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riassunti libro cittadini e stranieri nel diritto privato della modernità (anno 2018), Dispense di Diritto Civile

corso diritto civile, prof memmo, anno 2018-2019,

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 07/03/2019

Andrea.yosse94
Andrea.yosse94 🇮🇹

4.4

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Scarica riassunti libro cittadini e stranieri nel diritto privato della modernità (anno 2018) e più Dispense in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! Capitolo I LA CITTADINANZA ITALIANA 1. L'acquisto della cittadinanza italiana per nascita. L'evoluzione interpretativa della Corte Costituzionale sull'acquisto iure sanguinis per parte materna L'articolo 1 della legge 5 Febbraio 1992, n. 91 disciplina i casi di acquisto automatico per nascita della cittadinanza italiana. Innanzitutto, la regola generale vigente in Italia ha come presupposto la filiazione e consiste nell'acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis: è cittadino italiano per nascita chi abbia padre o madre italiani (articolo 1 comma 1 lettera a). In secondo luogo ed in via eccezionale, è possibile acquistare la cittadinanza italiana iure soli: infatti, è cittadino per nascita chi è nato sul territorio italiano se ha genitori ignoti o apolidi oppure se decide di non seguire la cittadinanza dei genitori (articolo 1 comma 1 lettera b); del pari, è cittadino italiano il figlio di ignoti che è stato trovato sul suolo della Repubblica e non ha altra cittadinanza (articolo 1 comma 2). Con la sentenza 30/1983 la Consulta, modificando la disciplina dell'acquisto iure sanguinis ex matre della cittadinanza italiana, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'articolo 1, comma 1, numero 1, della legge n. 555/1912 nella parte in cui non prevede che fosse cittadino italiano anche il figlio di madre italiana. Dunque, questa fondamentale decisione non ha soltanto stabilito che la cittadinanza italiana possa essere trasmessa per via materna, ma ha anche posto il complesso problema relativo al limite temporale degli effetti giuridici prodotti dalla dichiarazione di incostituzionalità: infatti, ci si è chiesti se la retroattività della pronuncia dovesse oltrepassare la data di entrata in vigore della Costituzione, il 1 Gennaio 1948, o dovesse arrestarsi a questo momento, impedendo la trasmissione della cittadinanza italiana ai figli di madre italiana nati prima del 1 Gennaio 1948. A tal riguardo, la giurisprudenza ordinaria ha adottato due orientamenti difformi. L'interpretazione estensiva è stata accolta dalla Corte di Cassazione con la sentenza 297/1996, secondo cui per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale 30/1983 lo status di cittadino italiano iure sanguinis deve essere riconosciuto al figlio legittimo di madre cittadina anche se nato prima dell'entrata in vigore della Carta Costituzionale. Se la giurisprudenza di merito si è espressa nello stesso senso, numerose sentenze della Suprema Corte, accogliendo l'opposta interpretazione, hanno sostenuto che una sentenza dichiarativa dell'illegittimità costituzionale di una norma ha piena efficacia retroattiva soltanto nei confronti delle disposizioni normative che risultino incostituzionali fin dal momento della loro entrata in vigore, mentre se la norma viene a confliggere con i principi costituzionali in 1 un momento successivo alla sua entrata in vigore (la cosiddetta ipotesi della incostituzionalità sopravvenuta), allora gli effetti giuridici derivanti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale cessano di retroagire nel momento in cui si sia concretizzata l'incostituzionalità della disposizione normativa: perciò, l'efficacia retroattiva della sentenza della Corte Costituzionale numero 30/1983 deve arrestarsi al 1 Gennaio 1948. 1.1 Segue: L'evoluzione interpretativa della Corte Costituzionale sulla perdita della cittadinanza italiana da parte della donna a seguito del matrimonio L'articolo 10, comma 3, della legge 555/1912 prevedeva che in seguito ad un matrimonio contratto con un cittadino straniero la donna perdesse la cittadinanza italiana indipendentemente dalla sua volontà. Tuttavia, la Consulta dichiarò l'illegittimità costituzionale di questa disposizione normativa con la sentenza 87/1975, che precedette la riforma del diritto di famiglia e trovò un immediato riscontro nella legislazione. Infatti, durante lo stesso anno fu introdotto l'articolo 143- ter del codice civile (successivamente abrogato dall'articolo 26 della legge 91/1992), secondo il quale la donna, che acquisti la cittadinanza straniera per effetto di un matrimonio o di un mutamento della cittadinanza del marito, perde la cittadinanza italiana solo se ad essa rinuncia espressamente. Inoltre, l'articolo 219, 1 comma, del codice civile dispone espressamente che la donna possa riacquistare la cittadinanza italiana con una dichiarazione resa all'autorità competente se, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, l'abbia perduta per le cause già enunciate dall'articolo 143-ter. A tal riguardo, in giurisprudenza è stata fortemente dibattuta l'importante questione relativa alla possibilità di qualificare come cittadino italiano iure sanguinis il figlio di madre cittadina che, in forza della suddetta norma dichiarata incostituzionale dalla sentenza 87/1975, abbia perso la cittadinanza per effetto di un matrimonio contratto con un cittadino straniero prima dell'entrata in vigore della Carta Costituzionale. Analogamente al caso precedente, la questione, che dunque consiste nell'accertare lo status civitatis della madre alla data del 1 gennaio 1948, diede luogo ad un contrasto interpretativo. Inizialmente, con la sentenza 903/1978 la Cassazione affermò che la pronuncia di incostituzionalità, non potendo produrre effetti giuridici che retroagissero oltre la data del 1 gennaio 1948, non aveva impedito la perdita della cittadinanza italiana da parte della donna che avesse contratto matrimonio con un cittadino straniero prima di tale data, ma aveva prodotto il risultato di attribuire alla donna il diritto di riacquistare la cittadinanza italiana perduta. Successivamente, la Suprema Corte ha modificato la propria posizione stabilendo che, per consiste nel provvedimento di adozione poiché quest'ultimo, determinando il sorgere del rapporto di filiazione, comporta anche l'acquisto della cittadinanza italiana. Dunque, secondo la suddetta interpretazione, la trascrizione negli atti di stato civile del decreto di adozione, non costituendo condizione costitutiva dell'acquisto della cittadinanza italiana, assicura soltanto l'efficacia ex tunc del provvedimento divenuto definitivo e dà pubblicità e certezza all'atto fondamentale, costitutivo del diritto di cittadinanza del minore straniero adottato. Se invece, come sembrerebbe suggerire il tenore letterale della norma, l'acquisto della cittadinanza italiana avesse efficacia ex nunc, a decorrere dal giorno successivo a quello in cui si è verificata la trascrizione del provvedimento di adozione, allora ci troveremmo di fronte a due diversi status giuridici trascritti sugli atti di stato civile del minore: di affidamento familiare fino al momento della pronuncia dell'ordine di trascrizione emanata dal Tribunale dei minori e solo successivamente di adozione con la conseguente acquisizione della cittadinanza italiana. La medesima norma disciplina la perdita della cittadinanza italiana, disciplinando due diverse fattispecie il cui presupposto comune è costituito dalla revoca dell'adozione. In primo luogo, la perdita della cittadinanza è automatica se la revoca è dovuta ad un fatto dell'adottato, purché quest'ultimo sia titolare di un'altra cittadinanza o la riacquisti. In tutti gli altri casi di revoca dell'adozione, poiché come regola generale l'interessato conserva la cittadinanza italiana, la perdita di quest'ultima dipende dalla rinuncia dell'adottato maggiorenne. Infatti, ai sensi dell'articolo 3, comma 4, la rinuncia allo status civitatis italiano da parte del figlio adottato che sia titolare di un'altra cittadinanza o la riacquisti è possibile soltanto se la rinuncia sia manifestata entro un anno dalla revoca dell'adozione per causa diversa dal fatto dell'adottato. 4. L'acquisto della cittadinanza su domanda dell'interessato: 1. L'acquisto per beneficio di legge L'articolo 4, disciplinando il cosiddetto acquisto della cittadinanza italiana per beneficio di legge, prevede due diverse ipotesi di acquisto dello status civitatis, la prima fondata sulla filiazione, la seconda basata sulla nascita nel territorio italiano. Entrambe le disposizioni contemplano modi di acquisto della cittadinanza italiana da parte di soggetti che abbiano instaurato con l'Italia rapporti che, da un lato, hanno indebolito il legame con la loro patria di origine e, dall'altro, hanno rafforzato la relazione con il nostro paese. Il comma 1 contempla l'acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero o dell'apolide “di stirpe italiana”, ossia discendente da cittadini italiani per nascita, qualora ricorra uno dei tre requisiti alternativamente 5 richiesti e sia rilasciata dall'interessato una dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza italiana, resa secondo le modalità indicate dall'articolo 23. Mentre il primo requisito, indicato dalla lettera a, riguarda i soggetti che prestino servizio militare per lo Stato italiano, la lettera b contempla i pubblici impiegati alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, dettando una disposizione che deve essere necessariamente coordinata con il generale divieto di accesso dei soli cittadini extracomunitari all'impiego pubblico: infatti, tale divieto non riguarda più i cittadini dell'Unione, visto che in ambito comunitario, ai sensi del d.p.r. numero 487/1994, la cittadinanza non costituisce più un requisito di ammissione ai concorsi per posti di pubblico impiego. Per quanto attiene il secondo requisito indicato dall'articolo 4, appare decisiva l'interpretazione della norma contenuta nell'articolo 1, lettera c, del regolamento di esecuzione (il d.p.r. numero 572/1993), secondo il quale “salvi i casi in cui la legge richiede specificatamente l'esistenza di un rapporto di pubblico impiego, si considera che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato chi sia stato parte di un rapporto di lavoro dipendente con retribuzione a carico del bilancio dello Stato”. Infine, la lettera c fa riferimento allo straniero o all'apolide maggiorenne discendente di cittadino italiano che, al compimento dei diciotto anni di età, risieda legalmente in Italia da almeno due anni, purché dichiari di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dal raggiungimento della maggiore età. Ai fini dell'acquisto della cittadinanza italiana, si considera legalmente residente sul territorio italiano chi vi risieda avendo rispettato le condizioni e gli adempimenti previsti dalle leggi in materia d'iscrizione anagrafica e dalle norme in materia d'ingresso e di soggiorno degli stranieri in Italia (articolo 1, lettera a, del regolamento di esecuzione, il d.p.r. numero 572/1993). Il comma 2 dell'articolo 4 disciplina il diverso caso di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge, fondato sulla nascita in Italia dello straniero che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al compimento dei diciotto anni e abbia rilasciato una dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza italiana, resa secondo le modialità indicate dall'articolo 23 nel termine di un anno dal raggiungimento della maggiore età. Infine, è opportuno sottolineare la distinzione intercorrente fra il caso in esame, che consiste nell'acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero nato e residente in Italia fino alla maggiore età, e le due fattispecie disciplinate dall'articolo 1 della legge 91/1992: l'acquisto della cittadinanza italiana per nascita iure soli da parte del figlio di genitori entrambi apolidi o stranieri e da parte del figlio che non segue la cittadinanza dei genitori. Infatti, sebbene entrambi i casi abbiano come presupposto comune la nascita nel territorio dello Stato italiano, la prima fattispecie riguarda uno straniero che acquista successivamente lo status civitatis mentre le altre due ipotesi contemplano un soggetto che è cittadino italiano fin dalla sua nascita. 5. Segue: 2) L'acquisto per iuris communicatio. Matrimonio e cittadinanza italiana Fra i modi di acquisto della cittadinanza italiana su domanda dell'interessato, gli articoli 5-8 della legge 91/1992 disciplinano l'acquisto dello status civitatis per effetto del matrimonio con cittadino italiano, in applicazione del principio cosiddetto iuris communicatio della cittadinanza da parte di un coniuge in favore dell'altro. Gli articoli 10-11 della legge 555/1912 distinguevano nettamente la disciplina relativa all'acquisto della cittadinanza italiana per iuris communicatio a seconda del sesso: infatti, mentre la moglie straniera o apolide di un cittadino italiano acquistava automaticamente iuris communicatione lo status civitatis del marito, indipendentemente da ogni considerazione circa la relativa volontà, il marito straniero o apolide di una cittadina italiana poteva ottenere la cittadinanza soltanto attraverso la naturalizzazione ordinaria, ossia con decreto del Capo dello Stato, avente natura discrezionale. Le suddette disposizioni normative sono state ritenute contrastanti sia con il principio costituzionale di uguaglianza sia con il principio di volontarietà sancito dalla successiva legge 123/1983, laddove esse determinano un automatismo nel mutamento dello status prescindendo da ogni considerazione dell'atteggiamento della volontà. Quest'ultima disposizione legislativa ha attuato la modifica del previgente principio della iuris communicatio nella trasmissione della cittadinanza italiana da parte di un coniuge ad un altro coniuge abolendo la discriminazione sessuale e stabilendo un nuovo ed uniforme regime di naturalizzazione agevolata, fondato sulla volontarietà dell'acquisto della cittadinanza. Infatti, lo status civitatis può essere acquistato dal coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano che ne faccia domanda o non si opponga alla richiesta effettuata dal coniuge, qualora siano trascorsi tre anni dal matrimonio o sei mesi di residenza in Italia dopo il matrimonio ed a condizione che non vi sia stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che non sussista separazione legale (articolo 1). Se la legge 123/1983 è stata successivamente abrogata dalla novella 91/1992, l'articolo 5 di quest'ultima legge, che aveva mantenuto fermi i requisiti dell'acquisto, è stato così modificato dall'articolo 1, comma 11, della legge numero 94/2009: “1. Il coniuge straniero o apolide di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all'estero, qualora, al momento dell'adozione del decreto di cui all'articolo 7, comma 1, non sia intervenuto lo scioglimento, l'annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. 2. I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai 7 L'articolo 9 della legge 91/1992 disciplina l'acquisto della cittadinanza mediante la cosiddetta naturalizzazione, il cui fondamento consiste nella residenza legale prolungata sul territorio dello Stato italiano. La regola generale, prevista dalla lettera f del suddetto articolo, prevede che la cittadinanza italiana possa essere concessa allo straniero che risieda legalmente sul territorio della Repubblica da almeno dieci anni: la residenza legale deve essere intesa come coincidente con il periodo di soggiorno in Italia assistito da regolare permesso. Per quanto attiene i termini abbreviati, ossia le numerose eccezioni alla regola della residenza decennale, sono richiesti tre anni di residenza legale per gli stranieri nati sul territorio della Repubblica e per i discendenti di ex cittadini italiani per nascita fino al secondo grado (lettera a). Poiché sono necessari quattro anni di residenza legale per i cittadini comunitari (lettera d), la diversità di trattamento rispetto agli stranieri extracomunitari, per i quali vige la regola della residenza decennale, ha dato luogo a problemi di legittimità costituzionale: il Tribunale adito ha dichiarato la questione manifestatamente infondata specificando che “il principio di uguaglianza può ritenersi violato soltanto nel caso in cui a identiche situazioni sostanziali sia riservato un trattamento differenziato”. Invece, il diverso termine di cinque anni è richiesto per gli apolidi (lettera e) e per gli stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani (lettera b). Per quanto riguarda quest'ultimo caso, mentre per gli stranieri maggiorenni l'acquisto della cittadinanza italiana, avvenendo per naturalizzazione, è subordinato a determinate condizioni, fra le quali innanzitutto la residenza legale in Italia per almeno cinque anni successivamente all'adozione, ed è concesso con provvedimento discrezionale da parte dell'autorità competente, nel caso in cui sia adottato un minore straniero, egli acquista automaticamente la cittadinanza. Anche in questa fattispecie, la diversità di trattamento ha comportato che fosse sollevata una questione di legittimità costituzionale, dichiarata manifestatamente inammissibile dal Tribunale di Savona. Un ulteriore caso di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione è previsto dall'articolo 21 della legge 91/1992, secondo il quale, “ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 9, lo status civitatis può essere concesso allo straniero che sia stato affiliato da un cittadino italiano prima dell'entrata in vigore della legge 184/1983 e che risieda legalmente sul territorio della Repubblica da almeno sette anni dopo l'affiliazione”. Infine, l'articolo 9 prevede due ipotesi di acquisto della cittadinanza italiana per naturalizzazione non fondate sulla residenza legale nel territorio italiano: secondo la lettera c non è richiesto alcun termine di tempo per lo straniero che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato per un periodo di almeno cinque anni. Ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, la cittadinanza può essere rilasciata anche allo straniero che abbia reso eminenti servizi all'Italia, o qualora sussista un eccezionale interesse dello Stato. In quest'ultimo caso, lo status civitatis è concesso con decreto presidenziale, su parere del Consiglio dello Stato, ma è anche necessaria una previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, ed occorre che la proposta del Ministro dell'interno sia espressa di concerto con il Ministro degli affari esteri. 6.1. Il procedimento di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione Qualora ricorra una delle ipotesi contemplate dall'articolo 9, comma 1, della legge numero 91/1992, la cittadinanza “può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno”. Se da un lato la giurisprudenza sottolinea la natura discrezionale del provvedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione, dall'altro, essa precisa la necessità di considerare ulteriori elementi di giudizio, come soprattutto la percezione di un reddito sufficiente da parte dell'istante e l'assenza di precedenti penali. In caso di istanza, la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per l'acquisto dello status civitatis non obbliga l'amministrazione ad emanare il provvedimento di concessione, ma ai sensi dell'articolo 9 la cittadinanza italiana è concessa sulla base di valutazioni discrezionali sull'integrazione dello straniero in Italia, così riuscita da poterne affermare l'appartenenza alla comunità nazionale. L'articolo 9-bis della legge 91/1992, introdotto dall'articolo 1, comma 12, l. n. 94/2009, prevede, al primo comma, che “ai fini dell'elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza debba essere allegata all'istanza o dichiarazione dell'interessato la certificazione comprovante il possesso dei requisiti richiesti per legge”. Il secondo comma, invece, dispone che le istanze o le dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza siano soggette al pagamento di un contributo (di importo pari a 200 euro) la cui destinazione è disciplinata dal comma 3 della medesima disposizione normativa. Se la concessione avviene mediante decreto del Presidente della Repubblica, il Ministro degli Interni, essendo competente nel pronunciare il diniego di cittadinanza italiana, può respingere con proprio provvedimento motivato l'istanza prodotta ai sensi dell'articolo 9, anche se l'istanza in esame può essere riproposta dopo un anno dall'emissione del provvedimento. Inoltre, il decreto di concessione della cittadinanza non ha efficacia se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica dello stesso decreto, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato. L'obbligo di giuramento, previsto dall'articolo 10 della legge 91/1992, costituisce una formalità che, secondo l'Adunanza Generale del Consiglio di Stato, “può essere richiesta anche nella fattispecie di riconoscimento dell'acquisto della cittadinanza italiana mediante iuris communicatio da parte di uno straniero o di un apolide”. Secondo l'articolo 23, la notifica del decreto 11 di conferimento dello status civitatis deve essere effettuata dall'autorità competente entro novanta giorni dalla ricezione dello stesso decreto. Entro sei mesi dalla notifica del decreto di cui agli articoli 7 e 9 all'intestatario, il giuramento deve essere prestato, in Italia, dinanzi all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza e, all'estero, dinanzi all'autorità diplomatica o consolare italiana competente per la località straniera di residenza. L'ufficiale di stato civile in questione provvede alla trascrizione e all'annotazione del decreto negli atti dello stato civile e ne dà immediata notizia al Ministero dell'Interno. Infine, trascorsi sei mesi dalla data della notifica del decreto, l'interessato non può prestare giuramento se non dimostri al Ministero la permanenza dei requisiti in base al quale gli fu concessa la cittadinanza. 7. La doppia cittadinanza La condizione di bipolidia ricorre frequentemente e può essere determinata da molteplici cause: innanzitutto, la doppia cittadinanza è causata da ragioni di sangue se il figlio di un cittadino italiano e di uno straniero acquista la cittadinanza iure sanguinis. In secondo luogo, in virtù della contemporanea operatività del combinato disposto della normativa italiana e delle disposizioni vigenti in materia di cittadinanza di numerosi Paesi esteri attributivi iure soli dello status civitatis, la prole nata sul territorio dello Stato di emigrazione da padre cittadino italiano acquista dalla nascita sia la cittadinanza italiana sia quella dello Stato di nascita. Allo stesso modo, sono titolari della doppia cittadinanza i soggetti riconosciuti da padre cittadino o la cui paternità sia dichiarata giudizialmente se sono nati in uno Stato estero che attribuisca la cittadinanza iure soli. La disciplina giuridica dello status di doppia cittadinanza ha subito una profonda evoluzione, sia all'interno dei singoli ordinamenti, sia in prospettiva sovranazionale: se nel nostro ordinamento la previgente normativa in materia imponeva al soggetto che fosse titolare della doppia cittadinanza di optare per una sola cittadinanza entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, un radicale cambiamento di prospettiva è apportato dalla normativa sulla cittadinanza del 1992, che, nell'articolo 11, considera l'apolidia come regola generale, affiancandole la facoltà di rinunciare alla cittadinanza italiana. Allo stesso modo, nell'ambito europeo, si è passati dal divieto per principio della bipolidia, sancito dalla Convenzione sulla riduzione dei casi di cittadinanza plurima e sugli obblighi militari in caso di pluralità di cittadinanze del 6 Maggio 1963, all'istituzione della cittadinanza europea da parte del Trattato di Maastricht, secondo il quale essa si aggiunge alle cittadinanze dei paesi dell'Unione Europea senza sostituirle. Infine, il 6 Novembre 1997 è stata emanata la Convenzione Europea sulla Nazionalità che prevede espressamente casi di nazionalità multipla ex lege: in caso di 8.1. Perdita della cittadinanza ed esclusione degli obblighi militari. La giurisprudenza della Corte Costituzionale L'articolo 22 della legge 91/1992 esclude espressamente gli obblighi militari per coloro che abbiano perduto la cittadinanza italiana per effetto della normativa previgente. Con la sentenza 131/2001, che costituisce il culmine del complesso percorso interpretativo intrapreso dalla Consulta, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate (gli articoli 1, comma 1, lettera b. del d.p.r. numero 237/1964 e 8, ultimo comma della legge numero 555/1912) per la parte in cui prevedevano la persistenza degli obblighi militari per chi avesse perduto la cittadinanza nel periodo anteriore all'entrata in vigore della suddetta legge, fondandosi esclusivamente sul principio di conformazione alle norme di diritto internazionale, che vietano di imporre il servizio militare a quanti abbiano ormai perduto la cittadinanza, senza basarsi sulla finalità di evitare una doppia imposizione del servizio militare. Dunque, se alla stregua della legislazione vigente, la perdita della cittadinanza significa eliminazione dell'obbligo militare, l'articolo 22, ritenuto norma intertemporale per accordare il precedente regime al nuovo, dispone la cessazione di ogni obbligo militare per coloro che avessero già perduto la cittadinanza alla data di entrata in vigore della stessa legge, sebbene la richiamata disposizione, avendo un'efficacia esclusivamente pro futuro, non elimini retroattivamente la soggezione all'obbligo militare per il periodo anteriore all' entrata in vigore della nuova legge (15 agosto 1992). 9. Il riacquisto della cittadinanza. Il riacquisto da parte della donna coniugata con cittadino straniero. Il decreto di inibizione al riacquisto L'articolo 13 disciplina l'istituto del riacquisto della cittadinanza italiana a favore di chi l'abbia dismessa ed indipendentemente dalle cause della perdita. In primo luogo, il riacquisto dello status civitatis è automatico dopo il decorso di un anno dalla data in cui chi ha perduto la cittadinanza ha stabilito la residenza nel territorio della Repubblica, salvo espressa rinunzia nello stesso termine. A tal riguardo, il concetto di residenza rimane quello espresso dall'articolo 43 del codice civile, costituito da un elemento oggettivo, dato dalla dimora abituale sul territorio della Repubblica, e da un elemento soggettivo, rappresentato dall'intenzione di eleggere una località italiana quale sede dei propri affari e interessi. Tuttavia, chi ha perduto la cittadinanza la riacquista mediante dichiarazione espressa nei casi indicati dalle lettere a, b, c, d ed e dell'articolo 13: mentre la lettera a contempla il riacquisto nel 15 caso di prestazione di servizio militare effettivo nelle Forza armate italiane, la lettera b concerne coloro che assumono o hanno assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero. Invece la lettera d prevede il riacquisto su domanda da parte di chi ha stabilito o stabilisce, entro un anno dalla dichiarazione di voler riacquistare lo status civitatis, la residenza nel territorio della Repubblica. In tal caso, la dichiarazione può essere resa anche all'estero, ma acquista efficacia soltanto allorquando si sia realizzata l'ulteriore condizione della residenza in Italia: se l'interessato non si trasferisce in Italia entro il termine di un anno dalla data della dichiarazione, essa diviene inefficace. In Italia, l'ex cittadino residente è tenuto a manifestare la predetta volontà dinanzi all'Ufficiale di Stato civile del comune dove mantenga la propria dimora o dove intenda fissarla, mentre se risiede ancora all'estero, egli è tenuto a rilasciare tale dichiarazione esclusivamente dinanzi all'Autorità consolare italiana. Infine, l'articolo 13 disciplina un ultimo caso di riacquisto su domanda dell'interessato che, connesso all'articolo 12, riguarda quei soggetti che abbiano perduto la cittadinanza per non aver ottemperato al divieto governativo di assumere impiego o cariche o di prestare servizio militare presso uno Stato estero (lettera e). A tal riguardo, oltre alla dichiarazione dell'interessato, in questo caso sono necessarie anche le ulteriori condizioni della residenza per almeno due anni nel territorio della Repubblica e della prova dell'abbandono dell'impiego o della carica o del servizio militare. Inoltre, rientra nell'ipotesi di riacquisto automatico disciplinato dalla lettera d dell'articolo 13, il caso della donna che abbia perduto la cittadinanza italiana prima dell'entrata in vigore della legge 91/1992 per effetto di un matrimonio contratto con un cittadino straniero. L'interessata riacquista ipso iure la cittadinanza italiana per il solo fatto di risiedere per un anno in Italia, almeno che nello stesso termine non rinunci espressamente al riacquisto dello status civitatis. A tal riguardo, in caso di dichiarazione tardiva e, dunque, improduttiva di effetti giuridici, non è possibile invocare l'ignoranza della legge italiana o prospettare una questione di legittimità costituzionale della previsione. Dunque, la Corte Suprema ha colto l'occasione per affermare l'esatta interpretazione della norma in esame, con riguardo al riacquisto della cittadinanza perduta per effetto di matrimonio con cittadino straniero: infatti, secondo la sentenza numero 12411/2000, dall'attuale disciplina sulla cittadinanza italiana, che ha sostituito la previgente previsione dell'articolo 219, l. n. 151/1975, deriva innanzitutto la previsione secondo la quale il soggetto interessato a non riacquistare la cittadinanza ha l'onere di rinunciare espressamente all'acquisizione dello status civitatis, anche se, ai sensi degli articoli 2964 e 2966 del codice civile, il relativo termine per l'adempimento di detto onere deve essere rigorosamente inteso come termine di decadenza. Infine, nei casi indicati dal comma 1 dell'articolo 13, lettere c d ed e, la cittadinanza non può essere riacquistata se il decreto del Ministero dell'interno viene inibito per gravi e comprovati motivi e su parere conforme del Consiglio di Stato. Tale inibizione può intervenire entro il termine di un anno dal verificarsi delle condizioni stabilite. A norma dell'articolo 11 del regolamento di esecuzione, il decreto di inibizione che impedisce il verificarsi del riacquisto della cittadinanza, nonostante l'esistenza delle condizioni stabilite dal comma 1, lettere c) d) ed e), dell'articolo 13 della legge, viene trasmesso al competente ufficiale dello stato civile per la trascrizione e l'annotazione a margine dell'atto di nascita. Ai fini dell'applicazione dell'articolo 13, comma 3, il sindaco è tenuto a dare comunicazione al prefetto della provincia, nel cui territorio è compreso il comune, delle generalità degli ex connazionali iscritti nell'anagrafe della popolazione residente, entro trenta giorni dalla loro iscrizione. 9.1. Il riacquisto della cittadinanza da parte dei figli conviventi L'articolo 14, l. n. 91/1992 prevede un'ipotesi di acquisto automatico della cittadinanza italiana sulla base delle disposizioni fin qui esaminate. Ai fini dell'applicazione dell'articolo 14 è necessario che l'acquisto della cittadinanza, da parte dei figli minori di chi acquista o riacquista la cittadinanza italiana, si verifica se essi convivono con il genitore alla data in cui quest'ultimo acquista o riacquista lo status civitatis. Tuttavia, la convivenza deve essere effettiva, stabile e opportunamente dimostrata con idonea documentazione. Secondo il Consiglio di Stato, i figli divenuti maggiorenni, essendo titolari del cosiddetto diritto di autodeterminazione, spettante a chi ha raggiunto la maggiore età, possono rinunciare alla cittadinanza italiana acquistata dai genitori se sono in possesso di un'altra cittadinanza. Invece, nel caso in cui i genitori riacquistino lo status civitatis, l'acquisto della cittadinanza non si produce automaticamente per i figli maggiorenni, ma, a tal fine, è necessaria la presentazione della documentata istanza. 9.2. Il riacquisto della cittadinanza perduta in attuazione della normativa previgente. La previgente disciplina della doppia cittadinanza L'articolo 17, l. 91/1992 prevede un'ipotesi di riacquisto della cittadinanza italiana su domanda dell'interessato, che si aggiunge agli altri casi disciplinati dall'articolo 13: “chi ha perduto la cittadinanza in applicazione degli articoli 8 e 12 della legge numero 555/1912, o per non aver reso l'opzione prevista dall'art. 5 della legge numero 17 annotazione a margine dell'atto di nascita. Inoltre, il regolamento di esecuzione prevede un'ulteriore fase di accertamento: a norma dell'articolo 16, l'ufficiale dello stato civile che ha iscritto la dichiarazione di acquisto, perdita, riacquisto o mancato acquisto della cittadinanza, trasmette una copia con la relativa documentazione all'autorità competente affinché sia accertata la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il prodursi degli effetti anzidetti. L'autorità competente è il sindaco del comune in cui è stata scritta la dichiarazione, l'autorità diplomatica o consolare che ha ricevuto la dichiarazione e la relativa documentazione o il Ministero dell'interno, a cui l'autorità consolare o diplomatica oppure l'ufficiale dello stato civile abbiano inviato una copia della dichiarazione. L'esito dell'accertamento, che va compiuto entro 120 giorni dalla ricezione degli atti, deve essere comunicato senza indugio all'ufficiale di stato civile. 11. Apolidi e rifugiati. Lo status di apolidia L'apolidia consiste nella condizione giuridica in cui si trova l'individuo privo di qualsiasi cittadinanza: apolide è colui che nessuno Stato, in base al proprio ordinamento, riconosce come proprio cittadino. In relazione alle cause che determinano tale status, si distingue fra apolidia originaria e apolidia successiva o derivata: mentre l'apolidia originaria riguarda soggetti nati già privi di qualsiasi cittadinanza, l'apolidia successiva o derivata si riferisce a soggetti che, successivamente alla loro nascita, perdono la loro cittadinanza per volontà dello Stato o del singolo individuo, ma non ne acquistano un'altra. In ordine alla natura del procedimento volto ad ottenere la dichiarazione di apolidia ed ai rapporti fra procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale, la giurisprudenza ha sottolineato come la persona, che non abbia la cittadinanza né dello Stato d'origine, né degli Stati nei quali ha avuto o ha la residenza o il domicilio, sia titolare del diritto soggettivo ad ottenere la dichiarazione di apolidia, con la conseguenza che gli accertamenti relativi allo status sono rimessi all'autorità giudiziaria ordinaria, la quale provvede con il rito camerale. Una conferma del diritto ad adire direttamente la tutela giurisdizionale deriva da numerose decisioni di merito, secondo le quali il soggetto interessato alla dichiarazione di apolidia, non avendo l'onere di rivolgersi preventivamente all'autorità amministrativa per la certificazione, può adire direttamente il Tribunale competente per le questioni di stato delle persone fisiche, fra le quali rientrano le questioni sula cittadinanza o sull'assenza di ogni cittadinanza. Tuttavia, secondo le opinioni contrarie, il soggetto interessato è tenuto a rivolgersi preventivamente al Ministero dell'Interno per la certificazione amministrativa prevista dall'articolo 17, del d.p.r. numero 572/1993 e, in caso di rigetto dell'istanza o di silenzio sulla stessa, può adire il TAR competente, considerato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario. Sulla controversa questione appena richiamata, la dottrina più attenta ammette il cosiddetto “doppio binario” amministrativo e giurisdizionale, fondando il proprio orientamento sia sull'interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma sia sull'esigenza di salvaguardare la posizione di diritto soggettivo connessa al riconoscimento dello status di apolide della persona. Il citato articolo 17 del regolamento di esecuzione precisa che il Ministero dell'Interno può certificare la condizione di apolidia, su istanza dell'interessato corredata della seguente documentazione: a) atto di nascita; b) documentazione relativa alla residenza in Italia; c) ogni documento idoneo a dimostrare lo stato di apolide. E' facoltà del Ministero richiedere, a seconda dei casi, altri documenti. La prova della condizione di apolide presenta difficoltà pratiche non indifferenti: teoricamente l'interessato deve dimostrare che nessuno Stato lo considera suo cittadino, sebbene ciò comporterebbe una prova diabolica, che verrebbe ad investire l'ordinamento giuridico di tutti gli Stati. Perciò, la giurisprudenza ha ritenuto sufficiente una prova indiziaria: per l'apolidia originaria è sufficiente che il richiedente dimostri di non essere cittadino dello Stato in cui è nato, né di quello a cui appartenevano i suoi genitori, né di quello dove risiede attualmente; in sotanza, egli è tenuto a fornire la prova di non essere cittadino di alcuno di quei paesi della cui società è effettivamente partecipe. Invece, per l'apolidia successiva è sufficiente dimostrare la stabile presenza nel territorio dello Stato cui ci si rivolge e la perdita della cittadinanza originaria per un fatto diverso da quello dell'acquisto di un nuovo status civitatis. Se i documenti rilasciati dalle autorità statali possono essere impiegati per individuare i mezzi di prova dello status di apolide, i documenti provenienti da qualsiasi PA possono essere esibiti per provare lo stabile rapporto con l'ordinamento italiano, presso il quale si chiede il riconoscimento dello status di apolide. Infine, ai sensi dell'articolo 16 della legge 91/1992, l'apolide che risiede legalmente sul territorio della Repubblica è soggetto alla legge italiana per quanto attiene l'esercizio dei diritti civili e gli obblighi del servizio militare: perciò tali soggetti, indipendentemente dall'acquisto della cittadinanza, sono sottoposti alla legge italiana al pari dei cittadini, se risiedono legalmente sul territorio della Repubblica. 11.1. La questione degli obblighi militari degli apolidi La sottomissione degli apolidi agli obblighi del servizio militare ha suscitato particolare interesse: infatti, è stata ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1, lettera c), del d.p.r. numero 237/1964 e dell'articolo 16, comma 1, della legge 91/1992, nella parte in cui prevedono l'assoggettamento alla leva militare degli apolidi residenti sul territorio della Repubblica, in 21 riferimento agli articoli 10 e 52 della Costituzione. Mentre l'articolo 52 impone ai “cittadini” il dovere di difesa della patria e il connesso obbligo del servizio militare, l'articolo 10, proclamando la conformità dell'ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, impone l'osservanza della norma che esenterebbe dagli obblighi militari coloro che non siano legati allo Stato dal rapporto di cittadinanza. Dunque, sebbene la Consulta riconosca che, nei primi due commi, l'articolo 52 faccia espresso riferimento ai cittadini italiani, essa ritiene che la portata normativa della disposizione sia palesemente quella di stabilire in positivo i limiti soggettivi del dovere costituzionale, non di circoscriverli in negativo. Perciò la Corte, ritenendo che il silenzio della norma costituzionale non comporti divieto, afferma l'esistenza di uno spazio vuoto di diritto costituzionale nel quale il legislatore può far uso del proprio potere discrezionale nell'apprezzare ragioni che inducano ad estendere la cerchia dei soggetti chiamati alla prestazione del servizio militare. Per quanto riguarda, invece, il contrasto con l'articolo 10 della Costituzione, la Consulta ritiene che il dubbio non abbia ragion d'essere: se fra i non-cittadini sono effettivamente compresi sia gli stranieri che gli apolidi, soltanto per i primi può affermarsi l'esistenza della norma internazionale anzidetta, nascente dall'esigenza di impedire il sorgere di situazioni di conflitto potenziale fra opposte lealtà. Per coloro che si trovano, invece, in condizione di apolidia, un simile conflitto non è ipotizzabile per definizione. Nel risolvere la questione di legittimità costituzionale, la Consulta, nella sentenza numero 172/1999, coglie l'occasione per soffermarsi sulla condizione giuridica dell'apolide: per apprezzare la non irragionevolezza della scelta del legislatore di estendere l'obbligo militare agli apolidi residenti in Italia, deve rilevarsi la circostanza secondo la quale essi godono di un'ampia tutela alla stessa stregua dei cittadini italiani. Infatti, la legislazione che culmina nell'affermazione di principio della piena parità di trattamento e della piena uguaglianza di diritti fra apolidi e cittadini italiani, induce a ritenere gli stessi apolidi parti di una comunità di diritti, la partecipazione alla quale può giustificare la sottoposizione a doveri funzionali alla sua difesa. Questa comunità di diritti e doveri accoglie e accomuna tutti coloro che ricevono diritti e restituiscono doveri, là dove, trattando di diritti inviolabili dell'uomo e richiedendo l'adempimento dei corrispettivi doveri, prescinde del tutto dal legame stretto di cittadinanza. Realizzandosi queste condizioni, non appare privo di ragionevolezza chiedere agli apolidi l'adempimento del dovere di prestazione del servizio militare, come previsto dalle disposizioni legislative sottoposte al presente giudizio di costituzionalità. 12. Lo status di rifugiato nella normativa sulla cittadinanza principi altrettanto generali dell'ordinamento giuridico italiano. Così la reciprocità non opera rispetto a norme che, ledendo l'ordine pubblico interno o internazionale, non possono trovare applicazione in Italia. Infine, anche i trattati bilaterali fra Stati costituiscono una fonte del diritto speciale che deroga e prevale sulla disciplina generale costituita dalla condizione di reciprocità. 2.1. Segue: b) Il riconoscimento incondizionato dei diritti fondamentali della persona In seguito all'emanazione di norme internazionali e di norme interne dal rango costituzionale, la condizione di reciprocità si ritiene inoperante in relazione ai diritti inviolabili dell'uomo, che vengono attribuiti a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Tale attribuzione non deriva soltanto dal tenore letterale di alcune norme costituzionali, che riconoscono a tutti determinati diritti, ma trova una base testuale nell'articolo 10 della Costituzione, il quale, nel disciplinare la condizione giuridica dello straniero, rinvia ai parametri di tutela minima della persona umana sanciti dalle norme e dai trattati internazionali e adottati dalla comunità internazionale. Lo stesso articolo 2 del T.U. 296/1998, ispirandosi ai principi costituzionali, stabilisce che “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio della Repubblica siano riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali vigenti e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”. Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ribadisce la mancata applicazione della condizione di operatività in questo ambito: l'articolo 16 delle preleggi sulla condizione di reciprocità è applicabile solo in riferimento ai diritti non fondamentali della persona, dal momento che i diritti fondamentali, come i diritti alla vita, all'incolumità e alla salute, essendo sanciti dalla Costituzione, non possono essere limitati da tale disposizione normativa, con la conseguenza che la relativa tutela deve essere garantita a tutte le persone, senza alcuna disparità di trattamento e indipendentemente dalla loro cittadinanza. 3. I diritti civili dello straniero immigrato regolare Un'ulteriore forte limitazione all'ambito di applicazione della condizione di reciprocità è prevista dalle nuove disposizioni normative sulla condizione giuridica dello straniero. Infatti, secondo l'articolo 2, comma 2, T.U. n. 296/1998 lo straniero che soggiorni regolarmente sul territorio dello Stato gode dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano, salvo che dispongano diversamente la presente legge e le convenzioni internazionali vigenti per l'Italia. Il regolamento di attuazione del 1999, muovendosi nel solco tracciato dalla suddetta norma, sospende l'operatività dell'articolo 16 delle preleggi, in quanto dispone che per le 25 persone fisiche straniere è richiesto l'accertamento della condizione di reciprocità al Ministero degli affari esteri, nei soli casi previsti dal T.U. e in quelli per i quali le convenzioni internazionali prevedono la stessa condizione di reciprocità. Tuttavia, tale accertamento non è previsto per i cittadini stranieri che siano titolari della carta di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l'esercizio di un'impresa individuale e per i relativi familiari in regola con il permesso di soggiorno. Perciò, dal quadro normativo ed interpretativo descritto, si evince che tutti, cittadini italiani e comunitari, stranieri regolari e irregolari, godono incondizionatamente dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana; i cittadini comunitari e gli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio dello Stato sono titolari degli altri diritti civili riconosciuti ai cittadini italiani in condizione di parità. Dunque, la condizione di reciprocità continua ad operare soltanto per gli stranieri che non soggiornino in Italia o che vi soggiornino irregolarmente, essendo privi della carta o del permesso di soggiorno, che non sia stato richiesto o non sia stato loro concesso. 4. Condizione di reciprocità e processo In giurisprudenza si discute, dal punto di vista processuale, su alcune questioni particolari. In primo luogo, poiché la Corte di Cassazione ha precisato che la condizione di reciprocità non incide sulla giurisdizione ma influisce soltanto sul merito della pretesa avanzata dal cittadino straniero, quest'ultimo può adire il giudice senza che sia necessario il controllo relativo alla condizione di reciprocità, in quanto lo straniero, essendo titolare del potere di agire in giudizio riconosciuto dall'articolo 24 della Costituzione, può sempre convenire il cittadino italiano davanti al giudice nazionale: infatti, lo straniero gode e beneficia del diritto di azione anche nell'eventualità in cui il cittadino italiano non possa proporre le medesime domande giudiziali davanti al giudice dello stato di appartenenza dello straniero. In secondo luogo, per giurisprudenza unanime, la sussistenza della condizione di reciprocità rappresenta un fatto costitutivo della domanda e deve essere provata dalla parte sottraendosi al principio iura novit curia: la prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo, anche con attestazione ufficiale, la cosiddetta affidavit, di organo di uno Stato estero e senza che sia necessaria l'acquisizione del testo della norma straniera. Per quanto riguarda la conoscenza della legge straniera da parte del giudice, egli può avvalersi, non soltanto degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali e delle informazioni acquisite tramite il Ministero della Giustizia, ma può servirsi anche di quelle assunte mediante esperti o istituzioni specializzate, potendo ricorrere a qualsiasi mezzo, anche informale. Infine, dal punto di vista processuale, l'insussistenza della condizione di reciprocità non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità, ma, essendo un fatto costituivo della domanda, deve essere contestata nel giudizio di merito. 5. La condizione di reciprocità nella giurisprudenza. Il caso delle persone giuridiche straniere La sussistenza della condizione di reciprocità è verificata in giurisprudenza con riferimento ad alcuni specifici diritti. In tema di responsabilità civile, essa deve essere dimostrata per l'esercizio dell'azione diretta da parte di un ente assicuratore straniero nei confronti di un'impresa assicuratrice italiana, così come per l'esercizio dell'azione di surroga da parte di un ente straniero gestore di assicurazione sociale nei confronti sia del responsabile civile sia dell'assicuratore dello stesso responsabile al fine della restituzione delle somme erogate a vantaggio di un cittadino italiano. Allo stesso modo è soggetto alla condizione di reciprocità il diritto di uno straniero al risarcimento dei danni subiti per la morte di un congiunto. Inoltre, mentre in materia di diritto d'autore la normativa italiana trova applicazione soltanto in favore di straniero il cui ordinamento giuridico offra analoga tutela, in materia contrattuale, il contratto preliminare d'acquisto di un immobile stipulato da cittadini iraniani è stato dichiarato nullo perché non sussiste la condizione di reciprocità. Per quanto riguarda i contratti di società, sia la partecipazione di stranieri in società di nazionalità italiana sia la costituzione di società in Italia da parte di stranieri sono ammissibili solo se sussiste la condizione di reciprocità, la cui esistenza deve essere valutata dall'autorità giudiziaria. Tuttavia, dato che i trattati bilaterali costituiscono una normativa speciale che deroga alla disciplina generale prevista dalle disposizioni preliminari al codice civile, in forza del Trattato italo- cinese, i cittadini cinesi possono costituire società in Italia, indipendentemente dalla sussistenza della condizione di reciprocità. Il comma 2 dell'articolo 16 delle disposizioni preliminari al codice civile stabilisce che la condizione di reciprocità si applica anche alle persone giuridiche straniere, anche se l'applicazione della norma ha destato preoccupazione per le cosiddette società ombra, costituite da italiani in paesi di rifugio, e in particolare per le Anstalt del Principato di Liechtenstein. Secondo l'orientamento costante e tuttora prevalente, all'Anstalt deve essere riconosciuta la piena personalità giuridica anche se costituito da un solo fondatore: affinché nell'ordinamento giuridico italiano una persona giuridica straniera sia qualificata come tale è sufficiente che sia riconosciuta dal suo ordinamento di origine, mentre non è necessario che essa sia strutturalmente o funzionalmente conforme alle persone giuridiche di diritto interno. Un trattamento particolare è riservato agli enti ecclesiastici la cui personalità giuridica non è soggetta né alle regole disposte dagli articoli 1 e 16 del codice civile, né a quelle previste dall'articolo 16 delle preleggi, ma nei loro 27 provvedimenti relativi all'ingresso, al soggiorno e all'espulsione siano comunicati allo straniero, gli atti sono tradotti, anche sinteticamente, in una lingua comprensibile al destinatario, o quando ciò non sia possibile nelle lingue francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall'interessato. L'articolo 3, d.p.r. n. 394/1999 garantisce allo straniero il diritto all'adeguata informazione, il diritto alla riservatezza e il diritto alla comunicazione linguistica adeguata dei provvedimenti a contenuto negativo che lo riguardano: questi ultimi sono portati a conoscenza dello straniero mediante consegna a mani proprie o attraverso la notificazione del provvedimento scritto e motivato, contenente l'indicazione delle eventuali modalità di impugnazione. Tuttavia, se lo straniero non comprende la lingua italiana, è necessario che il provvedimento sia accompagnato da una sintesi del suo contenuto espressa nella lingua a lui comprensibile o, se ciò non è possibile, in una delle lingue inglese, francese o spagnola, secondo la preferenza indicata dall'interessato. 8. Di alcuni specifici diritti in materia sanitaria e di istruzione Riguardo alle disposizioni in materia sanitaria contenute nel titolo V del T.U. n. 286/1998, l'articolo 34 prevede che gli stranieri regolari e i familiari loro carico siano obbligati ad iscriversi al servizio sanitario nazionale ed abbiano, non soltanto parità di trattamento, ma anche piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene l'obbligo contributivo, l'assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e la sua validità temporale. Invece, agli stranieri presenti sul territorio nazionale sono assicurate le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali per malattia e infortunio, mentre sono loro estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Inoltre, secondo l'articolo 5 dell'articolo 35, l'accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero irregolare non può essere segnalato all'autorità, salvo i casi in cui il referto sia obbligatorio, a parità di condizioni con il cittadino italiano. Per quanto attiene il diritto al libero esercizio dell'attività professionale in capo agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, lo stesso Titolo V e, in particolare, l'articolo 37 prevedono che gli stranieri regolari in possesso dei titoli professionali legalmente riconosciuti in Italia e abilitanti all'esercizio delle professioni, possono, entro un anno dall'entrata in vigore della suddetta legge, iscriversi agli Ordini o Collegi professionali oppure in elenchi speciali da istituire presso i Ministeri competenti nel caso di professioni sprovviste di albi. Tuttavia, un'interpretazione restrittiva delle norme previgenti aveva consolidato l'orientamento negativo in relazione al riconoscimento in via di principio dello stesso diritto, subordinando l'iscrizione all'albo alla condizione di reciprocità. Un passo in avanti fu determinato dall'entrata in vigore della legge Martelli, n. 39/1990 la quale all'articolo 10, n. 7, stabilisce che i cittadini extracomunitari laureati o diplomati in Italia oppure che abbiano il riconoscimento legale di analogo titolo conseguito all'estero possono sostenere gli esami di abilitazione professionale e chiedere l'iscrizione agli albi professionali, in deroga alle disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza per l'esercizio delle relative professioni. Ciò nonostante, la giurisprudenza ha continuato a fare riferimento e richiamare la condizione di reciprocità finché una sentenza della Cassazione del 1991 ha definitivamente chiarito la questione disponendo che gli extracomunitari in possesso di laurea o di diploma conseguito in Italia o ivi legalmente riconosciuto che abbiano superato gli esami di abilitazione all'esercizio della professione sanitaria hanno diritto di iscriversi nel relativo albo professionale a prescindere dall'esistenza di specifici trattati internazionali e dal trattato di reciprocità nello stato di appartenenza. Infine, altre disposizioni disciplinano il diritto all'istruzione scolastica ed universitaria: l'articolo 39, T.U. n. 286 /1889 sottopone all'obbligo scolastico i minori stranieri presenti sul territorio della Repubblica e prevede i limiti e le modalità nei quali è assicurata la parità di trattamento fra lo straniero e il cittadino italiano anche in materia di accesso all'istruzione universitaria e di relativi interventi per il diritto allo studio. Capitolo III GLI STRANIERI NELLE FORMAZIONI SOCIALI INTERMEDIE SEZIONE I. Famiglia e immigrazione 1. Famiglia e immigrazione tra diritto interno e normativa comunitaria La disciplina dei rapporti familiari nel più ampio trattamento giuridico dello straniero risulta da un quadro normativo complesso che si articola negli interventi legislativi nazionali e comunitari, da un lato, e nel complesso delle regole giurisprudenziali, anch'esse di origine interna oppure riconducibili agli organi di giustizia comunitaria, dall'altro. Infatti, se le scelte dei legislatori nazionali, ma soprattutto degli interpreti, prendono strade diverse, resta ferma la necessità di uniformarsi in ogni caso agli indirizzi di politica legislativa dell'Unione Europea. Proprio sul tema della famiglia e sulla sua progressiva rilevanza si misura la radicale trasformazione dell'Unione Europea: questa trasformazione porta a compimento quel processo di unificazione che, avviato da esigenze economiche e fondato 31 sull'uniformità del mercato comune, si è progressivamente sviluppato fino alla creazione di una comunità politicamente definita, spingendosi a stabilire regole che in sostanza e nella loro più profonda natura costituiscono principi di rango costituzionale, inerenti alla materia dei “diritti e dei doveri” dei cittadini europei. La Carta di Nizza, richiamata dalla Costituzione europea del 2004, tutela all'articolo 9 “il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, che “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”. Le direttive UE affrontano direttamente i temi inerenti al diritto di famiglia: fra tutte è sufficiente pensare alla direttiva 2003/86/CE concernente il diritto al ricongiungimento familiare ed alla direttiva 2004/38/CE relativa al diritto, proprio dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari, di circolare e soggiornare liberamente all'interno degli Stati membri. Così nella prima direttiva si afferma che le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l'obbligo di proteggere la famiglia e rispettare la vita familiare. In particolare, il ricongiungimento è uno strumento necessario per permettere la vita familiare in quanto contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l'integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d'altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel Trattato. Invece la direttiva 2004/38/CE, in primo luogo, ribadisce che la cittadinanza dell'Unione attribuisce a ciascun titolare il diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri sottolineando che la libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno. Tuttavia, il tratto originale ed evolutivo della medesima direttiva è costituito dall'introduzione di una nozione rinnovata di famiglia del cittadino europeo: il diritto di ciascun cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in condizioni oggettive di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. Dalle numerose disposizioni normative descritte è possibile evincere come la famiglia sia ritenuta un fondamentale elemento aggregante all'interno dell'Unione Europea. 2. Diritto dell'unità familiare e ricongiungimento Mentre la legge 40/1998, poi inserita nel T.U. del 1998, colse l'importanza di qualificare il diritto al ricongiungimento come un diritto fondamentale della persona, il già richiamato articolo 28 prevede che il diritto all'unità familiare, sebbene sia ritenuto diritto fondamentale e inviolabile della persona, non possa essere attribuito a tutti gli stranieri, ma debba essere limitato soltanto agli stranieri regolari. Dunque, la nuova normativa, sul punto della necessità della limitazione, segue la motivazione della Corte Costituzionale avrebbe determinato una fattispecie di poligamia, dato che sul suolo della Repubblica era già presente la prima moglie del padre dell'istante, che soggiornava regolarmente in Italia e aveva contratto più matrimoni in Marocco. Il Giudice Unico presso il Tribunale di Bologna accolse il ricorso del figlio richiedente e annullò, dichiarando illegittimo, il provvedimento impugnato in quanto compresse ingiustamente il ricongiungimento vantato dal ricorrente: infatti, in questo caso non si verifica una violazione della legge poiché, ai sensi dell'articolo 556 c.p., il reato di bigamia può essere commesso soltanto dal cittadino italiano sul territorio nazionale, mentre la fattispecie non configura neppure una violazione dei principi dell'ordine pubblico in quanto, a tal fine, il ricongiungimento con le due moglie doveva essere richiesto dal marito stesso, che così facendo avrebbe invocato gli effetti civili di entrambi i matrimoni. 6. La famiglia poligama nella prospettiva comunitaria Secondo la direttiva 2003/86/CE il diritto al ricongiungimento familiare dovrebbe essere esercitato nel rispetto dei valori e dei principi costituzionali dagli Stati membri, soprattutto qualora entrino in gioco diritti di donne e di minorenni. La necessità che essi siano tutelati giustifica la contrapposizione di misure restrittive alle richieste di ricongiungimento familiare relative a famiglia poligama. Infatti, il legislatore comunitario procede ad un bilanciamento degli interessi protetti da norme di rango costituzionale: da un lato, il diritto dello straniero regolarmente immigrato al ricongiungimento con il proprio nucleo familiare, dall'altro, i diritti della donna e del minore che sono considerati fondamentali e preminenti nel bilanciamento. Infatti, qualora la dignità di entrambi sia lesa dalla ricostituzione della famiglia poligama, diviene necessario il richiamo all'articolo 1 della Carta di Nizza, secondo il quale la dignità umana è inviolabile, essa deve essere rispettata e tutelata. Infine, l'articolo 4, comma 4, n. 4 della medesima disposizione normativa stabilisce, adottando le già richiamate misure restrittive, che in caso di matrimonio poligamo se il soggiornante ha già un coniuge convivente nel territorio di uno Stato membro, lo Stato membro interessato non autorizza il ricongiungimento familiare. Nello stesso caso gli Stati membri possono limitare il ricongiungimento dei figli minorenni del soggiornante e di un altro coniuge, derogando ai principi generali. 7. Il principio della parità dei coniugi nell'educazione della prole. Il divieto di espulsione delle donne straniere in stato di gravidanza La lettera d) dell'articolo 19, comma 2, T.U. n. 286/1998 vieta l'espulsione delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi 35 alla nascita del figlio cui provvedono. Tuttavia, il Pretore di Termini Imerese ha sollevato, con riferimento a tale disposizione, una questione di legittimità costituzionale ritenendo che la norma in esame, nella parte in cui non estendeva tale divieto di espulsione anche al marito della donna, entrasse in conflitto violando: gli articoli 2 e 10 della Costituzione, poiché la norma impugnata non tutelerebbe i diritti inviolabili dell'uomo; l'articolo 3 della Carta Costituzionale poiché la norma prevederebbe per il coniuge straniero un trattamento diverso e meno favorevole rispetto a quello riservato alla donna incinta o che ha partorito da non oltre sei mesi, gli articoli 29 e 30 della Costituzione, perché la disposizione non assicurerebbe l'unità familiare e non consentirebbe allo straniero dei esercitare i diritti e i doveri relativi ai figli minori e al coniuge. La Corte Costituzionale, con sentenza 376/2000, ha accolto l'eccezione e ha dichiarato l'incostituzionalità dell'articolo 17, comma 2, lettera d) della legge n. 40/1998, così come sostituito dall'articolo 19, comma 2, lettera d), d.lgs. 286/1998, disponendo l'estensione del divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. Infatti, la norma in esame, non solo omette di considerare le ulteriori esigenze del minore, ovvero il suo diritto ad essere educato in un nucleo familiare composto da entrambi i genitori e non solo dalla madre, ma oltretutto pone la donna che si trova sul territorio nazionale nella posizione di dover compiere una scelta drammatica: seguire all'estero il marito espulso o affrontare i primi mesi di vita del figlio senza il sostegno del coniuge. Dunque, proprio perché la presenza del padre è essenziale nel delicato periodo in cui si va formando quel nucleo familiare che la legge deve tutelare in forza degli articoli 29 e 30 della Costituzione, è necessaria una parificazione della posizione del marito convivente con la donna incinta o che ha partorito da non oltre sei mesi con la condizione della stessa donna. Questa parificazione comporta l'estensione del divieto di espulsione al padre e marito straniero, la cui posizione diviene sostanzialmente equiparata a quella del cittadino italiano. 8. Matrimonio e immigrazione: permessi di soggiorno e divieti di espulsione a seguito di matrimonio. La problematica dei matrimoni simulati L'articolo 30, 1 comma, lettera b) prevede uno specifico permesso di soggiorno legato a motivi familiari per gli stranieri regolarmente soggiornanti da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani di uno Stato membro dell'Unione, o con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti. Infine, è necessario accennare alla prassi che è derivata dai matrimoni simulati, contratti al solo scopo di godere della disciplina privilegiata in materia di immigrazione. Tuttavia, l'articolo 30, comma 1-bis introdotto nel T.U. Del 1998 prevede che il permesso di soggiorno di cui al comma 1, lettera b) è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l'effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole. 9. Segue: Matrimonio e cittadinanza dalla legge 91/1992 al progetto di riforma Amato del 2006. Il dibattito sulle “circostanze preclusive” all'acquisto come limite ai matrimoni simulati Dal matrimonio con un cittadino italiano derivano per lo straniero non soltanto il permesso di soggiorno e il divieto di espulsione, ma anche l'importante conseguenza relativa all'acquisto della cittadinanza italiana: infatti gli articoli 5-8 della legge 91/1992 disciplinano l'acquisto dello status civitatis in applicazione del principio della cosiddetta iuris communicatio della cittadinanza italiana da parte di un coniuge in favore dell'altro. Fra le circostanze preclusive all'acquisto della cittadinanza da parte del coniuge, previste dall'articolo 6 della legge 91/1992, particolarmente discussa è quella indicata dalla lettera c), consistente nella sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Infatti su tale disposizione normativa è stata anche sollevata una questione di legittimità costituzionale, peraltro respinta dal Consiglio di Stato che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di incostituzionalità dichiarando legittima la possibilità di fondare il diniego di concessione dello status civitatis anche sul semplice sospetto di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Ciò nonostante, il disposto dell'articolo 6, lettera c), della legge 91/1992 resta particolarmente discusso in quanto si dibatte sulla possibilità di sussumere la fattispecie del matrimonio simulato o fittizio, contratto fra un cittadino italiano e uno straniero sula base di un accordo secondo il quale i coniugi convengono di non adempiere gli obblighi e non esercitare i diritti derivanti dal matrimonio, tra le ipotesi relative ai comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica che precludono l'acquisto della cittadinanza anche in caso di matrimonio. Secondo l'indirizzo consolidato degli interpreti, espresso dal Consiglio di Stato in successivi pareri e riaffermato dal giudice amministrativo, nell'ordinamento italiano il matrimonio fittizio, celebrato allo scopo di eludere le norme sull'ingresso e il soggiorno degli stranieri, non integra l'ipotesi dei comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica al fine di precludere l'acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero. 37 internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale”. Nel comma 2, invece, il medesimo articolo dispone che “i rapporti fra l'ordinamento sportivo e l'ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio dell'autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo”. All'autonomia dell'ordinamento sportivo è intitolato l'articolo 2 che introduce un ambito di esclusiva competenza della cosiddetta giustizia sportiva, individuandone il fondamento proprio nei principi generali sanciti dall'articolo 1, In applicazione di tali principi, è riservata all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive. Si tratta della cosiddetta giustizia sportiva tecnica, che riguarda l'applicazione si norme e le sanzioni di carattere tecnico necessarie per il corretto svolgimento delle attività sportive. Accanto all'area riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo, la normativa colloca una seconda area affidata alla giurisdizione esclusiva amministrativa: infatti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Coni o delle Federazioni sportive “non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2” è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ogni caso, si tratta di una giurisdizione residuale, sia dal punto di vista dell'oggetto della cognizione, sia dal punto di vista strettamente procedurale, visto che sopravvive anche in questo ambito il c.d. “vincolo sportivo”: il giudice amministrativo può essere adito, nelle materie residuali, solo una volta “esauriti i gradi della giustizia sportiva”. Infine, è necessario considerare una terza area di cognizione per la risoluzione delle controversie sorte nell'ambito dell'ordinamento sportivo: la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti. I rapporti considerati sono di natura strettamente privatistica e riguardano la materia contrattuale, con particolare riguardo al contratto di lavoro subordinato degli atleti professionisti. In questo caso, si tratta di situazioni giuridiche soggettive rilevanti “per l'ordinamento giuridico della Repubblica” (articolo 1, comma 2), sebbene questa rilevanza costituisca un'eccezione al principio dell'autonomia tra ordinamento sportivo ed ordinamento statuale. 3. I calciatori stranieri nell'ordinamento sportivo: le clausole di cittadinanza Con particolare riferimento al settore del calcio, è necessario considerare le Norme organizzative interne (Noif) della Figc ed, in particolare, l'articolo 40, relativo alle limitazioni del tesseramento calciatori. Le società che disputano il Campionato di Serie A possono tesserare non più di cinque calciatori provenienti o provenuti da Federazioni estere, se cittadini di Paesi non aderenti all'UE. Tuttavia, solo tre di essi possono essere inseriti nell'elenco ufficiale di cui all'articolo 61 delle presenti norme ed essere utilizzati nelle gare ufficiali in ambito nazionale. Le società che disputano il Campionato di Serie B hanno la facoltà di tesseramento limitata a non più di un calciatore e, in caso di retrocessione dalla Serie A alla Serie B, è consentito alla società retrocessa di mantenere il tesseramento di calciatori cittadini di paesi non aderenti all'UE già tesserati nel corso dell'antecedente stagione sportiva. In caso di retrocessione dalla Serie B alla Serie C, qualora tale società abbia fra i propri tesserati un calciatore extracomunitario, può mantenere tale tesseramento ed impiegare il calciatore sino alla scadenza del contratto, con divieto assoluto di prorogare o rinnovare il contratto stesso, e di sostituire il calciatore con altro extracomunitario. Il comma 7 dell'articolo 40, la cui versione originaria ha dato luogo ad un acceso dibattito, è stato così modificato dal Consiglio Federale: “Le società che disputano i Campionati organizzati dalle Leghe professionistiche dalla L.N.P e dalla L.P.S.C. possono tesserare liberamente calciatori provenienti o provenuti da Federazioni estere, purché cittadini di Paesi aderenti all'UE. A tal fine le richieste devono essere corredate da attestazione di cittadinanza. Le norme in materia di tesseramento per società professionistiche di calciatori cittadini in Paesi non aderenti all'UE sono emanate annualmente dal Consiglio Federale”. Con riguardo a quest'ultimo punto, il Consiglio Federale ha, infine, limitato a due il numero di calciatori che possono essere tesserati e scendere in campo nella stagione 2011/2012. Le limitazioni introdotte dalle norme richiamate, che codificano le cosiddette “clausole di cittadinanza”, sono state contestate in più sedi dai soggetti interessati: in particolare, si è sottolineato, sia in sede di giustizia sportiva sia in sede di giustizia ordinaria, l'illegittimità delle disposizioni contenute nell'articolo 40, comma 7, Noif, nella parte in cui introduce un limite al tesseramento dei giocatori extracomunitari e alla loro utilizzazione in campionato, realizzando una indebita discriminazione fra calciatori italiani e comunitari da una parte, e calciatori extracomunitari dall'altra, in violazione delle norme dello statuto del Coni e di quello della Figc, di disposizioni dell'ordinamento statale e di norme internazionali di natura pattizia. Inoltre, secondo gli orientamenti della Corte di giustizia, i calciatori professionisti che hanno la cittadinanza di un paese terzo con il quale la comunità europea ha concluso un accordo di associazione hanno diritto di essere assunti e impiegati nelle partite di calcio alle stesse condizioni dei cittadini comunitari: infatti, le federazioni sportive nazionali non possono limitare l'impiego da parte di una società sportiva comunitaria di giocatori originari di paesi terzi con i quali la 41 Comunità ha concluso accordi. Infine, per quanto riguarda i diritti fondamentali che sarebbero lesi dalla norma di cui all'articolo 40, comma 7, Noif, i calciatori assumono che essa comporterebbe un'ingiustificata restrizione del diritto di svolgere il lavoro prescelto in condizioni di parità con qualsiasi altro calciatore italiano, straniero, comunitario, conformemente a quanto affermato dalle norme statali, internazionali, della Figc e del Coni, con conseguente limitazione del diritto di scendere in campo. Invece, le società deducono che i propri diritti apparirebbero direttamente lesi dalla disposizione impugnata, in quanto esse sarebbero danneggiate da un'illegittima discriminazione che, limitando il libero tesseramento di calciatori provenienti da federazioni straniere, condizionerebbe le scelte tecniche della società per ragioni diverse da quelle tecnico-atletiche. 4. Le clausole di cittadinanza sottoposte al vaglio della giurisprudenza ordinaria Secondo l'articolo 44 del T.U. n. 286/1998, quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del luogo di domicilio dell'istante. Il Tribunale in composizione monocratica, sentite le parti, procede agli atti di istruzione indispensabili e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda, emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. Se in caso di urgenza il Tribunale in composizione monocratica provvede con decreto motivato, assunte sommarie informazioni, il giudice fissa con lo stesso decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a se stesso entro un termine non superiore a quindici giorni, per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il Tribunale in composizione monocratica, conferma, modifica o revoca con un'ordinanza i provvedimenti emanati nel decreto. Infine, contro il provvedimento del pretore è ammesso reclamo al Tribunale. 5. Le clausole di cittadinanza al vaglio della giustizia sportiva Attraverso la nota pronuncia del 4 maggio 2001, la Corte federale Figc, con riguardo al limite all'utilizzazione degli atleti, ha ritenuto illegittimo l'articolo 40, comma 7, delle Norme organizzative interne federali (Noif) della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), nella parte in cui prevedeva che soltanto tre dei calciatori tesserati e provenienti da paesi diversi dall'Unione Europea potessero essere utilizzati nelle gare
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