i diritti che sul bene spettavano al terzo che ha subito l'espropriazione, e non quelli che spettavano al debitore. Dunque la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo: la misura dell'acquisto è determinata dalla misura del diritto del dante causa. In passato si è molto discusso sulla natura di acquisto a titolo derivativo od originario della vendita forzata: ma ciò semplicemente perché si impostava la discussione sulla base del presupposto che acquisto a titolo derivativo significasse acquisto consensuale, e acquisto a titolo originario significasse acquisto che prescinde dal consenso dell'alienante. Sotto tale profilo certamente la vendita forzata non è un acquisto a titolo derivativo, perché prescinde dalla volontà di colui che subisce l'esecuzione. Ma con il termine « derivativo » e « originario » oggi si vuole connotare un altro fenomeno. Intatti oggi si ritiene che acquisto a titolo derivativo significhi acquisto che postula la sussistenza in capo al dante causa di una situazione sostanziale uguale o maggiore di quella acquistata; e che acquisto a titolo originario significhi invece acquisto che avviene anche se in capo ad un (eventuale) dante causa non esiste un diritto uguale o maggiore di quello acquistato. Quindi nell'acquisto a titolo derivativo il diritto acquistato è dipendente, sul piano sostanziale, dal diritto di colui che ha subito l'espropriazione (diritto che quindi è pregiudiziale); mentre nell' acquisto a titolo originario il diritto acqui stato è autonomo, sul piano sostanziale, dal diritto sussistente in capo a colui che ha subito l’espropriazione. Da tale punto di vista, la regola generale della vendita forzata è quella dell'acquisto a titolo derivativo. Pertanto, se colui che ha subito l'espropriazione non era effettivamente titolare del diritto pignorato, l’acquirente in vendita forzata non acquista niente, e quindi la vendita forzata non pregiudica il terzo estraneo, effettivo titolare del diritto sul bene pignorato, proprio perché l'acquisto è a titolo derivativo. Infatti, poiché la vendita forzata fa acquistare all'aggiudicatario i diritti che spettavano a colui che ha subito l'espropriazione, se tali diritti spettavano in realtà ad un terzo l'aggiudicatario non acquista nulla e la vendita non toglie niente al terzo. Il suo diritto non viene minimamente inciso dalla vendita forzata. Esempio: Tizio pignora un bene immobile nei confronti di Caio debitore, come se il bene fosse di proprietà di Caio; immaginiamo pure che Caio risulti dai registri immobiliari proprietario del bene. Però egli in realtà non lo è più, perché si è verificata l'usucapione a favore di Sempronio. Quindi Caio non è più proprietario, anche se risulta ancora come tale dai registri immobiliari. I bene pignorato viene venduto a Mevio, che paga il prezzo e trascrive il suo decreto di trasferimento contro Caio. E chiaro che Mevio non ha acquistato nulla, in quanto nulla aveva Caio: come, parallelamente, niente Mevio avrebbe acquistato se Caio gli avesse venduto il bene con un atto di diritto sostanziale. Conseguentemente, Sempronio non perde niente, come niente avrebbe perso se Caio avesse venduto a Mevio il bene con un atto di diritto sostanziale. L'ultima parte dell' art. 2919 c.c. stabilisce che non sono opponibili all'acquirente in vendita forzata i diritti dei terzi, che non sono opponibili al creditore pignorante. Ciò signifıca che l'acquisto in vendita forzata è si un acquisto a titolo derivativo, però ciò che acquista l’aggiudicatario è quello che colui, che ha subito l'espropriazione, aveva non al momento della vendita ma al momento del pignoramento. Quando si dice « momento del pignoramento » s'intendono sinteticamente richiamati gli artt. 2913 e ss. c.c. e gli effetti del pignoramento in tali norme previsti. Esempio: Tizio è il creditore procedente; Caio è il debitore esecutato; Sempronio è l'acquirente da Caio; Mevio è l'aggiudicatario nella vendita forzata. Il 27/01 si ha la trascrizione del pignoramento a favore di Tizio contro Caio; il 27/02 il debitore Caio concede a Sempronio una servitù sul bene pignorato e Sempronio trascrive l'atto di concessione della servitù; il 27/03 viene emesso il decreto di trasferimento con il quale il bene pignorato viene trasferito all'aggiudicatario Mevio. Se si tenesse conto soltanto della prima parte dell'art. 2919 c.c., Mevio acquisterebbe i diritti che sul bene spettavano a Caio al momento della vendita forzata, cioè nel momento in cui si crea (rectius, si trascrive) il titolo di trasterimento tra Caio e Mevio, e quindi Mevio dovrebbe acquistare la proprietà del bene gravata della servitù. Però, in virtù della seconda parte dell'art. 2919 cc., i diritti che spettano a terzi (qui a Sempronio) sulla cosa, e che non sono opponibili al creditore procedente (qui Tizio), non sono opponibili nemmeno a colui che acquista in vendita forzata (qui Mevio). Mevio acquista il bene libero dalla servitù. In conclusione la vendita forzata è un acquisto a titolo derivativo, ma rilevante non è la situazione di diritto sostanziale sussistente in capo all'esecutato nel momento in cui si crea il titolo di trasferimento, sibbene la situazione di diritto sostanziale esistente in capo all'esecutato nel momento in cui viene effettuato il pignoramento. Però il bene viene venduto libero dai diritti di servitù e di usufrutto, che non sono opponibili ad A perché sorti da un atto trascritto successivamente all'iscrizione dell'ipoteca. Quindi se il creditore pignorante è lo stesso creditore ipotecario A, l'aggiudicatario H acquista il bene "pulito" come era nel momento in cui è stata iscritta l'ipoteca. Figurativamente possiamo dire che gli effetti della vendita forzata non solo retroagiscono al momento del pignoramento, ma addirittura retroagiscono al momento dell'iscrizione dell'ipoteca. Se, peraltro, il creditore pignorante F, cioè un creditore diverso dall'ipotecario A, quest'ultimo, obbligatoriamente avvertito ex art. 498 c.p.c. della pendenza dell'espropriazione, può intervenirvi; se interviene, si porta dietro la sua situazione di inopponibilità di tutti i diritti minori appartenenti alla prima categoria, il cui titolo sia stato trascritto dopo l'iscrizione dell'ipoteca. E’ chiaro che il creditore ipotecario conserva il diritto di far vendere il bene come libero tanto quando assume il ruolo di procedente, tanto quando interviene nel processo esecutivo iniziato da altri. Non avrebbe senso che quanto prevede a suo favore l'art. 2812,I c.c., valesse nella prima e non nella seconda ipotesi, perché -vuoi che sia creditore procedente, vuoi che sia creditore intervenuto -in ogni caso egli ha sempre diritto di soddisfarsi sul bene facendolo vendere libero, senza i diritti dei terzi sopra. Non è detto, quindi, che l'espropriazione iniziata da F necessariamente porti ad una vendita forzata che investa l'aggiudicatario H del bene libero dalla servitù di Ce dall'usufrutto di E: occorre vedere se il creditore A interviene o no; se interviene, il diritto di servitù di C e il diritto di usufrutto di E non sono opponibili neppure all'aggiudicatario (ecco cosi spiegata la portata precettiva dell'ultima parte dell'art. 2919 c.c.: e dei creditori intervenuti nell'esecuzione »); se non interviene, la servitù di C e l'usufrutto di E, che sono opponibili al creditore pignorante F, perché il loro atto costitutivo è stato trascritto anteriormente alla trascrizione del pignoramento, restano opponibili anche all'acquirente in vendita forzata. Se, avvertiti ex art. 498 c.p.c. i due creditori ipotecari A e D, interviene solo il secondo e non il primo, cosa acquista l'aggiudicatario H? Al creditore D è inopponibile l'usufrutto ma è opponibile la servitù, perché il titolo costitutivo dell'usufrutto è stato trascritto dopo l'iscrizione dell'ipoteca di D, ed il titolo costitutivo della servitù è stato trascritto prima dell'iscrizione all'ipoteca di D. L'aggiudicatario H, se interviene solo De non interviene A, acquista il bene senza l'usufrutto ma con la servitù. Ricapitolando: se non interviene nessuno, l'aggiudicatario acquista il bene con l'usufrutto e con la servitù; se interviene il creditore D, l’aggiudicatario acquista il bene senza l'usufrutto ma con la servitù; se interviene il creditore A, l'aggiudicatario acquista il bene libero, senza l'usufrutto e la servitù. Perché il legislatore, per i diritti di cui alla seconda categoria (art. 2812, III c.c.) prevede che l'espropriazione si faccia contro i titolari dei medesimi, e per i diritti di cui alla prima categoria (art. 2812, I c.c.) che l'espropriazione si faccia ignorando i titolari di questi diritti? Nel codice civile francese, da cui è derivato il nostro attuale art. 2812 c.c. la ripartizione era diversa. Per noi la ripartizione corre tra usufrutto, uso, abitazione e servitù da un lato; enfiteusi, superficie, nuda e piena proprietà dall' altro. Nel c.c. francese la ripartizione correva tra usufrutto, superficie, enfiteusi, nuda e piena proprietà da un lato, ed uso, abitazione e servitù dall'altro. L'usufrutto, che per noi sta nel c.d. gruppo dei diritti minori, nel c.c. francese stava nel c.d. gruppo dei diritti maggiori. La ragione è la seguente: l'espropriazione contro il titolare dei diritti di uso, abitazione e servitù non è possibile, perché i diritti di uso, abitazione e servitù non sono trasferibili sul piano del diritto sostanziale: quindi non si può formare il titolo di trasferimento tra l'acquirente in vendita forzata e il titolare di questi diritti minori. Far subire l'espropriazione, ad es., al titolare del diritto di abitazione non ha senso, perché tale diritto non è trasferibile sul piano del diritto sostanziale, e quindi l'aggiudicatario non può acquistarlo; assoggettati ad esecuzione possono diventare soltanto i titolari di diritti trasferibili, perché solo contro di loro può ottenersi un trasferimento forzato. Nella originaria versione della norma la distinzione aveva quindi un senso: esecutato era il titolare di un diritto suscettibile di essere trasferito; non diveniva invece parte esecutata il titolare del diritto insuscettibile di essere trasferito. Il diritto intrasferibile non può, appunto, trasferirsi all'aggiudicatario, ma può solo estinguersi. Il pasticcio nasce quando, recependo la regola, il legislatore italiano (probabilmente per una svista) inserisce anche l’usufrutto che è un diritto trasferibile - nella categoria di quelli intrasferibili. E così, se ci si limita a leggere l'art. 2812 c.c., non si capisce la ratio della distinzione. I titolari dei diritti indicati nell'art. 2812, I c.c. non divengono esecutati, perché - tranne l'usufruttuario- non sono titolari di un diritto suscettibile di essere trasferito; il loro diritto, con la vendita forzata, si estingue per incompatibilità, e si trasforma in una somma di denaro che è l'equivalente del diritto estinto (art. 2812, II c.c.). Tale credito può essere fatto valere nell'espropriazione con preferenza rispetto alle ipoteche iscritte successivamente alla data di trascrizione dell'atto costitutivo del diritto e quindi anche rispetto al creditore pignorante che non sia il creditore ipotecario. I titolari dei diritti, che si estinguono con l'espropriazione, diventano quindi creditori privilegiati iscritti: privilegiati, perché hanno preferenza sui creditori ipotecari posteriori e sui creditori chirografari; iscritti, perché il loro credito deriva dalla trasformazIone di un diritto che trae origine da un atto trascritto. Essendo la loro posizione destinata a trastormarsi in un diritto di credito avente ragione di prelazione, risultante dai pubblici registri, essi rientrano nella previsione dell'art. 498 c.p.c., e quindi debbono essere avvertiti della pendenza del processo esecutivo. Essi possono, pertanto, intervenire nel processo esecutivo come creditori potenziali per effetto della vendita, e quindi far valere le loro ragioni sul ricavato. Se, poi, hanno motivi di difesa nel merito, cioè ritengono di non dover subire l'effetto estintivo - ad es., perché l’ipoteca e nulla, prescritta, o comunque estinta ex art. 2878 c.c. - possono tar valere le loro ragioni con l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. Se, invece, l'ipoteca è valida ed efficace, il loro diritto si trasforma in un credito avente ad oggetto una somma di denaro. Esempio: il credito ipotecario di A è di 100; la servitù di B vale 10; il credito ipotecario di C è di 50; l'usutrutto di D vale 30; e il credito chirografario di E è di 500; il ricavato dalla vendita forzata è di 500. Al creditore ipotecario A spettano 100; poi si soddisfa la servitù di B per 10; al creditore ipotecario C spettano 50; infine si soddisfa l'usufrutto di D per 30; e quello che resta va al creditore chirografario E. Se il creditore ipotecario A non interviene, la ripartizione del ricavato è la seguente: niente a B, perché la sua servitù non si estingue, essendo stato il relativo atto costitutivo trascritto prima della iscrizione dell'ipoteca di C; 50 a C, 30 a D ed il resto al creditore chirogratario E. L'inciso contenuto nell'art. 2919 c.c., « salvi gli effetti del possesso di buona fede » lo abbiamo trovato anche nell'art. 2913 c.c., il quale, disciplinando gli effetti conservativi del pignoramento, stabilisce che gli atti di disposizione del diritto pignorato non hanno effetto in pregiudizio del creditore procedente e dei creditori intervenuti, salvi gli effetti del possesso di buona fede per i beni mobili non iscritti in pubblici registri. I beni mobili registrati non sono infatti assoggettati alla forma di circolazione disciplinata dagli artt. 1153 e 1155 c.c. La fattispecie dell'art. 2913 c.c. fa riferimento a un atto di disposizione che compia il debitore esecutato o più in generale il custode del bene mobile pignorato, il quale creando un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto e consegnando il bene mobile di cui egli ha la materiale disponibilità all'acquirente, purché quest'ultimo sia in buona fede (i.e., non sappia che il bene è pignorato) al momento della consegnata realizzare un acquisto a titolo originario a favore dell'acquirente, titolo che è prevalente rispetto a quello del creditore procedente, e quindi idoneo a sottrarre il bene dall'espropriazione. Ove l'alienazione provenga dall'esecutato, la portata dell'art. 1153 cc non è quella di sanare un difetto di titolarità. Partendo dal presupposto che il bene pignorato sia effettivamente di proprietà dell'esecutato, che compie l'atto di disposizione, l'art. 1153 c.c. serve a sanare un difetto di potere dispositivo, a superare il vincolo di indisponibilità creato dal pignoramento. Se l'acquisto disciplinato dall' art. 1153 c.c. è addirittura idoneo a sanare la carenza di titolarità del diritto, evidentemente può anche sanare la carenza del potere di disporre o superare un'inefficacia relativa dell'atto di disposizione. Nell'art. 2919 c.c., invece, acquirente di buona fede non è il terzo al quale il debitore esecutato aliena il bene mobile pignorato (quindi un acquirente sulla base di un atto di diritto sostanziale, con la sola peculiarità che egli acquista, ignaro, un bene pignorato anziché libero), ma è 'aggiudicatario, il quale fonderà il suo acquisto ex art. 1153 c.c. sul titolo astrattamente idoneo costituito dalla vendita o assegnazione forzata, sulla consegna del bene mobile (che nella vendita forzata dei mobili avviene immediatamente), e sulla buona fede, consistente nella mancata conoscenza che l bene non appartiene a colui che ha subito l'espropriazione. La buona fede qui consiste nel fatto che l'acquirente in vendita forzata non sa che il bene è di proprietà di un terzo. Se lo sapesse, mancherebbe la buona fede idonea a completare la fattispecie acquisitiva dell'art. 1153 c.c. Nel caso dell'art. 2913 c.c. la buona fede consiste nel non sapere che il bene è pignorato; qui nel non sapere che il bene non appartiene all'esecutato. La buona fede, intatti, va vista volta per volta con riferimento all'elemento carente che impedisce l'acquisto a domino: tale elemento può essere la mancanza di proprietà, come nel caso dell'art. 2919 c.c., oppure l'esistenza di un limite al potere dispositivo del diritto, come nel caso dell'art. 2913 c.c. Nel momento in cui nasce il diritto acquistato a titolo originario dall'acquirente in vendita forzata, si viene a creare una situazione di incompatibilità con quella del terzo proprietario del bene. La nascita di un diritto incompatibile in capo all'aggiudicatario produce necessariamente l'estinzione del diritto del terzo proprietario. Esempio: una volta avvenuta la vendita forzata, al di fuori del processo esecutivo si scontrano le pretese rispettivamente del terzo 'Tizio, il quale afferma: «proprietario del bene sottoposto ad esecuzione sono io» e dell'aggiudicatario Caio, il quale afferma: « ho acquistato il bene nell'esecuzione forzata contro Sempronio». E’ evidente che, quando la vendita forzata ha natura di acquisto a titolo derivativo, il conflitto si risolve a favore di Tizio, proprio perché Caio non ha acquistato niente, in quanto Sempronio non era proprietario del bene. Invece, nell'ipotesi in cui la vendita forzata ha natura di acquisto a titolo originario, proprio perché l'aggiudicatario acquista il bene anche se l'esecutato non ne era proprietario, il conflitto fra Tizio e Caio si risolve a favore dell' aggiudicatario Caio, e rimane soccombente il terzo proprietario Tizio. Nell'ipotesi in cui l'esecutato non fosse titolare del diritto pignorato e trasferito, il conflitto fra il terzo, proprietario del bene, e l'acquirente in vendita forzata si risolve normalmente (perché la vendita forzata per regola generale dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo) a favore del terzo ed eccezionalmente (quando la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a titolo originario) a favore dell'aggiudicatario. Dobbiamo ora vedere la tutela di colui che, nel conflitto ipotizzato, rimane soccombente, iniziando dall'acquisto a titolo originario, e quindi dal caso in cui soccombente è il terzo (ormai ex) proprietario. La disciplina è data dagli artt. 2920 c.c. per la vendita, e 2926 c.c. per l'assegnazione.
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