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Riassunti - "La gestione dell'impresa. Tra teoria e pratica aziendale", Sciarelli, Sintesi del corso di Economia e Gestione Delle Imprese

Riassunti libro "La gestione dell'impresa. Tra teoria e pratica aziendale" (Sciarelli) per esame di Economia e Gestione delle imprese con il professore Scazzini, Unicatt.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica Riassunti - "La gestione dell'impresa. Tra teoria e pratica aziendale", Sciarelli e più Sintesi del corso in PDF di Economia e Gestione Delle Imprese solo su Docsity! ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE PARTE PRIMA ELEMENTI DI ECONOMIA DELL’IMPRESA L’IMPRESA E IL SUO RUOLO ECONOMICO E SOCIALE (1) Requisiti comuni a tutte le imprese e definizione d’impresa Un’impresa, anche se caratterizzata da strutture e comportamenti differenti in funzione degli obiettivi da raggiungere e delle attività produttive da realizzare, è contraddistinta sempre da alcuni requisiti comuni a tutte le altre imprese: - Il contenuto economico dell’attività e degli obiettivi prefissati. L’impresa, infatti, ha lo scopo di ottenere profitto utilizzando risorse scarse. - Lo svolgimento dei processi di produzione mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse (uomini, capitali, impianti, materiali) dal quale crea ricchezza. - Le relazioni di scambio con entità esterne (utilizzatori o consumatori), con lo scopo di far scaturire dallo scambio un utile/reddito. - Conseguimento di un reddito, ossia un divario positivo fra il ricavo ottenuto dai beni ceduti e il costo delle risorse impiegate nella produzione. Sulla base dei requisiti comuni a tutte le imprese sopra elencati, si può definire l’impresa come l’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse, svolge processi di acquisizione e di produzione di beni o servizi, da scambiare con entità esterne al fine di conseguire un reddito e soddisfare i bisogni umani. L’impresa come sistema L’impresa possiede un carattere sistemico, la cui caratteristica principale è quella di essere costituito da un complesso interrelato di parti, interrelato perchè le singole parti sono interdipendenti rispetto a un obiettivo comune da raggiungere. Inoltre i sistemi di carattere economico e sociale operano in relazione con un ambiente esterno e da questa relazione deriva la caratteristica di dinamismo causata dal rapporto con una realtà in continuo cambiamento. Detto ciò, un sistema si può definire come un complesso interrelato di parti per il raggiungimento di un fine comune che opera in relazione con un ambiente esterno ed è quindi dinamico. 1 L’impresa può essere classificata come un sistema sociale, economico, dinamico e aperto: - Sociale: perchè è costituita da un insieme di parti od organi tra loro legati da relazioni d’interdipendenza per il raggiungimento di un fine condiviso (economico). - Dinamico: perchè muta nella dimensione e nella combinazione delle sue risorse. - Aperto: perchè, per operare, deve intrattenere continue relazioni di scambio (input-output) con altri sistemi o entità esterne. Concezioni d’impresa L’impresa come sistema non è assimilabile ad altri tipi di sistemi, infatti: - L’impresa quale sistema meccanico: caratterizzata da un automatismo di funzionamento, non corrisponde alla concezione di organismo operante in relazione con tutta una serie di altri sistemi esterni. - L’impresa quale sistema biologico: paragonabile ad un organismo vivente, per quanto possa essere attraente sotto certi profili, è inaccettabile per via delle molte limitazioni che incontra. Ad esempio, a differenza degli essere viventi, l’impresa è destinata a perdurare nel tempo, anche oltre la vita del suo fondatore. - L’’impresa quale sistema cognitivo: intesa come sistema di conoscenze atto a produrre nuove conoscenze, non deve essere “estremizzata”, nel senso di poter sostenere il concetto d’impresa virtuale, priva di qualsiasi materialità. L’impresa, infatti, è definibile come un sistema complesso in cui si intrecciano elementi tangibili e intangibili, mezzi tecnici e intelligenze secondo un disegno finalizzato alla produzione e diffusione di valore. La visione sociale dell’impresa Il concetto economico d’impresa non può essere separato da quello sociale, le imprese, infatti, sono rette da uomini che operano per soddisfare i bisogni umani e partecipano in senso lato alla vita dell’ambiente circostante. La sua funzione non può limitarsi a produrre bene e servizi utili per una certa collettività di consumatori, ma deve necessariamente estendersi al miglioramento della qualità della vita nel contesto in cui opera. In ciò si traduce il concetto di responsabilità sociale aziendale (corporate social responsabilità). In altri termini, un’impresa, per le funzioni che è chiamata a svolgere, per le risorse che attinge dall’ambiente, per l’impatto che può esercitare sul clima sociale della comunità, non può essere vista come un’iniziativa esclusivamente imprenditoriale rivolta soltanto alle finalità economiche dell’investitore proprietario. Essa deve essere più appropriatamente considerata come un sistema economico e sociale, cui prende parte una pluralità di attori, che dev’essere guidato in funzione di un giusto equilibrio tra obiettivi economici e responsabilità sociali. In conformità a queste considerazioni, l’impresa va correttamente considerata come un’istituzione a finalità plurime, il cui compito è di creare valore in senso ampio, ossia non solo valore economico, ma anche valore sociale. 2 - L’ambiente economico: rappresentato dal complesso delle macrovariabili (produzione agricola e industriale, prezzi e moneta, …) che caratterizzano un certo ambito territoriale. Può differenziarsi sotto molteplici profili, tra i quali i più importanti sono il meccanismo di regolazione della vita economica e la proprietà dei mezzi di produzione. In relazione al primo si distingue fra le forme dell’economica di mercato e di piano; in relazione al secondo si distingue tra economie liberiste e collettiviste. Nelle economie di mercato prevale il principio della libera iniziativa e quello della proprietà privata dei mezzi di produzione, per questo si parla di “economie liberiste”; nelle economie di piano, tutto è regolato dal piano, anche l’uso dei mezzi di produzione, che sono prevalentemente di proprietà della collettività, per tale motivo sovente si parla di “economia collettivista”. Per quanto concerne il micro-ambiente, in funzione delle firmeresti transazioni attivate, può essere a sua volta suddiviso in: - Ambiente transnazionale (scambi in entrata): ogni impresa, a seconda dell’organizzazione che vorrà darsi, avrà bisogno di attingere certe risorse dall’esterno. La scelta di ricorrere al mercato per ottenere determinate risorse, dipenderà dalle comparazioni di convenienza (articolate sotto vari profili) tra il produttore all’interno le risorse e il procedere al loro acquisto all’esterno. Più tali decisioni saranno orientate per il Fare (make), più si amplieranno i confini dell’impresa e la dipendenza dall’ambiente sarà minore, viceversa, più si ricorrerà al Comprare (Buy), più si amplierà l’ambiente transnazionale e la dipendenza dall’ambiente sarà maggiore. - Ambiente competitivo (scambi in uscita): l’ambiente competitivo dipenderà dalla scelta dei mercati di collocamento e delle specifiche porzioni di mercato (segmenti e nicchie) a cui cedere beni e servizi prodotti. L’impresa per attingere alle risorse e per cedere i beni prodotti dovrà interagire con una pluralità di stakeholder, che si raggrupperanno in categorie originando distinti mercati. In termini economici si ha un mercato in tutti i casi vi siano due o più contraenti disposti a scambiare fra di loro i beni rispettivamente posseduti. Ogni impresa si collegherà con: - Il mercato del lavoro: costituito dall’offerta delle risorse umane/forza lavoro. - Il mercato della produzione: composto dai produttori di materie prime, semilavorati, impianti, macchinari, materiali di consumo, servizi utili per l’attività aziendale. - Il mercato finanziario: rappresentato dal mercato immobiliare, dagli intermediari finanziari e da altri prestatori di capitale. - Il mercato di vendita: costituito dai potenziali acquirenti dei beni o servizi prodotti. 5 I rapporti impresa-ambiente L’ambiente, in senso generale, determina il sistema di vincoli-opportunità dell’impresa. I vincoli possono dipendere da leggi e provvedimenti amministrativi, dal modello di cultura prevalente, dalla composizione e dalla mobilità delle classi sociali, dal tipo di governo dell’economia e dal grado di benessere della popolazione. Da ciascuna sfera discendono, dunque, dei condizionamenti, che finiscono per restringere l’area di manovra dell’imprenditore. Nonostante questo prevalente rapporto di dipendenza dell’impresa nei confronti dell’ambiente, l’impresa attraverso le sue scelte, esercita una notevole influenza verso l’ambiente in cui opera. Nell’interpretazione del rapporto impresa-ambiente i principali fili conduttori sono: - Il progresso tecnologico: che influenza in modo considerevole la struttura di un settore industriale e la posizione competitiva dell’impresa. É indubbio che dalle scoperte della scienza, trasfuse in appropriate tecnologie, derivi un maggior benessere economico e sociale. - L’equilibrio economico e politico a livello internazionale: che incide notevolmente sulle condizioni e sull’evoluzione recente del mondo della produzione e del consumo. Si può, infatti, osservare che gli eventi di politica economica internazionale, che hanno contrassegnato l’ultimo ventennio, hanno radicalmente modificato le caratteristiche dell’ambiente socio-economico. Per effetto dell’apertura dei mercati, dell’affermarsi di nuovi importanti competitori (Cina e India), dell’intrecciarsi di lotte sul controllo delle risorse energetiche mondiali, l’ambiente è divenuto più turbolento, cioè meno prevedibile e più ostile alle imprese. Turbolenza , ostilità, diversità, complessità e insicurezza appaiono dunque i connotati ambientali che l’impresa deve imparare a fronteggiare. Internazionalizzazione e globalizzazione Il filo conduttore dell’evoluzione dell’ambiente, negli ultimi anni, è stato senz’altro la “compressione” del tempo e dello spazio. La diffusione di mezzi sempre più veloci di trasporto di persone, cose e informazioni ha eliminato il fattore “distanza” e ha consentito di attuare il processo di comunicazione in tempo reale. Il fatto nuovo di maggior peso, affermatosi nell’ultimo trentennio, è senz’altro l’internazionalizzazione. Lo sviluppo mondiale degli scambi, la diffusione sul piano internazionale delle informazioni, l’interdipendenza delle economie di più Paesi hanno imposto a tutte le imprese un respire internazionale. Non solo dunque la grande impresa, ma anche le piccole e medie imprese hanno dovuto imparare a proteggersi dalla concorrenza sempre più agguerrita delle imprese straniere, per poter concorrere, su scala internazionale, all’acquisizione delle risorse e al collocamento delle produzioni realizzate. La globalizzazione, invece, si riferisce ad un mercato senza confini geografici piuttosto che a un mercato mondiale omogeneo. Si sono sviluppate dunque, strategie d’internazionalizzazione e strategie di globalizzazione di prodotti. 6 I PROTAGONISTI NELLA VITA DELL’IMPRESA: LA TEORIA DEGLI “STAKEHOLDER” (3) Imprenditore e Manager Nell’impresa la figura centrale è quella dell’iImprenditore, che può essere definito come il soggetto economico che decide di rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacità professionali alla produzione di beni o servizi da cedere a terzi. Schumpeter, nella “Teoria dello sviluppo economico”, individua le qualità che l’imprenditore deve possedere in modo superiore: - La capacità di previsione (vision), razionalità consapevole, intuito. - Lo spirito d’iniziativa, forte volontà, libertà intellettuale. - L’autorevolezza e capacità di leadership nei confronti dei collaboratori. Si differenzia dal Manager, che non si assume il rischio d’impresa, ma pone in essere le decisioni prese dall’imprenditore ed è definito come il soggetto che organizza e disciplina l’uso delle risorse aziendali dando attuazione alle decisioni imprenditoriali. Pertanto, la dottrina anglosassone distingue la funzione imprenditoriale (entrepreneural role) alla quale è attribuito il fine di creare valore, dalla funzione amministrativa (administrative role) alla quale è attribuito il fine di razionalizzare l’utilizzo delle risorse ed evitare le inefficienze. Alle figure d’imprenditore e manager sono riconducibili due definizioni importanti: - “L’imprenditorialità è l’attitudine ad assumere decisioni rischiose finalizzate all’innovazione dei comportamenti aziendali”. - “La managerialità è la capacità di sviluppare le decisioni imprenditoriali e attuarle in modo razionale, evitando le inefficienze (perdite)!. La complementarietà di questi ruoli, che spesso si combinano nello stesso soggetto, appare evidente, perchè il successo di un’impresa è sempre il risultato della combinazione di efficacia (bontà delle decisioni) ed efficienza (rendimento dell’uso delle risorse). Da ciò deriva che: - L’efficacia è il valore proprio dell’imprenditorialità, intesa quale intuizione decisionale di chi governa a livello più elevato il sistema aziendale. - L’efficienza è il valore proprio della managerialità, intesa quale attitudine a realizzare il massimo rendimento nell’attuazione delle scelte aziendali. 7 Di fatto la classificazione degli stakeholder è continuamente mutevole perchè, di tempo in tempo, possono variare l’attualità degli interessi, la forza dei singoli interlocutori e il loro grado di legittimazione. Pertanto l’individuazione degli stakeholder compiuta in origine deve consentire di stabilire come gestire i relativi rapporti, valutando se da ciascuno di essi potrà derivare un atteggiamento collaborativo oppure un ostacolo, se non addirittura una minaccia. Sotto questo profilo gli interlocutori aziendali sono stati classificati in quattro gruppi, nei confronti dei quali vengono eseguite differenti strategie: - Stakeholder amichevoli (supportive): dai quali si può ottenere un sostegno decisivo per l’attività d’impresa e verso i quali s’intraprende una strategia di coinvolgimento. - Stakeholder avversari (non supportive): dai quali potrebbero generarsi difficoltà sostanziali per l’attività aziendale e verso i quali si adotta una strategia di difesa. - Stakeholder non orientati (mixed blessing): da cui si potrà avere, a seconda delle circostanze, un sostegno o un atteggiamento negativo e verso i quali si persegue una strategia di collaborazione. - Stakeholder marginali: il sui peso nei confronti dell’impresa nel particolare momento risulterà del tutto modesto e che comporterà una strategia di monitoraggio. Nella teoria degli stakeholder, il ruolo della proprietà rappresenta un punto problematico. Sostanzialmente e in modo sintetico, si delineano sue principali casi: - Coincidenza tra proprietà e governo dell’impresa: la proprietà in questo caso non figura tra gli stakeholder dato che è la stessa proprietà/governo (imprenditore) a curare i rapporti con gli stakeholder. - Dissociazione tra proprietà e governo: in questo caso invece la proprietà è ricompera tra gli stakeholder perchè costituisce uno degli interlocutori primari del management stesso. Teoria dell’agenzia Con la dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa, prende forma la cosiddetta Teoria dell’agenzia. Tale teoria si riferisce alla situazione in cui il potere di amministrazione è esercitato da un Manager (agent) su mandato ricevuto dalla proprietà (principal). Per effetto del mandato fiduciario, in base al quale un delegato amministra per conto del delegante, si viene così a creare una relazione singolare che tende a ridurre se non annullare il carattere residuale (e, quindi, in un certo senso il rischio) della remunerazione della proprietà. Quest’ultima, infatti, incentiverà lagne a massimizzare la ricompensa per la proprietà sotto forma di dividendi azionari e valorizzazione della quotazione delle azioni, pena l’uscita dalla società (disinvestimento) o la rimozione dell’agente dal suo incarico (risoluzione del mandato fiduciario). 10 LE FINALITÀ IMPRENDITORIALI: UNA SINTESI TEORICA (4) Le finalità dei comportamenti aziendali L’impresa, quale entità economica e sociale, non ha delle finalità da raggiungere, ma delle funzioni da svolgere. Tale precisazione è opportuna per ribadire una distinzione fondamentale tra l’azienda come fatto oggettivo, cioè come una realtà costituita da un coacervo di risorse o di potenziali, e la stessa azienda vista come fatto soggettivo, ossia quale emanazione e strumento di una capacità imprenditoriale finalizzata verso certi risultati. Il problema dei fini, investe, in sostanza, gli individui che agiscono nell’impresa e, in prima linea, coloro che ne detengono la proprietà e il governo. Il concetto di profitto Per comprendere le modalità di gestione dell’impresa, è necessario capire quale intreccio d’interessi e di motivazioni si sviluppa all’interno ed intorno ad essa. In una visione schematica, si può osservare che l’imprenditore dovrebbe essere interessato al profitto, i dirigenti e i lavoratori alla retribuzione e alla progressione di carriera, i fornitori a trarre maggiore vantaggio dalle relazioni commerciali, i finanziatori a tessere rapporti continuativi e lucrativi d’affari. Per quanto riguarda l’imprenditore, è stato citato il profitto, del quale esistono quattro concezioni: - Compenso che spetta all’imprenditore per l’organizzazione dei fattori produttivi. - Quota destinata a ripagare il rischio corso nell’attività aziendale. - Premio che spetta a colui che promuove l’innovazione (Schumpeter). - Risultato dell’acquisizione di posizioni monopolistiche rispetto agli altri produttori. Queste quattro visioni, più che alternative risultato complementari, infatti: il profitto è un’entità composita, in cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il premio per il rischio, la contropartita dell’innovazione e la rendita connessa con la posizione monopolistica. LE TEORIE CLASSICHE SULLE FINALITÀ IMPRENDITORIALI La teoria della massimizzazione del profitto Secondo la costruzione teorica classica, i comportamenti del gruppo imprenditoriale sarebbero difatti orientati al conseguimento del maggiore divario positivo tra i ricavi e i costi di gestione. La logica delle scelte, assunta dagli organi di governo, sarebbero quella di massimizzare il risultato ottenibile dall’attività d’impresa, cioè di adottare in ogni caso, tra le alternative disponibili, quella suscettibile di produrre maggior reddito.Tale teoria potrebbe apparire convincere in senso astratto, in quanto in linea con i principi che, in generale, guidano le scelte d’investimento e orientano il comportamento umano. 11 Sul piano pratico però, s’incontrano una serie di limiti che ne condizionano l’utilità interpretativa dei comportamenti imprenditoriali. Innanzitutto, la sua applicazione richiede la precisazione di alcune condizioni di tempo e di rischio. Ci si può, infatti, chiedere quale profitto l’imprenditore vuole rendere massimo: quello di un esercizio, di due esercizi, di una specifica operazione o di un complesso di operazioni? Intende puntare al massimo profitto, sostenendo altresì il rischio più elevato circa il risultato dell’attività dell’impresa? Da ciò deriva che, per conferire un valore operativo alla teoria e poter spiegare, alla luce di essa, le motivazioni del comportamento imprenditoriale, è necessario introdurre il fattore tempo (time-preference) e il fattore rischiosità (uncertainty conditions). - Fattore tempo: l’imprenditore tende a massimizzare il risultato nel lungo termine, non il risultato di una certa operazione o delle operazioni condotte in un determinato periodo di tempo. Tale obiettivo può essere anche sacrificato nel breve periodo, con l’intento però di pervenirvi già agevolmente nel lungo periodo. Sotto questo profilo si può, ad esempio, giustificare una politica di vendita dei beni o servizi prodotti a prezzo di costo o inferiori al costo, intesa a far conquistare un’ampia porzione di mercato e far recuperare successivamente le quote di reddito sacrificate. - Fattore rischio: l’imprenditore tende a condizionare le sue aspirazioni reddituali ad un determinato grado di rischiosità globale della gestione. Sotto questo profilo, l’espansione in altri settori produttivi o in mercati esteri potrebbe, ad esempio, rispondere non tanto al fine di massimizzare il profitto, quanto piuttosto a quello di diversificare e compensare (merceologicamente e geograficamente) i rischi di gestione. Teoria della sopravvivenza dell’impresa Secondo la teoria della sopravvivenza, il fine del gruppo imprenditoriale è quello di garantire la continuità dell’organismo aziendale. Ciò si traduce, da un lato, nel puntare al profitto come mezzo per irrobustire la struttura patrimoniale dell’impresa e, dall’altro, nel rifiutare attività gestionale i con coefficienti di rischio che possano porre in pericolo la vita dell’organizzazione. Questa teoria ha trovato uno dei principali sostenitori in Drucker, il quale ha proposto di misurare il raggiungimento della finalità suindicata sulla base di obiettivi legati a quattro aspetti necessari: - Posizione occupata nel mercato. - Innovazioni. - Risorse umane e finanziarie. - Redditività dell’impresa. 12 - I conflitti interni: possono essere generati dalle modalità di distribuzione dei ricavi fra le varie categorie sociali legate all’impresa e alle modalità di prestazione del lavoro. Fra i due tipi di conflitti sussistono delle differenze non solo in ordine alla loro origine, ma anche alle effettive possibilità di risoluzione esercitabili dall’impresa. - I conflitti esterni: nel caso in cui non si riescano a stabilire legami durevoli di collaborazione, sono risolvibili sulla base del rapporto di forza esistente tra l’impresa e le altre organizzazioni economico-sociali con cui entra in contatto. Laddove l’impresa non ha la forza di imporre totalmente le proprie condizioni all’opponente, le opportunità di risoluzione sono sovente molteplici. (es: conflitto con il fornitore, si può decidere di stabilire un nuovo accordo, oppure di cambiare fornitore, oppure produrre il bene). - I conflitti interni: lasciano limitate possibilità di manovra all’imprenditore, nonostante egli abbia il potere, almeno in teoria, di risolvere il conflitto escludendo l’opponente dell’organizzazione. L’esempio classico è quello dei conflitti di lavoro, in cui la maggior forza imprenditoriale non può esercitarsi a cagione della tutela sindacale del lavoratore. La contrapposizione d’interessi può essere interpretata, seppur in forma estremamente semplificata, in termini di costi e di ricavi, cioè analizzando l’equazione del profitto e rilevando quali sono i condizionamenti sociali che si oppongono all’ottenimento, da parte dell’imprenditore, del massimo reddito. L’imprenditore, infatti, per poter massimizzare il profitto può cercare di ampliare i ricavi e/o ridurre i costi, in modo da far accrescere il reddito. Per aumentare i ricavi ha due possibilità: aumentare il prezzo o la quantità venduta dei beni. Tuttavia un rialzo del prezzo, quasi sicuramente non verrà positivamente accettato dai compratori, i quali potrebbero decidere, per evitare di pagare un prezzo più alto, di rivolgersi ad un altro fornitore. Pertanto, l’effettiva possibilità dell’imprenditore di far leva sulla variabile prezzo per massimizzare i suoi profitti appare difficilmente applicabile e potrebbe, addirittura, rivelarsi controproducente. Lo stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda l’aumento della domanda. Se l’impresa si trova ad operare in un mercato dove la domanda è più o meno stabile, per poter raggiungere l’obiettivo di ampliamento della domanda l’impresa dovrà necessariamente erodere la quota di mercato dei concorrenti. Questi ultimi chiaramente porranno in essere delle azioni che contrastino la strategia del rivale. L’impresa potrebbe a questo punto decidere di operare sul versante dei costi. 15 Per ridurre i costi l’impresa può operare su due fronti: abbassare il costo unitario di produzione o impiegare una minore quantità di risorse. La riduzione del costo unitario di produzione travierà la naturale opposizione dei gruppi sociali come i lavoratori, i fornitori, i distributori, … che si vedrebbero rispettivamente ridurre la remunerazione del lavoro, ridurre i prezzi pagati ai fornitori, i margini di guadagno, … Lo stesso ragionamento deve essere fatto per quanto concerne la riduzione della quantità di risorse. In una situazione di sostanziale impossibilità di incremento del profitto senza suscitare conflitti pericolosi per la stessa sopravvivenza dell’impresa quali opportunità da l’impresa per raggiungere la sua finalità? Solo mediante l’innovazione l’imprenditore può aspirare a migliorare o almeno difendere la propria posizione reddituale. I costi dell’innovazione, ovvero i costi di ricerca e sviluppo, sono relativi all’individuazione di nuove opportunità tecnologiche o di mercato, alla creazione dell’immagine, all’avviamento commerciale. In corrispondenza di questi costi generalmente non vi è un particolare e forte gruppo sociale, per questo motivo sono comprimibili con minore difficoltà da parte dell’impresa. Perciò accade che nei periodi di crisi sono gli unici costi (insieme forse con quelli di pubblicità) ad essere tagliati, in quanto ritenuti non strettamente necessari. In altri termini, il ragionamento precedente conduce a tre conclusioni: - L’equilibrio tra costi e ricavi aziendali è difficilmente modificabile in assenza di innovazioni nella gestione. - Le innovazioni nell’organizzazione e nel mercato richiedono il sostenimento di costi che, invece, sono solitamente tagliati in periodi di crisi aziendale. - Il profitto è una quantità residuale che risente delle situazioni di crisi, data la rigidità delle altre grandezze economiche e l’assenza di processi innovativi. È possibile concludere osservando che: il reddito è un risultato che deriva da accordi di copertine o dalla composizione di conflitti interni ed esterni e che la sua misura non è mai liberamente determinabile dall’imprenditore. Il fine del massimo profitto diviene, così, il fine del massimo profilo condizionato. * La teoria dei limiti sociali al massimo profitto pone in rilievo come la massimizzazione del profitto incontra due serie di vincoli: i primi sono quelli sociali, i secondi sono i limiti di conoscenze in ordine all’evoluzione dell’ambiente e dei mercati. Su questa limitazione s’incentra la teoria del Simon, secondo la quale l’imprenditore tenderebbe a un profitto soddisfacente più che massimo. Un’eventuale massimizzazione del profitto incontrerebbe, cioè, dei limiti insuperabili nelle condizioni di ridotta conoscenza in cui sono costretti ad operare gli amministratori aziendali. Per questo motivo, l’obiettivo delle singole scelte, e quindi in senso più lato dell’intera gestione, sarebbe quello di individuare, per ciascun problema, le alternative soddisfacenti piuttosto che quelle ottimali.* 16 La teoria del successo sociale Nell’analisi di questa teoria è indispensabile porsi un quesito di fondo: l’imprenditore è mosso soltanto da interessi economici oppure, come tutti gli altri individui, tende a raggiungere altri traguardi appartenenti alla sfera sociale? E, se coì fosse, come potrebbe giungere ad una combinazione ottimale tra questi due ordini di finalità? Le motivazioni o meglio le finalità che spingono un individuo, da solo o insieme con altri soggetti, a promuovere la costruzione di un’impresa e a svilupparne nel tempo l’attività possono essere comprese, con qualche necessario adattamento, richiamando la famosa scala dei bisogni di Maslow. Seconda questa impostazione, le finalità dell’imprenditore appaiono, in ordine crescente d’importanza, quelle di assicurare la sopravvivenza dell’impresa (mediante il perseguimento del fondamentale equilibrio economico tra costi e ricavi), di affermarsi nell’ambito della classe sociale di appartenenza e di assumere posizioni di preminenza nella comunità. In altre parole lo stimolo economico non rappresenta, o non dovrebbe rappresentare sempre né il solo né il richiamo più importante della funzione imprenditoriale, il fine economico, può e deve divenire anche un mezzo per il raggiungimento di obiettivi morali e sociali. È ipotizzabile, infatti, che l’imprenditore (inteso quale proprietario e gestore) trasponga grand parte di sé nell’impresa e che il suo obiettivo fondamentale sia quello di avere un’impresa forte, in grado di svilupparsi e di assicurargli rispetto a ammirazione nella cerchia competitiva più ristretta in cui opera e in quella più ampia della collettività. Partendo da questa ipotesi, si possono allora individuare e ordinare le finalità imprenditoriali in funzione di una combinazione o “mix” costituita dal conseguimento del profitto, del potere e del prestigio. In quest’ottica: - Il prestigio (leadership sociale): ovvero l’assumere posizioni di preminenza nella collettività, rappresenterebbe il traguardo di più elevato valore, che apparirebbe come il vero punto d’arrivo dell’attività imprenditoriale. - Il potere di mercato (leadership competitiva): ovvero l’affermarsi nella classe sociale di appartenenza, consentirebbe, assieme al profitto, all’impresa di svilupparsi rispetto alla concorrenza. - Il profitto: assicurerebbe la sopravvivenza dell’impresa mediante l’equilibrio tra costi e ricavi. 17 COME COMPETERE: LE STRATEGIE COMPETITIVE (6) Le scelte strategiche dell’impresa sono sempre guidate dalla preventiva valutazione delle possibilità a livello di mercato. É cioè chiaro che la strategia complessiva deriverà, innanzi tutto, dalle decisioni di mercato che l’imprenditore prenderà in base agli obiettivi di lungo termine da perseguire. Pur essendoci un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle competitive, saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. In altre parole, la decisione di essere presenti in più mercati o aree d’affari non potrà essere sempre fondata sulle probabilità di competere efficacemente in quei mercati o in quelle aree d’affari. I paradigmi teorici per la definizione della strategia competitiva La decisione d’ingresso in un mercato è dunque, legata allo studio delle sue caratteristiche e alla possibilità non solo di entrarvi, ma si rimanervi e, con le risorse disponibili, poter competere efficacemente. In effetti, nella determinazione delle scelte strategiche peseranno congiuntamente fattori legati all’ambiente esterno (fattori esogeni) e fattori collegati alle risorse che l’impresa già possiede o può acquisire senza particolari ostacoli (fattori endogeni). Il rapporto tra fattori esogeni e fattori endogeni nello sviluppo dell’impresa può esplicarsi nell’evoluzione dei paradigmi: - Paradigma strutturalista (Struttura-Condotta-Performance): in tale quadro di riferimento il processo di formazione della strategia è un processo razionale ed esplicito, nel quale l’analisi delle caratteristiche ambientali assume un ruolo decisivo, così come la strutta del settore, che determina il comportamento e la performance economica delle imprese che in esso operano. In tale modelli il termine struttura fa riferimento alla struttura del settore, ed in particolare al numero dei concorrenti, all’eterogeneità dei prodotti ed ai costi di entrata e di ingresso. La condotta si riferisce a specifiche azioni dell’impresa nel settore (es. la differenziazione produttiva). La performance, infine, fa riferimento, sia ai risultati raggiunti dalla singola impresa, sia ai risultati conseguiti dall’economia nel suo complesso. - Paradigma comportamentista (Condotta-Struttura-Performance): in quest’ottica, l’impresa è vista, in realtà, come elemento che influenza l’ambiente, che produce degli output che finiscono per modificare il settore in cui opera, e non come soggetto che devo semplicemente adattarsi ad esso. Secondo tale modello, sono in effetti le condotte aziendali che influiscono quindi sulle strutture (ambiente) e producono, anche in base all’adattamento di queste, i loro risultati. In questa visione il ruolo dell’impresa si trasforma, pertanto, da passivo in attivo perchè non subisce più il condizionamento della struttura ma, con le proprie condotte, reagisce alla situazione in essere e si propone di modificarla a proprio vantaggio. 20 - Paradigma fondato sulle risorse (Risorse-Condotta-Performance): tale modello è fondato sulle capacità (risorse) dell’impresa a influenzare i risultati gestionali. Ponendo in relazione la performance con la condotta e quest’ultima con le risorse proprie dell’impresa, riduce quindi l’influenza del settore e accresce il peso dei fattori endogeni nella formulazione delle scelte strategiche. In altri termini, l’impresa, con i suoi comportamenti innovativi che è in grado di attuare in virtù delle risorse specifiche possedute, sarebbe in grado di mutare l’assetto del settore a cui si rivolge riuscendo a modificare le regole del gol e migliorando, così, le probabilità di successo competitivo. È questa la conclusione in base alla quale viene considerato superato il paradigma SPC e si guarda con particolare interesse al modello fondato sulle risorse aziendali (RCP). Occorre precisare che tra i due non esiste incompatibilità, ma vi sono condizioni di integrazione e complementarietà. - Paradigma fondato sulla conoscenza (Conoscenza-Capacità-Performance): secondo tale modello, le conoscenze che si accumulano nell’impresa producono le capacità innovative e queste determinano i risultati. Questo paradigma trae spunto dalla teoria di Nonaka sull’impresa che crea e utilizza conoscenza (impresa come sistema cognitivo) e dalla considerazione che le capacità (intese in senso dinamico) sono in grado di ispirare condotte atte a generare il successo competitivo. A conclusione di quest’analisi sui paradigmi affermatisi in dottrina, si può quindi sostenere che sulle scelte dell’impresa pesano sia fattori esogeni (legati al mercato) sia fattori endogeni (legati alle risorse) e che, in realtà, il rapporto è in ogni caso d’interdipendenza. Da ciò si deduce l’importanza dello studio del mercato prima di assumere qualsiasi scelta strategica poiché sarà la condizione strutturale del mercato o area di affari, cui si rivolge l’attenzione dell’imprenditore, a consentire la migliore valutazione delle risorse su cui basare la strategia competitiva. È cioè intuibile che analizzare il settore o lo specifico spazio di mercato in cui competere in rapporto al grado di concentrazione dei concorrenti già presenti, alle barrire all’entrata e all’uscita, all’elasticità della domanda, costituisce un presupposto essenziale per immaginare come competere con le risorse e le capacità disponibili o acquisibili. L’analisi di settore secondo lo schema della “concorrenza allargata” Uno dei più noti (e anche più critici) schemi di analisi di settore è quello comunemente noto come schema delle cinque forze o della concorrenza allargata, dovuto a Porter. Tale modello fa riferimento al paradigma Struttura-Condotta-Performance perchè parte dall’analisi della struttura per delineare la strategia competitiva mirata al più appropriato posizionamento di mercato. 21 Secondo Porter, la scelta di un mercato (inteso come mercato servito, ovvero come quella parte a cui intende rivolgersi l’offerta aziendale) è guidata non solo dalla relativa attrattività, cioè dalle tendenze espansive della domanda e dai margini lucrativi, ma anche dalla posizione competitiva che l’azienda potrà assumere. L’attrattività di un settore deve essere valutata analizzando le cinque forze che interagiscono e determinano, in generale, condizioni di minore o maggiore attrattività. Le cinque forze determinano il livello di intensità competitiva e condizionano le possibilità di profitto, che in un’ottica di medio lungo termine, le imprese del settore possono conseguire. Si tratta delle cinque forze competitive, che sono: la rivalità tra i concorrenti presenti (concorrenza reale), l’entrata di nuovi concorrenti (concorrenza potenziale diretta), la minaccia di sostituti dei prodotti (concorrenza potenziale indiretta), il potere contrattuale dei clienti e il potere contrattuale dei fornitori. Per valutare l’intensità della concorrenza in un determinato settore (e, dunque, il suo grado di attrattività) non basta considerare i concorrenti attualmente presenti, ma occorre estendere l’analisi anche alla concorrenza potenziale (diretta e indiretta) e valutare il potere contrattuale di fornitori e clienti. Le barriere alla concorrenza Fenomeno tipico dei mercati in regime di oligopolio, le barriere all’entrata si sostanziano in difficoltà di accesso di nuove imprese ad un mercato. Si differenziano in esterne o interne: esterne quando impediscono l’ingresso di nuovi competitori; interne quando tutelano la posizione di ciascun produttore nei confronti delle azioni espansive degli altri produttori presenti nel mercato. Tali barriere si collegano: - Alle economie ottenibili nelle funzioni di gestione, tra cui: - Economie di scala. - Economie di apprendimento. - Economie di scopo (interrelazione). - Economie di relazioni. - Alla disponibilità di brevetti o know-how. - Alla scarsa disponibilità di fattori produttivi essenziali. - Alla differenziazione dei profitti. 22 Lo schema tridimensionale di Abell Secondo Abell l’area di business viene definita attraverso tre dimensioni: - La funzione d’uso: vale a dire i bisogni del cliente che l’impresa intende soddisfare. - I gruppi di clienti: vale a dire i portatori dei bisogni a cui l’impresa intende rivolgersi. - Le tecnologie: vale a dire le modalità tecniche attraverso cui l’impresa intende soddisfare i bisogni dei suoi clienti. Il superamento delle barriere: la catena del valore La formulazione della strategia competitiva, può fondarsi, secondo Porter, sulla catena del valore. Lo studioso sostiene, infatti, che l’azienda, con la sua attività, crea un valore per il cliente, valore che è misurato dal presso che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore creato si distingue in due parti: i costi sopportati per le attività necessarie alla realizzazione e all’assistenza, e il margine che rimane all’azienda. Il maggior valore, e quindi la più ampia differenza tra prezzo e costi, deriverebbe così dalla maggiore efficenza nella prestazione delle attività. Il concetto di catena del valore aiuta, in pratica, a comprendere quali sono le fonti del vantaggio competitivo, pervenendo ad una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi: - Attività primarie: sono rappresentate sostanzialmente dalle funzioni di produzione e di vendita e si suddividono nella logistica interna (gestione specifica di determinate attività dell’impresa), nell’attività di trasformazione, nella logica esterna (tutte le attività necessarie a portare il prodotto sia all’interno sia all’esterno dell’azienda), nel marketing e vendite, e nei servizi (soprattutto di assistenza post-vendita). In altri termini, le attività primarie riguardano il ciclo produzione-vendita con terminali a monte nella logistica in terna e a valle nei servizi alla clientela. - Attività di supporto: sono classificate con criteri di maggiore elasticità e vengono chiamate così perchè intese a fornire le basi per la concreta realizzazione delle attività primarie. Sono costituite dall’approvvigionamento, dallo sviluppo delle tecnologie, dalla gestione delle risorse umane e dalle attività infrastrutturali dell’impresa. In altri termini, il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificamente le cause del vantaggio competitivo, che, a seconda dei casi, possono essere rinvenute nella progettazione (differenziazione) del prodotto, nell’efficenza del sistema di produzione, nell’economicità delle funzioni di approvvigionamento e nell’efficacia del marketing. Naturalmente, ogni impresa può riuscire a sfruttare anche più vantaggi (ad esempio una buona progettazione e un buon marketing), massimizzando così la sua “dominanza competitiva”. 25 La formulazione della strategia competitiva L’impresa, dunque, può costruire il suo vantaggio competitivo o perché è in grado di realizzare con maggiore efficenza le attività inserite nella catena del valore o perchè riesce a differenziarsi dalla concorrenza. Nell’analisi della competizione è obbligatorio avere come punto di partenza il concetto di differenziazione produttiva, che dagli anni ’30 è alla base delle teorie di mercato. Il concetto di differenziazione dei prodotti ha assunto un ruolo centrale, in quanto con la sua affermazione è caduto uno dei presupposti essenziali della concorrenza perfetta. Questa, com è noto, è legata alla condizione dell’omogeneità dei prodotti offerti sul mercato, cioè all’impossibilità di differenziarli e individuarli a seconda del produttore, della zona, dell’epoca di produzione e di altri caratteri distintivi della qualità. La differenziazione dei prodotti, però, richiama la disomogeneità dei prodotti offerti sul mercato e l’esistenza di prodotti differenziati comporta il frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno dei quali è entro certi limiti separato dagli altri e costituito da una particolare clientela. Il concetto di sub-mercato è caratterizzato, in effetti, dall’esistenza di una domanda che, essendo attratta da certi elementi distintivi del prodotto, si rivolgerà preferibilmente all’offerta di alcune imprese, le quali godranno di un vantaggio rispetto alle altre nella misura in cui riusciranno a creare e a rafforzare tali preferenze. L’obiettivo sarà, pertanto, quello di disporre di un proprio spazio di mercato nel quale potersi muovere in posizione quasi monopolistica. Proprio tale concetto ha indotti gli economisti ad utilizzare sovente la direzione di “concorrenza monopolistica”, che tende, infatti, a porre in rilievo che in uno stesso mercato sono compresenti elementi concorrenziali e di monopolio: i primi connessi con il frazionamento dell’offerta tra una pluralità di produttori e i secondi connessi con la formazione di tanti sub-mercati distinti, in ciascuno dei quali uno dei produttori può acquisire di fatto una posizione monopolistica. Tuttavia, tale posizione presenta due importanti limiti: - I vantaggi possono essere controbilanciati da altri strumenti concorrenziali (prezzo, condizioni di pagamento, …). - L’imitazione da parte di concorrenti può annullare i migliori requisiti di qualità o di prestazioni del prodotto. In pratica, dunque, il vantaggio competitivo potrà essere conseguito puntando sulla leadership di costo, cioè sull’opportunità di sfruttare il minore costo di produzione come fattore di vantaggio sulla differenziazione dl prodotto, ossia sulla possibilità di conferire al prodotto caratteristiche e qualità tali da renderlo “differente” e, quindi, preferibile rispetto a prodotti della concorrenza, anche in segmenti meno ampi di mercato (focalizzazione). 26 In sintesi, si possono individuare quattro tipi di strategie competitive: - Leadership di costo: è la strategia competitiva attraverso la quale le imprese tentano di ottenere un vantaggio competitivo attraverso la riduzione dei costi rispetto ai concorrenti. La sua finalità è, dunque, la concorrenza basata sul prezzo. - Differenziazione del prodotto: è la strategia attraverso la quale si ricerca il vantaggio competitivo incrementando il valore percepito dei prodotti o dei servizi offrendo qualcosa di unico, di diverso da quanto offerto dai rivali. La finalità di questa strategia è la concorrenza basata sulla marca. - Focalizzazione: è la strategia competitiva attraverso la quale le imprese si posizionano in nicchie di mercato, meno attrattive per altri concorrenti, in cui riescono ad ottener vantaggi competitivi. In questa strategia, la finalità è la concorrenza basata sulla specializzazione di mercato. - Leadership di sevizio: è la strategia che si concreta in un’offerta ricca in termini di servizi al cliente e la cui finalità è la concorrenza basata sulla completezza dell’offerta. La resource-based theory Tale teoria, pone al centro l’analisi competitiva, le specificità di ciascuna impresa in termini di risorse, capacità e competenze anziché partire dall’analisi classica agganciata alla struttura del settore. Le risorse aziendali sono definite come tutte le attività, le capacità, le competenze, i processi organizzativi, le caratteristiche aziendali, le informazioni, le conoscenze e così via, che sono controllate dall’azienda e che le permettono di formulare e implementare strategie che ne migliorano l’efficacia e l’efficenza. In base al patrimonio di risorse posseduto ogni impresa può dunque tentare di conquistare un vantaggio competitivo durevole e assumere una posizione vincente nel mercato. Naturalmente, la sua forza sarà tanto maggiore quanto più potrà mettere in campo delle “competenze distintive”, ovvero attributi e condizioni non in possesso delle altre imprese concorrenti. Sotto questo aspetto appare molto utile il modello VRIO, messo a punto da Jay Barney, che individua le caratteristiche che possono conferire significatività e importanza alle risorse possedute dall’impresa. É proprio in funzione della qualità delle risorse di cui dispone un’impresa che si determina, infatti, la sua posizione competitiva nel mercato. 27 COME CRESCERE: I PERCORSI DI SVILUPPO AZIENDALE (7) Le opzioni strategiche Tenendo presente che le risorse sono limitate, appare intuibile che la gestione aziendale debba forzatamente svolgersi secondo un continuo sistema di arbitraggi o di possibili opzioni. Gli arbitraggi sono necessari a causa sia dev’ammontare di risorse disponibili (che, se investite in un progetto, non consentono di realizzarne altri), sia dell’incompatibilità tra progetti (l’arbitraggio, in questo caso, riguarda sia la convenienza ad attuare il progetto in corso di valutazione, ma anche il costo della rinuncia al progetto incompatibile). Le opzioni (strategiche) riguardano sostanzialmente l’uso delle risorse, che comporta la prefigurazione di vantaggi/svantaggi per ciascuna scelta e rende necessario stabilirne la convenienza e il tempo di attuazione. È importante considerare le competenze distintive dell’impresa, intese come elementi propri di ciascuna impresa che ne determinano l’eccellenza, e quindi, il successo. Tali competenze concorrono alla creazione del vantaggio competitivo e diventano determinanti per la scelta della strategia complessiva da adottare. É stato anche osservato che le risorse fondamentali dell’impresa sono sempre più spesso rappresentate dalle risorse immateriali (intangibili). Queste ultime, schematicamente, si individuano nella fiducia, ovvero nell’immagine favorevole che l’azienda è riuscita a crearsi nell’ambiente in cui opera, e nelle competenze, intese come conoscenze accumulatesi nel corso della vita aziendale. Una tipologia semplificata delle strategie complessive La strategia complessiva dipende, dunque, dagli obiettivi che l’impresa si pone in funzione della situazione in cui si trova e delle opzioni strategiche effettivamente disponibili. L’indirizzo strategico non discende, dunque, essenzialmente dall’andamento del mercato o dei mercati in cui l’impresa opera, ma sarà più decisamente condizionato dalle risorse interne a disposizione. In linea teorica, si può ipotizzare una serie di combinazioni tra l’andamento del mercato e lo stato di equilibrio o di squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a formare distinti obiettivi di carattere strategico complessivo. Semplificando la casistica possibile, si è in grado di distinguere tra le strategie complessive, tre percorsi: - Percorso di sviluppo dimensionale: che in teoria dovrebbe essere comune a tutte le imprese perchè caratteristico di una gestione fisiologica protesa all’espansione delle attività aziendali. - Percorso di risanamento: tipico di organismi caratterizzati da squilibri strutturali su cui intervenire con rapidità ed efficacia. - Percorso di rafforzamento e assestamento: improntato a maggiore prudenza nella gestione delle risorse e alla difesa, in periodi non favorevoli, delle posizioni occupate. 30 Il processo di sviluppo dimensionale Parlare di strategie di sviluppo richiede una necessaria precisazione concettuale. Una conclusione, che generalmente si da per scontata, è la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del sistema aziendale. Molto spesso, infatti, per sviluppo s’intende lo sviluppo dimensionale, cioè un fatto prevalentemente quantitativo o di variazione del volume corrente di attività. In realtà, esso può essere definito (nella sua accezione filosofica di “movimento verso il meglio”) come un processo soprattutto qualitativo ovvero di evoluzione dei rapporti tra l’impresa e l’ambiente, a cui di solito (ma non automaticamente) si accompagna un ampliamento della struttura organizzativa. Non è detto, infatti, che tutte le imprese perseguano la finalità della crescita, in quanto un aumento significativo della dimensione operativa genera una serie di problemi di ordine gestionale e organizzativo. Dunque, in conclusione, si può affermare che la crescita dovrebbe comportare lo sviluppo, ma non è sempre vero il contrario. Ciò vale soprattutto per le imprese di non piccola dimensione, nelle quali il realizzarsi di un processo del genere rappresenta, spesso, una condizione di garanzia della sopravvivenza dell’organizzazione nel lungo periodo. Il continuo dilatarsi dei mercato e l’accentuarsi della lotta concorrenziale possono portare, infatti, ad una perdita di forza e, solitamente ad un peggioramento della redditività gestionale. Lo sviluppo dimensionale appare, perciò, un connotato fisiologico degli organismi più sani, in quanto consente di adeguare il volume dell’attività biennale alle potenzialità della struttura, all’evoluzione dell’ambiente esterno, con il fine di migliorare, nel tempo, l’equilibrio nei confronti del mercato. Obiettivi di fondo dello sviluppo dimensionale sono, pertanto, l’ottimizzazione dell’uso delle risorse aziendali e l’acquisizione di un peso contrattuale crescente nei confronti dei consumatori, dei concorrenti, dei fornitori, dei distributori, … I percorsi di sviluppo: la formulazione della strategia complessiva Le strategie di espansione si differenziano soprattutto rispetto al rapporto prodotto/mercato, cioè alla permanenza, al superamento o all’allargamento delle relazioni fra i prodotti fabbricati e i mercati serviti. Le alternative di fondo, sono rappresentate dalla concentrazione o diversificazione delle attività gestite, cioè dalla preferenza per percorsi di sviluppo che aumentino il peso delle attività gestite, cioè dalla preferenza per percorsi di sviluppo che aumentino il peso delle attività già esercitate o che, invece, estendano il portafoglio prodotti/mercati. Nel primo caso l’espansione nei business esistenti punta a sfruttare al meglio il bagaglio di competenze e di esperienze già posseduto dall’impresa; nel secondo, la diversificazione in nuovi business mira a valorizzare positivamente le interrelazioni tra vecchie e nuove aree di affari (diversificazione correlata) oppure si propone soprattuto di ridurre il rischio globale di gestione (diversificazione conglomerale). 31 Volendo schematizzare, si possono dunque individuare tre strategie fondamentali di sviluppo dimensionale, con alcune varianti principali. Dunque, lo sviluppo di tipo monosettoriale si realizza mediante processi di integrazione orizzontale e verticale, quello di tipo polisettoriale assume le forme della diversificazione laterale e conglomerale e, infine, lo sviluppo di tipo internazionale si può concentrare in un processo di espansione internazionale del mercato o di espansione multinazionale della gestione. La strategia di sviluppo monosettoriale Lo sviluppo monosettoriale ha lo scopo di rafforzare la posizione dell’impresa soprattuto nell’ambito del mercato in cui opera. Con esso, infatti, la crescita è perseguita nello stesso campo o settore in cui l’azienda esercita la sua attività principale, allo scopo di creare migliori condizioni di svolgimento della gestione sotto il duplice profilo del collocamento delle produzioni finali e dell’approvvigionamento delle risorse di base. Lo sviluppo orizzontale La strategia di sviluppo orizzontale dell’attività aziendale può essere attuata mediante un’espansione interna dell’organizzazione, cioè ampliando la potenzialità degli impianti o creando ex-novo altre unità produttive, oppure con un processo esterno di acquisizione di imprese similari. In questo caso si parla più appropriatamente di integrazione orizzontale, in quanto si ha di fatto il raggruppamento di più aziende operanti nello stesso mercato. Un punto importante da chiarire riguarda i concetti di stesso settore o mercato e di aziende o produzioni similari. É infatti opportuno sottolineare che ci si trova in presenza di uno sviluppo orizzontale quando fra le produzioni integrate sussistono vincoli tecnologici e vincoli di mercato. I primi si collegano ad una matrice produttiva comune, che può essere rappresentata dalla medesima concezione dei cicli di produzione, dalla presenza di fasi comuni di lavorazione, dall’utilizzazione di tecnologie (know-how) similari, …; mentre i secondi derivano da una comune impostazione dei problemi e delle politiche di mercato (distribuzione, promozione, …). L’integrazione orizzontale ha lo scopo di far crescere la quota di mercato detenuta dall’impresa. Ciò si ottiene completando la gara di prodotti trattati, ampliando il numero di segmenti di mercato serviti o allargando l’area geografica di vendita. La crescita in senso orizzontale si distingue, rispetto ad altre forme di sviluppo, perchè richiede generalmente tempi meno lunghi di attuazione, consente di sfruttare tutte le risorse disponibili (manageriali, tecnologiche e di marketing) e implica rischi meno valutabili da parte degli organi imprenditoriali. Il suo principale vantaggio si dovrebbe avere sotto il profilo delle economie di costo, che si possono distinguere in economie di dimensione (o di scala) e di espansione (relative all’onerosità del processo di espansione). 32 La strategia di diversificazione produttiva L’impresa può allontanarsi simultaneamente dai mercati e dai prodotti che le sono familiari, rivolgendosi a settori diversi, cioè attuando un processo di diversificazione produttiva. Quest'ultima si contrappone alle strategie d’integrazione perché, invece di puntare verso obiettivi di concentrazione e di rafforzamento del preesistente rapporto impresa/mercato, porta l'azienda ad occupare posizioni i mercati nuovi, compresi in settori no comparti produttivi differenti da quelli in cui già opera. In altri termini, è il principio della multisettorialità dell'espansione che si contrappone a quello della monosettorialità, tipico delle imprese considerate “integrate”. Per definire meglio la diversificazione produttiva, bisogna chiarire che essa si realizza in modo pieno quando le nuove produzioni non presentano affinità con quelle precedenti sia in termini tecnologici sia in termini di marketing. Tenendo presente la possibilità del verificarsi di una o di entrambe di queste affinità, si distinguono strategie di sviluppo diversificato. La prima, denominata diversificazione laterale, basata sull'esistenza di un collegamento, in termini tecnologici o di marketing, tra produzioni vecchie e nuove; la seconda, definita diversificazione conglomerale, caratterizzata dall'inesistenza di qualsiasi legame tra attività preesistenti e nuove. A ragione delle difficoltà insite nella valutazione del grado di affinità tra le produzioni poste in essere, in teoria è stato ritenuto opportuno collegare il concetto di conglomerazione non all'esistenza di legami fra le produzioni attuate, ma all'essenza di una produzione dominante. Secondo quest'interpretazione, l'attributo della conglomerazione si aggiungerebbe a quello della diversificazione nell'ipotesi in cui per l'impresa nessuno dei settori produttivi dovesse assumere una posizione dominante. I motivi della scelta di una strategia di diversificazione possono essere molteplici e non sempre si collegano al desiderio di assicurarsi una rapida crescita dei profitti. La giustificazione, più di frequente adottata per questa decisione, è l'impossibilità di espandersi soddisfacemente in un settore ormai ritenuto saturo e la ricerca, dunque, in altri mercati di occasioni più favorevoli di aumento del volume d'affari. Anche se queste motivazioni possono giocare un ruolo importante, non bisogna sottovalutare vantaggi ritraibili dall'adozione di una strategia del genere in termini di stabilizzazione dei redditi e di riduzione del rischio globale di gestione. Alla diversificazione dell'attività s'accompagna una diversificazione dei rischi di mercato, in quanto ciascuna produzione sarà assoggettata alle alee (incognite) correnti nel particolare mercato cui sarà destinata. Con questa strategia, cioè, si possono attenuare le conseguenze di eventi dannosi mediante la compensazione degli andamenti più o meno favorevoli, che potrebbero presentarsi nei vari mercati serviti. 35 La strategia di espansione internazionale Da tempo la strategia di espansione internazionale, più che essere considerata un'alternativa rispetto ai tipi di strategie esaminate in precedenza, è divenuta un'esigenza sia per l’ampliamento dei mercati di sbocco sia per l'opportunità di delocalizzazione produttiva. Per perseguire una crescita equilibrata è spesso necessario puntare ad una politica di compensazione dei risultati attraverso un processo di diversificazione delle attività aziendali. Sotto tale aspetto sia la diversificazione delle produzioni che l'espansione internazionale rappresentano delle strategie fondamentali per tentare di stabilizzare in senso dinamico i risultati di gestione, cioè per ottenere profitti in grado di assicurare la prosecuzione dello sviluppo dimensionale. La prima consente, infatti, di diversificare merceologicamente i rischi d’impresa, legando le sorti di quest'ultima alle vicende di una molteplicità di settori di attività. Ma anche l'espansione internazionale permette di bilanciare i contrapposti fenomeni che dovessero verificarsi, di periodo in periodo, nei vari contesti, in modo da conferire una maggiore costanza di risultati gestionali. La differenza sia nel fatto che la compensazione avverrebbe, nel primo caso, fra produzioni diverse e, nel secondo, fra Paesi diversi. La politica di penetrazione commerciale nei mercati esteri segue solitamente delle tappe, che presentano gradi di impegno e gestita crescenti. La difficoltà di muoversi in un ambiente non famigliare, la minore capacità in molto casi di prevedere il ritmo di sviluppo delle vendite, la necessità di cominciare a fare esperienza nel modo meno rischioso, sono tutti elementi che spingono ad attuare inizialmente l'attività di esportazione, per poi passare a forme più stabili di presenza all’estero. In teoria, le fasi del processo di espansione internazionale sono: 1) Esportazione di prodotti fabbricati esclusivamente in patria. 2) Stipula di accordi di licenza con produttori stranieri per la cessione di brevetti, … 3) Attuazione di investimenti diretti per la creazione all'estero di proprie strutture distributive. 4) Avviamento in altri Paesi di impianti di monitoraggio e di stabilimenti di produzione. 5) Organizzazione, al di fuori dei confini nazionali, di strutture aziendali autosufficienti (consociate o affiliate), dotate di centri direzionali e di ricerca. Volendo definire le tappe indicate, si potrebbe osservare che sovente lo sviluppo dell'attività internazionale segue un ciclo che comprende l'esportazione, la produzione indiretta, la vendita diretta, la produzione e la vendita diretta, l'organizzazione di unità aziendali integrate. Quando un’impresa considera l’ingresso in un dato Paese non come un fatto isolato ma come un fatto permanente, si parla di espansione multinazionale (epilogo di una strategia sistematica di espansione internazionale). 36 PARTE TERZA LE FUNZIONI DI DIREZIONE AZIENDALE IL PROCESO DI DIREZIONI E I PROBLEMI ORGANIZZATIVI (8) Tra il momento strategico e quello esecutivo s’interpone il processo decisionale. Il processo di direzione aziendale Il processo e il significato di direzione aziendale ha subito nel tempo profondi cambiamenti. In una concezione tradizionale la direzione aziendale consisteva: nella segmentazione del lavoro in atti e operazioni elementari; nella loro assegnazione al personale; nel controllo del risultato ottenuto. Il crescere delle dimensioni delle imprese, la progressiva diversificazione produttiva, l’ampliamento della base geografica di riferimento, così come la crescente complessità dell’ambiente e delle attività e dei processi aziendali hanno portato al superamento della concezione tradizionale di direzione. Nella concezione moderna di direzione aziendale la funzione del dirigente si caratterizza per un articolato sistema di attività (funzioni) interdipendenti, costituite dalla programmazione (atti di decisione), organizzazione (atti di disposizione), conduzione del personale (atti di guida) e controllo (atti di valutazione) che costituiscono quello che viene più propriamente definito il ciclo di direzione aziendale. Nel ciclo di direzione aziendale ogni attività deve essere: - Programmata stabilendo in anticipi obiettivi, decisioni, modalità e risorse da impiegare. - Organizzata individuando chi e con quali responsabilità dovrà curarne la realizzazione. - Guidata fornendo le direttive e motivando gli organi operativi. - Controllata valutando i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati. La funzione di controllo chiude un ciclo ma ne innesca uno nuovo perchè i dati concorrono a fare assumere nuove decisioni nell’ambito della funzione di programmazione. Si avvia così un ciclo informativo perchè il controllo produce informazioni; la programmazione richiede l’integrazione dei dati interni con quelli relativi al contesto esterno; la conduzione comporta il trasferimento di informazioni da chi dirige a chi esegue e; chi esegue deve trasmettere i risultati dalla propria attività agli organi di controllo. La funzione organizzativa Organizzare significa ordinare un sistema in parti interdipendenti e correlate, ciascuna avente una specifica funzione o rapporto rispetto al complesso. Le parti, nel caso dell’impresa, sono gli organi della stessa e l’organizzazione si rivolge in primo luogo a disciplinare i compiti, i poteri e le responsabilità che ciascuno dovrà assumere nel corso della gestione. 37 La definizione delle procedure decisionali e operative La progettazione della struttura non esaurisce i compiti attribuiti alla funzione organizzativa, in quanto il funzionamento del sistema d’impresa richiede necessariamente la definizione di procedure di lavoro o “routine organizzative”. Queste possono essere programmate in fase di avviamento dell’impresa, ma si arricchiscono per effetto dell’accumulazione di conoscenze nell’organizzazione. Nell’organizzazione si possono distinguere quattro tipi di procedure: - Procedure operative - Procedure di controllo - Procedure di informazione - Procedure decisionali Le procedure stabiliscono delle norme di comportamento adottabili in modo ripetitivo nel tempo per la soluzione di problemi similari o analoghi. Le procedure possono essere rappresentate graficamente mediante i diagrammi a flusso (o flow-chart). Il flow-chart è una rappresentazione grafica che riproduce le fasi di una data procedura utilizzando e collegando tra loro simboli standard. Tale strumento aiuta a comprender lo sviluppo del processo (l’iter) in quanto descrive la sequenza logica delle fasi di attività così come dovrebbero essere realizzate. La scomposizione in fasi del processo può essere utile per identificare le cause di una particolare problema e trovarne le soluzioni. La funzionalità organizzativa è uno dei presupposti fondamentali dell’efficienza gestionale. La componente organizzativa assume un valore rilevante perchè è lo strumento essenziale per un aumento della produttività del lavoro e un migliore impiego di tutte le risorse disponibili. Un’impresa meglio organizzata riesce a conseguire vantaggi in termini di produttività e di economicità della gestione non sempre contestabili da parte dei diretti concorrenti. 40 IL COORDINAMENTO DELLA GESTIONE MEDIANTE IL PROCESSO DI PROGRAMMAZIONE (9) La funzione di programmazione aziendale La funzione di programmazione assume un ruolo centrale nel processo di direzione aziendale perchè si propone di regolare, sulla base dell’organizzazione creata, il corso futuro della gestione. Il termine programma significa, in senso letterale, “scrivere prima”. La traduzione rende bene in contenuto della programmazione che deve essere concepita quale processo di predeterminazione degli obiettivi, delle politiche e delle attività da compiere entro un determinato periodo di tempo. Nell’impresa, programmare significa, quindi, assumere in anticipo il complesso di decisioni attinenti alla gestione futura. L’attività di programmazione non deve essere confusa con il termine previsione, che significa anticipazione dei futuri andamenti di alcune variabili (economiche, sociali, …) da cui trarre informazioni per orientare i comportamenti e le scelte aziendali. In questo caso, non vi è un processo decisorio, ma solo la valutazione anticipata di fenomeni interessanti l’impresa. Il processo di programmazione, ha carattere formale e si sostanzia nello svolgimento di una procedura codificata che porta alla redazione di un sistema di piani, in ognuno dei quali sono specificati gli obiettivi da perseguire, le politiche da adottare, i mezzi da impiegare e le operazioni da compiere entro certi periodi di tempo. I piani devono essere resi noti e accettati dai responsabili delle attività aziendali. La programmazione è necessaria sia per coordinare le operazioni ricorrenti di gestione (programmazione di esercizio) sia per promuovere l’innovazione (programmazione di lungo termine). La prima è diretta a preordinare le attività correnti di gestione nell’ambito delle risorse disponibili; la seconda è rivolta a modificare il sistema di risorse in funzione degli obiettivi di tempo lungo. Il processo di programmazione si deve, dunque, tradurre in un “sistema” di piani distinto secondo: - I contenuti (piani strategici o operativi) - L’ambito gestionale (piani globali, piani di aree di affari e piani di funzioni) - L’orizzonte temporale (piani di breve, medio e lungo termine) - Il grado di analisi (piani di massima e piani esecutivi) 41 I due tipi fondamentali di piano sono il piano strategico ed il piano operativo. Il piano strategico è un piano a lungo termine di carattere innovativo, che si riferisce alla strategia globale. In altri termini, rappresenta l’elemento di riferimento di tutto il sistema, in quanto sia il piano operativo, sia i singoli piani di esercizio dovranno essere elaborati in funzione del perseguimento degli obiettivi di lungo termine. Il conseguimento di questi ultimi richiederà la formulazione di piano di sviluppo strategico (le cui alternative principali di crescita potranno essere la concentrazione oppure la diversificazione), la predisposizione di un piano d’investimenti da compiere per realizzare la strategia prescelta e, infine, la messa a punto di un piano organizzativo per creare le strutture più idonee a dare attuazione alla strategia di sviluppo. Il piano strategico può, quindi, essere idealmente scomposto nel piano di sviluppo, nel piano degli investimenti e nel piano organizzativo. Il piano operativo, invece, è un piano di breve-medio termine, di adattamento, centrato prevalentemente sulle funzioni aziendali. Esso è scomposto in segmenti annuali, il primo dei quali, di norma, presenta il massimo grado di analiticità, in quanto dovrà guidare lo svolgimento delle operazioni correnti d’esercizio. In pratica, il piano di medio termine verrà fatto “scorrere” nel tempo, in modo da coprire sempre un uguale periodo di gestione. La tecnica dello svolgimento consisterà nell’aggiungere, anno per anno, un nuovo segmento annuale, dopo aver eventualmente rettificato i segmenti precedenti in rapporto ai risultati dell’esercizio appena concluso. In tal modo, l’impresa disporrà sempre di un programma triennale articolato in segmenti annuali. Esempio. Supponendo che il piano si riferisca al triennio 2014-2016, al termine dell’anno 2014 si correggeranno, se necessario, i programmi già fissati per il 2015 e 2016 e poi si aggiungerà quello concernente il 2017. Dalle considerazioni fino ad ora riportate appare evidente che la funzione di programmazione necessita di alcune caratteristiche essenziali: formalizzazione, integrazione, quantificazione e pluriennalità. Essa, difatti, deve concentrarsi nella redazione di programmi scritti, con la quantificazione delle risorse da impiegare e degli obiettivi da raggiungere relativamente all’intera gestione e ad un arco ampio di tempo. Il processo di costruzione dei piani aziendali Un piano si sostanzia dell’indicazione di sequenze di decisioni ed operazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi stabiliti. Esso risulta costituito da quattro elementi interconnessi: obiettivi, politiche, attività (operazioni) e risorse. In modo più specifico, gli obiettivi rappresentano i traguardi cui dovrà tendere l’organizzazione, le politiche costituiscono le linee generali d’azione, le attività configurano i flussi di operazioni da attuare durante la gestione e le risorse si pongono quali opportunità-vincoli da rispettare nello svolgimento di tali operazioni. 42 IL SISTEMA DI CONTROLLO DIREZIONALE (10) La funzione di controllo direzionale La funzione di controllo conclude la sequenza delle fasi di direzione e, contemporaneamente, crea le premesse per l’avvio, con il momento della programmazione, di un nuovo ciclo d’attività. Ha lo scopo di assicurare che le scelte, assunte a livello dell’amministrazione e della direzione aziendale, siano correttamente attuate da parte degli organi esecutivi. Ma il controllo serve anche a valutare la bontà delle decisioni prese e, secondo un’interpretazione estensiva, anche di quelle da formulare, cioè si riferisce sia al momento dell’attuazione delle operazioni di gestione sia allo stadio antecedente della loro programmazione. In via generale, si può affermare che esso è necessario per garantire l’ordinato svolgimento dell’attività aziendale, rappresentando una funzione che, sebbene si concentri maggiormente nell’ambito della struttura di governo, si diffonde a qualsiasi livello e a qualsiasi posizione organizzativa. Soprattutto per effetto delle innovazioni avutesi nel processi di conduzione del personale, il controllo ha subito una marcata evoluzione. Si è, dunque, sostituita ad una visione tradizionale, dove era inteso come strumento di costrizione la cui attuazione doveva servire a valutare l’efficienza, l’onestà e la diligenza dei dipendenti, una visione avanzata, che concepisce la funzione di controllo direzionale come strumento d’indirizzo e come il mezzo per individuare le eventuali insufficienza dell’azione, allo scopo di stimolare automaticamente gli interventi di correzione e favorire lo spirito d’iniziativa del personale. L’ampliamento dei contenuti del processo di controllo è stato originato specie dallo sviluppo della programmazione aziendale, che ha permesso di effettuare un riscontro preventivo e concomitante delle decisioni e delle prestazioni da realizzare nell’organizzazione. Tale processo può pertanto svolgersi in quattro momenti successivi e complementari: - In via antecedente rispetto all’azione, (es. analisi di mercato) serve a valutare preventivamene la bontà di determinate scelte ed è strettamente collegato con la funzione di programmazione, in quanto può essere considerato una forma di controllo anticipato delle future linee di gestione. - In via concomitante allo svolgimento dell’azione (es. analisi scostamenti) ha lo scopo di guidare, a tutti i livelli dell’organizzazione, l’attuazione dei piani formulati. Appare, quindi, evidente, che anche tale modalità di controllo è collegata con la funzione di programmazione. - In via susseguente, (mediante la costruzione d’indici di rendimento o efficienza aziendale) fa specifico riferimento alla valutazione dell’efficienza e dell’efficacia della gestione, cioè come strumento d’indirizzo per la formulazione delle decisioni future. - In via prospettica, (mediante il controllo strategico) verifica la persistenza della validità delle scelte strategiche e organizzative. 45 Il controllo concomitante e susseguente L’attuazione di una gestione programmata (controllo antecedente) consente l’esplicazione di una funzione concomitante di controllo operativo. Il controllo operativo è la procedura attuata durante lo svolgimento delle operazioni aziendali e ha lo scopo di seguire lo sviluppo della gestione e di garantire, nei limiti del possibile, il rispetto degli obiettivi fissati in sede di costruzione dei piani. Tale tipologia di controllo consiste di verificare il raggiungimento dei risultati economici e finanziari della gestione operativa. Ogni schema di controllo concomitante è composto di quattro elementi, poiché richiede la fissazione di obiettivi da raggiungere, la misurazione dei risultati via via ottenuti, l’analisi delle cause di eventuali scostamenti e l’assunzione d’interventi di correzione per riportare i risultati in linea con il piano o per modificare il piano stesso. - Determinazione degli obiettivi: per ogni attività da compiere si stabiliscono degli obiettivi da sottoporre a controllo. Gli obiettivi possono essere desunti dalla programmazione formulata o essere fissati in fase di attuazione di specifiche politiche o azioni. - Rilevazione periodica dei risultati: richiede di un’organizzazione efficiente, infatti, sarà necessario ottenere tempestivamente i dati sulle prestazioni, raccogliendoli dove si generano e sottoponendoli all’indispensabile processo di elaborazione. In ogni azienda è, del resto, buona norma stabilire un sistema di reporting, in grado di far giungere con regolarità i dati sui risultati di gestione ai dirigenti interessati. - Analisi causale scostamenti: il confronto tra gli obiettivi programmati ed i risultati conseguiti, potrà far emergere degli scostamenti non accettabili e indurre ad analizzare le cause scatenanti. L’analisi causale è momento di grande importanza perché fornisce gli elementi necessari a comprendere i fattori che hanno determinato le deviazioni. Un’analisi non corretta può, ovviamente, orientare in modo sbagliato gli interventi di gestione. - Interventi correttivi: possono avere per oggetto il livello delle prestazioni ottenibili nell’organizzazione o direttamente i piani. I primi tendono a riportare l’attività in linea con la programmazione; i secondi hanno invece come scopo il riadeguamento della programmazione alle mutate condizioni interne ed esterne di svolgimento della gestione. Nell’ipotesi di scarti che richiedono delle misure di correzioni, gli interventi potranno essere di tre tipi: di natura organizzativa, promozionale o di modifica degli obiettivi programmativi. Gli organi interessati saranno: il reparto vendite, reparto promozione e il reparto controllo e budget. Dalla direzione commerciale partirà un flusso di informazioni di ritorno (feedback) inteso a riportare il sistema in equilibrio. Questo meccanismo assicurerà il regolare funzionamento dei vari subsistemi aziendali. L’attuazione della programmazione del controllo operativo consente di realizzare il tipo più moderno di conduzione dell’attività aziendale: la direzione per obiettivi e il controllo per risultati, più con la sigla MBO (Management by Objectives). 46 Il controllo concomitante trova la sua sintesi ideale nel confronto tra i risultati economici di gestioni raggiunti e quelli presi in base al budget aziendali. Per fare questo budget economico e quello finanziario devono essere articolati in periodi infrannuali, in modo da poter effettuare le correzioni adeguate. Il controllo susseguente si occupa della valutazione dell’efficace e dell’efficienza della gestione aziendale. L’efficacia è il grado secondo cui l’azienda raggiunge i suoi obiettivi. É misurata dal rapporto tra gli obiettivi ottenuti e quelli che si sarebbero dovuti conseguire. L’efficienza è la capacità di rendimento o attitudine a svolgere una certa funzione. É misurata dal rapporto tra i risultati conseguiti e le risorse impiegate. Il controllo strategico o prospettico Il controllo strategico aziendale è di tipo prospettivo ed ha come obiettivo di fondo, la “verifica di coerenza” tra il comportamento aziendale e le aspirazioni del gruppo proprietario o gestore dell’impresa e si prospetta, quindi quale controllo di carattere eccezionale, realizzato in momenti particolarmente significativi della vita di un’azienda e affidato in prevalenza a specialisti o consulenti esterni dell’azienda stessa. Il controllo strategico aziendale viene attuato anche per far fronte ai limiti del controllo di gestione, così sintetizzabili: - Rapporto di interdipendenza nei confronti del sistema di programmazione adottato. Il controllo di gestione, in altri termini, sarà strettamente legato al tipo di programmazione realizzata: se l’impresa porrà in essere solo programmi a brave termine, la funzione di controllo non potrà andare oltre a questo limite. - Difficoltà di ampliare le analisi sul piano dell’intera struttura organizzativa aziendale. Il controllo gestionale, di norma, tende a verificare le disfunzioni che si verificano in specifiche aree funzionali, ma non offre la possibilità di realizzare una valutazione più ampia sul modello di organizzazione utilizzato e sulle modalità di impiego delle risorse umane all’interno dell’impresa considerata. Il controllo strategico aziendale si pone come obiettivo globale della gestione aziendale e si rivolge alla verifica della: - Conseguenza esterna del comportamento strategico dell’impresa. - Conseguenza organizzativa tra strategia e struttura dell’impresa. - Efficienza del sistema e qualità dei responsabili di direzione. Il controllo strategico, essendo proiettato nel futuro, deve permettere di verificare se le scelte di tempo lungo conservano la loro validità, tenendo presente che nell’ambiente e nei mercati si possono presentare fenomeni imprevisti. 47 Il processo motivazionale all’interno dell’impresa può essere distinto in due parti, motivazione a produrre ed a partecipare: - La motivazione a partecipare induce l’individuo ad accettare l’inserimento nell’organizzazione; - La motivazione a produrre, invece, influenza le decisioni inerenti allo sforzo e l’impegno da erogare nell’organizzazione. I due tipi di motivazione rispondono a stimoli diversi e richiedono, quindi, l’adozione di distinte tecniche e incentivi. I problemi della motivazione presentano soprattutto aspetti psico-sociologici, pertanto risulta particolarmente opportuno fare riferimento alla teoria elaborate da Abraham Maslow, che assume un ruolo centrale nella comprensione delle tecniche motivazionali. Tale teoria propone cinque categorie di bisogni che è possibile collocare lungo una scala gerarchica, che differiscono tra di loro per natura e per grado di complessità e che possono essere così classificati: - Bisogni primari o di sussistenza: riguardano la sopravvivenza immediata. Rientrano in questo livello: il mangiare, il dormire, il bere, il ripararsi dal freddo, … - Bisogni di sicurezza: riguardano la sopravvivenza nel lungo periodo. In tale categoria si può ricomprendere la sicurezza del posto di lavoro, della casa, della salute, … - Bisogni di appartenenza o socialità: riguardano l’esistenza di un ambiente sociale gradevole. Costituiscono alcuni esempi di tali bisogni: l’identificazione in un gruppo, l’appartenenza ad un partito, … - Bisogni dell’ego o di stima: riguardano l’aspirazione ad un riconoscimento sociale del proprio status, come il prestigio, il rispetto di sé, la stima o il riconoscimento. - Bisogni di auto-realizzazione: riguardano l’aspirazione ad un lavoro che arricchisca la dimensione psicologica interiore dell’uomo. L’ipotesi di Maslow è che l’ordine gerarchico dei bisogni stabilisce anche l’ordine di priorità della loro soddisfazione: non sarà possibile l’insorgenza di bisogni di ordine superiore se non dopo l’avvenuta soddisfazione di bisogni di ordine inferiore. Ai primi gradini, infatti, contano di più gli incentivi economici, mentre a quelli successivi assumono una maggiore importanza gli stimoli psicologici ovvero le gratificazioni morali. In tale teoria, si possono osservare dei punti critici: - La scala verso i bisogni superiori non presuppone obbligatoriamente il soddisfacimento al 100% del bisogno inferiore (es. 30% sussistenza e 40% stima). - La separazione tra le varie categorie di bisogni è un fatto teorico perché nella realtà tra di essi vi sono rapporti di interdipendenza e ciò significa che scelte diverse dell’individuo possono riflettersi contemporaneamente su più tipi di bisogni. - L’ordinamento dei bisogni lungo la scala non può essere sempre lo stesso per tutti gli individui e le eccezioni possono essere frequenti. Infatti, tutti i bisogni sono presenti per qualsiasi individuo, quella che varia è la loro importanza relativa. - La scala dei bisogni risente anche delle condizioni ambientali. 50 Rispetto a questa teoria più generale è stato elaborato un altro approccio teorico relativo non all’individuo in senso ampio, ma all’individuo che lavora nell’impresa. Herzberg ha, infatti, distinto in due grandi categorie i bisogni del lavoratore: - I bisogni soddisfattivi: cioè quelli che, una volta appagati, producono gratificazione e, quindi, stimolano all’azione. Tra questi sono inclusi tutti i fattori “motivazionali” quali il successo e il suo riconoscimento, l’interesse verso il lavoro svolto e le responsabilità assunte, le occasioni di crescita professionale presenti nei compiti assegnati, la possibilità di promozione e di avanzamento. - I bisogni insoddisfatti: cioè quelli che, se non soddisfatti, generano frustrazione e determinano l’inazione. Sono compresi i cosiddetti fattori “igienici”, legati alla politica dell’azienda e alla sua organizzazione, alla supervisione, alle relazioni interpersonali, alle condizioni di lavoro, alla retribuzione, allo status e alla sicurezza. Per quanto concerne l’incentivazione economica, va rilevato che oggi, piuttosto che il ricorso a forme di gratificazione individuale, tendono ad essere preferite quelle che concorrono a creare spirito di gruppo all’interno dell’organizzazione. L’incentivazione può assumere diverse forme e produrre risultati differenti in funzione dell’orientamento all’individuo o al gruppo e della proiezione nel breve o lungo periodo. In base a questi due fattori si può costruire una matrice, i cui quadranti sono rappresentati da aumenti salariali, gratifiche, piano di incentivi e stock option. Rispetto a tipi più tradizionali d’incentivazione, quest’ultima tecnica di concedere l’opzione ad acquistare in futuro e a un prezzo predeterminato azioni della società per cui si lavora è in fase di crescente adozione e risponde al principio di imprenditorializzazione diffusa del rischio. Con le più moderne tecniche motivazionali si tende, cioè, a sviluppare l’imprenditorialità collettiva. Gli stili di direzione Lo stile di direzione può essere definito come il “modello di governo dei rapporti di lavoro nell’organizzazione”. Esso tende ad assumere caratteristiche molto differenti da impresa a impresa, in funzione non solo della struttura organizzativa adottata, ma anche della qualità degli organi direttivi impegnati. Si possono individuare i due casi limite della direzione aziendale: - Lo stile autoritario di direzione: legato ad una struttura fortemente accentrata del processo decisorio e si esercita mediante il comando ed il controllo. Il principio di fondo è l’esistenza di un rapporto gerarchico, in base al quale il superiore può imporre al subordinato le sue decisioni, il cui rispetto sarà assicurato mediante il controllo e la minaccia di sanzioni nei confronti del dipendente inadempiente. 51 - La stile partecipativo o democratico: che richiede una struttura decentrata dal processo decisorio, al cui interno sia possibile applicare i principi della delega e dell’autocontrollo. Secondo questo modello, lo schema di direzione prevede cioè il coinvolgimento dei subordinati nel processo di direzione, l’assunzione da parte di questi di precise responsabilità ed il controllo diretto (autocontrollo) dei risultati prodotti. Secondo Mac Gregor, alla base di questi due stili di direzione vi sono delle differenti visioni circa la natura ed il comportamento individuale, che configurano appunto due opposte teorie direzionali. La teoria della direzione mediante il comando ed il controllo (denominata teoria X) parte, infatti, da tre premesse: - L’uomo in generale detesta il lavoro. - Gli unici mezzi per ottenere che egli lavori sono i controlli e le minacce di punizioni. - Gli obiettivi del lavoratore è quello della sicurezza, per cui evita rischi e responsabilità e preferisce essere diretto piuttosto che assumere ruoli di leadership. Di fronte a una teoria del genere, imperniata su un concetto fortemente riduttivo della personalità del lavoratore, si pone quella della direzione mediante l’integrazione fra obiettivi individuali ed organizzativi (teoria Y), secondo la quale: - Il lavoro è accettato dall’uomo come un fatto naturale quanto lo svago o il riposo. - L’uomo può esercitare l’autodisciplina e, quindi, per lavorare non deve essere né controllato né minacciato di sanzioni. - L’uomo è disposto ad accattare le responsabilità per avanzare nella scala dei bisogni. - La capacità innovativa, l’immaginazione, la creatività sono ampiamente diffuse tra i lavoratori e possono essere utilmente sfruttate per risolvere problemi organizzativi. - Le potenzialità medie dei lavoratori sono solo parzialmente messe a frutto nelle attuali condizioni della vita aziendale. Dunque, lo sforzo dei dirigenti dovrebbe essere teso all’applicazione della teoria partecipativa, in modo da sfruttare le motivazioni individuali a vantaggio anche dell’organizzazione. Ciò non è sempre semplice, perché la partecipazione richiede un’elevata professionalità a tutti i livelli e l’instaurazione di un clima consolidato all’interno dell’organizzazione. A tale proposito, bisogno sottolineare l’importanza della creazione di stretti legami di gruppo nel contesto aziendale. Il principio del “clan” si pone, infatti, in alternativa a quello della gerarchia. Questo perchè, se tra i componenti del gruppo (clan) si affermano valori comuni d’impegno nei confronti degli obiettivi assegnati al gruppo stesso dal superiore gerarchico, diventa superflua l’attivazione del rapporto gerarchico per ottenere il rispetto degli obiettivi. In altre parole, il principio del clan consente di far leva sul rapporto comune di lealtà verso l’azienda, affinché la supervisione del comportamento e delle prestazioni sia assicurata, in modo pressoché automatico, da forme di controllo sociale. 52 Gli elementi costitutivi di un sistema informativo Un SI è costituito da un insieme di elementi interdipendenti, deputati alla raccolta, archiviazione, elaborazione di dati, allo scopo di produrre e distribuire le informazioni necessarie alla pianificazione e all’attuazione dei processi aziendali. Gli elementi costitutivi di tale sistema sono: 1) Patrimonio di dati 2) Insieme di procedure 3) Insieme di mezzi e strumenti 4) Insieme di persone I dati costituiscono la base di partenza, l’input del processo di produzione del sistema di informazione. Un dato è la rappresentazione - non soggetta ad interpretazione - dello stato di un fenomeno; l’informazione, invece, è un dato a cui viene attribuita una forma, a cui viene quindi associato un significato utile dal punto di vista del soggetto. L’impresa deve porre molta cura nel predisporre i processi di acquisizione dei dati elementari, decidendo in basse al fabbisogno informativo da soddisfare, quali dati rilevare/archiviare, presso quali fonti reperirli e con quale frequenza aggiornarli. La buona qualità dei dati elementari è essenziale per la correttezza dei successivi processi elaborativi e delle informazioni che ne conseguono (Garbage In, Garbage out). Per costruire una buona base di dati, i dati interni provenienti dai sistemi contabili ed extracontabili, devono essere integrati con i dati esterni relativi all’ambiente competitivo e transnazionale e al macro-ambiente in cui l’impresa opera. Le procedure intese come un insieme di regole e norme da seguire per l’acquisizione e l’elaborazione dei dati e la successiva diffusione dell’informazione ottenute. Il processo di produzione di informazioni comprende: l’acquisizione dei dati, la loro elaborazione e l’emissione dell informazioni. Affinché questo processo si realizzi è necessario indicare le fonti presso cui reperire i dati elementari e definire gli organi e le modalità mediante cui effettuare la raccolta, il caricamento dei dati e la successiva elaborazione. Per ciascuna di queste attività occorre definire i processi elaborativi che devono essere realizzati al fine di produrre l’informazione di cui gli utenti necessitano. Le modalità con cui l’informazione può essere presentata comprendono: l’indicazione del formato (tabella, relazione, grafico) del supporto su cui vai fornita (su carta o via email) dell’evento che attiva la sua diffusione su base sistematica (con cadenza prestabilita) o per eccezioni (gli scostamenti superano una certa soglia) oltre alla tempestività un’informazione deve essere precisa, completa e chiara. 55 I mezzi tecnici: l’apparizione del computer ha contribuito a velocizzare, a razionalizzare e automatizzare l’esecuzione di molte attività del sistema informativo, migliorando le performance del sistema. Non ci si deve confondere con il Sistema Informatico che è l’insieme degli strumenti impegnati a supporto dei processi di rilevazione/elaborazione dei dati e generazione/diffusione delle informazioni. La produzione dele informazioni si realizza grazie a un sistema elaborato composto da mezzi hardware e software. Le persone: nelle prime fasi dell’informazione aziendale la raccolta e l’elaborazione dati venivano eseguite da personale specialistico e si realizzavano nei centri EDP (Electronic Data Processing), oggi tutto il personale aziendale è attivo nell’utilizzo delle tecnologie informatiche e i dati possono essere acquisiti direttamente alla fonte. Però la componente umane del SI è particolarmente critica nel processo di elaborazione dei dati perché la stessa informazione può essere recepita in modo anche molto diverso da due individui. Sistema informativo direzionale e “business intelligence” Il SI può essere scomposto il SID e in quello operativo. Questi due sistemi sono strettamente interagenti: il SID elabora informazioni che supportano il processo decisionale e la fissazione degli obiettivi; dalla decisione, attraverso la comunicazione delle scelte, si passa all’esecuzione; si basa poi al controllo che potrà fornire nuove informazioni quali-quantitative utili per attivare e/o sostenere le successive decisioni. Il SID identifica quella porzione di SI che consente di produrre informazioni e conoscenze necessarie per supportare i processi decisionali e di controllo attuati dal management aziendale. Quindi, il SID: - Supporta tutte le posizioni organizzative che partecipano al ciclo di direzione. - É in grado di produrre informazioni in modalità push (informazioni standard), oppure su specifica richiesta dell’utente. La decisione relativa alla qualità e alla quantità di informazioni da erogare in modalità push viene assunta a partire dall’analisi del sistema decisionale dell’impresa. Però, un efficiente SID deve essere in grado anche di produrre informazioni in modalità pull, ossia informazioni generate direttamente dagli utenti in base a specifiche esigenze conoscitive espresse dal management. Le informazioni che interessano la direzione strategica possono essere generate proprio mediante l’elaborazione del patrimonio di dati, che hanno origine interna o esterna. I primi sono ottenuti dai sistemi informativi operativi - che sono generalmente sistemi integrati (ERP) - ma anche dai sistemi dedicati alla gestione della relazione con il cliente, come i sistemi di CRM o da varie applicazioni delle tecnologie Web. 56 I sistemi ERP (Enterprise Resource Planning) sono sistemi informativi integrati costituiti da moduli o sotto sistemi che corrispondono approssimativamente alle principali aree dell’impresa. Anche se ciascun modulo è indipendente, può operare in modo strettamente integrato con altri moduli, condividendo la stessa base di dati. Gli ERP consentono di promuovere lo sviluppo di flussi informativi interfunzionali. Oltre ai sistemi ERP, altre fonti interne di dati elementari possono essere i sistemi che gestiscono le funzioni di interfaccia con il mercato (Customer Service e Customer Relationship Management), i sistemi Web e altri sistemi informativi operativi e/o transnazionali. I dati elementari sono estratti da tali sistemi di origine, sono ripuliti e caricati nel data warehouse una sorta di magazzino dei dati di interesse direzionale da dove possono essere trattati con una vasta gamma di software e applicazioni. L’ultimo livello dell’architettura del SID corrisponde a quello dei sistemi di Business Intelligence intesi come insieme di processi, applicazioni e sistemi tecnologici mediante i quali si producono e analizzano informazioni relative al business aziendale, riuscendo sia a valutare il passato e a capirne i fenomeni che a predire i valori futuri di alcune variabili. Tali sistemi supportano i processi di produzione e analisi di informazioni operando sia in modalità push che pull. Sono sistemi specializzati nell’elaborazione ed analisi di ampie basi di dati che consentono di individuare potenziali correlati utili per spiegare i termini di un problema o individuare opportunità emergenti. Tali sistemi supportano il management nella ricerca dell’informazione utile ad interpretare le cause che determinano i fenomeni di interesse dell’impresa. Dall’elaborazione delle informazioni alla gestione delle conoscenze: il knowledge management L’informazione deriva dall’interpretazione dei dati, cui viene associato un significato dal punto di vista del soggetto. La conoscenza può invece essere generata dall’assimilazione dell’informazione, ossia dall’integrazione dell’informazione con le informazioni precedentemente ottenute dal soggetto e costituite in un sistema. Alla generazione di nuova conoscenza si giunge attraverso il coinvolgimento attivo di un individuo che realizza uno sforzo cognitivo, basato sulla capacità di pensare, di mettere a frutto le esperienze pregresse e di comprendere il senso di ogni esperienza vissuta: la conoscenza è informazione combinata con l’esperienza, il contesto, l’interpretazione e la riflessione. Il knowledge management è l’insieme delle attività e dei processi di generazione, mappatura, selezione e organizzazione, nonché diffusione di conoscenza. Si tratta di un approccio strategico che identifica nella conoscenza la risorsa da gestire al fine di accrescere/migliorare le capacità di azione non soltanto dell’individuo ma dell’intera organizzazione aziendale. L’obiettivo è riuscire a far circolare/condividere la conoscenza che viene a crearsi all’interno dell’organizzazione aziendale, evitando di relegarla a semplice abilità personale. 57 PARTE QUARTA LA GESTIONE OPERATIVA LE FUNZIONI DI BASE E IL MARKETING (13) La gestione operativa e le sue funzioni La gestione operativa si svolge con caratteristiche e problematica dissimili da azienda ad azienda. Si può definire come l’insieme di attività, mediante le quali ciascun’impresa produce e vende i beni o servizi da destinare al mercato ed è intuibile che si differenzi in funzione dell’oggetto sociale e alle dimensioni dell’impresa (manifatturiere, commerciali, bancarie, …). Le funzioni gestionali operative sono inquadrabili in tre distinti gruppi: - Funzioni primarie od organiche: sono comuni a tutti i tipi d’azienda, ma anche normalmente separate all’interno dell’organizzazione (produzione, vendita, finanza). - Funzioni di supporto: hanno un grado di importanza minore e spesso sono affidate a centri esterni di sevizio (logistica, personale, R&S, contabilità). - Funzioni ausiliarie: molto spesso, anche parzialmente, delegate all’esterno per ragioni di economicità o per mancanza di competenze idonee nell’organizzazione (trasporti, distribuzione, manutenzione impianti, pubblicità, …). L’orientamento dell’impresa nei confronti del mercato In passato si tendeva a distinguere due tipi di comportamento dell’impresa nei confronti del mercato: - L’orientamento al prodotto: rappresentato dalla cura soprattutto dei problemi attinenti al ciclo di produzione dei beni, per i quali la successiva vendita finiva per costituire un’attività complementare e pressoché automatica. - L’orientamento al mercato: rappresentato dal preventivo accertamento della “vendibilità” dei prodotti da realizzare. In effetti, l’orientamento al prodotto configurava solitamente una situazione di mercato facile (mercato del venditore), nella quale bastava produrre a prezzi competitivi per poter vendere e conseguire dei profitti, mentre quello al mercato presupponeva la necessità di analizzare la domanda globale, di valutare la quota massima ottenibile dell’azienda e di indirizzare le politiche di produzione in funzione degli obiettivi di vendita realizzabili. Tuttavia, fare riferimento all’orientamento al mercato può apparire fuori tempo in un periodo in cui l’impresa è in realtà orientata al “business”. 60 L’orientamento al business si concreta nella ricerca di nuove occasioni di affari da aggiungere eventualmente a quelle già sfruttate nell’ambito del mix di settori in cui si opera. In tal senso, lo sguardo di chi governa è proiettato verso l’individuazione di bisogni e desideri dei consumatori che, tenendo conto delle risorse aziendali disponibili, possono rappresentare delle nuove opportunità di business, addizionali o, in certi casi, sostitutive di quelle già soddisfatte in passato. Il punto centrale della differenza tra orientamento “al mercato” e “al business” è dato dall’ampiezza dell’area di osservazione da parte dell’impresa: nella prima ipotesi, infatti, le opportunità vanno ricercate sostanzialmente nel mercato in cui si è giù presenti; mentre nella seconda ipotesi la ricerca si estende a tutti i mercati (campi di attività) in cui le risorse aziendali possono essere impiegate con successo. Quest’orientamento al business è fondato sul concetto di marketing, posto al centro della gestione aziendale. In tal senso, il termine marketing, che appare intraducibile nella nostra lingua, indica, infatti, il processo mediante cui: - L’azienda studia il mercato o i mercati che ritiene interessanti. - Analizza le tendenze dalla domanda e la situazione della concorrenza. - Individua l’esistenza di opportunità di business. - Orienta la produzione in funzione di potenziali acquirenti da conquistare. - Crea la domanda per i nuovi prodotti. - Colloca i prodotti preso gli sbocchi prescelti. La definizione inquadra così il contenuto dell’azione di marketing, che si articola in effetti nell’analisi del mercato, nella programmazione dei prodotti, nella promozione della domanda e nell’esecuzione della vendita. La gestione commerciale: funzioni di marketing e funzioni di vendita Il marketing, dunque, si pone come una particolare “filosofia” di gestione, incentrata sul mercato e protesa a trovare il migliore equilibrio tra le potenzialità di offerta aziendale e le esigenze attuali e prospettive della domanda. La realizzazione di quest’obiettivo comporta lo svolgimento di attività di previsione, programmazione, promozione e distribuzione dei prodotti, per cui il marketing costituisce anche una funzione fondamentale nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Tale funzione richiede la creazione di strutture idonee e la disponibilità di competenze professionali adeguate, con un allargamento sostanziale della tradizionale area di vendita. In tal senso, infatti, nell’ambito della funzione commerciale si possono individuare due gruppi di compiti che, per la loro importanza, tendono ad originare delle distinte sub-funzioni. Si tratta del servizio marketing, a cui è legato un complesso di attività di programmazione e gestione produttiva e finanziaria, e del servizio vendita, a cui è riconducibile un complesso di attività operative legate al momento della vendita. 61 Il marketing-mix (scelte di marketing) Le politiche di marketing, nel loro insieme, compongono la combinazione o mix di marketing, cioè la miscela degli strumenti rivolti all’ottenimento degli obiettivi di mercato fissati di periodo in periodo. Nell’ambito di tale combinazione sono solitamente comprese le scelte inerenti ai prodotti, ai prezzi, alla promozione, ai canali di distribuzione, alle zone, ai metodi e ai tempi di vendita. Queste scelte possono essere raggruppare in quattro politiche fondamentali, prodotti, prezzi, promozione e canali, anche note come le quattro P, dall’inglese, infatti, “product, price, promotion, place”. Da tempo, le imprese produttrici di beni di consumo sono sempre più decisamente orientate a migliorare il servizio al consumatore e a ridurre i tempi di messa a punto dei nuovi prodotti (time based competition) e delle nuove offerte di mercato. La crescita della componente “servizio” è un tratto comune per le aziende che operano in questo settore perchè è rivolta sia a “differenziarsi” meglio dalla concorrenza sia a fidelizzare il più possibile la propria clientela. La difficoltà e, soprattutto, i costi promozionali necessari per acquisire nuovi clienti fanno appunto si che la customer satisfaction e la customer retention (mantenimento o fidelizzazione della clientela) diventino obiettivi prioritari dell’azione di marketing. Il comportamento del consumatore Le scelte del consumatore sono tanto più ampie e diversificate quanto maggiore è la discrezionalità nella destinazione del reddito disponibile. Idealmente, infatti, il reddito netto si frazione in due unità: unità impegnata per il soddisfacimento dei bisogni essenziali e unità disponibile per il risparmio o per l’appagamento di bisogni non essenziali (cosiddetti voluttuari). Di conseguenza, in processo di decisione, nel caso del reddito impegnato, si limita alla scelta dei beni diretti a soddisfare i bisogni essenziali; mentre nell’ipotesi di reddito discrezionale, destinato alla spedita e non al risparmio, comprende prima la selezione dei bisogni da soddisfare e, poi, quella dei bisogni idonei a procurare tale soddisfacimento. Questo schema decisionale, in presenza in più marche degli stessi prodotti, si estende, in entrambi i casi, anche alla selezione di una particolare marca, tra quelle presenti sul mercato. Ciò significa che, per la spendita del reddito discrezionale, il consumatore attua in effetti un processo di scelta a tre stadi (bisogni, beni e marca) e che, di conseguenza, il produttore si trova a fronteggiare una concorrenza indiretta o tra bisogni, una concorrenza allargata o tra beni alternativi ed una concorrenza diretta o tra marche. Il processo di acquisto si realizza mediante un complesso di scelte (luogo, tempo, modalità, …) che configurano le abitudini di acquisto, la cui conoscenza da parte dell’impresa permette di orientare le politiche di marketing (assecondare o creare nuovi modelli comportamentali). Ma ai fini dell’orientamento dell’azione competitiva, interessa soprattutto conoscere le cause che originano differenti comportamenti di acquisto. 62 Ampiezza della gamma di vendita La gamma di vendita si può caratterizzare per: - Ampiezza (tipologia produttiva): numero di differenti prodotti posti in vendita. - Profondità (assortimento): numero di varianti di ogni prodotto della linea. - Coerenza (affinità dei prodotti): grado di interrelazione tra i differenti tipi (linee) di prodotti. In aggiunta a questi motivi di carattere generale, bisogna tenere conto anche dei rapporti di complementarietà e sostituibilità tra prodotti diversi, che possono suggerire o addirittura imporre l’allargamento della tipologia produttiva. In tal senso si distinguono: - Prodotti strategici: la cui presenza è essenziale per poter collocare i prodotti da reddito. - Prodotti da richiamo: la cui particolare convenienza d’acquisto può “richiamare” l’attenzione dell’acquirente sull’intera gamma e contribuire alla vendita dei prodotti da reddito. - Prodotti da reddito: quelli destinati a generare i maggiori flussi di cassa per l’impresa. Posizionamento dell’offerta Le ragioni di marketing degli assortimenti si legano soprattutto alla strategia di differenziazione con la quale l’impresa intende servire più segmenti e nicchie di mercato. A tale proposito, la decisione fondamentale concerne il posizionamento dell’offerta (marca) nei confronti della concorrenza, “posizionamento” che spesso dipende in larga misura dalla caratteristiche attribuite ai prodotti posti sul mercato. Per posizionamento si intende l’insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing-mix più adatto per attribuire una certa posizione al prodotto nella mente del consumatore. Il problema del posizionamento si collega direttamente a quello della segmentazione, perché completa la definizione del rapporto impresa-domanda-concorrenza. A seguito infatti della segmentazione, l’azienda può scegliere la strategia di marketing da attuare (indifferenziata, differenziata o concentrata), ma quest’ultima dev’essere orientata in funzione delle fasce più particolari di consumatori da servire. La mappa di posizionamento è lo strumento che consente di visualizzare il posizionamento della marca e il grado di differenziazione rispetto alla concorrenza. Il ciclo di vita del prodotto e necessità del rinnovamento della gamma L’esigenza di una pluralità di modelli e tipi di prodotto deriva anche dal naturale invecchiamento della gamma e dalla necessità, quindi, di procedere in modo sistematico e continuativo al suo rinnovamento. Questo non solo perchè l’anzianità dei prodotti influisce sui volumi della domanda, ma anche perchè, a seconda della stadio di vita, ogni prodotto può partecipare in misura differenza al reddito complessivo dell’impresa. Sotto tale profilo assume particolare rilevanza il concetto del ciclo di vita del prodotto. 65 Ciascun prodotto ha un suo ciclo di vita, che si svolge dalla nascita, all’affermazione, allo sviluppo e, poi, al declino. Di conseguenza, per l’impresa assumono un’importanza rilevante tutte le decisioni relative al ringiovanimento e alla radiazione dei prodotti obsoleti e al correlativo inserimento dei prodotti nuovi nella gamma di vendita. A tal fine, bisogna tentare di prevedere il ciclo di vita del prodotto, in modo da provvedere tempestivamente alle scelte di rinnovamento. Ogni prodotto, dal momento della sua immissione nel mercato a quello della sua eliminazione dalla gamma di vendita dell’impresa, attraversa quattro fasi: - Introduzione: nella quale inizia a diffondersi con una crescita molto lenta delle vendite. - Sviluppo: nella quale l’espansione delle vendite ha luogo ad un ritmo molto rapido, a seguito dell’affermazione del prodotto nel mercato. - Maturità: nella quale le vendite continuano a svilupparsi, ma ad un tasso meno elevato. - Declino: nella quale il volume delle vendite comincia a ridursi più meno rapidamente per l’obsolescenza del prodotto, per l’immissione di un prodotto sostitutivo o per la saturazione della domanda. Il ciclo di vita del prodotto non ha sempre lo stesso andamento, perché a seconda dei casi, si può presentare a balzi, con tempi di crescita e di declino, con picchi elevatissimi e cadute altrettanto rapide. La curva del ciclo di vita ha naturalmente un andamento diverso in relazione non solo alla natura del prodotto, ma anche alle politiche di mercato. Sull’ampiezza temporale delle varie fasi e, quindi, sulla vita utile del prodotto influiscono, infatti, le particolari condizioni concorrenziali e le scelte assunte dalla stessa impresa venditrice. Questa può abbreviare o allungare il ciclo di vita mediante politiche d’invecchiamento precoce o di ringiovanimento del prodotto (differenziazione nel ciclo di vita del prodotto): con le prime, mediante l’immissione ne mercato di modelli nuovi, accentua la fase di declino (questa politica è definita come “obsolescenza programmata” del prodotto), mentre con le seconde può anche far iniziare un secondo ciclo di vita. La matrice del portafoglio prodotti (Boston Consulting Group) Ciascuna fase è generalmente caratterizzata da una diversa redditività e da un differente peso delle altre politiche di marketing. Questa differente partecipazione al reddito aziendale è alla base della nota “matrice del portafoglio prodotti”, costituita dal Boston Consulting Group. Essa suddivide i prodotti offerti dall’impresa in quattro gruppi, in funzione del divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun prodotto (cash-flow = divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun tipo di prodotto). Per ciascun prodotto la situazione favorevole o sfavorevole sotto il profilo del cash-flow dipende dalla quota di mercato relativa detenuta dall’impresa e dal tasso di variazione della domanda globale. 66 In base a questi due parametri viene costruita una matrice, al cui interno figurano, nei quattro quadranti: - Prodotti marginali (dogs): con bassa quota di mercato e lento sviluppo della domanda. - Prodotti rischiosi (question marks): con bassa quota e rapido sviluppo della domanda. - Prodotti di successo (stars): con alta quota e rapido sviluppo della domanda. - Prodotti da reddito (cash cows): con alta quota e lento sviluppo della domanda. Il concetto base dalla classificazione è dunque quello del cash-flow di prodotto: il “prodotto marginale” presenta un flusso di cassa insoddisfacente se non addirittura negativo, a causa del costo elevato da sostenere per mantenere una posizione competitiva debole. In un mercato che non cresce e in cui l’azienda detiene una quota modesta, vendere sarà difficile e costoso, nel tempo quindi questo prodotto finirà per assorbire reddito. Il “prodotto rischioso” genera il cash- flow peggiore perchè richiede elevati investimenti per fronteggiare un mercato in rapido sviluppo, nel quale però la quota detenuta, e quindi i ricavi lucrati, sono limitati. Il “prodotto di successo” dovrebbe presentare un cash-flow positivo, anche se per battere la concorrenza sarà necessario continuare ad investire risorse. Il “prodotto da reddito” è quello che da i ritorni più soddisfacenti perchè l’azienda potrà sfruttare, senza grandi sacrifici reddituali, la sua posizione di forza in un mercato poco interessante per la concorrenza. Anche se con certi limiti, la matrice del portafoglio prodotti può in sostanza aiutare la direzione aziendale a valutare la potenzialità economico-finanziaria dei prodotti compresi nella gamma di vendita. La matrice General Electric Rispetto alla matrice del portafoglio prodotti del BCG, più completa appare quella messa a punto dalla General Electric e dalla Mc Kinsey, fondata sull’attrattività del mercato e sulla posizione competitiva. In realtà, infatti, queste due variabili ampliano gli elementi della matrice del BCG e ipotizzano nove possibili soluzioni per ciascun’impresa. L’attrattività di un settore è, infatti, funzione del tasso di sviluppo della domanda, ma è anche da rapportare ai margini di profitto conseguibili, alla dimensione totale del mercato e ad altri fattori che possono essere importanti a seconda dei casi. Così la posizione competitiva, oltre ad essere correlata alla quota di mercato, può rapportarsi alla velocità della sua crescita, al grado di innovatività dei prodotti, … Da ciò deriva che la costruzione di questo schema multifattoriale richiede una preventiva analisi dei fattori tipici di ciascun settore e può indurre a valutazioni che si adattano meglio ai singoli casi. 67 Non solo, ma nelle attuali condizioni di mercato, caratterizzate da un’accesa concorrenza internazionale, si potrebbe addirittura ribaltare l’assunto tradizionale, sostenendo che i “costi si fanno sui prezzi”. Con quest’affermazione si vuole intendere che il produttore, una volta accertati il possibile prezzo praticabile nel mercato servito, dovrebbe gestire i costi in modo da ottenere un margine positivo per l’impresa. In pratica, la possibile escursione del prezzo dipende da molti fattori, fra i quali assumono maggior perso: - Concorrenza reale: cioè la presenza nel mercato di prodotti con caratteristiche più o meno similari a quelle del prodotto considerato. - Concorrenza potenziale: ossia la possibile entrata di altri prodotti, una volta superate certe soglie di prezzo. - Concorrenza indiretta: cioè la minaccia di prodotti sostitutivi. - Grado di differenziazione del prodotto rispetto alla concorrenza. - Qualità del servizio fornito insieme al prodotto. Orientamenti della politica di prezzo In senso generale, la fissazione dei prezzi di vendita è orientata dagli obiettivi e dalle politiche che l’azienda intende perseguire nel tempo breve e nel lungo termine. Lasciando da parte le decisioni breve periodo, che possono rispondere a finalità occasionali, gli orientamento della politica di prezzo possono essere verso la penetrazione o la scrematura del mercato. Nel primo caso l’impresa mira a raggiungere il numero più ampio di acquirenti mediante la fissazione di un prezzo minimo (compatibili, d’intende, con la soglia di redditività fissata per l’investimento) che le consenta di acquisire immediatamente una larga fascia di clientela e di recuperare, in termini di profitto globale, il minor margine unitario. Quest’orientamento è consigliabile quando è possibile ottenere economie di scala e quando la differenziazione del prodotto è annullabile in tempi brevi. Nel secondo caso, invece, si prefigge la conquista successiva di segmenti di mercato sempre meno ricchi o, per meglio dire, di classi di consumatori disposte a spendere sempre meno per acquistare il particolare prodotto. L’orientamento alla scrematura si collega ad una politica di prezzi inizialmente elevati e decrescenti nel tempo, il cui fine è la massimizzarono del profitto unitario come via per massimizzare il profitto globale. I prezzi, infatti, saranno progressivamente ridotti per avvantaggiarsi al meglio delle differenti capacità contributiva dei consumatori ed allargare gradualmente il mercato di sbocco del prodotto. Tale politica è preferibile quando il prodotto gode di una protezione diffusa nel tempo, non si presta ad essere accolto immediatamente da larghe fasce di clientela e consente, a causa della differente elasticità della domanda rispetto al prezzo, di segmentare redditiziamente il mercato. 70 L’elasticità incrociata La determinazione della politica di prezzo fissa i limiti entro cui vanno assunte le scelte relative ai singoli prodotti. Queste devono tener conto, oltre che dei criteri generali stabiliti a livello aziendale, del ruolo che ciascun prodotto o modello è chiamato a svolgere all’interno della gamma di vendita. Si tratta, cioè, di valutare se, tra i prodotti posti in vendita, esistano delle relazioni d’interdipendenza e di stabilire, in caso affermativo, in qual modo esse debbano essere regolate. Per valutare l’interpretazione fra i prezzo dei prodotti venduti, si può calcolare l’indice di elasticità incrociata, cioè - nell’ipotesi di due beni A e B - il rapporto fra la variazione percentuale della domanda del bene A rispetto a quella del prezzo del bene B. - Se l’elasticità avesse risultare positiva (ad un aumento del prezzo di B corrisponde un aumento delle vendite di A) i beni saranno considerati intersostituibili. - Se l’elasticità risulta negativa, i beni saranno da considerarsi complementari. - Se l’elasticità risulta bassa o nulla, i beni si considerano non correlati. L’amministrazione dei prezzi di vendita Nell’amministrazione dei prezzi di vendita, un primo problema è quello della definizione dei margini commerciali, cioè delle detrazioni sul prezzo finale di vendita da praticare agli intermediari mercantili. Questo problema si pone allorché l’impresa ha interesse a fissare un prezzo al pubblico e deve quindi scontare tale prezzo in funzione del livello commerciale dell’intermediario. Una discriminazione dei prezzi finali può essere compiuta anche in rapporto a particolari clienti nell’ambito di margini di discrezionalità attribuiti agli organi di vendita. I prezzi base possono variare in funzione delle condizioni contrattuali, tra le quali assumono una maggiore importanza i volumi d’acquisto, le modalità di pagamento e il tempo di consegna. Altro elemento rilevante di questa politica è rappresentato dal modo di fissazione del prezzo, cui si collega il grado di controllo che l’impresa desidera esercitare nei confronti del sistema dei prezzi praticato nel mercato. Sotto tale profilo, i prezzi possono essere imposti, suggeriti e liberi. La politica comunicazione La politica di comunicazione si concreta nello stabilire gli obiettivi, le modalità ed i mezzi di contatto con i vari pubblici, in quanto soprattutto ad essa è confidato il compito d’inviare informazioni agli interlocutori con cui l’impresa è in relazione. 71 La promozione può essere definita in generale come il complesso di azioni poste in essere dall’impresa per indurre, preservare o modificare i modelli di comportamento degli operatori di mercato (consumatori, intermediari, finanziatori, altri produttori, …) allo scopo di ottenere un vantaggio competitivo. Lo scopo ultimo e più specifico è di creare delle preferenze, d’informare e di persuadere ed acquistare i beni prodotti dall’impresa. Essa, dunque, deve indurre all’acquisto, sfruttando le motivazioni che determinano il comportamento del consumatore, nel cui processo di formazione sono stati individuati tre momento o fasi successive: - Momento cognitivo: nel quale si acquisisce la consapevolezza del bisogno da soddisfare e s’inizia a rivolgere l’attenzione ai prodotti idonei a tale scopo. - Momento emotivo: quando l’attenzione si trasforma prima in interesse e, poi, nel desiderio di disporre del prodotto. - Momento attivo: in cui si passa alla fase materiale dell’acquisto mediante una comparazione delle varie offerte di mercato. L’impresa, dunque, partendo dalla conoscenza dei meccanismi di formulazione della volontà del consumatore, orienta la sua attività promozionale e invia una serie di messaggi e di stimoli che dorino spingere a preferire il proprio prodotto. Infatti, le scelte dei beni di consumo non sono effettuate fra tutte le marche presenti nel mercato, ma soltanto fra quelle conosciute o meglio ricordate al momento dell’acquisto. Scopo della promozione, dunque, è quello di far conoscere e soprattutto ricordare favorevolmente il nome del prodotto, in modo da ottenere il suo inserimento fra le alternative di acquisto. La politica di comunicazione può essere realizzata mediante l’attività di relazioni pubbliche, la pubblicità, la promozione i senso stretto e l’attività persuasiva dei venditori. Queste attività si collocano in posizioni differenti in quello che può essere definito l’imbuto promozionale. Si ricorre al concetto di imbuto per sottolineare l’immissione nell’attività promozionale di risorse, che si differenziano per modalità d’impiego e per effetti prodotti, allo scopo di ottenere lo sviluppo delle vendite. Ciascuna via promozionale ha, quale fine ultimo, l’aumento del volume d’affari dell’impresa, ma può prefiggersi anche degli obiettivi diversi nel breve termine. La pubblicità La pubblicità è senz’altro l’attività più tradizionale di comunicazione, per cui è talvolta confusa con la funzione promozionale nel suo complesso. Secondo una definizione molto diffusa, s’intende: qualsiasi forma di messaggio impersonale inviato a pagamento da un promotore individuata a coloro che sono o possono essere interessati al prodotto. 72 L’intensità dello sforzo distributivo, è funzione non solo del numero dei punti di vendita, ma anche del loro peso relativo, per cui la copertura distribuita va correttamente misurata sulla base di due indici: - Quota numerica: rapporto tra punti vendita aziendali e punti vendita totali. - Quota ponderata: rapporto tra il volume d’affari realizzato dai punti vendita legati all’azienda e il volume d’affari ottenuto da tutti i punti vendita. Considerando gli stadi per cui passa il prodotto per giungere al mercato ultimo di deflusso, la scelta è tra l’uso di canali diretti (produttore-consumatore), canali brevi (produttore-dettagliante- consumatore) o canali lunghi (produttore-grossista-dettagliante-consumatore). Per quanto riguarda il canale diretto, si può senz’altro affermare che nel settore dei beni di consumo esso è assai rara nel ruolo di canale principale di vendita, rappresentando più spesso un circuito particolarmente adatto a raggiungere una determinata fascia di clienti (grandi clienti come enti pubblici, comunità, …) o a perseguire finalità di ordine promozionale. Tranne nel caso di prodotti d’uso durevole, che per complessità tecnica e per valore unitario s’avvicinano più ai beni industriali, per i quali invece la vendita diretta è piuttosto frequente, è invece desueto ritrovare, per tutti i beni di consumo, modalità dirette di collegamento con il mercato mediante venditori, propri negozi al dettaglio, outlet presso la fabbrica, per corrispondenza. La alternative principali che si prospettano, quindi, al produttore di beni di consumo sono generalmente quelle della distribuzione all’ingrosso e al dettaglio. Per la prima il collegamento con i grossisti può avvenire attraverso filiali oppure mediante rappresentanti dislocati nelle diverse zone, mentre per la vendita al dettaglio può assumere una considerevole importanza anche il ricorso ad agenti di commercio. L’agente, infatti, è sovente in grado di attuare una politica capillare di distribuzione nei confronti di punti di vendita molto dispersi geograficamente. La qualità del marketing: il marketing relazionale e il Customer Relationship Management (CRM) Il piano di marketing dev’essere attuato con un’efficace gestione dei rapporti con tutti gli stakeholder e, principalmente, con la clientela. Il Costumer Relationship Management deve infatti consentire di mantenere un elevato grado di fedeltà dei clienti, in modo da conferire stabilità del portafoglio detenuto. L’incremento della cosiddetta customer retention (attitudine a “mantenere” i clienti) genera difatti significativi effetti sulla profittabilità dell’impresa perchè: - Acquisire un nuovo cliente è un’attività che ha un costo che potrebbe non essere ammortizzato sulla singola transazione, per cui i profitti derivanti dal singolo cliente aumentano dopo che i costi di acquisizione sono stati totalmente coperti. 75 - Se i clienti restano fedeli all’azienda e continuano a comprare i suoi prodotti, il relativo flusso di ricavi aumenta nel corso del tempo, mentre i costi correlati possono ridursi. - I consumatori fidelizzare attivano un processo di passa-parola che può raggiungere nuovi potenziali clienti attirandoli verso l’azienda. - I consumatori fidelizzati diventano meno sensibili nei confronti di offerte alternative, anche se economicamente più vantaggiose (poiché percepiscono elevati switching cost nel passaggio verso un nuovo fornitore). L’obiettivo finale del marketing relazionale è il migliorante della profittabilità della clientela nel lungo termine e la massimizzarono del Customer Lifetime Value. Il CLV definisce il valore che un cliente può generare per una determinata impresa. In termini di ricavi, può essere calcolato moltiplicando il valore medio della transazione per la frequenza d’acquisto e per il ciclo di vita atteso del cliente. 76 IL PROCESSO DI PRODUZIONE E L’IMPIANTO (14) La funzione di produzione I problemi della produzione assumono un ruolo prioritario sia per i più diretti riflessi sulla strategia competitiva sia per la maggiore incidenza dei costi di produzione nel conto economico aziendale. Per poter produrre dei beni occorre disporre di una tecnologia appropriata, allestire uno stabilimento, assumere e organizzare le maestranze, predisporre le procedure di programmazione dei cicli di produzione e di controllo dei prodotti semilavorati e finiti, creare i servizi a supporto della fabbrica: tutto ciò comporta cospicui investimenti finanziari ed organizzativi. La funzione di programmazione riguarda il processo di trasformazione dei beni, ossia l’insieme di operazioni mediante il quale le risorse acquistate dell’impresa (materie prime, ausiliarie, semilavorati, …) sono tramutate in prodotti finiti da collocare nel mercato. Il ciclo produttivo si pone, pertanto, al centro del processo di gestione, dovendo essere preceduto dalla fase degli approvvigionamenti e seguito da quella delle vendite. La funzione di produzione è, del resto, strettamente collegata alle funzioni aziendali. Il rapporto con la funzione di approvvigionamento è necessario per la corretta e tempestiva alimentazione delle linee di lavorazione; quello con la funzione commerciale è di duplice ordine, sia per la necessità di indirizzare la produzione secondo le tendenze di mercato sia per porre in fase il ciclo di produzione con quello di vendita; il rapporto con la funzione finanziaria è molto stretto sotto il profilo della programmazione del fabbisogno di capitale fisso e circolante; e così il discorso potrebbe proseguire accennando alle relazione con la funzione di ricerca e sviluppo, del personale. Le scelte di produzione si colorano al centro delle strategie aziendali perchè impegnano, per tempi non brevi e in misura rilevante, le risorse finanziarie e umane disponibili. Accanto al profilo strategico va, tuttavia, attentamente considerato quello più puramente operativo, incentrato in prevalenza sui problemi di logistica industriale. Generalmente, le scelte di produzione possono essere stinte in tre gruppi: - Scelte strategiche: il cui obiettivo è di concorrere alla creazione del vantaggio competitivo. - Scelte strutturali: il cui scopo è di costituire il sistema operativo, necessario per coordinare l’impiego delle risorse disponibili. - Scelte di gestione operativa: la cui finalità è di razionalizzare l’operatività del processo produttivo mediante la programmazione e il controllo della produzione. 77 Una disposizione ottimale delle macchine e della forza lavoro deve contribuire ad ottimizzare l’impiego delle quattro “M” che, icasticamente, gli americani includono nell’equazione della produzione (men, materials, machines, money), rendendo più rapido e diretto il movimento dei materiali in corso di lavorazione e riducendo i tempi d’ozio. In generale, la sistemazione dei macchinari all’interno dello stabilimento può seguire due criteri principali: i macchianti possono essere posizionati in sequenza secondo le lavorazioni successive necessarie per giungere alla realizzazione di un certo prodotto finito (lay-out per prodotto), oppure essere accorpati per tipo di operazione/attività svolta (lay-out funzionale). In relazione alle modalità di svolgimento dei cicli di lavorazione, bisogna osservare che l’impresa a volte è libera di scegliere tra più alternative, altre, invece, è costretta ad adottare una particolare forma di organizzazione. Quest’ultima è legata soprattutto alla tecnologia utilizzata, che può imporre o rendere più conveniente processi di lavorazione a ciclo continuo, intermittente o misto. I primi, si caratterizzano per il fatto che la lavorazione si svolge ininterrottamente dall’ingresso in ciclo dei materiali fino all’uscita del prodotto finito (es. distillazione del petrolio). I cicli di lavorazione possono essere organizzati anche in modo intermittente, ovvero suddividendo il processo in fasi ed assegnando ciascuna di queste si queste ad un particolare reparto o centro operativo. In tal modo, per ogni fase vi sarà un accumulo di scorte in entrata e in uscita e bisognerà risolvere il problema di coordinamento dei tempi di lavorazione. Questo tipo di organizzazione viene preferito in tutti i casi di cicli di produzione meno facilmente automatizzatili e richiedenti prestazioni di lavoro per qualche aspetto differenziante (es. confezionamento di abiti). Il terzo tipo di ciclo è quello misto, organizzato in parte in modo continuo ed in parte in modo intermittente. Esso è adottabile allorché certe fasi di lavorazione si prestano ad essere totalmente automatizzare, mentre altre richiedono operazioni più complesse da affidare ad appositi reparti. L’esigenza di fondo diviene quella di assicurare flessibilità al sistema di produzione senza, peraltro, rinunciare ai principi essenziali della produttività e dell’economicità di funzionamento del sistema stesso. A tale proposito bisogna in realtà distinguere: - Il grado di flessibilità o elasticità economica, ovvero la capacità dell’impianto di rimanere competitivo anche in condizioni di parziale utilizzazione. - Il grado di flessibilità tecnica, ossia l’idoneità dell’impianto ad adattarsi a produrre beni differenti senza incorrere in sovrapposti non facilmente sopportabili sotto il profilo competitivo. In altri termini il concetto di flessibilità dell’impianto può essere considerato sotto il profilo tecnico (opportunità di variare il mix produttivo) e sotto quello economico (capacità di assorbire le riduzioni del volume di produzione). 80 Il dimensionamento della produzione e dell’impianto Uno dei problemi più importanti nell’organizzazione della produzione è rappresentato dal dimensionamento da conferire all’impianto. Il problema deriva dalla contrapposizione tra la scelta di sovradimensionamento iniziale (intesa a rispondere a un presumibile maggiore sviluppo futuro delle vendite) e quella di contenimento della capacità inutilizzata (fino all’auspicato incremento dei volumi di vendita). L’obiettivo è quello d’individuare la dimensione ottimale, definibile teoricamente come quella idonea a minimizzare il costo unitario di prodotto. Sotto il profilo dimensionale è opportuno tenere distinte due scelte: la determinazione della capacità produttiva massima dell’impresa e quella della potenzialità ottimale degli impianti. Si tratta, infatti, di problemi interdipendenti, ma che debbono essere impostati e risolti secondo criteri diversi. La decisione circa il volume globale della produzione deriva essenzialmente dalla considerazione di fattori di mercato, cioè dalla previsione delle quote di vendita ottenibili nei mercati in cui opera l’impresa. Questa previsione dovrà essere proiettata ad un certo periodo di tempo, in modo da consentire un progressivo adeguamento degli impianti e delle procedure tecnologiche. Nel caso del ricorso alle scorte, il problema si concreta nel dimensionare la capacità di produzione intorno al livello medio della domanda, in modo da poter soddisfare, mediante la manovra delle giacenze, le esigenze attuali e prospettiche del mercato, continuando a produrre un quantitativo costante di output. Poiché lo stock di prodotti dovrebbe consentire il soddisfacimento continuo della clientela, il regime di produzione andrebbe regolato in funzione dell’entità e del periodo in cui presumibilmente potrebbero verificarsi le maggiori richieste del mercato. Posto che in ogni caso la potenzialità di un impianto è definita dalla potenzialità della fase terminale del processo, il problema della dimensione sarà risolvibile globalmente nell’ipotesi di impianti omogenei continui (ad es. impianti di raffinazione del petrolio), mentre dovrà essere scomposto per le singole linee di lavorazione del caso di impianti con più linee di produzione, oppure per reparti nell’ipotesi di organizzazione del ciclo per fasi. Un impianto è, di norma, un sistema complesso, costituito da una serie di macchine, automatismi, attrezzature, … Ciascuna macchina rappresenta un fattore quanto, cioè un bene a flusso rigido di servizi, il cui costo prevalente è in funzione del fluire del tempo più che della sua effettiva utilizzazione. Una macchina è infatti capace di svolgere un numero massimo di operazioni nell’unità di tempo e il suo costo è pressappoco lo stesso, cioè prescinde dal numero di operazione effettivamente svolte. L’impresa, dunque, tende allo sfruttamento integrale dei fattori quanti, in guisa da ridurre al minimo il costo unitario di produzione. Il dimensionamento dell’impianto deve rispondere anche alla minimizzazione del rischio e non solo a quella del costo unitario di produzione. Ai fini del rischio assume un’importanza fondamentale il concetto del “margine di sicurezza”. 81 Dato che in qualsiasi struttura di costo vi sono dei costi indipendenti dal volume di produzione e di vendita e degli altri che variano in rapporto ai movimenti di tale volume, è sempre necessario raggiungere un volume minimo di attività per recuperare integralmente i costi fissi e variabili. Questo volume, per i quali i ricavi uguagliano i costi complessivi, è quello corrispondente al cosiddetto punto di pareggio o break-even point perché in quella condizione per l’impresa dovrebbe essere “indifferente” produrre o rimanere inattiva. Al concetto di punto di pareggio si lega quello del margine di sicurezza rappresentato dalla differenza (espressa solitamente in percentuale della capacità massima di produzione) tra il previsto volume di utilizzo dell’impianto e quello a cui corrisponde il punto di pareggio. La programmazione delle operazioni di produzione Definire il programma di produzione significa ricercare la soluzione più economica di impiego delle risorse per raggiungere il livello e la composizione del mix produttivo fissato nel programma annuale di gestione. Un’efficace programmazione della produzione deve articolarsi: - Nel medio-lungo termine per precostituire la capacità produttiva necessaria in rapporto agli obiettivi strategici dell’impresa. - Nel breve termine per allocare le risorse disponibili, in modo da raggiungere i traguardi di produzione posti dal programma annuale di vendita. - Nel brevissimo termine per organizzare il lavoro dei centri di produzione in funzione delle quote settimanali, quindicinali o mensili da realizzare. Il controllo di efficienza della produzione Il controllo di produzione riguarda sia il regolare svolgimento delle operazioni produttive sia la qualità dei prodotti finiti da destinare al mercato. Il suo obiettivo è quello di prevenire anomalie nel ciclo operativo e nei prodotti, al duplice scopo di evitare si sopportare costi a vuoto e di garantire la qualità al consumatore. Nell’area della produzione il controllo dovrebbe articolarsi nel: - Controllo dei risultati di produzione - Controllo di qualità dei prodotti - Controllo economico o di valore 82 In altri termini, la necessità di “razionamento” del capitale può discendere dall’impossibilità di espandere la struttura finanziaria oppure dalle condizioni sfavorevoli della leva finanziaria. Nella vita dell’impresa gli investimenti possono legarsi alle grandi opzioni strategiche, che guidano lo sviluppo aziendale, o correlarsi a progetti specifici riguardanti singole operazioni di immobilizzo. Dal punto di vista dell’analisi degli investimenti può essere utile distinguere gli investimenti di natura strategica, per i quali l’impresa è chiamata a decidere su “se” intraprendere determinati progetti che modificano la sua posizione competitiva, rispetto ad investimenti di tipo operativo, per i quali l’impresa valuta soluzioni alternative per decisioni che non modificano le proprie scelte strategiche. Nel primo caso, si tratta di valutazioni complesse che devono tener conto di numerose variabili, spesso di difficile determinazione, come ad esempio la decisione sul lancio di un nuovo prodotto, sull’ingresso in una diversa area strategica d’affari o sulla costruzione di un nuovo stabilimento industriale. Nel secondo caso, si tratta di decisioni di minore rilevanza, quale potrebbe essere la scelta tra due modelli alternativi di macchine operatrici con caratteristiche analoghe e, più in generale, di decisioni che non alterano significativamente la composizione quali-quantitativa dei ricavi. L’intensità con cui si presenta il problema degli investimenti varia in relazione alle diverse epoche di vita dell’impresa e all’impatto del progresso tecnologico sulle vicende aziendali. É intuibile, infatti, che essa assumerà punte massime al momento della creazione dell’impresa e in occasione di ampliamenti consistenti della sua sfera operativa, mentre sarà minore per esigenze periodiche di rinnovo di macchine, attrezzature, utensili. Il rinnovo avverrà, poi, con un diverso ritmo a seconda dei fenomeni di obsolescenza, prodotti dallo sviluppo della tecnologia. In linea di principio, va sottolineato che la scelta degli investimenti, a prescindere da valutazioni di tipo etico, è guidata dai parametri fondamentali di qualsiasi comportamento imprenditoriale, vale a dire profitto e rischio. A parità di altre condizioni, saranno, infatti, preferiti i progetti che assicurano i margini più elevati di profitto entro un prestabilito coefficiente di rischio oppure che producono un determinato profitto con il più basso grado di rischiosità. La previsione del fabbisogno finanziario L’impresa ha bisogno di capitali per finanziare i processi di investimento e per far fronte alla gestione corrente. Il fabbisogno finanziario aziendale è infatti uguale alla somma del capitale fisso, necessario per acquisire le immobilizzazioni materiali e immateriali, e del capitale circolante, occorrente per alimentare il ciclo acquisti-produzione-vendite. 85 L’ammontare del fabbisogno varia, nella sua entità e nella sua genesi, a seconda se ci si trova in fase di costituzione o di funzionamento dell’impresa: nel primo caso si tratta, infatti, di determinare il fondo di capitali indispensabile per creare la struttura iniziale e per aprire le esigenze di finanziamento della fase di avviamento; nel secondo, invece, il problema si concreta nell’individuazione del fabbisogno differenziale necessario per alimentare il processo di investimento nelle immobilizzazioni aziendali e per soddisfare le ulteriori esigenze poste dall’esercizio. Inoltre, nell’ipotesi di azienda in funzionamento, non si può escludere l’incidenza finanziaria delle operazioni di gestione accessoria e straordinaria sul fabbisogno globale. In realtà ogni azienda esige un differente rapporto di composizione tra capitale fisso e circolante, in relazione sia alle caratteristiche del settore sia alle peculiarità gestionali. Il fabbisogno di capitale fisso è legato al grado di capitalizzazione dei processi operativi, cioè all’esigenza di disporre di maggiori immobilizzazioni per lo svolgimento delle funzioni di produzione, di commercializzazione, di amministrazione, … più cresce la presenza degli impianti e delle attrezzature più aumenta il fabbisogno di capitale fisso. Il fabbisogno di capitale circolante, ossia di mezzi finanziari che si rigenerano al massimo nei 12 mesi dell’esercizio gestionale, è correlato, invece, al ciclo di reintegro dei ricavi, detto anche ciclo di reintegro del circolante. A parità di volume di attività, esso sarà tanto muore quanto più breve è questo ciclo, vale a dire quanto più rapidi sono i processi di acquisto-produzione-vendita e, soprattutto quanto più veloce è il corrispondente ciclo monetario che intercorre tra il sostenimento dei costi e il correlativo incasso dei ricavi. Quest’ultimo dipende dalle condizioni di riscossione dai clienti e di pagamenti ai fornitori. Il capitale circolante si compone di: - L’ammontare delle scorte necessarie per l’alimentazione dei processi di produzione e di vendita. - I crediti commerciali verso i clienti. - I debiti commerciali verso i fornitori. - Le attività finanziarie (cassa, banche e altri mezzi monetari) necessarie per assicurare, in ogni istante, la liquidazione aziendale. - Le altre attività e passività correnti (crediti a breve termine, debiti a breve, quota corrente di debiti a lungo termine, quota imposte, …). Il capitale circolane netto è pari alla differenze tra queste attività e passività correnti. Il capitale circolante commerciale rappresenta invece la somma algebrica del valore delle scorte di magazzino, dei crediti verso i clienti e due debiti verso i fornitori. 86 L’obiettivo dell’impresa è quindi quello di stimare il fabbisogno finanziario netto, in modo da prevedere tempestivamente l’esigenza di reperire nuove fonti di copertura oppure di individuare le migliori opportunità di impiego di fonti esuberanti. In sostanza la gestione finanziaria deve preservare la solvibilità (equilibrio finanziario) e la liquidità (equilibrio monetario) dell’impresa. Le scelte di struttura finanziaria: minimizzazione degli oneri e del rischio finanziario La struttura finanziaria è rappresentata dal complesso delle fonti di copertura del fabbisogno aziendale. Da impresa ad impresa e di tempo in tempo, essa può assumere caratteristiche molto differenti in funzione della partecipazione dei soci e delle condizioni del mercato dei capitali. Le variabili che più direttamente incidono sul fabbisogno finanziario dell’impresa sono: - Le operazioni d’investimento e di alienazione dei beni impiegati nella gestione corrente e patrimoniale. - Il livello delle scorte di magazzino. - Le condizioni di pagamento applicate ai clienti. - Le condizioni di pagamento ottenute dai fornitori. - Il livello di liquidità. Questo fabbisogno finanziario globale può essere coperto: - Dalla dotazione di mezzi propri. - Dal risultato economico della gestione (autofinanziamento). - Dal finanziamento interno dei soci. - Dal finanziamento esterno attivo presso risparmiatori, banche e dipendenti. A livello strategico, la gestione finanziaria si concreta, in sostanza, nell’assunzione e nell’attuazione delle scelte che incidono sul fabbisogno e sulle vie di copertura. Essa è orientata da alcuni obiettivi o politiche generali tese ad assicurare l’omogeneità, la flessibilità, l’elasticità e l’economicità della struttura finanziaria aziendale. Una delle prime regole, peraltro sovente disattese, della gestione finanziaria suggerisce di impiegare capitali omogenei rispetto al tipo di fabbisogno da coprire: ciò vuol dire che, nell’ipotesi del finanziamento di immobilizzazioni, dovrebbero essere attinti mezzi finanziari a lungo termine, mentre nel caso di fabbisogno di esercizio sarebbe opportuno farvi fronte con mezzi a breve. Questo allo scopo di assicurare una maggiore corrispondenza tra i due fenomeni (fabbisogno e copertura), evitando di finanziare i processi di investimento con risorse adatte, per la loro natura, a permanere nell’azienda solo per la durate di un esercizio, oppure evitando di finanziare il circolare con fondi a lungo termine. 87 Le principali fonti di finanziamento Il fabbisogno finanziario globale può essere coperto: - Da capitale proprio - Dal risultato economico della gestione (autofinanziamento) - Dal finanziamento interno dei soci - Dal finanziamento esterno attinto presso i risparmiatori, le banche e i dipendenti L’investimento di capitale proprio rappresenta una fonte di finanziamento a lungo termine perché i mezzi così immessi nella gestione sono destinati a permanervi durevolmente. Assimilabile a tale fonte è l’autofinanziamento, cioè il reinvestimento dei profitti nell’attività aziendale. In condizioni di normalità, vale a dire in presenza di una gestione economica e finanziare equilibrata, parte cospicua dei nuovi investimenti dovrebbe essere coperta proprio mediante l’autofinanziamento, il cui scopo è quello di immobilizzare nell’azienda un’aliquota dei redditi d’esercizio precedentemente lucrati. Nell’ipotesi, invece, di un fabbisogno occasionale di capitali (cioè di un fabbisogno destinato a permanere per periodi di tempo non lunghi), i soci potrebbero far affluire propri fondi sotto forma di finanziamento diretto. In tal caso, concedono delle anticipazioni all’azienda oppure sottoscrivono direttamente un prestito obbligazionario. In entrambe le alternative possono poi riservarsi il diritto di chiedere la restituzione dell’anticipazione o il rimborso delle obbligazioni in qualsiasi momento, anche se la logica di queste operazioni finanziarie è quella del medio termine. Di fronte al ricorso ai mezzi propri, nella triplice forma dell’aumento del capitale, dell’autofinanziamento e del finanziamento diretto, si pongono le fonti esterne, tra cui il maggiore rilievo è frequentemente assunto dal credito bancario. Tra le fonti creditizie bisogna inerire anche i risparmiatori o gli investitori istituzionali, i fornitori e gli stessi dipendenti dell’impresa. Come detto, più frequente è il ricorso al credito bancario, che può assumere una differente estensione temporale e concretarsi in forme tecniche diverse. Il finanziamento può essere, infatti, ottenuto per tempi lunghi (mutuo) o per tempi brevi (sconti effetti, aperture, …). Accanto alle forme tradizionali di finanziamento esterno, bancario e non bancario, già da lungo tempo si sono affiancare forme atipiche, quali il leasing e il factoring. Soprattutto il primo si è diffuso perché presentava dei vantaggi, a volte rilevanti, rispetto alle forme più note di finanziamento. Con il leasing, che può essere finanziario od operativo, l’impresa non è costata a sopportare immediatamente il peso dell’investimento perché ottiene il bene di cui bisogna mediante un contratto di locazione con diritto di riscatto del bene dopo un certo numero di anni e ad un prezzo prefissato (di solito molto basso). In tal modo, può utilizzare immediatamente il bene, pagando un canone periodico e riservandosi alla fine del contratto di assumere una decisione circa l’acquisto dell’oggetto dell’operazione di leasing. 90 Il factoring rappresenta, a sua volta, una particolare forma tecnica di finanziamento, perché consente di rendere liquidi crediti verso la clientela non suffragati da documenti (titoli di credito) scontabili commercialmente. Il factoring ha, infatti, luogo su fatture o titoli di credito imperfette, solitamente con la cessione del credito al factor. Nel factoring la norma più comune di cessione del credito è “pro-solvendo”, cioè con il rischio di insolvenza condiviso tra il debitore e il cedente del credito. Nel caso in cui non vi sia condivisione del rischio tra debitore e cedente, la forma del factoring viene definita “pro-soluto”. Un’altra forma piuttosto sofisticata di finanziamento a breve è il forfaiting, cioè la vendita pro- soluto di effetti cambiari che, in rapporto alla loro scadenza e al grado di rischio di incasso, vengono ceduti in base al loro valore facciale decurtato in ragione di un tasso di sconto a forfait (da qui il nome forfait financing). Solitamente, i titoli di credito sono tratte emesse da esportatori e accettate dagli imprenditori esteri o pagherò eressi direttamente da questi ultimi. 91 IL PROCESSO LOGISTICO E GLI APPROVVIGIONAMENTI (16) La logistica quale processo La logistica è il sistema di connessione tra l’approvvigionamento di materiali (logistica in entrata), la trasformazione produttiva ed il collocamento dei prodotti realizzati (logistica in uscita). Il processo logistico, si attua mediante due flussi: un flusso fisico dei materiali (materie prime, semilavorati, parti componenti e prodotti finiti), che ha inizio dal momento dell’evasione dell’ordine da parte del fornitore e si conclude con il ricevimento della merce da parte dell’impresa; e un flusso di informazione che attraversa in senso bidirezionale l’intero processo. L’obiettivo da raggiungere è rappresentato dal migliore equilibrio tra costo della logistica e standard di servizio reso ai clienti interni (organi di produzione) ed esterni (consumatori). Esso si può tradurre, in termini più concreti, nel minimizzare il livello delle scorte e massimizzare il livello di servizio alla clientela. L’efficienza della logistica si pone quale elemento non secondario della strategia competitiva sia perché riesce a contenere i costi sia perché contribuisce ad elevare la qualità del servizio. La funzione di approvvigionamento: aspetti strategici e tattici La funzione di approvvigionamento può essere definita come il processo di acquisto e gestione delle scorte dei materiali diretti all’alimentazione dei cicli di lavorazione. Gli obiettivi da raggiungere sono quelli di assicurare l’economicità della gestione degli acquisti e di preservare la continuità dei cicli di lavorazione. Il rifornimento di materiale deve difatti garantire l’ininterrotto svolgimento della produzione, al fine di evitare tempi d’ozio per l’impianto e conseguenti costi sprecati per l’azienda. Nell’organizzazione della funzione di approvvigionamento dev’essere operata una netta distinzione tra aspetti strategici e tattici (o operativi). Essa, infatti, sconterà delle scelte strategiche sui confini posti all’attività produttiva da realizzare in azienda e seguirà delle procedure ricorrenti per la sua implementazione nel corso della gestione. L’aspetto strategico si lega a scegliere più ampie e commesse (integrazione verticale o quasi- integrazione) e, in particolare, dipende dalle caratteristiche dei cicli di produzione e dei mercati di rifornimento. Sulle decisioni da assumere peseranno non solo le caratteristiche dell’impresa, ma anche quelle del mercato di fornitura. Se quest’ultimo è difatti soggetto a forti oscillazioni di prezzo, a crisi di produzione imprevedibili e incontrollabili, cresce per l’azienda l’interessa ad assicurarsi il governo di fonti proprie di produzione mediante operazioni d’integrazione verticale. 92 La propensione dell’utilizzo del commercio online è più elevata nel caso di transazioni tra imprese e quindi delle forniture industriali. É un metodo semplice e veloce. La possibilità di visionare i prodotti disponibili in tempo reale e spiccare l’ordine in modo più o meno autonomo rappresenta il vero punto di forza del B2B. L’avvento di Internet ha consentito la nascita di vere e proprie borse elettroniche per le forniture all’ingrosso B2B. La gestione delle scorte Le scorte di materie prime e prodotti sono indispensabili per bilanciare i diversi ritmi secondo cui si svolgono i cicli fondamentale di gestione (acquisto, produzione e vendita). Le principali difficoltà si collegano con la necessità di conciliare le esigenze di natura logistica con quelle di natura commerciale. 95 IL PROCESSO DI INNOVAZIONE DEL PRODOTTO (17) L’innovazione L’innovazione ha sempre rappresentato una delle determinanti principali del mutamento industriale, il motore dello sviluppo economico ed una forza in grado di trasformare gli equilibri di mercato. Inoltre, è lo strumento fondamentale per costruire il vantaggio competitivo sia migliorando l’efficienza dei processi operativi sia producendo la differenziazione dell’offerta rispetto alla concorrenza. Le strategie competitive di leadership di costi o di differenziazione trovano la loro base nella produzione di innovazioni di processo, prodotto e impianto. Il rapporto tra l’innovazione e l’orientamento della strategia competitiva è molto stretto in quanto le reali possibilità di competere si legano all’intensità e alla tipologia del fenomeno innovativo. Le fasi del processo innovativo L’impresa (imprenditore), prima di intraprendere qualsiasi investimento o modifica della strategia di mercato, vuole valutare la probabilità di successo e, contemporaneamente, verificare le condizioni di realizzabilità dell’innovazione. Per fare ciò deve attuare una procedura di controllo articolata in quattro stati: - Misurazione della vendibilità del nuovo prodotto: stima della quantità e dei prezzi di assorbimento da parte del mercato (verifica commerciale). - Verifica tecnologica: capacità tecnica di realizzare il nuovo prodotto con costi compatibili con i prezzi spuntatili nel mercato (verifica produttiva). - Accertamento della possibilità di reperimento dele risorse finanziarie necessarie per la realizzazione e il lancio del nuovo prodotto (verifica finanziaria). - Convenienza finale dell’operazione, ovvero nella positività del risultato ottenibile con il lancio del nuovo prodotto (verifica economica). La gamma delle innovazioni L’innovazione può presentarsi nell’impresa secondo un’ampia gamma di versioni. Un primo elemento di novità è che in molti casi, l’innovazione principale non è più prevalentemente l’innovazione tecnologica. L’innovazione si pone difatti quale profondo cambiamento culturale che concorre a mettere costantemente sotto esame i processi e i prodotti aziendali, allo scopo di valutare le possibilità di modifiche in linea con l’andamento delle tendenze organizzative. Una distinzione opportuna è dunque tra tecnologia in senso stretto e tecnologia in senso lato. Nel primo caso potremmo parlare di un “processo o un insieme di processi che consentono di applicare un complesso di tecniche, di competenze ingegneristiche e conoscenze scettiche alla produzione industriale”. 96 Nel secondo caso, si tratta dell’applicazione di conoscenze tecniche e strumenti alla risoluzione dei problemi. In questo senso, non consideriamo la sola tecnologia di produzione ma anche la tecnologia applicata alla altre aree funzionali ed attività dell’organizzazione d’impresa, rinvenendo, ad esempio, tecnologie commerciali, tecnologie di gestione delle risorse umane, tecnologie di programmazione e controllo e tecnologie di pianificazione strategica. La produzione di innovazioni, da fatto discontinuo e collegato a particolari centri organizzativi, diviene così fatto continuo e diffuso a tutti i livelli e fra tutte le posizioni gerarchiche. Le innovazioni possono essere strategicamente distinte in offensive, neutrali o difensive: le prime sono quelle dirette ad acquisire un nuovo vantaggio competitivo e, quindi, ad erodere le posizioni di mercato alla concorrenza diretta; le innovazioni neutrali sono rivolte ad annullare ritardi sotto il profilo, dell’efficienza funzionale, in modo da porsi sullo stesso piano degli altri competitori; le innovazioni difensive, infine, sono quelle orientate a ridurre il gap tecnologico, e non lascino “svantaggi” competitivi insostenibili. L’altro aspetto molto importante perchè si collega all’economicità del processo innovativo è quello del grado di protezione o salvaguardia dell’innovazione prodotta. Pertanto, le innovazioni possono essere classificate in protette (brevetto), proteggibili (quando la protezione si lega al sostenimento di investimenti promozionali e/o tecnici in grado di scoraggiare il processo imitativo) e non protette (nei casi in cui l’imitazione appare semplice ed accessibile). Per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche, la classificazione più comune è quella tra innovazioni di prodotto (apportare variazioni alla gamma di vendita), di processo (migliorare l’efficienza dei cicli di lavorazione) e di impianto (messa a punto di mezzi tecnici con più elevati coefficienti di rendimento). Sempre riguardo alle innovazione tecnologiche, è necessaria un’altra distinzione tra innovazioni autonome e innovazioni sistemiche: le prime sono innovazioni che possono esser perseguite indipendentemente da altre innovazioni; le seconde devono inserirsi in un sistema di innovazioni e producono vantaggi solo se accompagnate da altre innovazioni completamente accessorie. I modelli organizzativi per la produzione delle innovazioni L’innovazione è sempre il risultato di un lavoro di un gruppo di persone all’interno e anche all’esterno dell’impresa. É possibile individuare le modalità organizzative secondo una scala crescente di impegno: - La costituzione di un osservatorio per seguire le innovazioni di mercato e di prodotto all’esterno. - La creazione occasionale di un team interno di ricerca. - L’istituzione di un gruppo permanente di ricerca. - L’organizzazione di laboratori e più team di ricerca, sempre interni. - La costruzione di una rete di ricerca interaziendale. 97
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