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riassunti manuale di storia del pensiero politico, carlo galli 2011, Appunti di Storia Delle Dottrine Politiche

riassunti de "manuale di storia del pensiero politico, carlo galli,2011"

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 18/09/2017

alessandro_paparella
alessandro_paparella 🇮🇹

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Scarica riassunti manuale di storia del pensiero politico, carlo galli 2011 e più Appunti in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! RIASSUNTI DAL 3° al 13° CAPITOLO “Manuale di storia del pensiero politico” Galli C. Il Mulino 2011 Parte Seconda: Il mondo moderno e le sue forme 3.Gli inizi della politica moderna 1. L’umanesimo politico Si fa risalire al ‘200 / ‘300 quando i primi cancellieri della repubblica di Firenze, Coluccio Salutati e Leonardo Bruni polemizzarono contro le mire espansionistiche dei Visconti di Milano. L’umanesimo viene retrodatato all’inizio del ’200 quando a Bologna nacquero corsi per insegnare come scrivere testi persuasivi per qualsiasi circostanza della vita istituzionale della cancelleria di uno Stato. Nacque quindi il concetto di eccellenza della vita politica sulla base del “Somnium Scipionis” contenuto nel “de republica” di Cicerone ove si raccontava la visione di Scipione Africano Maggiore da parte di Publio Cornelio Scipione Emiliano. La visione esortava Publio a difendere lo stato per diventare beato e per godere nell’eternità. Coluccio Salutati, cancelliere dal 1375, facendo suo il concetto di nobiltà politica, esaltò il suo operato poiché fatto nell’interesse di molti a tutela della libertà che era un dono divino minacciato dai Visconti. Leonardo Bruni, dal 1427 al 1444, continuò il suo operato sostenendo la doppia valenza del concetto di libertà inteso come autonomia e come autogoverno grazie alla virtù repubblicana ossia la difesa di patria e bene comune. Era nata in difesa della libertà ma divenne presto fondamentale per l’umanesimo in generale, iniziavano ad essere apprezzati gli individui capaci, attivi, padroni di sé e desiderosi di riconoscimento mondano, di gloria. Sulla stessa scia si pone Poggio Bracciolini che critica l’inattività e l’ozio dei monaci e rivaluta il significato di avarizia che non è più inteso solo come ricerca della ricchezza ma anche volontà di acquisire denaro per migliorare la vita, miglioramento di cui possono godere tutti gli esseri viventi, in quest’ottica sono quindi apprezzati i ricchi in generale che costituiscono il motore dal quale lo stato è sostenuto. Di questa idea sono anche Matteo Palmieri, che apprezza la vita pubblica rispetto a quella privata, e Leon Battista Alberti che però avverte che bisogna fare molta attenzione ad unire la ricerca di gloria con l’onore e la virtù. Per gli umanisti ed in particolare per Coluccio Salutati rimane aperto il dubbio per la scelta tra Bruto e Cesare, egli si orienta verso l’apprezzamento dei principi capaci di incarnare i valori di gloria e virtù ma si schiera nettamente contro la tirannide che addirittura, se non oggettivamente giudicabile relativamente alla sua legittimazione, va sottoposta al consenso popolare, tuttavia bisognava essere prudenti prima di sopprimere un tiranno perché dietro la tirannia del principe si può nascondere comunque un consenso popolare. La figura che si delinea, a differenza del medioevo, è legittimata da qualità reali e non di origine teologica, il Principe doveva essere una guida buona e liberale, clemente con i sudditi e in possesso di capacità mondane, in primis capacità di governo e militari. 2.Machiavelli Ritiratosi dalla vita politica, dopo il 1512 scrisse le sue grandi opere “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” e “Il Principe”. L’idea di fondo, già da lui sviluppata negli anni precedenti, è che l’uomo si sforza di avere successo in un mondo che è contro di lui e se ci riesce è grazie alla fortuna. L’unico modo per uscire da un disegno predestinato è la virtù grazie alla quale si può essere ricordati per le gesta collettive grandi e gloriose a difesa della libertà e alla ricerca della potenza e della gloria. 2.1 I “Discorsi” Si tratta di tre libri suddivisi tra la storia di quanto accaduto a Roma per consiglio pubblico, di quanto accaduto per le azioni del popolo romano all’esterno e quanto fatto dagli uomini “particulari”. M. fa un commento rivolto ad una finalità pratica su due drammatici problemi, la crisi della repubblica romana, simile alla situazione fiorentina, dove l’eccessività del vivere libero richiede l’introduzione di strumenti politici non consoni alla politica libera, e sull’inattuabilità della esemplarità degli antichi; entrambe le situazioni mostrano lo sdrucciolare delle varie forme politiche. M. chiama le varie forme politiche come umori rilevando che questi cambiano in modo ciclico: il principe buono diventa cattivo e gli subentrano gli Ottimati che poi diventano cattivi oligarchi a cui subentra la repubblica popolare che a sua volta diventa licenziosa e si torna ad un nuovo principe. Tutto questo accade perché c’è sempre la volontà di attaccare uno status fragile da parte delle forze contrapposte per affermare la propria potenza che è il vero obiettivo della politica. E’ il concetto di realismo politico ed accade anche tra Stati. va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali " che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anziché all' " immaginazione di essa " , proprio perché non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla " verità effettuale " : proprio perché vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall'indagine sulla realtà concretà , empiricamente verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali . L'esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi . Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique " . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perché studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell'informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variano nel tempo , come non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l'esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri " , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori dai pericoli , cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perché andrebbe incontro alla rovina: deve anche sapere essere "non buono" laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero " cattivi " politicamente perché non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera " cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell'uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed esclusivamente come "instrumentum regni" , ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchice dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature . 3. Guicciardini Aristocratico fiorentino che condivide con M. la passione politica, la dedizione alla patria e i valori repubblicani ma rispetto alla scelta filopopolare si colloca sulla sponda dell’accentuazione dei poteri politici degli Ottimati. 3.1 Gli Ottimati e la prudenza Con l’opera “Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli del 1530” G. sostiene che la mistione, la guardia della libertà, è nobilissima ma non deve essere affidata al popolo bensì ai nobili che sono più prudenti avendo più qualità rispetto ai plebei più ignoranti. Questa idea nasce però già tempo addietro, nel 1508-1509, quando G. rivendica l’esigenza dei nobili di guidare la cosa pubblica dopo il governo dei Lorenzo de’ Medici, poiché i nobili erano una classe ottimatizia depositaria di saggezza e prudenza. Affinché Firenze riconquisti la sua libertà è necessario costituire un gran consiglio a larga partecipazione e con larghe competenze per istituire nuove leggi e rettificare le vecchie. Tuttavia il Consiglio non è per G. il motore della vita politica e spiega che le decisioni importanti devono essere prese da pochi prudenti poiché i consiglieri del Consiglio potrebbero addirittura non capire i problemi. G. ritiene che ci debba essere un unico Gonfaloniere, come per la repubblica di Venezia, ma che questo debba essere coadiuvato da un consiglio di 150 savi e sapienti della città, il Senato, che ne impedisca la sua tirannia e che garantisca il controllo delle sue decisioni. Per garantire un bilanciamento, l’eguaglianza, fra nobili e plebei è allora necessario che il gonfaloniere venga eletto dal Consiglio sulla base di una rosa di nomi scelti dal Senato. 2. La Crisi della prudenza Nel documento di riflessione “Ricordi” di G. emerge il fatto che, in politica, nulla è prevedibile razionalmente, neanche da parte dei savi, per tale motivo è la contingenza, la fortuna, il caso che ha un peso determinante per il corso degli eventi. G. non intende impedire agli uomini di fare ma chiaramente questo fare deve essere ispirato dalla volontà degli individui piuttosto che avere il fine di controllare gli eventi. Di fondamentale importanza, seppur condizionata dal caso, è la prudenza. Secondo G. gli uomini sono sempre mossi dai propri interessi (soggettivi) e un buon politico non deve mai affidarsi alle apparenze. Confronto tra Machiavelli e Guicciardini Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini sono due importanti umanisti vissuti a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Le opere letterarie più significative che questi personaggi ci hanno lasciato sono rispettivamente "Il Principe" e "I Ricordi", entrambe focalizzate sulla politica, anche se con punti di vista abbastanza contrastanti. Per esempio, i due non sono affatto d'accordo riguardo alla forma di governo migliore che può vigere in uno stato: il primo ritiene, infatti, che la repubblica sia preferibile ad ogni altra, anche se, in momenti di particolare crisi come quello che l'Italia stava attraversando alla fine del `400, l'esigenza di un signore, ossia di un'autorità d'eccezione, lo porta a lodare il principato. Il secondo, al contrario, preferisce un governo di tipo oligarchico o monarchico, cioè autoritario, in quanto pensa che le forme democratiche siano troppo deboli: è infatti difficile che si riesxcano a trovare idee comuni. Per quanto riguarda, invece, il rapporto con la storia e soprattutto con gli avvenimenti dell'età classica, è da sottolineare il grande interesse che Machiavelli ha nei confronti delle vicende passate, poiché ne prende ampiamente spunto, utilizzando un metodo induttivo, adattando situazioni già verificatesi a quelle della sua epoca, ricavando così insegnamenti sempre validi, universali. Parla infatti di historia magistra vitae. Guicciardini pensa esattamente l'opposto, ossia che occorre procedere con un metodo deduttivo, studiando ogni circunstanza nella sua condizione e nella sua individualità, e poi agendo di conseguenza. Usando il termine discrezione, dal latino discerno, sottolinea come si devono valutare con precisione le peculiarità di un avvenimento, in quanto per lui non si può assolutamente generalizzare, come invece faceva Machiavelli. Della storia romana, inoltre, egli non tiene assolutamente conto, poiché, come già detto, quel modello e quegli schemi si riferiscono al passato e quindi non sono applicabili al presente. Per di più , è importante ricordare anche le loro opinioni contrastanti sulla condizione dell'uomo. Niccolò, infatti, ha una visione aspramente pessimistica sull'umanità, che considera come una massa triste, cioè malvagia, con la quale si possa trattare solo utilizzando la "componente bestiale" del proprio animo. Francesco, al contrario, ha una visione più positiva, affermando che gli uomini sono più propensi al bene che al male, anche se per la loro fragilità spesso scelgono la strada sbagliata. Fondamentale è infine anche il rapporto virtù-fortuna: per Machiavelli la fortuna, intesa come sorte, "gioca" continuamente con la vita d'ogni uomo, ma è possibile sfruttare le proprie virtù per fare provvedimenti e con ripari e argini. Per Guicciardini, invece, la sorte è ciò che ha maggior rilevanza nella realtà, e di conseguenza non si può parlare di virtù. Per concludere, si può dire che le opinioni di questi due umanisti sono nettamente discordanti e sull'ideale politico, e sul rapporto con le vicende passate, e con l'uomo ed il suo rapporto con la realtà. 4. La riforma Un secolo più avanti sarà Fortescue a riprendere questa tesi e a confrontare il dominio semplicemente regale del Regno di Francia con il dominio politico e regale che si manifesta con la volontà del popolo. Si tratta di un dominio più equo sulla base di un diritto formato dalle consuetudini che, in quanto tali, contengono intrinsecamente maggior saggezza. Fortescue è convinto della superiorità del diritto di natura che si forma quindi con il largo consenso. Della stessa idea saranno Thomas Smith e Edward Coke che difenderanno il common law dalla volontà del Re di uscire dai limiti costituzionali affidando al potere giudiziario il ruolo di garante della costituzione. 2. Il puritanesimo I puritani vengono identificati come coloro che sono contro la chiesa anglicana a partire dalla metà del ‘500 e il loro scopo è quello di attuare una manovra che faccia venir meno quel rapporto tra monarchia e papismo. La riforma era necessaria poiché l’anglicanesimo non garantiva di accogliere tutte le istanze del calvinismo e occorreva per i puritani formare la Gerusalemme moderna con i Santi che devono informare la propria vita individuale e familiare ai precetti della Bibbia. Occorre quindi riformare anche la chiesa affinchè i santi abbiano il loro opportuno riconoscimento. 3. Giacomo I Il rafforzamento della corona nella sfera religiosa voluto prima da Enrico VIII, poi dai Tudor e dagli Stuart, in primis da Giacomo I, è uno dei tasselli fondamentali del rafforzamento della monarchia. Giacomo I critica gli spiriti turbolenti dei puritani ritenendo che questi vogliono diventare tribuni della plebe per gestire il popolo a proprio piacimento. Giacomo I pose particolare attenzione ai nobili e ai teorici del parlamento, i primi andavano trattati come i più infimi sudditi mentre i secondi devono smettere di limitare l’azione del re e di farlo sottostare alla legge poiché il Re è tale in quanto conquistatore di terre e di popoli che devono ad egli sottostare, si tratta di un ribaltamento della visione di Bracton. Il Re deve quindi rendere conto della sua azione soltanto a Dio. A questa teoria della legittimazione del diritto per conquista Giacomo I associa una teoria della legittimazione per volere divino in base ad un passo biblico. 4. La rivoluzione e Cromwell I puritani si affiancano ai difensori del costituzionalismo ossia ai membri del Parlamento costituendo una Chiesa presbiteriana che a differenza della Chiesa di Roma prevede una struttura democratica e partecipativa. A questo punto lo scontro tra regno e parlamento non si può più risolvere istituzionalmente ed allora viene costruito un esercito del parlamento, il New Model Army, guidato da Oliver Cromwell (1599-1658) che sconfigge a Naseby nel 1645 l’esercito regio affidandosi a soldati di umili origini e non professionisti come quelli assoldati dai nobili, Cromwell ritiene infatti che le motivazioni di questi soldati sono il motore principale per raggiungere la vittoria. Dopo la vittoria Cromwell emerge come politico e si oppone chiaramente all’abolizione dell’esercito da lui comandato poiché da lui ritenuto espressione della volontà di Dio di opporsi al Re. Nel 1649 viene abolita la monarchia con la condanna a morte del Re Carlo I e nel 1653 viene promulgata una nuova costituzione repubblicana con la nomina di Cromwell a Lord Protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Nel 1660 viene però restaurata la monarchia. Negli anni precedenti, nel 1647, in un dibattito nell’esercito, si parla di estensione del voto a tutti i maschi ma questa teoria viene criticata soprattutto da Ireton, genero di Cromwell, poiché secondo lui non si può avere diritto di voto come diritto naturale ma occorre possedere delle proprietà, le stesse proprietà che lo un governo protegge, estendere il voto a chi non ha proprietà è rischioso per le proprietà stesse che possono essere rivendicate da chi non ne ha titolo. 5. I livellatori Si tratta di un nuovo movimento radicale guidato da Lillburne, Overton e Walvyn che ha lo scopo di ottenere dal parlamento il diritto naturale di partecipazione politica, un livellamento quindi in senso politico, senza interferire con la proprietà privata. Il principio per cui si battono i levellers è quello del suffragio universale maschile e richiedono che il ruolo di parlamentare sia a tempo limitato e non indeterminato. Si tratta di un pensiero del tutto liberale. 6. Gli zappatori Si affianca al movimento dei levellers ed è guidato da Winstanley che ritiene che una libera repubblica può essere tale solo se si libera dai vincoli dei vecchi e dei nuovi padroni, vincoli relativi alla proprietà fondiaria che deve essere distribuita a tutti poiché tutti hanno diritto al nutrimento e al sostentamento che la terra garantisce. Per Winstanley la divisione della terra è tipica del governo regio e non può esistere in una repubblica liberale. Le leggi del parlamento devono vietare l’ozio e devono portare tutti a produrre, i frutti della produzione devono essere raccolti in grandi magazzini per essere conservati e distribuiti in base alle necessità. Un’ultima critica viene rivolta alle enclosures poiché limitavano la possibilità di utilizzare liberamente le terre creando maggior disuguaglianza e maggior povertà con l’obbligo per i contadini di andare verso le città, si tratta delle origini del capitalismo. 7. Il repubblicanesimo In Inghilterra, oltre alle correnti rivoluzionarie fin qui citate, a seguire la nascita e poi il crollo della democrazia, ci sono i repubblicani rappresentati in varie tappe da John Milton e Walter Moyle (1672-1721), questi uomini,a differenza delle altre correnti, si occupano nello specifico delle dinamiche politiche ed istituzionali piuttosto che sociali. Si tratta appunto di una corrente repubblicana che fa del commonwealth una forma di governo non monarchica che garantisca l’espressione della libertà e dell’autogoverno a partecipazione mista e che condanna fermamente la tirannia. Contro la monarchia vengono esposte teorie che mostrano come questa concilia con la tirannia e con la limitazione della libertà, mentre l’idea del commonwealth diventa una nuova corrente di pensiero (Atlantic Republican Tradition), l’autogoverno diventa un modo reale per la diffusione della virtù politica. 8.Milton Siuramente il più influente pensatore che si schiera in favore della libertà repubblicana, si batte per la libertà di stampa e d’opinione e per il divorzio. Si oppone ad un decreto del Parlamento in difesa della libertà d’opinione sostenendo che affinchè la verità possa crescere e manifestarsi è fondamentale il confronto. Accodandosi a Castellione afferma che un libro va sempre tollerato e anche quando questo può essere errato è sempre utile alla ricerca del Vero. Milton si batte per il diritto di opinione che va dalla Chiesa allo Stato affermando che anche una società di Santi possa pietrificare la vita morale e politica. Nell’opera The Tenure of Kings and Magistrates afferma che il potere è del popolo che ha il diritto di processare un Re quando questo non rispetta la legge e quando i magistrati non agiscono autonomamente, di fatto i magistrati sono posti ad un livello più alto del popolo ma sono pur sempre i loro rappresentanti e quindi dovrebbero garantire il rispetto della legge. Per Milton è tiranno il Re che si pone come padrone dello Stato e non solo colui che non rispetta le leggi, ne consegue quindi la necessaria deposizione a favore dell’autogoverno per la piena realizzazione della libertà. Nonostante i risvolti economici positivi che la repubblica comporta, Milton fa leva sulla moralità, sul fatto che la repubblica è garanzia di giustizia, equità e di abolizione della servitù. La forma di governo ideale secondo Milton, a differenza dei levellers, è un “Consiglio generale degli uomini capaci” eletto dal popolo e con durata perpetua perchè perpetue sono le funzionic he tale consiglio è chiamato a svolgere. Secondo Milton, al potere del consiglio, vanno affiancati i poteri locali “Federativi” in grado di garantire un bilanciamento dei poteri e giustifica che il Consiglio deve essere perpetuo per evitare il rischio che i capaci possano essere sostituiti dagli incapaci. 9.Harrington James Harrington pubblica nel 1656 The Commonwealth of Oceana in cui schiera apertamente a favore di un governo misto convinto che la struttura politica debba esprimere i rapporti della struttura sociale nonché la forma della divisione e dell’organizzazione della proprietà terriera. Il pensiero di Harrington si inserisce nel contesto dell’azione politica di Enrico VII che aveva confiscato le terre ai nobili per redistribuirle al popolo così da avere un gran numero di proprietari terrieri innescando un processo di uguaglianza a cui conseguiva la necessità di un governo misto. Per H. era quindi fondamentale una legge agraria per limitare il possesso delle terre e occorreva affiancare al Senato una Camera che doveva semplicemente approvare o meno le proposte del Senato, H. introduce inoltre il principio di eleggibilità a scrutinio segreto e a rotazione per tutti i membri del Parlamento. Per H. dunque è fondamentale il ruolo degli aristocratici che per via della loro posizione agiata possono dedicarsi più alla vita pubblica ma d’altrettanta importanza è il ruolo del popolo quale garante delle libertà, libertà che possono essere ancor più tutelate da un esercito formato dal popolo con l’introduzione dell’obbligo di leva. 10.Moro Il libro “Utopia” pubblicato da Tommaso Moro nel 1516 introduce un nuovo genere letterario ed è suddiviso in due parti, nella prima c’è la la critica da parte di Moro alla situazione dell’Inghilterra ove qualsiasi tentativo di debellare la criminalità non va a buon fine, dove i padroni recintano le terre e dove si rileva il comportamento dei politici che non fanno altro che preparare guerre, si tratta di una situazione che si può riassumere in una brama di possesso che si incarna nell’istituzione della proprietà privata; nella seconda parte c’è invece il racconto di un viaggio ove il protagonista Raffaele Itlodeo incontra un popolo ove non esiste proprietà privata né denaro e dove tutti lavorano per tutti soltanto 6 ore al giorno, dove ci sono benessere e poche leggi e dove vi è libertà di religione. Nel mondo utopico ciò che conta è la morale e la collaborazione tra gli uomini pur riconoscendo l’esigenza di un ordine politico che però è prettamente fatto di cariche elettive. 11.L’utopia in Europa L’utopia è da un lato in contraddizione con la modernità (si pensi al capitalismo) ma dall’altro è essa stessa un’idea moderna, il limite dell’utopia sta però nell’impossibilità di raggiungerla poiché si tratta semplicemente di un’esigenza ma non di un vero progetto politico. Il concetto di Utopia si diffonde rapidamente in tutta europa grazie a Johann Eberlin (Germania), Antonio de Guevara (Spagna), Anton Francesco Doni, Ludovico Agostini. Francesco Patrizi, Uberto Foglietta (Italia), Tommaso Campanella e la sua “Città del Sole” basata su principi di condivisione\comunismo ma con a capo un solo uomo e Francesco Bacone (Inghilterra) con la Nuova Atlantide che introduce il concetto di scienza come strumento per il miglioramento della vita. 6.La prima modernità 1.Machiavellismo e antimachiavellismo Nella prima metà del XVI in tutta Europa, eccetto Venezia e Olanda, si affermano le monarchie e i principati e si sviluppano correnti sia machiavelliane che antimachiavelliane tipicamente cattoliche. La corrente antimachiavelliana sorge nel 1530 con cardinal Reginald Pole che si contrappone al consigliere del re Enrico VIII, Thomas Crowell ed in seguito alla pratica delle corti nonché proprio a Machiavelli. Pole ritiene che il consigliere debba aiutare il Re fungendo da sua coscienza morale mentre Cromwell ritiene che il consigliere debba semplicemente aiutare il Re a soddisfare i suoi desideri di potenza. Il machiavellismo verrà correlato successivamente come ateismo e tirannide. Questa correlazione si conferma quando i cattolici sterminarono gli ugonotti a Parigi nel 1572 poiché Caterina de’Medici si comporta proprio come Machiavelli aveva inteso si dovesse comportare un buon principe. E’ così che si sviluppa una corrente guidata dall’ugonotto Innocent Gentiller che smentisce Machiavelli sostenendo che si deve tornare ad un governo guidato da buona ragione e saggia prudenza così come sono stati condotti gli antichi francesi. La tesi di Gentillet aggiunge inoltre che il principe non deve decidere da solo ma deve ascoltare il “buon consiglio” ossia un organo costituzionale, gli Stati Generali rappresentativi degli strati cetuali, clero, nobiltà e terzo stato. 2.I monarcomachi E’ una corrente di intellettuali francesi che sono contro la struttura monarchica e che riprendono i concetti calvinisti secondo cui un Re tiranno può essere spodestato con la violenza. Scopo dei monarcomarchi è quello di legittimare la presenza degli ugonotti partendo da due strategie un’indagine della storia da Gallia ad attuale Francia (Francois Hotman) e da un patto tra argomenti biblici e giudiridi da cui si desume che il potere è condizionato al patto tra Re e Popolo (Théodore de Bèze e Philippe Duplessis-Mornay). Per Hotman, che si rifà alla prima delle suddette strategie, lo sconvolgimento dell’assetto costituzionale causato dalla monarchia può essere risolto tornando alla scissione tra monarchia più che un invito alla menzogna, il vero significato della prudenza è un invito all'innovazione, a comportamenti accorti e adatti di volta in volta al mutare delle circostanze. Si costituisce così la “Ragion di Stato”. 8.La Ragion di Stato E’ una vasta corrente intellettuale unificata ai suoi esordi dalla volontà di mediare tra due istanze insopprimibili dell'età barocca ossia che la politica non abbandoni il riferimento ai principi etico-religiosi unendo inoltre l'interesse con l'onesta, il successo con la giustizia. La corte e lo Stato sembrano impermeabili ai principi di una sana politica, la ragione civile sembra contraddetta da un'altra ragione, “La ragion degli Stati”. Il primo grande nemico dei cattolici è ovviamente Machiavelli, che ha dissociato la politica dalla morde cristiana. I cattolici tentano di reagire con la messa all'indice delle opere di Machiavelli ma ciò non basta perché nel frattempo nasce il “Tachismo” che si rifà ai commenti delle opere di Tacito da parte di vari pensatori. Si riconosce l’esistenza di segreti per la gestione del potere che mostrano tutta la durezza e l'autonomia della politica. 1. Botero Nel 1583 con il libro “De regia sapientia” fa la sua comparsa il Dio biblico, Signore degli eserciti, geloso custode della potenza militare che egli dispensa ai suoi fedeli. Botero sostiene che la fede è in grado di produrre miracoli in battaglia garantendo superiorità delle milizie cristiane rispetto a quelle pagane. La polemica con Machiavelli e Tacito per il loro modo di intendere il governo continua con il libro “Della Ragion di Stato” (Venezia 1589 e rivista nel 1598). Il libro definisce lo Stato come dominio sopra i popoli difficile da conservare perché s'acquista con forza, si conserva con sapienza; e la forza e comune a molti; la sapienza e di pochi. L’obiettivo di Botero è quello di individuare le specifiche tecniche necessarie al principe per il mantenimento del suo dominio. In Botero la prudenza politica è ciò che dirige da sola tutte le azioni del principe. Per Botero la prudenza politica è una tecnica pubblica di governo, che ha le sue fonti nella storia, nelle conoscenze geografiche, nella filosofia morale, e che deve essere capace di adattarsi ai luoghi, ai tempi, alle persone in tutte le possibili combinazioni dei loro reciproci rapporti. La Ragion di Stato, nel momento più intenso e maturo del dibattito, definisce se stessa come una regola per garantire il Bene Pubblico. “Ragion di Stato è poco altro che ragione d'interesse (pubblico)”. Lo scopo del governo deve essere quello di creare l’interesse del popolo ad essere dominato, questo interesse lo si può creare col benessere dei sudditi. Si tratta della pratica di un vero e proprio governo economico della società. Un governo che salvaguarda l'iniziativa economica dei sudditi. Il principe deve procure benessere, vegliando sui processi d'approvvigionamento delle derrate alimentari e soprattutto sul loro prezzo, ma deve anche mirare all'ingrandimento del proprio Stato, attraverso l'accrescimento della popolazione e delle sue forze. Da questo progetto deriva l’attenzione alla promozione dell'agricoltura e alle condizioni preliminari per il suo migliore esercizio, e soprattutto l'invito rivolto al principe affinché egli stesso si dedichi, quando e necessario, al commercio. C’è inoltre il consiglio di affrontare il male al suo primo apparire o di far trascorrere del tempo se questo male è più forte del principe. Consigli come questi, insieme all'elogio del segreto, della prontezza delle armi e degli stratagemmi bellici, della forza e della disciplina, fanno della Ragion di Stato di Botero qualcosa che, pur essendo rigorosamente cattolica, e anche rigorosamente mondana. 2. Naudè Presto si distingue una “buona” e una “cattiva” “Ragion di Stato”. La “cattiva”, definita, come tirannica, permette al principe di compiere quegli atri extra legem che Gabriel Naude chiama coups d'Etat. Il principe, basandosi sul concetto che il diritto pubblico è superiore al privato, ha piena libertà d’azione. Naude propone di intendere la Ragion di Stato come la trasgressione del diritto comune per il bene comune. Per Naude, i coups fondano la loro legittimazione sulla considerazione del bene e dell'utilità pubblica, che spesso passa al di sopra di quella dei privati. 9.La scienza dello Stato Botero redige altre due opere: il Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588), e le Relazioni Universali ( 1590) che si basano sul presupposto che per consentire a ciascun organismo politico di perseguire il proprio interesse e la propria ragione bisogna prima individuare la loro natura e consistenza, e il loro possibile interagire sullo scacchiere internazionale. Lo Stato deve quindi saper misurare la propria potenza. E il discorso che a questo proposito Botero fa è estremamente moderno: perché una citta sia grande occorre che sia ricca, e perché sia ricca è necessario che soddisfi molteplici condizioni. La posizione geografica, innanzitutto, deve essere tale che la città non sia solo di passaggio per i traffici mercantili, ma ne sia anche punto di partenza e di arrivo; e poi la fertilità del suolo. Oltre a ciò i privilegi, le esenzioni, le immunità, la residenza cittadina della nobiltà, con la gara e l'emulazione che produce, sono tutti elementi utili per far affluire nelle città e negli Stati il denaro. Botero ribadiva la necessità di una scienza dello Stato capace di attenta disamina critica delle fonti della ricchezza pubblica e privata, e dei mezzi per il suo incremento. Governare, per lui e per l’età che lo seguirà, è soprattutto intervenire sulle dinamiche di diffusione della ricchezza, non si deve quindi aver paura dell’accrescimento della popolazione ma bisogna farne di ciò la potenza dello Stato. Questi accenni a un governo economico della politica, a un vero interventismo politico in economia, acquisteranno in Francia un aspetto più maturo e consistente con l'opera di Antoine de Montchrestien “Traicté de l'oeconomie politique” pubblicata a Parigi nel 1615. 10. La scolastica spagnola Nel Cinquecento e del Seicento grande fortuna ha sia in Italia sia in Spagna il tacitismo, la Ragion di Stato e l'antimachiavellismo, ma la Spagna deve fronteggiare una sfida del tutto particolare. La scoperta dell'America e la colonizzazione delle Indie impone alla cultura iberica temi imprevisti che trovano una vigorosa risposta nella scuola di Salamanca e nella tradizione, da essa ravvivata, della seconda Scolastica. La scoperta del Nuovo Mondo pone nuovi interrogativi religiosi circa l’origine degli indigeni americani a cui si aggiungono interrogativi politici. Infatti una volta avvenuta la scoperta e stabilito che gli indigeni e la loro terra entravano a far parte dei domini spagnoli resta aperto il problema di legittimare condizioni come ad esempio la schiavitù che turbano le coscienze cristiane. La contesa tra Sepulveda e Las Casas Si scontrano per anni Juan Gines de Sepulveda (1490-1573) e il padre domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566). Sepulveda è a favore della schiavitù perché gli Indios non possono essere considerati umani, Las Casas invece, convinto del mostruoso anticristianesimo del comportamento degli Spagnoli verso gli indigeni si batte per abolire la schiavitù perché ai suoi occhi gli Indios sono brave persone che non soffrono dei problemi degli europei quali l’invidia, la superbia, ecc... 10.1 Vitoria Fin dall'inizio della sua trattazione Vitoria dichiara di volersi confrontare con il problema giuridico della legittimità del dominio esercitato dagli Spagnoli sugli Indios. Egli comincia ad affrontare la questione chiedendosi se questi popoli fossero, prima dell'arrivo degli spagnoli, veri e legittimi possessori del loro paese. Per Vitoria gli Indios sono domini dei loro spazi solo per natura, quindi, indipendentemente da altre cause, per tale idea Vitoria si scontra con quelli che ritengono le americhe un territorio di nessuno. Vitoria, con non pochi rischi, afferma che nessuno è sovrano del mondo. Il diritto degli Spagnoli alla conquista e al domino delle Americhe è pero legittimato da Vitoria per altra via, la via del diritto internazionale di cui egli è considerato l'inventore. E’ il diritto internazionale o il diritto delle genti che per Vitoria legittima il primo contatto tra gli spagnoli e gli Indios; e in virtù di tale diritto che gli spagnoli lecitamente percorrono quei territori e commerciano con i loro abitanti senza recare loro danno. Vitoria legittima poi l'impossessamento spagnolo della terra degli Indios sulla base del fatto che questi avrebbero ingiustamente ostacolato il commercio spagnolo e anche la giusta appropriazione spagnola dei beni americani che, a differenza del territorio, non sarebbero proprietà dei 'selvaggi'. Il dominio spagnolo in America nasce da una “guerra giusta” contro gli Indios per salvaguardare il diritto naturale al commercio da loro minacciato. Se il potere viene da Dio, in quanto necessario al mantenimento di quella società che Dio stesso ha voluto, non è pero Dio che sceglie i governanti: la concretà individuazione della forma e dei titolari del potere compete solo alla comunità. Prima di entrare in società e nell'ambito del potere, nessuno era superiore agli altri; è solo a partire dall'accordo di tutti, o comunque della maggioranza, che si costruisce il potere pubblico. Il potere che si costituisce non è per Vitoria una delega temporanea e condizionata di autorità da parte dei cittadini verso i governanti; è anzi una vera e propria alienazione: infatti, un re è superiore anche allo Stato tutto intero. Insomma, il grande ruolo assegnato alla volontà della maggioranza all'atto di fondazione dello Stato, o addirittura nell'ipotesi di un mutamento costituzionale, viene meno quando il potere è stato già costituito. 2. Suarez Francisco Suarez ha al centro dei propri interessi il problema della vecchia Europa scossa dalla Riforma e divisa tra il calvinismo e l'anabattismo, tra l'anarchia e i rischi di una nuova teocrazia. E per fronteggiare tali rischi che Suarez, sviluppando il discorso di Vitoria, si volge alla politica per dedurne i principi da una teoria generale dell'ordine e del diritto di natura. Suarez assume una posizione ancora più netta di quella di Vitoria a proposito della volontà della maggioranza e del diritto naturale quali fondamenti dello Stato. Suarez esalta e radicalizza il ruolo giocato dal diritto naturale come fondamento dell'autonomia originaria delle comunità politiche, con un chiaro intento ostile all'assolutismo monarchico. Suarez ipotizza una situazione originaria di assoluta libertà ed eguaglianza degli uomini e per tale motivo nessuno può avere potere su di essi. Per questo motivo occorre spiegare perché questa libertà non esiste più . Suarez spiega che, proprio per natura, l’uomo tende ad entrare in comunità e per la conservazione della comunità il potere è fondamentale. Se è vero che la legge naturale condiziona l’uomo e lo costringe ad aggregarsi in comunità è pur vero che l’adesione necessita di libero consenso. In questo concetto c’è una contraddizione, se l’adesione è dei singoli individui e se le decisioni non sono altro che la somma delle scelte dei singoli individui la comunità in realtà esiste già nel momento in cui l’individuo si esprime, Suarez spiega quindi che la comunità sorge innanzitutto come unificazione morale. Insomma, la comunità politica che nasce dal consenso è titolare del potere universale su tutti i propri membri, solo in quanto e già unificata come corpo morale. Parte terza: La modernità dispiegata 7. Il soggetto e lo Stato Lo Stato assoluto e l’esercizio della Ragion di Stato è ciò che fa uscire l’Europa dalle guerre civili di religione. Dalle paci di Vestfalia del 1648-49 oppure dal Trattato di Utrecht del 1714 la guerra e la pace sono possibili solo fra Stati sovrani. Stato moderno realizza una sia pur relativa modernizzazione e razionalizzazione del potere per quanto riguarda la centralizzazione del comando, le garanzie dell'ordine pubblico, la statalizzazione della guerra. Questa razionalizzazione non tange però la naturale ineguaglianza degli uomini, permangono infatti la nobiltà e i suoi privilegi e permane in generale tutto l’assetto gerarchico sociale. Il potere politico, è sì razionale nel suo esercizio (la centralizzazione amministrativa) e nei suoi fini (la potenza e il benessere dello Stato), ma si legittima da un ordine naturale che è anche divino: l'alleanza fra trono e altare, fra monarchie e confessioni religiose. “io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a questa assemblea di uomini, a condizione che tutti facciano la stessa cosa”. Il prodotto del patto è il Leviatano, il Dio mortale, che, pur non avendo partecipato al patto, rappresenta tutti, che ha in se il potere di tutti e che quindi è il più alto potere concepibile sulla terra, il cui “fine è di procurare la sicurezza del popolo”. Per H. solo la politica è il potere che può dominare gli uomini per garantire la loro convivenza e sopravvivenza in modo pacifico. Questo potere è costruito da tutti secondo ragione: padre del razionalismo politico moderno, Hobbes fa quindi della politica una scienza applicata, una tecnica che ha come fine la costruzione della sovranità. Nessuna legge può essere ingiusta. Le leggi di uno Stato sono come regole del gioco: qualunque cosa su cui si accordino tutti i giocatori non è ingiusta per nessuno di essi. Di conseguenza, non c’è differenza fra regno legittimo e tirannide. Negazione del diritto di resistenza Non ci si può rifiutare di obbedire allo Stato, appellandosi ai patti a cui lo Stato\il Leviatano non ha preso parte, se si disobbedisce ossia se ci si ribella lo Stato si distrugge e si torna allo stato naturale caotico. Benché fondata sull'individuo, la politica di Hobbes ne prevede l'alienazione quasi completa; in ciò sta la differenza fondamentale di Hobbes rispetto a Locke. In parallelo, il popolo non esiste autonomamente se non grazie all'unita del rappresentante, dell'istituzione sovrana; e sulla presenza o sull'assenza di questa si misura la distanza di Hobbes rispetto a Rousseau. E’ decisivo sottolineare che con la costruzione della sovranità il pensiero moderno abbandona l'antichissima idea che la politica consista nel governo del diverso sul diverso, del migliore sul peggiore, all'interno di un quadro di ordine dell'essere: d'ora in poi la politica è sovranità, dominio impersonale e razionale della legge universale e artificiale, che si applica agli uguali. 1.2. Il sovrano Il sovrano rappresentativo, in quanto ha il potere di tutti senza avere stretto patti con nessuno, è titolare di un potere indivisibile, incondizionato, irresistibile. Hobbes esclude ogni possibilità di separazione dei poteri. Il sovrano non solo ha il diritto di scegliere i ministri, di dichiarare la guerra e di comandare l'esercito, ma soprattutto non deve rispondere a nessuno del proprio operato, e non deve cedere a nessuno il proprio potere di punire e di premiare, e di giudicare, interpretando e applicando le proprie leggi. Tanto radicale è in Hobbes la convinzione che il sovrano sia la condizione stessa di possibilità dell'esistenza della vita civile associata che egli affida al Leviatano anche la proprietà privata che in realtà non esiste in natura dato che tutto è di tutti. Il sovrano è soprattutto legislatore e le leggi traggono legittimità dal fatto di essere prodotte dall'unico che ha titolo a legiferare. Il Leviatano, non fa altro, con le sue leggi e col suo potere irresistibile, che consentire agli uomini di obbedire alle leggi di natura. Perché il Leviatano sia pienamente modello dello Stato di diritto manca solo che il sovrano sia soggetto alle leggi civili che esso stesso crea, cosa che e invece esclusa esplicitamente da Hobbes. Ora, questa sovranità legislativa è certo assoluta ma non è arbitraria, Hobbes afferma comunque che il più illimitato potere politico, che comunque ha degli svantaggi, è sempre preferibile ad un potere inefficace, dal quale nascono le guerre civili. Il diritto di mettere a morte: il Leviatano non può ordinare la morte di un cittadino ma può farlo se è minacciato personalmente e quindi se il cittadino minaccia lo Stato. Anche la dichiarazione di guerra è giustificata solo se è messa a repentaglio la vita del Leviatano\Stato. Il cittadino è libero di comportarsi come preferisce per tutto ciò su cui non ci sono leggi. Hobbes precisa che obbedire non è credere: lo Stato e le sue leggi si rivolgono solo ai comportamenti esteriori del cittadino, e lasciano libera l'interiorità dell'uomo. La costruzione del Leviatano ha fatto nascere la sfera pubblica - lo Stato -, rispetto alla quale la sfera privata e ciò che resta a ciascun uomo dopo l'alienazione del diritto naturale: essenzialmente la vita esterna, fisica, è anche la vita morale, interiore. Oltre che lo spazio della vita fisica e dell'interiorità privata, lo Stato rende possibile anche lo spazio della società, che inizia a profilarsi nella sua posizione intermedia fra lo Stato e il cittadino Pace e guerra Un ulteriore aspetto, altrettanto importante, della spazialità politica implicita nel pensiero di Hobbes e la rigida separazione fra pace e guerra: dato che ci sono più Leviatani, la guerra è tra di loro sempre possibile, perché i Leviatani\Stati vivono in uno stato di natura. Non esistono norme sovrastrutturali per i leviatani che ne regolino i comportamenti. Quindi, se all’interno dello Stato si può parlare di criminalità, all’esterno dello Stato si deve parlare di sovranità, ossia si fa la guerra per mantenere la sovranità. Questa teoria rimarrà valida fino al XX secolo. Morte del Leviatano Nonostante la cura con cui si è costruito il Leviatano e l’importanza che questo riveste per la politica interna ed internazionale, lo stato è Dio mortale: è un artificio fatto dagli uomini, che errori e casualità possono distruggere. Le cause di dissoluzione dello Stato consistono fondamentalmente nella rivendicazione da parte dei cittadini di quel patto stipulato tra cittadini stessi, esigere proprietà e libertà è un atto distruttivo. Hobbes critica quindi le università dove viene insegnato il valore della libertà e vuole mostrare agli intellettuali che lo Stato è una macchina e finché funziona occorre obbedire. 1.3. Teologia politica Quello del rapporto fra religione e politica è un problema col quale Hobbes non può fare a meno di confrontarsi. Anzi, tutta la sua costruzione politica è inconcepibile al di fuori dell'epoca delle guerre civili di religione, come e chiaro dalle parti III e IV del Leviatano. Lo Stato deve presentarsi come Stato cristiano, e la politica laica e razionalistica come teologia politica, come deduzione della politica dalla teologia. La sua teologia politica giustifica con argomentazioni religiose il fatto che la politica non sia fondata sulla religione in senso tradizionale; la teologia politica di Hobbes si fonda non sulla presenza di Dio, ma sulla Sua assenza, come fondamento della politica. Per Hobbes, invece, il rapporto con Dio è tenuto soltanto, in un modo tutto peculiare, dallo Stato, ossia dal sovrano, che è “il vicereggente di Dio sulla terra” (Quindi né chiesa né sacerdozio universale). Chi obbedisce al sovrano obbedisce al profetà di Dio e quindi non salva solo il corpo, ma anche l'anima. Insomma, i sudditi conoscono ciò che Dio ha detto, ed obbediscono alla Sua volontà, proprio quando obbediscono «all'autorità dei loro rispettivi Stati». Per lui non si deve credere a sedicenti profeti che, vantando un rapporto diretto con Dio, insegnino al popolo a disobbedire al sovrano, vero profetà di Dio. Addirittura ritiene che solo il sovrano possa sentenziare sui miracoli e se ritenere tali determinati atti, nessun altro ne ha facoltà. Hobbes ha come obiettivo polemico non solo i protestanti, ma anche il cattolicesimo. Mentre i primi si oppongono al potere dello Stato attraverso la soggettività interiore del Giusto, che rifiuta ubbidienza al potere ingiusto, il secondo contrappone allo Stato la Chiesa con la sua oggettività pubblica. La Chiesa di Roma, in quanto vuole comandare politicamente, è solo uno Stato come gli altri, in cui il papa esercita un potere politico simile a quello di ogni altro Stato; di conseguenza la pretesa che tutti i cristiani, i cittadini di ogni Stato, obbediscano al papa equivale alla pretesa che i cittadini di uno Stato obbediscano a uno Stato straniero. Hobbes verrà attaccato come “ateo” dai vescovi anglicani, e dalla “caccia al Leviatano” si difenderà con lo scritto Risposta al libro pubblicato dal dott. Bramhall: ciò a cui Hobbes pensa è semmai una politicizzazione della religione, ma nel senso che il controllo dello Stato sulla religione serve solo a impedire che la religione abbia effetti politici conflittuali. La religione e così “politica divina”, cioè della ricerca del modo migliore per obbedire a Dio e realizzare la pace. Si lascia quindi aperta in prospettiva la possibilità che la religione, divenuta grazie alla neutralizzazione dello Stato una materia non più politicamente pericolosa, ma anzi solo personale e privata, possa essere deregolata e possa quindi uscire dall'interiorità a cui l'aveva ridotta Hobbes, diventando, a partire dalla rivoluzione americana e francese, un diritto di libertà. 2. Locke John Locke elabora una teoria individualistica e contrattualistica, ma rispetto a Hobbes, fa riferimento ad una rivoluzione antiassolutistica. E’ un modello di ordine politico che consente di limitare il potere, suddividendolo, a beneficio del cittadino e della società. Questi sono i concetti chiave del costituzionalismo moderno e del liberalismo, la filosofia politica per la quale l'ordine politico ha il soggetto e le sue liberta come propria origine, come proprio centro e come proprio fine. Il contesto storico I Trattati sul governo di Locke (1690) sono il manifesto della Gloriosa rivoluzione del 1689, la grande affermazione del partito e della cultura politica whig, del parlamentarismo e della limitazione costituzionalistica del potere regale, contro l'assolutismo cattolico degli Stuart che furono cacciati e sostituti dagli Orange d’Olanda. Locke scrive il “Primo trattato sul governo” contro il “Patriarca” (1680 di sir Robert Filmer) che era il manifesto del partito regio basato sul diritto divino del Re in netta contrapposizione con le tesi del partito whig. L'obiettivo polemico di Locke è duplice: colpire la modernita cattolica, estranea al contratto, di Filmer; e poi rendere le dottrine moderne del contratto, esposte da Hobbes in senso assolutista, come adatte ad ospitare le libertà individuali e sociali. I due trattati di Locke, primo e secondo, perseguono questo duplice fine. 2.1. Il «Primo trattato sul governo» Locke in questo testo sostiene contro Filmer l'interruzione di ogni comunicazione fra Cielo e Terra. La tesi di Filmer è che nessun uomo nasce naturalmente libero, ma sempre e solo soggetto alla monarchia assoluta di un re che rappresenta l’autorità che in origine Dio ha dato ad Adamo e poi è stata tramandata dai Patriarchi fino ai Re di Israele e fino ai Re moderni. Locke, rielaborando il testo biblico, afferma che Dio ha dato ad Adamo solo l’esistenza ma nessun altro potere, inoltre, seppur questo potere gli fosse stato affidato, l’avrebbe tramandato ai suoi eredi e non ad altri quali ad esempio i Patriarchi, in ogni caso, siccome non è possibile risalire alla discendenza di Adamo. Tutta la teoria di Locke è comunque basata sul disincanto dell’uomo ove Dio perde la centralità e conta solo la ragione. 2.2.1. Lo stato di natura e i diritti E’ simile alla concezione di Hobbes dove gli uomini sono in stato di natura, sono tutti uguali e sono giudici di sé stessi, inoltre, chi sbaglia può richiedere la riparazione dell’errore. L’autodifesa però può scatenare conflitti dal momento che non c’è nessun autorità superiore che possa decidere in favore dell’uno o dell’altro e che possa fermare il conflitto. A differenza di Hobbes, per Locke, con il lavoro, l’uomo può diventare proprietario della terra. Il lavoro genera inoltre monetà con cui si può estendere la proprietà intesa come area recintata. Esiste secondo Locke la gerarchia familiare padre-figlio minorenne ma nei limiti di libertà del figlio ed infine l’uomo, nell’ambito esclusivamente familiare e non politico, è superiore alla donna. 2.2.2. Il corpo politico Locke parte dall’assunto che lo spirito umano è in grado di "tenere in sospeso l'esecuzione di un atto e la soddisfazione di un suo qualunque desiderio" e quindi esiste in natura un controllo della ragione sulle passioni. Di conseguenza, già in natura è teoricamente possibile una qualche coesistenza: per tale motivo Locke si serve di un patto ha lo scopo di costruire un ordine politico artificiale che non è l'opposto dello stato di natura, com'è invece il Leviatano per Hobbes, ma che serve a garantire meglio i diritti naturali dell'uomo. Il contratto razionale non azzera la natura, ma la migliora. Uscita dallo stato di natura: Lo stato di natura presenta tre difetti: non vi è legge certa, non vi è un giudice riconosciuto ed imparziale e non vi è un potere esecutivo. Quindi per difendere la propria vita, libertà e beni, bisognerebbe liberamente rinunciare al potere naturale per affidarlo all’interaa comunità che diventa arbitra di tutte le controversie su cui si esprimeranno i magistrati autorizzati dalla comunità e che applicheranno le leggi condivise dalla comunità. Questa comunità è un Commonwealth, ossia una 'repubblica' che comunque rappresenta un’entità politica prima inesistente che però non è sovrano-rappresentativa, quindi il potere legislativo può essere esercitato dai rappresentanti o dall’intero corpo politico. I diritti naturali: Di fatto l’uomo cede tutti i suoi diritti naturali, vita, libertà, proprietà e farsi giustizia da solo ma solo quest’ultimo rimane in carico al corpo politico, tutto il resto gli viene restituito mediante diritti civili e politici. La dialettica moderna si pone come pensiero ed esperienza complessiva della contraddizione sulla scia della contraddizione fra libertà individuale e necessità dell'ordine politico, fra soggetto e Stato e fra particolare e universale, tutte cause di oscillazione fra obbedienza e rivoluzione durante l’epoca razionalista e illuminista. Il pensiero di Kant rende evidente con il pensiero razionalistico non c’è un punto di piena corrispondenza tra la libertà individuale del soggetto e ordine politico. La rivoluzione francese è proprio la dimostrazione delle contraddizioni del pensiero razionalistico. Punto chiave del razionalismo moderno è l'idea che la politica deve diventare il campo d'applicazione della ragione umana, l’idea è condivisa anche dal pensiero dialettico però viene criticata l’astrattezza e l’inefficacia di illuminismo e razionalismo a causa delle contraddizioni suddette. L’obiettivo del pensiero dialettico è quello di ri-analizzare le contraddizioni del razionalismo moderno per affermare che si tratta di problemi non superabili con le logiche del razionalismo in modo da poterle reinterpretare in un modo nuovo che ne consenta il superamento. Il pensiero dialettico si sforza di far si che le contraddizioni dell'età moderna possano essere vissute non come cieco destino ma come 'gradini' verso la piena libertà, è la sintesi del pensiero di Marx con il marxismo. Il pensiero dialettico vede quindi l'enfatizzazione della contraddizione, dalla sua reinterpretazione in chiave storica, e infine dalla libertà come liberazione (filosofica, oppure reale) dalla contraddizione. Il pensiero dialettico chiede alla politica di accogliere e di ospitare esigenze tanto di critica radicale, di approfondimento della contraddizione, quanto di libertà, sia assoluta sia concretà e storica, per questa finalità si giunge ad affidare la realizzazione della liberta non all'agire umano ma alla necessità della storia. Analizziamo ora le differenze tra il pensiero di vari autori del pensiero dialettico. 1. Fichte Superamento della filosofia kantiana In Fichte, il tema della libertà di Kant diviene la base di un’azione filosofica che attraversa la rivoluzione francese e il rapporto con lo Stato, per affermare una positività morale realizzabile grazie allo “Stato di ragione”. La ripresa e il rafforzamento dell'originaria autonomia morale del soggetto e della sua libertà (Kant), diventa la base di una nuova visione per organizzare la politica in modo da superare la distinzione tra il mondo morale dello spirito e il mondo empirico della storia. Il dovere morale diviene il principio di un’azione politica volta all’affermazione della libertà che vede coinvolti gli individui, ma anche lo Stato e la nazione. Fichte, come Kant, rivendica la libertà di espressione legittimando inoltre tale richiesta su base giusnaturalistica. Fichte si accorge inoltre dell'inadeguatezza tedesca di fronte alla rivoluzione e si impegna affinchè si realizzi “l'umanita fra gli uomini” per il progresso morale, per raggiungere questo fine punta sugli intellettuali perchè essi siano la guida filosofica e morale del popolo verso la libertà. 1.1. Rivoluzione e libertà politica In due scritti del 1793 (Rivendicazione della libertà di pensiero dai principi dell'Europa che l'hanno finora calpestata e Contributi per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, quest’ultima era un’opera di August Wilhelm Rehberg ), Fichte sostiene un’idea contrattualistica e antidispotica dello Stato oltre che ad impegnarsi sul tema della liberta di pensiero considerata un diritto inalienabile del patto\contratto. Così come fatto da Kant, rielabora la distinzione tra la felicità, che l'uomo si attende da Dio, e la protezione dei diritti esterni, che il cittadino si aspetta dal sovrano. Libertà delle volontà individuali Lo scopo del Contributo è quello di 'legittimare' la rivoluzione francese sulla base del fatto che gli uomini dispongono del diritto inalienabile di modificare la propria volontà e lo Stato è semplicemente uno strumento di affermazione di tale volontà, una volontà che non può quindi essere limitata dalla tradizione e da quanto le generazioni passate tramandano alle future. Stato e libertà Sarebbe contraddittorio che gli uomini, dotati di intelligenza e libera iniziativa, non cambino mai il proprio pensiero e il proprio giudizio. Il perfezionamento della morale e il raggiungimento della libertà assoluta è quindi realizzabile solo attraverso uno Stato fondato sul contratto che nel tempo possa essere modificato, proprio per questo, cioè per il superamento del contratto, lo Stato funge da mezzo temporaneo per il raggiungimento degli scopi e chi si deve occupare della persecuzione di questi obiettivi sono per Fitche i “Dotti” (Lezioni sulla missione del dotto (1794)). Teoria delle sfere concentriche Dai testi di Fitche e dal suo pensiero emerge la urgente necessità di raggiungere uno stato di “supremazia della legge generale”. Questa necessità è esposta nei “Contributi” in cui si vi si rappresentano quattro cerchie concentriche di diversa grandezza e di valore decrescente dalla più esterna alla più interna: la prima, e più ampia, circoscrive il terreno della coscienza, cioè della legge morale; l'ultima, la più piccola, coincide con la sfera del contratto statale. 1.2. Lo Stato e la rappresentanza L'ingresso nello Stato diventa un atto necessario per il riconoscimento dei diritti naturali \originari e per la loro tutela. La politica, che realizza il diritto, è lo snodo obbligato verso l'affermazione della libertà e della morale. Rappresentanza L’obiettivo si raggiunge solo con lo Stato “rappresentativo”, cioè uno stato in cui ogni cittadino possa riconoscere come propria la volontà statale. Fitche critica la forma della democrazia diretta poiché, con tale modalità di governo, tutti si sentono in diritto di esercitare il potere che però di fatto appartiene alla comunità nel suo complesso ed è legittimata dai singoli, si tratta inoltre di una forma che provoca instabilità; per questi motivi è opportuno delegare il potere di governo ad una rappresentanza legittimata appunto dal popolo. A differenza di Kant, in Fichte i tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) non sono separati, ma si concentrano nel governo in linea con la logica che impone l'unita del potere. Controllo del potere dello Stato Per Fitche le tre funzioni dell’unico governo, che include tutti i poteri, devono essere comunque sottoposte ad controllo e a un giudizio. Questa funzione deve rimanere all'intera comunita, mediante l’istituzione di una magistratura elettiva, gli efori. Si tratta di un organo appunto di controllo e di garanzia che giudica l’operato del governo che riprende un po’ l’idea del tribunato della plebe di epoca romana. Gli efori, eletti da tutti gli uomini, non decidono autonomamente ma possono sospendere le norme giuridiche emanate dai governanti e sottoporle all’attenzione del popolo, dopodichè il popolo vota, chi perde tra efori e governanti è condannato all’esilio. Gli efori limitano il potere di resistenza dei singoli individui ma tale potere viene comunque garantito se tutta la comunità sente esigenza di rivoluzione. 1.3. La società e la nazione Organizzazione della società Si delinea una società complessa con ceti o corporazioni, ai quali Fitche attribuisce valore morale poiché in essi si inserisce l’attività dei singoli. Lo Stato, dal canto suo, diviene il promotore della moralità. Inizialmente Fichte spiega perchè è necessario arrivare allo Stato partendo dai diritti dell’uomo, poi, a partire circa dal 1800, tende ad attribuire allo Stato un vero e proprio potere di costituire la società giuridica, stimolando e costringendo i cittadini a realizzare il regno del diritto. Compito dello Stato è quello di organizzare il corpo sociale e di perseguire l’obiettivo dell’autosufficienza economica, per rendere possibile questo obiettivo l’attività economica dello stato deve intendersi isolata rispetto al resto del mondo affinchè venga garantito lavoro e sussistenza di beni a tutti. Poichè gli uomini non riescono autonomamente a garantirsi i propri diritti, si rende necessaria un'azione educativa e pedagogica dello Stato volta alla moralizzazione degli uomini. Unità nazionale Dopo la disfatta di Jena (1806) e l'occupazione napoleonica della Prussia, con i Discorsi alla nazione tedesca (1808) Fichte si rivolge direttamente al popolo tedesco per analizzarne le peculiari caratteristiche storiche, così da ravvivare l'orgoglio nazionale e da riguadagnare l'indipendenza e l'unita nazionale. Il principio di nazionalità, fa si che la perfezione del genere umano divenga compito di una nazione singola e la Germania (Prussia) può assumere questo compito proprio in conseguenza delle sue caratteristiche apparentemente contraddittorie: da una parte essa è tagliata fuori dalla storia, ed è pura e primordiale per la sua lingua incontaminata da altre culture; dall'altra parte la nazione tedesca deve farsi erede e continuatrice della moderna ragione europea. Di fatto, Fitche ritiene quello tedesco come uno stato “superiore” culturalmente proprio perchè non influenzato da nessun altra cultura e quindi può diventare l’esempio del nazionalismo. La missione deve essere quella di dare l’esempio dell’equilibrio a tutti gli altri paesi europei affinchè tutti ripongano le spade, è questo un altro esempio di grande civiltà e libertà. 2. Hegel Lo Spirito La riflessione di Hegel parte da un problema non risolto da Fitche, cioè la contraddizione fra libertà del singolo e libertà assoluta dell'universale, fra morale e mondo storico. Hegel trasforma questa contraddizione come uno scontro tra idea e realtà trovando lo “Spirito” come superamento-comprensione. Lo Spirito (Geist) è la Ragione che a sua volta è il motore della dialettica. Al pari dei teorici del contrattualismo Hegel è un teorico della modernità e delle sue forme (la forma-Stato), ma in modo diverso dal razionalismo moderno caratterizzato comunque da una certa astrattezza. Critica del diritto naturale e del Terrore Il soggetto hegeliano è certo l'attore ma non più l'origine della politica e dell'azione storica, tale ruolo è infatti ricoperto dallo “Spirito”. La riflessione di Hegel parte dalla critica della teoria del diritto naturale e dalla critica del Terrore poiché si tratta di questioni accomunate dall’astrattezza. Per Hegel vi è proprio una contraddizione tra Diritto Naturale e Terrore poiché il primo realizza il contratto per la libertà di tutti, il secondo invece fa l’esatto contrario, abolisce il contratto per la libertà di tutti, pertanto, in assenza di un superamento (Aufhebung) di tale contraddizione vi è la morte di entrambe le ideologie. Il superamento è accompagnato dal concetto di Erinnerung, si tratta della capacità “superiore” di guardarsi indietro per comprendere il cammino storico compiuto in modo da riconoscerlo come proprio. 2.1. Dagli scritti giovanili alla «Fenomenologia dello Spirito» Spirito del cristianesimo Hegel, fin in da giovane mostra in “La vita di Gesù , 1795” , “La positività della religione cristiana, 1795” e in “Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, 1799”, l'esigenza di concretezza. Contrappone le caratteristiche di rigidità e sottomissione della religione ebraica con lo spirito del cristianesimo che significa amore per l'umanita e per il suo destino; un idea in costante movimento che innalza il ruolo del soggetto al livello dell'Assoluto. Via tedesca alla rivoluzione La medesima esigenza di concretezza ritorna anche nella Costituzione della Germania (scritta tra il 1799 e il 1802, ma pubblicata postuma solo nel 1893), con cui Hegel non rifiuta la rivoluzione francese, poiché inevitabile e necessaria, ma evidenzia il problema di dare seguito al messaggio universale di libertà frutto della rivoluzione. Significa che la Germania deve trovare la propria via alla rivoluzione e alla costituzione statuale, abbandonando i feudalismi e i particolarismi che connotano la storia tedesca. Eticità greca Nel “Sistema dell'eticità” si cooupa della conflittualità tra soggetto e universale, tra individuo e Stato, che si risolve attraverso il concetto di eticità che sulla base degli esempi con la polis greca consente al singolo di riconoscersi nella città. Superamento del contrattualismo La sovranita hegeliana rappresenta il rapporto immediato che lega Idea e contingenza, evidenza che nel particolare si esprime l'universale: tutto il sistema delle mediazioni trova il proprio punto focale in un'immediatezza, la persona del sovrano. La decisione politica suprema è affidata da Hegel a un individuo concreto , il monarca. Finitezza dello Stato: il giudizio della storia Lo Stato è un prodotto della storia e come tale e sottoposto alle regole e ai giudizi della storia. La storia del mondo che segue nel suo sviluppo il corso del sole, da Oriente a Occidente, dal mondo orientale (in cui uno solo, il despota, e libero), attraverso il mondo greco e il mondo romano, al mondo germanico, che concilia il principio luterano della libertà interiore con quello rivoluzionario della libertà di tutti di fronte alla legge. Lo Stato però non è l'ultima figura di questo processo. Oltre lo Stato sta il "tribunale del mondo" che e signore della vita e della morte degli Stati, e che ne sancisce l'affermazione o la scomparsa a seconda che siano o non siano all'altezza dello Spirito del mondo. Non può esistere l'ottimo Stato e neppure la Verità calata nella politica, ma solo che di volta nella storia uno Stato determinato rappresenta la consapevolezza e la realizzazione più alta delle relazioni storiche e politiche di una data epoca, e che quindi ha in quell'epoca l'egemonia, mentre forme politiche meno sviluppate e coscienti sono condannate di volta in volta all'estinzione. Finitezza dello Stato: la plebe Una contraddizione che lo Stato incorpora, ma che non supera mai è la produzione di miseria e plebe. Hegel coglie ciò, come uno degli effetti delle dinamiche capitalistiche che si producono in una società civile. 11. L'ordine dopo la rivoluzione Dopo la rottura rivoluzionaria c’è esigenza di rimediare a tale rottura integrando all’interno della politica quelli che erano i principi alla base delle rivoluzioni. Questo obiettivo viene perseguito attraverso due strategie. La prima, controrivoluzionaria, vuole garantire la stabilità del potere politico e renderlo immutabile sulla base della tradizione, per ristabilire e legittimare un ordine gerarchico basato sulla fedeltà dei sudditi al sovrano, e nella religione, intesa come sintesi dei valori tradizionali. La seconda, più comprensiva dei bisogni manifestati con la rivoluzione, che però tende a prendere le distanze dagli esiti radicali e democratici dell'esperienza rivoluzionaria, e a 'raffreddare' l'energia politica sprigionata dalla rivoluzione. Si parla del liberalismo moderato (metodo della legalità) che vuole bilanciare la sovranità del re con un limitato principio rappresentativo garantito da una carta costituzionale, sia le nuove elaborazioni di una “filosofia positiva” capace di disciplinare il comportamento delle varie classi e di promuovere la società industriale come il sistema definitivo di organizzazione sociale. 1.1. Burke Rifiuto della ragione rivoluzionaria Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790) è il primo testo della letteratura controrivoluzionaria. Partendo dall’assunto che la società si evolve e si sviluppa per un ordine morale e fisico dell’universo, è chiaro l’uomo debba sottomettersi, quindi la rivoluzione è un’anomalia. La rivoluzione inglese del 1688 è ritenuta “positiva” poiché rivendica valori tradizionali mentre quella francese è “negativa” poiché fa tabula rasa di tutto e risulta astratta dal punto di vista delle ragioni che non sono basate sulla storia. Per Burke, poichè la vita associata degli uomini è governata dallo scorrere delle generazioni sulla base diun contratto originario ed eterno non è comprensibile la pretesa dei philosophes di imporre al mondo i lumi della loro ragione e di pretendere che questi rendano universale la politica. La scienza politica è “sperimentale”, nel senso che richiede saggezza, osservazione, prudenza, data la complessità, gradualità e variabilità dei processi storici. Come si vedrà ancora meglio nei cattolici, il pensiero controrivoluzionario dissocia la natura dalla ragione e l'associa alla storia e alle sue concretezze. Storicismo conservatore Così come la rivoluzione abbatte lo Stato esistente, ne crea uno nuovo, più potente e senza quelle istituzioni intermedie – i Parlamenti, le corporazioni – la cui rimozione consente allo Stato di agire direttamente nei confronti dei singoli, senza intermediazioni, pertando il potere politico a degenerare in dispotismo. L'adesione alle istituzioni storicamente consolidate e l'appello alla religione come base di ogni forma di vita associata è quindi fondamentale nel pensiero di Burke. 1.2. I controrivoluzionari cattolici Dottrina che contesta l’intero sistema di pensiero illuministico e rivoluzionario partendo dall’assunto apodittico e autoevidente: la fondazione naturalmente trascendente della società e del potere politico. Il loro intento è di risalire a monte della crisi rivoluzionaria, per interpretarla alla luce di un rigido determinismo teologico-politico. Dio è il fondamento ultimo (o primo) della legittimità della politica, sulla base di un'interpretazione letterale della Lettera ai Romani di Paolo 13, 8. L'ordine politico è centrato su Dio, che però lo abbandona alle leggi di una natura concepita quale destino inesorabile di ordine gerarchico; la storia si incarica di tramandare le forme dell'ordine come 'tradizione', in una sorta di eterna ripetizione e conferma. Naturalismo cristiano Per questi autori l’ordine politico non può essere costruito dagli uomini. Poichè ogni tentativo umano di sostituire Dio con l'uomo non produce altro che instabilità e disordine, la modernità è quindi un'epoca votata alla catastrofe. I dogmi religiosi sono il fondamento non solo dell'ordine spirituale, ma anche di quello politico, e ogni movimento, o messa in crisi, delle fondazioni teologiche produce spostamenti e adeguamenti anche sul piano politico. Un'eresia è anche una rivoluzione. Il re come ministro di Dio Il sovrano è un diretto ministro di Dio e il suo mandato e quello di conservare l’ordine di natura di cui anche il sovrano è parte. La sovranità non può essere assoluta, soprattutto considerando che i controrivoluzionari, aristocratici, sono eredi di una lotta anti assolutistica. Il potere non viene però limitato con una “lotta” contro il sovrano, voluto da Dio, ma il diritto di resistenza è quello tradizionale dei ceti, che richiamano il sovrano ai limiti naturali del suo potere, o eventualmente quello del pontefice. 1.3. Maistre Fortemente pessimista sulla natura umana, sostiene che la ragione individuale è “perfettamente impotente” e causa solo di divergenze. Contro la libertà religiosa e l'individualismo propugnati dal protestantesimo, afferma che ci debba essere una “religione nazionale”, ossia una religione politica, che il sovrano deve rendere obbligatoria per questioni di coesione. Dio fondamento della politica Il fondamento della politica non è l'uomo, ma Dio: l'origine della politica non è a disposizione della ragione umana e l'unica legittimità che sia veramente tale, quella della monarchia, è giustificata solo per la lunga durata. La Provvidenza divina, che procede per vie misteriose, vuole che l'uomo sia incapace di governarsi, che la sovranità sia fondata sul sacrificio e sulla punizione pià che sulla razionalità; in quest'ottica, che vede la politica come fenomeno essenzialmente religioso e gerarchico, vanno inquadrati anche l'elogio del boia e della guerra nelle Serate di San Pietroburgo (1821). Interpretazione dell'evento rivoluzionario Relativamente alla rivoluzione francese Maistre ritiene che in realtà questa è una macchina che agisce spinta da una volontà diabolica (satana) e non dall’uomo. Tuttavia ritiene che la rivoluzione è stata anche volontà di Dio che ha voluto punire la corruzione dell'Antico regime. La politica potrà essere sottratta al destino moderno di essere perennemente squilibrata e oscillante fra assolutismo (che produce servitu) e ribellione (che produce rivoluzione) se la sovranità si riconoscera fondata su Dio e non sulla ragione, e se accettera di trovare i propri limiti non nelle costituzioni scritte ma nell'autorita del papa. 1.4. Bonald Teoria del linguaggio La teoria di Bonald è centrata sulla critica dell'astrattezza moderna e, in positivo, sulla teoria del linguaggio, visto come dono immediato di Dio all'uomo. Studio della metafisica Nel potere politico c’è una legge secondo la quale ogni rapporto tra gli enti deve essere il risultato di un'azione causale. Come il rapporto di causa ed effetto tra Dio (la Causa) e la creatura (l'effetto) è stato mediato da un mezzo che ha trasmesso l'azione causale (il Verbo, o Figlio), così il rapporto fra il potere del re (la causa) e la società dei sudditi (l'effetto) richiede di essere mediato da un Ministro (la nobiltà). Le triadi di Causa, Mezzo, Effetto, e di Potere, Ministro, Suddito, sono organizzate per cerchi concentrici, dal più generale al più particolare: e sempre, per Bonald, è il potere a conservare, attraverso la mediazione dei ministri e le istituzioni, coesione sociale e legittimazione alla società. Ogni rapporto politico viene così concepito come un caso applicativo di questa regola trinitaria che, in quanto vera, unica e autentica legge naturale, si presta a divenire funzionale allo sviluppo di un sistema della società, che conferisce al pensiero di Bonald il carattere più fortemente organicistico tra tutti i controrivoluzionari . Per lui, esiste una società politica, guidata dall'aristocrazia, ed esiste anche, distinta da quella, una società civile, luogo della produzione. La prima protegge la seconda, e i migliori membri di quest'ultima possono essere cooptati nella prima. Teologia politica La fondazione religiosa, metafisica e naturale della politica e dei rapporti di potere si manifesta nel modo più chiaro nei parallelismi tra forme del dogma e forme della politica (cattolicesimo e monarchia; luteranesimo e aristocrazia; calvinismo e repubbliche democratiche; anglicanesimo e governo misto inglese). Questa teologia politica consente a Bonald di definire la rivoluzione francese come una manifestazione infernale, come la negazione di ogni civilità e di ogni potere conservatore, e pertanto destinata a fallire perchè la ragione umana non può costruire e conservare da sola l'ordine politico. 1.5. Lamennais La religione cattolica Pone al centro della propria argomentazione il “senso comune”, che per lui è il principio d'autorità, coincidente con la stessa ragione umana: questa nel corso della storia si da sempre una religione, per appagare il proprio bisogno di certezze. La religione più perfetta, rivelata dall'Uomo-Dio (Cristo) e incarnata nell'apparato più autorevole (la Chiesa cattolica) è per lui anche la più razionale, è quella che fornisce maggiori certezze all'uomo e alla società. Al contrario, la ragione moderna, è irrazionale e causa di instabilità proprio perchè indifferente alla religione. Solo Dio è l'autore della società, e solo il cristianesimo cattolico ne è l'unica garanzia di conservazione. Lamennais è convinto, più di tutti, dell’instabilità della rivoluzione poiché dominata dall'individualismo borghese (prodotto della Riforma) di cui condanna la violenza e la prevaricazione economica e politica che attua nei confronti della Chiesa e sui più deboli. Polemica anti-borghese Nell'impossibilita di restaurare il rapporto tradizionale di trono e altare, si deve ora cogliere l'opportunità, per la Chiesa, di correggere le contraddizioni e le instabilità del mondo moderno, e di dare vita a un vero e proprio partito cattolico: l'obiettivo di Lamennais è quello ci cattolicizzare la rivoluzione. 1.6. Donoso Cortés Donoso Cortes reagisce alla rivoluzione europea del 1848 riprendendo le tematiche e gli assunti tipici di Maistre, Bonald e del primo Lamennais. Forme di governo Il punto di partenza teorico è la “legge naturale dell'ordine”, cioè l'assunto metafisico che l'ordine politico possa essere fondato solo su Dio, che spiega e giustifica le strutture gerarchiche di dominio, sia nella famiglia, sia nella società e nello Stato. Al teismo (la credenza in un Dio che crea e governa il mondo) corrisponde l'assolutismo regio, ma poiché Donoso non la ama per il suo razionalismo, vi contrappone la “monarchia cristiana” premoderna; al deismo (la fede in un Dio che crea il mondo ma lo lascia svolgere secondo le sue leggi naturali) è analogo il liberalismo costituzionale (che limita l'agire del sovrano, sottoponendolo alle leggi del Parlamento); il panteismo (la teoria che Dio è ovunque) da vita alla democrazia (la dottrina che vede la sovranità diffusa ovunque, nel popolo); e infine, distinguono non per il sapere, ma per i privilegi o per la gloria, l'onore, la guerra. Neppure la nuova epoca organica può tuttavia prescindere da una sua religione, da un Nuovo cristianesimo capace di realizzare concretamente il principio dell'amore del prossimo senza dover fare ricorso a principi teologici tradizionali. 2.3. Comte La solidarietà necessaria alla società industriale deve dunque essere assicurata da un sistema intellettuale equivalente alla religione cristiana; Da Maistre, Comte riprende sia l'immagine della società medievale come espressione storica di una società organica, sia l'interpretazione della storia moderna come del processo della sua progressiva dissoluzione. La restaurazione di quel sistema è ormai diventata improponibile, poiché figlia di un'epoca antecedente alla nascita delle scienze e quindi a un'età ormai superata dello sviluppo dell'umanità. Mentre cioè l'antico sistema sociale (la tradizione cristiana) garantiva l'ordine escludendo il progresso, e mentre il sistema intermedio (il razionalismo e l'illuminismo) ha consentito il progresso ma ha distrutto l'ordine, il sistema della società industriale è destinato a poggiare su quella conciliazione tra ordine e progresso che può essere assicurata dal potere degli scienziati positivi e degli industriali. La legge dei tre stadi Comte afferma la priorità dello sviluppo intellettuale su quello politico e ritiene inoltre che l'avvento del nuovo sistema sociale non si collochi in un futuro prossimo: soltanto quando il sistema del sapere sarà giunto a conclusione nel momento in cui tutte le scienze avranno raggiunto lo stato positivo, allora vi saranno le condizioni necessarie alla completà edificazione della società industriale. Lo stadio positivo si configura come la conclusione di un processo storico articolato in tre età, teologica, metafisica e scientifica, a cui corrispondono tre stadi di evoluzione interna delle scienze. Lo stadio teologico presenta una società fondata sul lavoro degli schiavi e sulla guerra, mentre il governo è di tipo teocratico e militare. Lo stadio metafisico o astratto dissolve le fantasie mitiche e religiose e le sostituisce con le entità astratte del pensiero filosofico. Dal punto di vista sociale in questo stadio si affermano l'individualismo, l'egoismo, l'utilitarismo, che esprimono una società non più basata sulla autorità del sovrano, ma su un astratto patto sociale che attribuisce la sovranità al popolo. L'ultimo stadio, quello scientifico o positivo, sostituisce alla fantasia e al ragionamento astratto l'osservazione e il rispetto dei fatti. Promuovere questo stadio anche nella politica, nella morale e nell'economia, è il compito della filosofia positiva, che deve unificare tutti i risultati delle scienze particolari e orientarli alla realizzazione di una scienza della società che Comte chiama fisica sociale o sociologia e che si configura quale premessa e condizione di una società pacifica e produttiva. Il sistema industriale Il persistente antagonismo tra imprenditori e lavoratori viene ricondotto alla incompiutezza della società industriale. Per questo è necessario un “coordinamento” che “deve essere dapprima intellettuale, poi morale infine politico”. L'autorita intellettuale e morale del sapere legittima l'esercizio dell'autorita politica facendo prevalere lo “spirito d'insieme”, disciplinando il comportamento delle varie classi, garantendo una sintesi armonica dei molteplici aspetti della realtà fondata sul consenso e promuovendo la società industriale come il sistema definitivo di organizzazione sociale. La solidarietà non deve essere tale da ostacolare il progresso, ossia una forma di “rinnovamento mentale” capace di perfezionare le facoltà dell'uomo e una forma di “rinnovamento sociale” capace di migliorarne le condizioni di vita. 3. La Germania L'illuminismo e la rivoluzione francese producono in Germania reazioni del tutto particolari, anche al di la delle posizioni della grande filosofia e della grande letteratura: Kant, Fichte, Hegel, Friedrich Holderlin e Friedrich Wilhelm Joseph Schelling. 3.1. Herder Educazione dell'umanità gia in Johann Gottfried Herder (1744-1803) si era annunciata la riscoperta delle tradizioni e delle culture nazionali destinata a venire poi sviluppata prima dallo Sturm und Drang e poi dal movimento romantico tedesco. Si deve a Herder la creazione del termine “nazionalismo” inteso come rivendicazione del più generale diritto delle genti a manifestare in modo autonomo la propria specificità. Ogni popolo, nella sua spontanea forma di vita, va infatti considerato quale manifestazione unica e originale della divinità. Herder concepisce la storia, come la natura, nei termini di uno sviluppo sottoposto a leggi immutabili. Natura e storia cooperano all'educazione dell'uomo all'umanità poichè l'unità profonda di questi due mondi deriva dall'essere entrambi creazione e manifestazione di Dio. Ciò si verifica attraverso la successione delle epoche storiche, nelle quali traspare “il cammino di Dio attraverso le nazioni”. Le tappe di questa successione sono scandite dall'Oriente, concepito come la sede originaria del genere umano, dalla Grecia, intesa come un'epoca storica caratterizzata da istituzioni libere poi abbattute dalla potenza livellatrice dei Romani, e dall’antichità germanica, in cui si verifica quella convergenza tra cristianesimo e spirito nordico che lascia intravedere l'inizio di un nuovo ciclo storico. 3.2. Il romanticismo Politica poetica La cultura romantica in Germania è critica rispetto all’idea di ragione degli illuministi. Secondo i romantici, la razionalità degli illuministi è causata dal Terrore giacobino e dall'imperialismo napoleonico e pretende di avere astrattamente una validità universale. Per la sua astrattezza, la ragione illuministica si è trasformata, da principio di libertà, eguaglianza e giustizia in strumento di oppressione, livellamento e violenza. A questo tipo di ragione, i romantici oppongono il principio della soggettività come sentimento concreto. Al dispotismo illuminato e paternalistico prerivoluzionario viene così contrapposta la “bella individualità greca”; allo Stato rivoluzionario l'amore, l'organismo, il culto del passato medievale; alla restaurazione, e a quanto di burocratico vi è comunque implicito nella sua logica statuale, il governo “spirituale” della Chiesa cattolica. L'interiorità spirituale si configura come un principio reattivo che tende a sublimare ogni problema reale in una sfera 'superiore', ossia la sfera poetica. La politica sentimentalizzata Per Friedrich Schlegel il romanticismo si basa sul tema dello “Stato interiore”, ossia su di una politica sentimentalizzata che si traduce nel rifiuto di ogni differenza politica e istituzionale. Questo è dimostrato dalla sua indifferenza sui dibattiti francesi per la scelta della forma istituzionale. La mancanza di chiarezza di Schlegel sulla rivoluzione francese si campisce dalla evoluzione intellettuale, che inizialmente è repubblicana ma poi si converte in cattolicesimo, si metter inoltre al servizio di Metternich e riprende la polemica controrivoluzionaria di Burke, Maistre, Haller. Dai controrivoluzionari prende il rifiuto del meccanicismo artificiale dello Stato moderno e valorizza invece l'organicismo, con il ruolo centrale della religione inteso come veicolo di legittimazione e come limitazione del potere del monarca, pertanto rivaluta il Medioevo poiché basato su una organizzazione corporativa (ständisch) della società. Il modello del cattolicesimo universale Novalis, pseudonimo di Friedrich von Hardenberg , anticipa le teorie dello Stato organico, della monarchia cristiana, della Germania come antitesi alla Francia. Si esalta l'antica libertà delle comunità germaniche in opposizione al moderno assetto “sociale”, fondato su razionalità, individualismo e contratto. Novalis conferma l'immagine del romanticismo politico come di una poeticizzazione della politica attraverso la proiezione esterna dell'Io sentimentale. Novalis immagina lo Stato come un “grande uomo” in cui le corporazioni rappresentano gli organi, la nobiltà corrisponde alla facoltà morale, il clero alla facoltà religiosa, i dotti all'intelligenza, il re alla volontà e la forza politica all'amore. Non sono la ragione, l'opinione, l'interesse o l'artificio a dare vita al corpo comune ma la devozione emotiva dei sudditi per la vita della monarchia e per la coppia regale, in forma di “fede” nei confronti del re e di “amore” verso la regina. Per Novalis è il cristianesimo, lacerato da Riforma e Rivoluzione, che dopo un rinnovamento può riunificare spiritualmente l’Europa per un’autentica libertà e pace perpetua. La conciliazione organicistica Oppositore dell'assolutismo riformatore prussiano Muller propone una riorganizzazione organica dell'intera società che vede nello Stato, la realizzazione di un principio politico universale, che però non sia nazionalismo né esaltazione di una politica di potenza. Anche lui riprende l’idea organica del Medioevo, la tradizione diviene un paradigma immutabile della convivenza sociale e di quell'organismo che sono le comunità umane; la società organizzata (la famiglia, le rappresentanze cetuali, la nobiltà, il clero e la monarchia) va difesa dagli effetti distruttivi di economia e di politica borghese. C’è il rifiuto delle teorie economiche sul predominio del mercato sia le costruzioni razionalistiche dello Stato fondate sul diritto naturale, poiché si tratta di astrazioni. Muller sostiene una restaurazione di un 'Tutto' internamente coerente che ricomprenda l'individuo, la società e lo Stato. Gli individui dovrebbero esprimersi come componenti di un corpo e non come singoli e la società dovrebbe essere cetuale, riconoscendo al clero il diritto di proprietà con il compito di mediazione politica tra nobiltà e borghesia, lo Stato sarebbe di una monarchia cui spetta il compito di assicurare la continuità della tradizione e dell'assetto politico, sociale ed economico. Muller concepisce la guerra come una condizione naturale della pace e come un potente fattore di stimolo per la valorizzazione delle singole specificità nazionali proprie di ogni Stato, non si tratta tuttavia di una logica di potenza. Pensiero controrivoluzionario tedesco Anche Franz von Baader (1765-1841) propone un rinnovamento in senso cetuale e corporativo della società. Anche Johann Joseph von Gorres (1776-1848) è dello stesso parere, egli, nonostante aperto alle idee illuministiche, dopo l'ascesa al potere di Napoleone si orienta in senso più conservatore. Anche Gorres riprende il concetto di una società organicistica a sfavore di una razionale e meccanicistica e critica la separazione Statp-Chiesa. Un ulteriore contributo alla diffusione delle idee controrivoluzionarie viene da Friedrich von Gentz (1764-1832). Lo Stato patrimoniale Le conseguenze più specificatamente politiche del controrivoluzionarismo partono da Karl Ludwig von Haller (1768- 1854) , che del romanticismo politico condivide l'opposizione alla rivoluzione e l'aspirazione alla restaurazione dell'ordinamento sociopolitico prerivoluzionario, ma non il soggettivismo sentimentale. Haller si oppone al razionalismo giusnaturalistico (illuminismo) un razionalismo tradizionalistico che si appella allo stato di natura per derivarne, in funzione anticontrattualistica, la tesi del diritto naturale dei principi al loro potere. Secondo Haller la storia è prosecuzione, e non rottura, della legge di natura: una legge di natura che deve ricondurre allo stato di servità del privato rispetto al padrone. Al contratto, basato sull’uguaglianza di diritto pubblico, Haller contrappone molti contratti ineguali di diritto privato. L forma di Stato in cui meglio si esprime il principio della disuguaglianza naturale è lo Stato patrimoniale. L'unico e il solo veramente libero è il principe, il sovrano. Questa idea è stata violentemente criticata da Hegel. 3.3. Humboldt In Prussia l'esperienza della resistenza a Napoleone e ai francesi, che mette in evidenza la crisi del vecchio pluralismo Corporativo dello Stato fridericiano, sollecita un ammodernamento dello Stato, dando luogo a un'epoca di riforme, istituzionali, civili, militari, educative che va dal 1807 al 1819. Il cui più significativo esponente è Wilhelm von Humboldt. Dalla rivoluzione trae la differenziazione tra uomo e cittadino, inserendola in un orizzonte concettuale di derivazione kantiana, che vede il soggetto come espressione della libera personalità individuale, razionale e multilaterale, e lo Stato come il sistema esterno di limitazione della libertà del singolo. Libertà politica Gia nel 1792 Humboldt si colloca nella prospettiva della libertà moderna per giudicare sia la 'libertà degli antichi', sia il dispotismo illuminato prerivoluzionario. Nell’antichità l’uomo politico doveva essere un tutt’uno con lo stato e non poteva distinguere la propria vita tra uno spazio interno ed esterno, gli era quindi impedito lo sviluppo dell’energia spirituale, per tale motivo, alla politica moderna spetta il compito di conciliare la massima libertà interiore con una dimensione esterna destinata a imporre dei limiti a questa stessa libertà. La politica diviene quindi l'orizzonte che consente di promuovere “l'organizzazione politica del popolo” di introdurre una legislazione coerente e compiuta che esprima la sovranità popolare e corrisponda al principio di utilità quale fondamento dell'ordine e della sicurezza sociali. Il sistema politico: la democrazia rappresentativa Il solo principio atto a spiegare la nascita della società e delle leggi è dunque quello del vantaggio che ne deriva per tutti, ossia il principio dell'utile comune. Chiaramente non tutti potranno trarre vantaggi ma si cercherà di accontentare il maggior numero di persone. La sovranità appartiene al popolo che designa una minoranza di individui per rappresentarlo. La democrazia è quindi necessariamente rappresentativa. E’ necessario il suffragio universale. Il potere legislativo deve rispondere delle proprie decisioni al potere costitutivo supremo, ossia al corpo elettorale, e anche il potere esecutivo, con gli organi amministrativi, vanno sottoposti al suo controllo, così da impedire violazioni della volontà popolare. Bentham teorizza quindi una democrazia liberale: solo un governo democratico è capace di assicurare la coerenza tra decisioni politiche e interesse pubblico. Solo il voto segreto, la competizione tra i candidati politici e la libertà di stampa, di parola e di associazione pubblica permettono infatti di tutelare gli interessi di tutta la comunità. Indivisibilità del potere Bentham non accoglie il principio della divisione e del bilanciamento dei poteri alla Montesquieu. Il potere democratico è indivisibile, in quanto l'esecutivo e il giudiziario hanno il compito di dare pratica attuazione a quanto stabilito dal legislativo. Infatti, dato che il potere legislativo scaturisce direttamente dal sovrano (che è il popolo) tramite il voto, ogni intervento volto a limitare la sua indipendenza viene a intaccare il principio della maggiore felicità per il maggior numero. Ogni pretesa di autonomia dell'esecutivo o del giudiziario nei confronti del legislativo è un errore di origine 'anarchica'. Bentham si mostra critico anche nei confronti del potere amministrativo il quale causa disgregazione dell’unità popolare a vantaggio della sovranità. Radicalismo giuridico Il radicalismo benthamiano è anche giuridico. In “Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1789)” presenta sistematicamente i principi per un progetto di codice penale razionale, che attribuisce all'azione del legislatore il compito sia di operare una ricostruzione razionale di tutte le sfere del diritto sia di ristrutturare l'organizzazione giudiziaria. L'utilità, anche qui, è la sola considerazione possibile per rendere vincolante una certa sanzione o per rendere inviolabile un certo comportamento. E’ soprattutto nell'ambito del diritto che Bentham avanza proposte innovative. Il concetto centrale del diritto penale consiste nel principio secondo il quale ogni delitto merita una punizione. Il solo modo per evitare politiche penali insoddisfacenti o contraddittorie consiste nel muovere dall'idea utilitaristica che la punizione sia sempre un male, in quanto produce dolore, e che dunque attraverso la punizione sia possibile riparare un torto subito ed evitare un futuro male più grande. Il principio cui attenersi a tale proposito è che la pena deve superare, in misura minima, l'utile che il colpevole ha tratto dall'aver commesso il delitto. Bentham dimostra comunque umanità con la riforma delle carceri con cui restituisce dignità al detenuto di cui viene preservata la salute. L'economia: lo Stato minimo In ambito economico non vi è un’idea radicale di Bentham il quale ritiene che ci debba essere da parte dello Stato la tutela del libero mercato poiché ognuno è in grado di cercare felicità e benessere da solo e il benessere dello stato è la somma del benessere individuale. 4.2. Mill Interesse individuale e interesse collettivo L'impegno di James Mill consiste essenzialmente nel tentativo di applicare al tema del governo i principi affermati da Bentham in campo giuridico. Mill propone la modifica del sistema rappresentativo della Camera dei Comuni per difendere una forma più ampia di rappresentanza. Come Bentham, anche Mill ritiene che l'ampliamento della rappresentanza è qualcosa di dovuto per equilibrare l'interesse egoistico e individuale con l'interesse collettivo. La migliore forma di governo è la democrazia rappresentativa. Il dualismo fra rappresentanti e rappresentati può essere temperato dalla brevità del mandato, poiché se questo è breve, il rappresentante non farà malgoverno in quanto passerà comunque il resto della vita da normale cittadino che sarebbe vittima del suo stesso malgoverno. Tuttavia rimangono limiti per donne, età e censo (reddito). La riforma auspicata da Bentham e Mill viene attuata nel 1832. La riforma del 1832 (Reform Bill), considerata all'epoca come una seconda Magna Charta nonostante il diritto di voto venisse esteso ad appena il 5 % della popolazione, viene a consacrare l'emancipazione dei ceti medi grazie all'ampliamento della rappresentanza parlamentare e a sbloccare la cristallizzazione degli istituti costituzionali inglesi, inaugurando un'ulteriore serie di riforme, la prima delle quali è quella relativa all'elettorato municipale del 1836. 12. Società e nazione 1. La questione sociale Proletari e borghesi Erano passati soltanto otto giorni dalla morte di Hegel nel 1831, quando a Lione, al grido “vivere lavorando o morire Combattendo”, insorsero i lavoratori della seta. Era l’origine di una guerra dei poveri contro i ricchi, osservò il fenomeno il Louis Blanc (1811-1882) per cui questa situazione era la dimostrazione dei vizi del regime industriale inaugurato nel 1789. Il 12 gennaio 1832 il rivoluzionario Louis Auguste Blanqui (1805-1881) difendendosi davanti alla Corte d'Assise a Parigi, parlò di “proletariato” inteso come professione di 30 milioni di francesi privi di diritti politici costretti a lavorare per i privilegiati borghesi. La miseria e lo stato di bisogno affliggono ora masse enormi di lavoratori, da cui dipende in buona misura la creazione della ricchezza nel nuovo mondo industriale; la civilizzazione della società moderna è ora minacciata dalla classe operaia, il proletariato industriale che si pone come minaccia per l'ordine costituito. Una proposta di riforma sociale Si ricorda l'opera di Jean-Charles-Leonard Simonde de Sismondi (1773- 1842), “Nuovi principi di economia politica”, uscita nel 1819 e poi, in una seconda edizione notevolmente ampliata, nel 1827. E’ di fatto polemico con la teoria dell’autoregolazione del mercato e critica chi non si preoccupa di cambiare le cose in materia di politica economica che pare far arricchire sempre più il ricco. Questa situazione è frutto della divisione del lavoro e il compito del legislatore deve essere quello di intervenire per ristabilire gli equilibri affinché tutti godano del progresso. Socialismo utopistico Nacquero, sulla scorta degli scritti di Engels, idee per una nuova società socialista. In Inghilterra, negli anni 30 dell’800 nasce il movimento operaio del Cartismo (che alla rivendicazione di un miglioramento delle condizioni di vita delle masse proletarie affiancava la parola d'ordine del suffragio universale), in cui spicca la figura di Robert Owen (1771-1858). In un’industria americana tentò di costituire un modello (new harmony) di comunità basata sui principi socialisti ma il suo progetto fallì, tuttavia, al suo rientro in Inghilterra ebbe notevole influenza per lo sviluppo del movimento cooperativo e sindacale. In Francia, esponenti del socialismo furono Francois Noel Babeuf (1760-1797) e con le lotte delle masse sanculotte, Saint-Simon e i suoi seguaci. Charles Fourier (1772-1837), come Owen, non nutriva particolare fiducia nella lotta di classe. Per lui il sistema capitalistico riduce in schiavitù i lavoratori e la soluzione sarebbe quella di tornare al passato con la costituzione di piccole comunità autonome. Il progetto di riforma del sistema capitalistico Una diversa visione socialista è quella di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) secondo cui la proprietà è “un furto”. Il progetto politico proudhoniano, che fu oggetto di un'aspra critica da parte di Marx, ha un'impronta fondamentalmente riformistica, mirando alla trasformazione graduale dei capisaldi dell'ordinamento sociale capitalistico (proprietà, interesse, rendita), da lui criticato in nome di un diritto naturale dell'operaio alla proprietà degli oggetti che produce; la sua fiducia nella superiorità di un'organizzazione scientifica e razionale della società, che nel 1846 contrappone sia all'abitudine su cui si fonda l'economia politica sia alle utopie diffuse dai teorici socialisti rivoluzionari. Fiducia che non viene meno neanche dopo la sconfitta del moto del '48, trovando anzi sistematica espressione in una Filosofia del progresso (1852). Convinto che i difetti fondamentali del capitalismo derivassero dal valore attribuito allo scambio monetario, al capitale finanziario e al sistema creditizio, Proudhon propone come istituto fondamentale della nuova società il credito gratuito, ovvero una “Banca popolare” che avrebbe emesso senza interessi buoni convertibili in merci, rendendo superflua la moneta. Tra riforma e insurrezione Blanc, si occupò dell’esplosione della questione sociale, ne vedeva la possibile soluzione nella Organizzazione del lavoro (1839). Durante la sua attività come membro del governo provvisorio durante la rivoluzione del 1848 istituì gli “opifici sociali” (atelier sociaux) che rappresentavano interventi dello Stato nella sfera economica. All'indirizzo sostanzialmente riformistico dell'opera pratica e teorica di Blanc si contrappone l'enfasi posta da Blanqui, in una linea di ideale continuità con la congiura degli Uguali di Babeuf e di Filippo Buonarroti (1761-1837), sulle componenti insurrezionali e necessariamente “dittatoriali” della rivoluzione comunista. Germania Fu dall'arretrata Germania che giunsero alcune delle diagnosi più lucide della nuova situazione determinata dal progredire dell'industrializzazione. Negli Stati che componevano la Confederazione tedesca si svilupparono almeno due filoni di pensiero politico liberale: quello tedesco-settentrionale, di impronta storicistica, con Friedrich Christoph Dahlmann (1785-1860), e quello tedesco-meridionale, con Karl Rotteck (1775-1840), di ispirazione marcatamente razionalistica e giusnaturalistica. Per quanto diverse nei loro presupposti queste due correnti di pensiero condividevano un'immagine della società come spazio libero da rilevanti scissioni: mentre la Politica (1835) di Dahlmann appare interamente fondata su quel “ceto medio largamente diffuso, sempre crescente in omogeneità”, pensato come elemento capace di unificare attorno a se la società nel suo complesso e di attuare un “progresso moderato”, negli scritti di Rotteck un accentuato individualismo produce l'immagine di una società coincidente con la somma degli spazi di libertà dei singoli. La loro proposta di civilizzazione e liberalizzazione dello Stato aveva limiti ben precisi che prevedevano il mantenimento della monarchia e l’esclusione di ogni diritto per la plebe. La sinistra hegeliana Questi limiti, a partire dagli anni 30 dell’800, con la divisione della scuola hegeliana, vennero superati. La divisione avvenne sulla critica alla religione (realizzata dalla sinistra), e sulla interpretazione del detto di Hegel “il reale è razionale”. I giovani hegeliani di sinistra avevano interpretato questa frase come un monito e cioè come critica del fatto che il reale dovesse diventare razionale. Gli autori di questa corrente ritenevano quindi che fosse proprio questo principio la pecca di tutta la filosofia di Hegel. In primis Arnold Ruge (1802-1880) presentava l’attuale monarchia come qualcosa di ereditato dalla storia e la critica era infatti proprio nei confronti della storia, da qui il principio della critica delle “esistenze storiche”. Ludwig Feuerbach (1804-1872) estese questa critica all’alienazione religiosa con la quale l’uomo diviene un dominato, si accoda a questa teoria anche Bruno Bauer (1809-1882). Ruge critica direttamente il mondo della politica: lo stesso liberalismo tedesco è da lui accusato di essere sceso a compromessi umilianti con lo status quo, di non aver saputo pensare che una libertà regalata è concessa dall'alto, e soprattutto di non aver compreso che il concetto di popolo è l'annullamento della casta e delle barriere di classe Convinzione di Ruge è che il liberalismo possa giungere alla propria verità solo dissolvendosi, attraverso una riforma della coscienza che lo trasformi in democratismo. Il pensiero diventa più radicale quando si prospetta la questione del comunismo che trasformerebbe ogni plebeo in filosofo, è da questo che difendersi e per farlo occorre abolire la plebe. Le prime formulazioni di un sistema di pensiero socialista in lingua tedesca prende quindi origine dalla sinistra di Hegel e prende piede con l’attività di Moses Hess (1812-1875). Il concetto di classe Di stessa provenienza, Lorenz von Stein, fu colui che riconobbe per primo la minaccia del movimento sociale. Valore d'uso e valore di scambio Consideriamone un aspetto della critica: il c.d. feticismo della merce. La merce, come il denaro, è una delle principali “astrazioni reali” che, nella loro apparente semplicità, ricapitolano in sé tutto l'insieme dei rapporti sociali contribuendo al tempo stesso a determinare la forma concreta che essi assumono. In particolare, la merce è prodotta da un determinato lavoro umano e ha uno specifico valore d'uso, ovvero una sua utilità per il compratore; su questi aspetti prevale tuttavia assolutamente la “spettrale oggettività” del valore di scambio, che deriva a sua volta dal fatto che la merce si pone come risultato di una determinata quantità di “lavoro astrattamente umano”. Perciò la merce si rivela “una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, il suo carattere di feticcio sta proprio nel fatto che nel suo valore di scambio, generalmente espresso attraverso il prezzo in denaro, i rapporti sociali esistenti sono presentati agli uomini come un “rapporto tra cose”; come uno specchio, le merci restituiscono ai produttori l'immagine rovesciata “dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi”, come rapporti 'naturali'. Gli uomini, nel modo di produzione capitalistico, sono dominati dal feticismo delle merci, che tende a invadere l'intero spettro dei rapporti sociali in un'universale reificazione. Ironicamente Marx sostiene che finchè la società capitalistica si ferma a questo può pur andar bene con il rispetto di libertà, uguaglianza e proprietà ma questa è solo un’apparenza di scambio di equivalente con equivalente. Il vero arcano del modo di produzione capitalistico non sta nello scambio di merci, ma nello sfruttamento su cui esso si regge, questo sfruttamento si può scoprire soltanto entrando nel mondo della produzione senza limitarsi al mondo dello scambio. Forza-lavoro, pluslavoro, plusvalore (ricordi sociologia) Concetto di sfruttamento (ricordi sociologia) 2.5. La politica La progressiva socializzazione del lavoro crea le condizioni per la transizione al comunismo poiché si accentua la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell'appropriazione: “quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro”. La transizione non è però da Marx precisamente descritta ma viene indicata in termini generici, si tratta tuttavia di un ulteriore passaggio per il riconoscimento della classe operaia. La Comune di Parigi La Comune di Parigi rappresentava una sfida per la teoria di Marx: essa seguiva una guerra, quella franco-prussiana, che sembrava mostrare il prevalere delle passioni “nazionali” sulla lotta di classe come forza storica fondamentale e inoltre rappresentava l'esito di una rivoluzione proletaria in Francia, piuttosto che in Inghilterra dove il capitalismo la faceva da padrone, nonostante ciò , Marx colse l’episodio per descriverlo come il primo governo della classe operaia in cui si ebbe l’emancipazione economica del lavoro. Nonostante il carissimo prezzo pagato con vite umane, la classe operaia dimostrò di non accontentarsi semplicemente di prendere nelle proprie mani la macchina statale bella e pronta e di farla funzionare per i suoi fini. La dittatura del proletariato Dalla Comune di Parigi, intesa come dittatura del proletariato, vi è la “Critica al programma di Gotha”. Questa dittatura è il passaggio, obbligato, da società capitalista a comunismo, nell’opera di critica, inoltre, Marx sostiene che non spetta agli operai valorizzare lo Stato e renderlo libero. Deperimento dello stato La dittatura del proletariato indica per Marx la pratica rivoluzionaria, di massa e corrispondente agli interessi dell'immensa maggioranza della popolazione, che ha come contenuto esattamente il deperimento dello Stato. 3. Tocqueville Ad Alexis de Tocqueville le giornate di giugno del 1848, parvero necessarie poiché liberarono la nazione dall’oppressione degli operai di Parigi rendendola nuovamente libera ma non riuscirono a spegnere gli animi che sfociarono in future rivoluzioni. L’evento fu comunque una scoperta dei tumulti sociali causati dalle classi più deboli che mettevano in discussione la società liberale. Gli elementi di limitazione del liberalismo, usati inizialmente contro il Terrore giacobino, servivano ora ad ostacolare socialismo e comunismo, inoltre, si tendeva a difendere la classe borghese. Sull’onda di questi principi, in tutta Europa, si diffusero un costituzionalismo e una legislazione economico-sociale di tipo liberale in cui però le forze politiche, storicamente liberali, si opposero proprio all’estensione del suffragio e alla democratizzazione delle strutture politiche, manovre che, a loro dire, potevano minare l’ordine sociale. 3.1. L'uguaglianza Democrazia come stato sociale Il principale contributo di Tocqueville alla teoria della democrazia consiste da una parte nell'avere sfatato il luogo comune settecentesco secondo cui la democrazia era una forma politica adatta soltanto a repubbliche di piccole dimensioni, dall'altra nell'avere impostato una riflessione sulla democrazia intesa non tanto come forma di governo ma come insieme di dinamiche politiche fondate su di uno “stato sociale”. La definizione di questo concetto è la seguente, secondo le parole di Tocqueville: esso “è di solito il prodotto d'un fatto, qualche volta delle leggi, più spesso di queste due cause insieme; ma una volta che esso esiste, lo si può considerare come la causa prima della maggior parte delle leggi, delle consuetudini e delle idee che regolano la condotta delle nazioni. Tutto ciò che non è suo prodotto, viene da esso modificato”. La democrazia è considerata da Tocqueville come uno “stato sociale” come “uguaglianza delle condizioni”. Uguaglianza delle condizioni L'America, da questo punto di vista, ricapitola e manifesta in forma pura il senso complessivo di un movimento che secondo Tocqueville domina da secoli la storia europea, indirizzandone la tendenza in favore dell'"uguaglianza sociale". La democrazia e l'esito necessario e ineluttabile di questo movimento, che ha progressivamente sgretolato il compatto edificio cetuale dell'antica Europa, determinando la scomparsa dei ceti fondati su prerogative ereditarie, accentuando la mobilità sociale e installando con sempre maggior decisione gli individui come protagonisti all'interno di una società fondata sull'indifferenziato individualismo. L’uguaglianza non indica una tendenza al livellamento della ricchezza, anzi, proprio la ricerca di ricchezza da parte dei singoli è causa della formazione di grandi disuguaglianze sociali ed economiche, causate proprio della scomparsa e della diminuzione di tutte le altre distinzioni. E’ la mobilità sociale l'elemento distintivo dell'uguaglianza delle condizioni, che in America ha raggiunto "i suoi limiti estremi" ma che anche in Europa e il segno decisivo del presente. 3.2. Le minacce alla libertà Livellamento sociale e conformismo Per Tocqueville, il progredire dell'uguaglianza comporta comunque delle minacce alla libertà. Con l’affermazione della democrazia, in questo processo di livellamento "quasi tutti gli estremi si smussano; quasi tutti i punti salienti si cancellano per far posto a qualcosa di medio" che tende ad assumere i tratti della mediocrità. Mediocrità e uniformità nutrono necessariamente il conformismo, che nel caso americano studiato da Tocqueville si manifesta nella potenza sociale dei pregiudizi, da cui la stessa legge, come egli mostra ad esempio a proposito del diritto di voto per i "negri affrancati", può essere privata di ogni efficacia. Un dispotismo di tipo nuovo Il conformismo e i pregiudizi generano un'oppressione di tipo nuovo che sorge dal basso, proprio da quella società che il liberalismo precedente aveva pensato come luogo per eccellenza di libertà, si sta instaurando, anche nella società liberale, una forma di dispotismo. Sorge così nelle società democratiche la minaccia di un dispotismo "più esteso e più mite" di quelli tradizionali, che "avvilirebbe gli uomini senza tormentarli", "assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite". Sono, quelle dedicate alla descrizione di questo nuovo dispotismo, tra le pagine più famose e influenti dell'opera di Tocqueville. Potrebbe sfociare in una forma di tirannide della maggioranza. Queste considerazioni di Tocqueville, presentate nei capitoli conclusivi del secondo volume della Democrazia in America, gli valsero la fama di profeta, sia in riferimento al regime bonapartista che si sarebbe instaurato in Francia, legittimato dal suffragio universale, a distanza di un decennio, sia in riferimento ai "totalitarismi" del XX secolo. “La vita privata, in tempi di democrazia, e così attiva, dinamica, così colma di aspirazioni e di operosità, che non resta quasi più tempo libero o energia per la vita politica". E’ il completo assorbimento dell'individuo nella ricerca del suo utile privato a far sì che "l'amore della tranquillità pubblica sia spesso l'unica passione politica" degli individui, "ed essa diventa sempre più attiva e potente a mano amano che tutte la altre si spengono e muoiono", ponendo le condizioni per la formazione di quel "partito dell'ordine" che avrebbe giocato un ruolo decisivo nel sostenere il colpo di Stato bonapartista del 1851. Tocqueville prende insomma le distanze dal liberalismo classico, nonché da quella parola d'ordine "arricchitevi" con cui Guizot aveva guadagnato alla monarchia di Luglio l'appoggio della borghesia. Libertà politica come unico rimedio ai rischi dell'uguaglianza "Molta gente in Francia", scrive Tocqueville, "considera l'uguaglianza come il primo male e la libertà politica come il secondo. Io invece dico che, per combattere i mali che l'uguaglianza può produrre, c’è un solo rimedio efficace: la libertà politica". La società aristocratica può essere rimpianta, ma certo non restaurata; l'uguaglianza e la democrazia sono il destino: e per contrastare i rischi che questo destino porta con se, il primo compito consiste nel contrastare la dinamica di spoliticizzazione connaturata alla modernità, attingendo a quella 'fonte d'energia' che è la libertà politica. Gli Stati Uniti presentano da questo punto di vista indicazioni preziose. L'entusiasmo del colonizzatore all'appropriazione dello spazio e del futuro, pare rappresentare un potente 'vaccino' contro il rischio della "mediocrità" democratica. Sotto il profilo istituzionale, una serie di accorgimenti contrasta le tendenze dispotiche del potere democratico. Infine, sotto il profilo sociale, negli Stati Uniti si è sviluppato un ricco tessuto di associazioni intermedie, nutrite tra l'altro dalla condivisione di credenze religiose che "favoriscono la libertà e l'ordine pubblico". Se il dispotismo democratico, come si è visto, tende a restaurare il dominio paterno, perpetuando la condizione di minorità dei cittadini, le associazioni alludono a una forma di legame sociale fondata sulla piena valorizzazione di quel terzo principio della rivoluzione francese spesso dimenticato a vantaggio dell'uguaglianza e della libertà: il principio della fraternità. 3.3. La Francia Nel riflettere nel 1852, sotto l'impressione del recente colpo di Stato bonapartista, sugli ultimi secoli della storia francese, Marx vi individuava una costante: il rafforzamento del potere esecutivo, "con la sua macchina burocratica e militare, costituitasi nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale". "La prima rivoluzione francese", proseguiva, "dovette necessariamente sviluppare ciò che la monarchia assoluta aveva incominciato: l'accentramento. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla". La centralizzazione politico-amministrativa nella storia francese moderna Una tesi molto simile a questa era stata sostenuta da Tocqueville già nel 1836. In questo intervento egli anticipava i temi della sua seconda grande opera, L'Antico regime e la rivoluzione (1856), interamente costruita sulla scoperta della continuità tra il livellamento dei rapporti sociali, l'azzeramento dei corpi intermedi e la centralizzazione politico- amministrativa messi in opera dall'assolutismo monarchico da una parte, e la società degli individui realizzata dalla rivoluzione dall'altra. Nell'analisi di Tocqueville la rivoluzione del 1789 risulta ricondotta a una continuità di lungo periodo della storia francese e dunque smentita nella sua pretesa più ambiziosa, quella per cui i francesi avevano inteso compiere "il più grande sforzo a cui mai si fosse votato un popolo, al fine di spezzare, per così dire, in due parti il loro destino, per dividere con un abisso ciò che erano stati sino allora da ciò che da allora in poi volevano essere". La storia dell'Antico regime in Francia appare a Tocqueville contraddistinta dalla progressiva espropriazione di potere di quell'aristocrazia che, in quanto vero e proprio contropotere costituzionale, si poneva come il bastione di una pluralità di libertà fondate su una pluralità di privilegi. E’ dunque l'amministrazione assolutista ad anticipare in alcuni suoi caratteri essenziali la rivoluzione, che subentra nel momento in cui il dinamismo della nuova società che era andata maturando all'ombra della centralizzazione monarchica del potere entra definitivamente in contraddizione con le vecchie forme costituzionali. Fine della nobiltà di Harriet Taylor (1808-1858), con cui si sposò nel 1851 dopo oltre vent'anni di intenso rapporto. Suffragismo Harriet Taylor, promotrice del movimento femminile per il diritto di voto, estesosi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, basandosi sulla “Dichiarazione dei diritti delle donne pubblicata in Francia da Olympe de Gouges nel 1791”, e sulla “Rivendicazione dei diritti delle donne (1792) di Mary Wollstonecraft (1759-1797)”, intravide inquietanti analogie tra la posizione assunta dalla donna in virtù del contratto di matrimonio e la schiavitù, dando vita ad un nuovo filone di analisi politica. Negli USA, nel 1837, un opera di Sarah Grimké (1792- 1873) “Lettere sull'uguaglianza dei sessi e sulla condizione della donna” rappresentò la prima puntuale trattazione americana dei diritti delle donne, che anticipò di oltre dieci anni la Convenzione tenuta a Seneca Falls, New York, dove fu redatto il testo programmatico Dichiarazione dei sentimenti (1848). Analogia tra matrimonio e schiavitù Egli è tuttavia assai netto nell'insistere sull'origine storica della subordinazione della donna all'uomo, criticando la pretesa degli uomini di sottomettere le donne con la paura anziché con i sentimenti. La parificazione politica, e tendenzialmente sociale, dei diritti di uomini e donne non solo deve dunque essere oggetto, per Mill, di un'irrinunciabile rivendicazione, ma indica anche una tendenza a cui alla lunga il mondo moderno non potrà sottrarsi. 5. Liberalismo e darwinismo sociale 5.1. Il liberalismo inglese La tensione fra il riconoscimento dell'ineluttabilità di un ampliamento dell'intervento statale e la preoccupazione per la libertà individuale è uno dei dilemmi in cui si mosse il liberalismo britannico in età vittoriana. C’era una corrente liberale conservatrice (Bagehot) e un'opposizione, intransigente ai processi di democratizzazione politica e sociale, sostenuta da autori come Robert Lowe e James Fitzjames Stephen. Ma l'età vittoriana fu anche caratterizzata da un profondo rinnovamento dell'ideologia in senso stretto conservatrice, ad opera in particolare di Benjamin Disraeli (1804-1881), primo ministro negli anni 1868 e 1874-1880: in una serie di celebri discorsi egli difese vigorosamente i valori e le istituzioni in cui vedeva incarnata la tradizione, combinando però l'impegno a favore di un'estensione del suffragio e di un cauto riformismo in campo sociale. Centrale, per Disraeli, era poi la rivendicazione della vocazione coloniale e imperiale della Gran Bretagna, coronata nel 1875 dalla formale proclamazione del British Empire. Nuovo liberalismo Alla fine dell’800, affermatasi l’entrata in politica della classe operaia (1893 con la fondazione dell'Independent Labour Party) vi fu anche uno sviluppo del liberalismo britannico che si aprì in direzione di un più marcato apprezzamento del ruolo positivo dello Stato e della democrazia. Importante fu l'opera di Thomas Hill Green (1836-1882), in cui la rilettura della tradizione contrattualistica alla luce di una filosofia per molti aspetti debitrice dell'idealismo tedesco consentiva di presentare come inscindibili i diritti degli individui e i diritti della comunità nazionale rappresentata dallo Stato. Green rivendicava la natura compiutamente liberale di una serie di interventi positivi dello Stato, nella misura in cui essi si proponevano di ampliare il godimento della libertà e di estendere i diritti dei cittadini. Le posizioni di Green, all'origine del cosiddetto Nuovo liberalismo, furono successivamente sviluppate e approfondite da Bernard Bosanquet (1848-1923 ), in una prospettiva di esplicita derivazione hegeliana, e da Leonard Trelawny Hobhouse (1864-1929), che nel suo manifesto del 1911 propose, con maggiore aderenza alla tradizione politica britannica, una riformulazione in chiave riformatrice e democratica del paradigma teorico liberale per affrontare le sfide del nuovo secolo. 5.2. Spencer Teoria dell'evoluzione Il nuovo rapporto positivo con lo Stato, caratteristica del nuovo liberalismo, fu tenacemente criticato, nel 1884 da Herbert Spencer, con il suo “L'individuo contro lo Stato” che riuscì ad esprimere alcuni caratteri dell'ideologia dominante in quegli anni, soprattutto l'idea di progresso che improntò il discorso pubblico britannico nella seconda metà del ‘800. L'intera opera di Spencer parve a molti suoi contemporanei la dimostrazione del fatto che un unico principio evolutivo dominava gli sviluppi naturali così come quelli sociali e politici. "L'evoluzione organica e sociale si conformano alla stessa legge". più che di una mera trasposizione di schemi naturalistici in ambito sociale, si deve parlare di evoluzione di un complesso sistema di reciproche influenze tra lo sviluppo della filosofia e delle scienze umane da una parte, della biologia e delle scienze naturali dall'altra. Se infatti Lamarck (naturalista francese influente su Spencer), aveva trasferito in ambito scientifico molte suggestioni mutuate dalla filosofia della storia illuministica, su Darwin produsse una grande impressione la lettura delle pagine di Malthus dedicate alla dinamica della popolazione, in cui vide prefigurata l'idea della selezione naturale che applicò poi in biologia. Lo stesso Darwin riprese proprio da Spencer la formula della "sopravvivenza del più adatto". Il principio di fondo con cui Spencer intende spiegare ogni evoluzione è che la materia, che ha origine come massa omogenea di particelle semplici, secondo lui si organizza gradualmente in aggregati via via più complessi, passando da una "incoerente omogeneità" a una "coerente eterogeneità". Trasferito in ambito sociale questo schema disegna un perfetto parallelismo tra il processo di differenziazione che presiede all'evoluzione naturale e il progredire della divisione del lavoro. In una prospettiva non dissimile da quella di Comte, e presente in diverse varianti in molti dei fondatori della "sociologia", lo sviluppo storico viene descritto da Spencer come una traiettoria lineare che conduce dalle "società militari" all'affermazione della "società industriale", dove vigono i principi di differenziazione e di specializzazione. Per quanto Spencer ritenga che il mondo a lui contemporaneo registri una compresenza dei due modelli, egli appare convinto che l'evoluzione sociale risulti nel complesso indirizzata al graduale prevalere del modello industriale, orientato alla produzione e contraddistinto dalla "cooperazione volontaria" e dalla contrattualizzazione dei rapporti fra gli individui. Status e contratto L'opposizione tra lo status e il contratto come principi cardinali di organizzazione sociale, che abbiamo già visto utilizzata da Mill, è in realtà ripresa dall'influente opera di Henry Sumner Maine (1822-1888), Diritto antico (1861), in cui l'evoluzione dall'uno all'altro principio era stata presentata come carattere comune agli sviluppi del diritto romano e di quello inglese e come contrassegno delle "società dinamiche". Nell'opinione di Spencer, la "società industriale" è sostanzialmente pacifica e il suo sviluppo tende a realizzare una superiore armonia sociale, in cui gli individui saranno esonerati dagli aspetti più oppressivi del lavoro stesso. Egli ritiene che il conflitto e lo sfrenato dispiegamento degli egoismi individuali giochino un ruolo fondamentale nel determinare un processo di selezione naturale che non può che realizzarsi all'insegna della legge della sopravvivenza del più adatto. Ne deriva un'immagine dell'evoluzione sociale in cui anche gli aspetti più duri e drammatici della "questione sociale" sono giustificati 'secondo natura': il più adatto, facendo valere il proprio diritto nella "lotta per l'esistenza", si rivela in realtà il più forte. Filosofia di Manchester Il pensiero politico di Spencer ripropone alcuni degli elementi fondamentali di quel liberalismo estremo che aveva accompagnato e assecondato la fase iniziale dell'industrializzazione, tanto che i suoi avversari lo definirono "filosofia di Manchester". Ma è importante sottolineare che, per quanto Spencer insista sulle affinità tra organismo biologico e società, il suo pensiero non si rivolge contro la libertà individuale; mentre infatti gli organismi biologici costituiscono insiemi 'concreti', gli organismi sociali formano insiemi 'discreti', cioè discontinui e articolati in una moltitudine di centri di coscienza individuali. La società, dunque, rappresenta per Spencer un aggregato di individui, in cui "le proprietà delle unità determinano le proprietà dell'insieme che essi formano"; è questa una posizione individualistica, contrapposta all'olismo, alla tendenza a vedere il Tutto come superiore alle parti che lo compongono. Il primato degli individui sulla totalità sociale implica anche che i problemi sociali possono essere risolti soltanto attraverso azioni individuali. Per tale motivo Spencer polemizza contro ogni tendenza del potere politico a giocare un ruolo diverso da quello meramente negativo di garanzia dell'ordine, della libera concorrenza e della proprietà, criticando la crescita della burocrazia e il protagonismo del Parlamento. 5.3. Il darwinismo sociale Gli sviluppi del marxismo sono stati indubbiamente influenzati dall'evoluzionismo darwiniano. A Darwin si sono ispirati anche politici della sinistra liberale nonché l’anarchico russo Pétr Alekseevic Kropotkin (1842-1921). Marx, nel 1870, si sentì in dovere di sottolineare, in polemica contro Friedrich Albert Lange, la sua distanza da quanti, attraverso la formula darwiniana della "lotta per l'esistenza, riproponevano in realtà le "fantasie di popolamento" di Malthus. Il darwinismo sociale in senso stretto In questa accezione, vi è una peculiare miscela di elementi tratti del liberalismo estremo e di tonalità conservatrici di tipo nuovo, derivate dallo sviluppo del razzismo scientifico e successivamente da discipline come l'eugenetica. In alcune sue varianti, il darwinismo sociale giunse a contraddire l'indiscutibile individualismo presente nel pensiero di Spencer, dando pieno sviluppo alle implicazioni "olistiche" dell'organicismo e sostenendo il primato, nella determinazione delle leggi dell'evoluzione sociale, di totalità collettive (appunto le razze) superiori alla somma delle singole parti che le compongono. Sviluppi statunitensi Diversa fu l’influenza del darwinismo sociale negli Usa negli anni successivi alla guerra civile, o "età dorata" (fine ‘800). L’età dorata fu caratterizzata da sviluppo economico e crescita del movimento operaio che alimentò conflitti violentissimi. In questo clima, ove la questione del lavoro sostituì quella della schiavitù, nella sfera dei dibattiti politici, il darwinismo sociale svolse una funzione di grande rilievo nel consolidare un'interpretazione "negativa" della libertà come assenza di limitazioni esterne alla libera iniziativa individuale, ossia come libertà di contratto. Il principio della libertà di contratto, che veniva messo in discussione dal movimento operaio che individuava in esso la radice della "schiavitù del salario", ma anche dagli stessi processi di concentrazione economica che stavano interessando molti rami industriali, veniva presentato come garanzia di per se sufficiente a equiparare i diritti dei cittadini bianchi e neri dopo il superamento formale della schiavitù. Il fatto che gli afroamericani continuassero a trovarsi in condizioni di evidente inferiorità sociale si prestava così ad essere interpretato attraverso il riferimento a presunte differenze "naturali" e dunque "razziali". 6. La questione nazionale E’ l'altro grande tema degli sviluppi storici e dottrinali dell'Ottocento. Essa si pone infatti come ulteriore fattore di crisi dell'ordine tradizionale, alimentando rivendicazioni e movimenti che contestano la riorganizzazione della carta geografica continentale stabilita con il Congresso di Vienna, ma indica al tempo stesso un modello di integrazione politica, spesso in funzione antisocialista, delle contraddizioni sociali determinate dal progredire dell'industrializzazione; nell'alludere a una nuova fonte di legittimità dell'esercizio del potere politico, popolare e non dinastica, l'emergere della questione nazionale asseconda poi le dinamiche di democratizzazione, ma contemporaneamente pone le basi per la diffusione di ideologie imperialistiche, per una profonda trasformazione dei principi di legittimazione delle guerre nonché per l'avvio di nuovi processi di discriminazione delle minoranze, su basi più o meno apertamente razziste. Critica dell'immagine tradizionale dei nazionalismi ottocenteschi La nazione, secondo un’interpretazione recente, si rivela essere il prodotto dell'operare di un complesso insieme di fattori politici e culturali attraverso cui l'appartenenza nazionale viene imponendosi come elemento decisivo nel determinare l'identità di uomini e donne. Gli stessi elementi 'oggettivi', la lingua e le tradizioni, sono in realtà prodotti da un preciso processo storico e politico, tanto che ad esempio la creazione e la canonizzazione di una lingua nazionale rappresenta un problema di prim'ordine nei paesi che conseguono l'indipendenza nel corso dell'Ottocento, così come la produzione di tradizioni nazionali, attraverso una rielaborazione selettiva del passato, è l'obiettivo a cui dedicano la propria opera alcuni dei più grandi storici, nonché dei più noti artisti e letterati, del secolo XIX. Nozione civica e nozione etnoculturale E’ la rivoluzione francese a sancire l'ingresso del concetto di nazione, in una posizione di assoluta rilevanza, nel pensiero politico moderno. Ai dibattiti e ai conflitti che fecero seguito alla rivoluzione, con le guerre napoleoniche e con la partecipazione di masse relativamente ampie, in Spagna e in Germania, alla lotta contro il dominio francese, risale anche la formulazione della grande antitesi che avrebbe dominato nei decenni successivi lo sviluppo dei diversi modi di intendere la nazione e il nazionalismo in Europa. Infatti, con il 1789 La guerra civile americana fece esplodere la contraddizione originaria insita nella Costituzione statunitense: la legittimazione della schiavitù e la contemporanea proclamazione dei principi inviolabili della libertà repubblicana. Se può apparire confermato il giudizio di Tocqueville, secondo cui la schiavitù negli Usa è stata distrutta per un interesse “dei bianchi e non dei negri” non si può sottovalutare l’importanza della guerra di secessione e dell’XIII emendamento con cui nel 1865 l'abolizione della schiavitù entrò a far parte della Costituzione, in tutto il processo di consolidamento dell'unita nazionale statunitense. “Per preservare la vecchia Unione la guerra civile fece nascere un nuovo Stato-nazione americano" (Foner). Lo stesso presidente Abraham Lincoln (1809-1865) si risolse nel 1863, ad assumere la sua più radicale iniziativa: il Proclama di emancipazione degli schiavi. Il movimento abolizionista L’abolizione fu sostenuta nei decenni precedenti da un composito movimento, col contributo sia di ex schiavi, come Frederick Douglass (1817-1895), sia bianchi, come Lydia Maria Child (1802-1880) che Harriet Beecher Stowe (1811-1896) autrice di La capanna dello zio Tom (1852), il movimento sosteneva che i neri, schiavi e liberi, erano ormai a tutti gli effetti compatrioti, dato che erano nati sul suolo americano e che soltanto il luogo di nascita poteva stabilire chi faceva parte di quel Noi politico istituito dalla Dichiarazione di indipendenza come soggetto dei diritti di libertà. Disobbedienza civile Intorno al 1840 gli abolizionisti trovarono consenso dagli Stati del nord soprattutto grazie a un saggio di Henry David Thoreau (1817- 1862) in cui un radicale individualismo libertario difendeva il principio secondo cui esistono leggi a cui un cittadino onorevole aveva il dovere di opporsi, arrivando a esercitare un diritto individuale di secessione dallo Stato a cui era soggetto. Fu così che durante la guerra civile milioni di nordisti si convertirono alla causa abolizionista, tant’ è che i neri del nord e del sud avevano definito la guerra come una "guerra per la libertà”, fuggendo dalle piantagioni e arruolandosi con entusiasmo tra le file dei nordisti: è la cosiddetta rivoluzione nera che negli anni della guerra civile si sovrappose alla "rivoluzione di mercato" che precedentemente aveva determinato nuovi assetti economici nel paese, rendendo ineluttabile lo scontro tra il Nord e il Sud. La struttura della cittadinanza statunitense uscì trasformata da questa esperienza, anche al di là delle conquiste formali degli abolizionisti. Il diritto di secessione La guerra di secessione costituì uno snodo essenziale della storia statunitense anche da un altro punto di vista. In due testi redatti tra il 1845 e il 1850, il sudista John Caldwell Calhoun (1782-1850) aveva lanciato una formidabile sfida all'interpretazione corrente del federalismo americano. Sostenitore della schiavitù Calhoun sosteneva il punto di vista secondo cui i singoli Stati membri dell'Unione "conservarono, dopo la ratifica della Costituzione, il carattere distinto, indipendente e sovrano col quale essi l'avevano formulata e ratificata" potendo esercitare il diritto "nullificazione" sugli atti federali fino a raggiungere, in condizioni estreme, la rottura del patto costituzionale ossia come diritto di secessione. La sconfitta dei sudisti nella guerra di secessione fu anche la sconfitta di questa interpretazione. Erano così poste le condizioni per l'allargamento del raggio d'azione del potere federale e per la crescita del potere dell'esecutivo nazionale che avrebbero contraddistinto negli Usa gli ultimi decenni dell'Ottocento. L'effettiva affermazione dei diritti civili e politici dei neri d'America sarebbe in ogni caso rimasta una questione drammaticamente aperta fino agli anni Sessanta del Novecento fino a quando l’inferiorità dei neri era ritenuta una questione naturale (darwinismo sociale). L'introduzione nel XIV emendamento (21 luglio 1868) restringeva comunque il diritto di voto ai cittadini “male” (uomini), e poiché le donne furono in prima linea con l’abolizionismo, si sviluppò un nuovo movimenti detto delle “suffragette”. 6.3. Treitschke e l'unificazione tedesca Tra gli emigrati tedeschi che combatterono nell'esercito unionista nella guerra di secessione americana si distinse una nutrita pattuglia di esuli politici, costretti ad abbandonare la patria dal fallimento della rivoluzione del 1848. Non a caso, la repressione del dissenso è caratteristica della storia tedesca tra il Congresso di Vienna e gli anni Cinquanta dell'Ottocento. Le modalità con cui la Germania raggiunse l'unità nazionale negli anni Sessanta, attraverso tre guerre che coronarono la spregiudicata politica del "cancelliere di ferro" Otto von Bismarck (1815-1898), contribuirono a fare del secondo Reich tedesco l'emblema del militarismo e di un'aggressiva politica di potenza. Va comunque considerato lo spirito liberale e democratico di molti dei movimenti nazionali tedeschi, emerso in modo evidentissimo, ma anche contraddittorio, nei dibattiti che si svolsero nel 1848-49 all'interno dell'Assemblea nazionale riunita nella Chiesa di Paolo di Francoforte. Unificazione grande tedesca e piccolo-tedesca Lo sviluppo del pensiero politico tedesco prima dell’unità fu in gran parte dominato dall’opposizione tra un ipotesi di tedesca unificazione "grande-tedesca" e un'ipotesi "piccolo- tedesca", con l'esclusione dei territori austriaci da uno Stato nazionale costruito attorno al decisivo ruolo della Prussia e fu questa l’idea vincente col sostegno di pensatori liberali come P. Pfizer e H. von Gagern. Si definì la cornice di lunghe discussioni sulla forma unitaria, federale o confederale che il nuovo Stato nazionale avrebbe dovuto assumere, nonché sul rapporto tra i valori della libertà, della Costituzione, dell'unita e della nazione. Una netta svolta ci fu quando l’azione politica dell'Assemblea di Francoforte parve impotente e dopo la morte del re Federico Guglielmo IV con la fine del ministero della Restaurazione, retto da Manteuffel. Il liberalismo prussiano avvio quel processo di ridefinizione del proprio apparato teorico che la avrebbe condotta ad anteporre il valore dell'unita a quello della libertà. Si trattò di un processo assai complesso, in cui giocarono un ruolo di primo piano sia gli sviluppi dottrinali di Ludwig August von Rochau (1810-1873), sia la crescita di una nuova borghesia industriale, determinata dall'intensa espansione economica degli anni Cinquanta, che reclamava un atteggiamento maggiormente pragmatico da parte dei liberali. Durante il cosiddetto conflitto costituzionale prussiano (1862-1866), anche i settori liberali moderati si opposero alla politica di Bismarck, ed infatti l’avvicinamento alle idee di Bismarck da parte dei moderati ci fu solo dopo la vittoriosa conclusione della guerra del 1866, sempre animati peraltro dalla convinzione che l'unificazione nazionale avrebbe 'naturalmente' determinato un processo di liberalizzazione delle strutture costituzionali prussiane e tedesche. Il liberalismo giovanile di Treitschke Di questo insieme di sviluppi storici e teorici, Heinrich von Treitschke rappresenta una sintesi paradigmatica. Per quanto noto come aggressivo pangermanista (conservatore) intorno al 1880, la sua formazione e i suoi primi scritti si collocano pienamente all'interno del liberalismo prussiano. Ostile ad un impronta cetuale e alla "ricca varietà" di tradizioni e di particolarismi locali che avrebbe portato ad una pluralità di Stati, egli aveva anche criticato la pretesa di molti liberali di distinguere le scienze della società dalle scienze dello Stato. La tensione tra società e Stato era per Treitschke il segno di una crisi, che andava superata ricomponendo l'una e l'altro nel concetto di “nazionale”. In un saggio, partendo dalla sua volontà di confrontarsi con le punte più alte del liberalismo europeo contemporaneo, egli insiste sul fatto che, a differenza di quel che vale per i francesi e per gli inglesi, "che vivono entrambi in uno Stato potente", ai tedeschi "la comprensione della dignità dello Stato è stata aguzzata da una dolorosa privazione": ciò che ne deriva è l'esigenza per i liberali di prendere le distanze dall'idea "negativa" di libertà che vede lo Stato come una minaccia. Nel saggio rivolge inoltre una critica alla democrazia e al socialismo pur rimanendo fermo su ideali liberali dei diritti civili e del governo costituzionale. Apologia dello Stato di potenza Oppositore di Bismarck durante il "conflitto costituzionale”, egli divenne un sostenitore a partire dal 1866. Treitschke fu grande interprete dell'unificazione tedesca anche se la soluzione unitaria da lui sperata non trovò riscontro nella Costituzione del 1871, la quale, invece, realizzò un compromesso fra federalismo ed egemonia prussiana. La sua teoria "positiva" dello Stato tendeva a tradursi in un'apologia dello Stato di potenza e i suoi scritti in tal senso influenzarono l'opinione pubblica tedesca. Razzismo e antisemitismo Intorno al 1878 ruppe con il liberalismo nazionale e assunse posizioni più conservatrici; la difesa dell’imparzialità monarchica, del governo e della burocrazia fu contrapposta alla parlamentarizzazione e al ruolo disgregatore dei partiti; il vero e proprio odio per i socialdemocratici lo condusse a respingere qualsiasi programma di riforma sociale e ad affermare enfaticamente la "naturale" disuguaglianza degli uomini; un'interpretazione estremamente rigida dell'idea di nazione, favorita tra l'altro dalla sua svolta religiosa, lo spinse ad utilizzare politicamente l'idea di razza e ciò fece sì che si diffondesse, in Germania, l’antisemitismo; Spingendo sui benefici purificatori della guerra, sulla missione della Germania nel mondo e sulla difesa di alcuni principi fondamentali dello Stato liberale di diritto, offrì una legittimazione intellettuale all'imperialismo e all'espansionismo coloniale tedesco (Bismarck) 6.4. Il giuspositivismo tedesco Scienza giuridica e unificazione tedesca Nel processo di unificazione tedesco grande spazio è occupato da quella scienza del diritto che a partire da Savigny si era posta, insieme al ceto dei giuristi, nella posizione, del tutto peculiare, di una vera e propria struttura costituzionale. Nei decenni centrali 1800, la "scuola storica del diritto" aveva avuto grande peso nel forgiare e nell'imporre nei territori tedeschi le istituzioni di diritto privato indispensabili al funzionamento di una società capitalistica; una scuola che però non era riuscita a concettualizzare in modo "positivo" il potere dello Stato e ad individuare un criterio per l'autonoma costruzione del diritto pubblico. L’opera “Lineamenti di diritto pubblico tedesco” (1865) di Cari Friedrich von Gerber (1823-1891) individuava nel "potere dello Stato" e nell'attribuzione a quest'ultimo della "personalità giuridica" i due capisaldi attorno a cui doveva ruotare l'intero diritto pubblico. In questo modo veniva realizzata una sintesi tra la dimensione politica dello Stato e il suo porsi come fonte esclusiva dell'ordinamento giuridico. Prendeva così avvio un processo di giuridifìcazione delle stesse categorie fondamentali del pensiero politico, a partire dalla sovranità, e proprio per queste ragioni il positivismo giuridico tardo-ottocentesco sarebbe stato negli anni successivi alla prima guerra mondiale il principale bersaglio polemico di molti dei giuristi che ragionarono sulla crisi dello Stato moderno. Stato di diritto Il giuspositivismo diede un contributo all'affermazione dello Stato di diritto e del principio di "legalità", inteso come criterio essenziale dell'agire dello Stato e dell'amministrazione. Sotto il profilo politico, Paul Laband (1838-1918) con una sua opera esercitò un potente effetto di legittimazione degli assetti giuridici e politici della Germania del secondo Reich, presentando come "un dato di fatto irrevocabile" il compromesso tra federalismo, egemonia prussiana e unitarismo, tra principio monarchico e sovranità popolare, tra residui "feudali" ed egemonia borghese nella società di cui era espressione la Costituzione tedesca del 1871. Questa prevedeva l'elezione a suffragio universale maschile del Reichstag (Parlamento), ma al tempo stesso isolava quest'ultimo dai vertici esecutivi dello Stato, composti dalla Corona; e mentre il Reichstag (Parlamento) concorreva con il Bundesrat (consiglio federale) a determinare il contenuto delle leggi, appunto secondo l'interpretazione della Costituzione proposta da Laband e poi divenuta canonica, la "sanzione", e dunque il decisivo "comando della legge", spettava invece a quest'ultimo organo, sottratto a ogni influenza e a ogni controllo parlamentare. Auto-limitazione dello Stato In Gerber e Laband il "potere dello Stato" dominava lo spazio del diritto pubblico facendo del popolo solo un insieme di soggetti dominati mentre con Georg Jellinek (1851-1911) il giuspositivismo si caricò di significati più "liberali": muovendo dal presupposto secondo cui "ogni diritto è un rapporto fra soggetti di diritto”, egli si impegnò nella costruzione di un ambizioso Sistema dei diritti pubblici soggettivi (1892), in cui intendeva rendere conto dell’espansione progressiva dei diritti dei cittadini in età moderna, riconducendola a un'autolimitazione dello Stato; al tempo stesso la sua Dottrina generale del diritto dello Stato (1900) poneva nuovamente al centro della scienza giuridica e politica due problemi che lo sviluppo precedente del giuspositivismo tedesco aveva progressivamente privato di ogni rilevanza teorica: quello della legittimità dello Stato e quello della realtà "sociale" di quest'ultimo, che nell'opera di Jellinek conviveva, non senza tensioni, con la sua realtà "giuridica". 7. Imperialismo e questione coloniale La conquista e la colonizzazione degli spazi oltremare sono alla base di un processo in cui nascono nuovi saperi, in cui vengono forgiati concetti che ancora oggi orientano il nostro modo di guardare al mondo e in cui l'immagine della "barbarie", ma anche della "libertà", dei Chevet (1813-1875), si spingevano oltre, prefigurando il riconoscimento di una serie di diritti sociali come primo passo di una riforma che avrebbe condotto con mezzi pacifici a un nuovo ordinamento complessivo della produzione e della società. In Francia la breve stagione del cattolicesimo democratico si concluse con il colpo di stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre 1851. In Italia, il programma "neoguelfo" di una federazione degli Stati della penisola sotto la presidenza del pontefice, che, sviluppato tra gli altri da Rosmini aveva trovato la propria espressione più incisiva in Del primato morale e civile degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti (1801-1853), si rivelò del tutto utopistico di fronte al ripiegamento conservatore e assolutistico di Pio IX. Il pontificato di Pio ix: intransigentismo Gli anni del pontificato di Pio IX (1846-1878) furono anzi caratterizzati da una riaffermazione della contrapposizione alla "civiltà moderna" dei principi cardinali della "civiltà cattolica". L’idea di autosufficienza del cattolicesimo trovò espressione condanna del liberalismo contenuta nel Sillabo (un elenco di "errori" del mondo moderno diffuso nel 1864 insieme all'enciclica Quanta cura, e poi nella riaffermazione dell'infallibilità papale al Concilio Vaticano I (1870)). In Italia, il Vaticano rifiutò di accettare il principio ca-vouriano "libera Chiesa in libero Stato" e impedì ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica italiana ("non expedit"). Anche in Germania, la fondazione del Secondo Reich (1871) fu seguita dal conflitto tra Bismarck e i cattolici. In questa cornice storica le posizioni prevalenti all'interno della cultura cattolica europea nella seconda metà dell'Ottocento furono quelle "intransigentiste" che quindi appoggiavano la Chiesa di Roma e attaccavano liberalismo, democrazia e socialismo. L’interesse per la questione sociale, molto intenso tra i cattolici, si sviluppò lungo direttrici diverse da quelle ricordate in precedenza (Lamennais). Frederic Le Play (1806-1882) nel 1864, confrontando le condizioni degli operai in Francia, Inghilterra, Germania e Russia, presentava come soluzione dei problemi sociali del suo tempo il sistema del patronage caratterizzato dalla restaurazione dell'autorita paterna all'interno della famiglia nonchè dei diritti e dei doveri "patriarcali" dell'imprenditore dinanzi ai "suoi" lavoratori. Era una sfida ai problemi sollevati dal capitalismo come ad esempio l’individualismo. Soprattutto in Francia, ma anche in Italia e in Spagna, queste tesi nutrirono negli ultimi decenni dell'Ottocento numerose proposte di riorganizzazione della società, dell'economia e dello Stato su basi corporative. Il nuovo clima Negli anni 1880 si ebbe un nuovo confronto della dottrina della Chiesa e del pensiero politico cattolico con la "modernità". Ci fu una progressiva crescita di interesse nei confronti delle scienza da parte degli studiosi cattolici che portarono un contributo di rilievo al nuovo clima da cui nacque l'enciclica sociale di Leone XIII, la Rerum novarum del 1891 ed inoltre ci furono le esperienze parlamentari accumulate in Germania dal partito cattolico del "Centro" che aprirono una nuova fase di riflessione sull'impegno politico dei cattolici, che avrebbe avuto significative ripercussioni anche in Italia. 9.1. Bakunin e l'anarchismo Dio e Stato Michail Bakunin divenne la figura paradigmatica dell'anarchismo ottocentesco Secondo lui, la liberazione dell'uomo dall'assoggettamento a Dio poteva essere compiuta solo con liberazione dal "giogo" dello Stato: "dove c’è quest'ultima, c'è inevitabilmente la dominazione e di conseguenza la schiavitù; lo Stato senza la schiavitù, aperta o mascherata, è inconcepibile; ecco perché siamo nemici dello Stato". Distruzione dello Stato L'azione rivoluzionaria e insurrezionale consiste nella distruzione dello Stato, che determinerebbe l'"annientamento della civiltà borghese per la "spontanea organizzazione dal basso in alto mediante libere unioni" dell'umanità ormai affrancata. Si ha qui un primo motivo della polemica di Bakunin con Marx, che si rivolge con particolare virulenza contro la teoria della "dittatura del proletariato": la stessa tesi marxiana dell'"estinzione dello Stato" nella società senza classi, in quanto rinvia a un futuro imprecisato il superamento del dominio politico, costituisce agli occhi di Bakunin un mero travestimento di quella "statolatria", di quel culto dello Stato che il socialismo di impronta marxista, come si legge in Stato e anarchia, condividerebbe con il "pangermanesimo" e con l'azione storica di Bismarck, oggetto di vero e proprio odio da parte sua. Il "popolo" come soggetto rivoluzionario E’ l’individuazione marxiana del proletariato industriale come soggetto della rivoluzione comunista a suscitare la critica di Bakunin: una volta che esso avrà assunto il potere, "sopra chi dominerà? Ciò significa che rimarrà ancora un altro proletariato sottomesso a questa nuova dominazione, a questo nuovo Stato". Per questa ragione Bakunin preferisce parlare del "popolo" rivoluzionario, indirizzando il proprio messaggio alle masse di diseredati, e ai contadini. Veemente agitatore sociale più che pensatore, Bakunin affiancò alla fiducia nello spontaneismo e nell'azione diretta delle masse popolari, un impegno febbrile nel costruire piccoli nuclei organizzati e segreti di militanti rivoluzionari. L'anarchismo fu effettivamente un grande movimento di massa negli ultimi decenni dell'Ottocento. L'anarchismo penetrò rapidamente tra le classi lavoratrici dei paesi europei più arretrati, come ad esempio la Russia, la Spagna e l'Italia, dove trovo una sistemazione teorica e una coerente proposta organizzativa nell'opera di Errico Malatesta (1853-1932). Si sviluppò poi in America latina e negli stessi Usa. Non erano soltanto l'apologia del ribellismo sociale e la critica intransigente del parlamentarismo ad attrarre un gran numero di lavoratori verso l'anarchismo, ma anche la visione di una società futura decentralizzata in consorzi e in unità produttive agrarie e industriali autonome, che trovava riscontri nell'esperienza quotidiana e soprattutto nell'immaginario delle masse rurali nonchè di quegli artigiani e garzoni che da poco avevano conosciuto l'universo della fabbrica moderna. 9.2. L'Inghilterra Sindacati In Inghilterra avevano cominciato a crescere il peso e l'influenza delle organizzazioni sindacali (Gran Sindacati Bretagna), capaci di conciliare efficacemente nella gestione di singole vertenze con moderatismo e pragmatismo politico. Il solido rapporto tra il movimento sindacale e l'ala radicale del partito liberale fece sì che l'autonoma rappresentanza politica della classe operaia (Indipendent Labour Party) fosse rimandato. Il socialismo fabiano Una corrente particolarmente influente del socialismo britannico si raccolse attorno alla Società fabiana, ispirata al soprannome di “Temporeggiatore” di Quinto Fabio Massimo, nata a Londra nel 1884. Tra gli esponenti spiccano George Bernard Shaw (1856-1950) e Sidney Webb (1859-1947) che avevano una concezione gradualistica ed evoluzionistica della transizione al socialismo. Democrazia industriale Essi accettavano, da Marx, la tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive avrebbe progressivamente creato le condizioni per la realizzazione di un ordinamento sociale diverso da quello capitalistico, e accentuavano l’inevitabilità del socialismo, che vedevano prefigurata dalla rapida avanzata di trust e cartelli industriali. Rifiutavano la rivoluzione e intendevano far leva sulla pressione politica per consentire tale trasformazione. 9.3. La socialdemocrazia tedesca Socialismo e Stato Decisivi per l'affermazione del marxismo all'interno del movimento operaio europeo furono gli sviluppi tedeschi. Come si è visto, Marx aveva riservato critiche sferzanti al programma del Partito Socialista operaio tedesco (1875). Nato da diverse correnti politiche per fondare una rappresentanza operaia indipendente da forze liberali e democratiche, il partito fondato nel 1875 era ancora influenzato Ferdinand Lassalle (1825-1864). Lassalle, filosoficamente idealista, fu molto polemico con il liberalismo, di cui riconosceva però, a differenza di Marx, una certa convergenza di ideali di solidarietà sociale perseguiti dalla classe operaia Più che sulla lotta di classe, egli puntava, per il superamento del capitalismo, sulla conquista del suffragio universale come strumento di democratizzazione politica e sulla costituzione di cooperative di produzione sostenute dallo Stato, attraverso cui i lavoratori sarebbero potuti sfuggire alla tirannia degli imprenditori e di quella "legge bronzea" per la quale il salario tendeva a fissarsi al livello del minimo vitale. La diffusione della dottrina di Marx all'interno del movimento socialista tedesco venne proprio dalle leggi, varate su iniziativa di Bismarck nel 1878, con cui fu disposta la sospensione della libertà di associazione e di stampa della socialdemocrazia al di fuori del Parlamento, ciò sembro dimostrare l'insufficienza del suffragio universale maschile in vigore per le elezioni politiche nazionali in Germania. Evoluzionismo e determinismo Particolarmente importante per la diffusione del marxismo fu Karl Kautsky che offrì una versione semplificata e 'popolare', evoluzionistica e deterministica, fortemente debitrice nei confronti di Darwin e del naturalismo prevalente nella cultura dell'epoca. Negli anni in cui rimasero in vigore le leggi antisocialiste la socialdemocrazia tedesca si era conquistata a ammirazione all'estero per la sua capacità di resistenza, e dopo una lieve flessione iniziale aveva ripreso quella progressiva conquista di consensi elettorali che la avrebbe condotta a divenire nel 1912, all'indomani delle ultime elezioni tenute prima della Grande guerra, il più forte partito all'interno del Parlamento tedesco. Essa divenne cosi, per i socialisti, il modello da seguire in quasi tutti i paesi europei, mentre la formidabile organizzazione della socialdemocrazia in Germania si affermo come paradigma di un nuovo tipo di partito di massa, che veniva ammirato o criticato per la sua capacità di organizzare la vita dei militanti "dalla culla alla bara", nonchè per i suoi aspetti burocratici e centralistici. Nel 1881 Kautsky aveva scritto: "il nostro compito non è organizzare la rivoluzione, ma organizzarci per la rivoluzione; non fare la rivoluzione, ma valersi di essa". La rivoluzione, per Kautsky, era dunque un processo il cui accadere era regolato da leggi altrettanto rigide di quelle naturali: questo sostanziale fatalismo si traduceva, sotto il profilo politico, in una tattica attendista, che finiva per apparire a molti militanti in una singolare contraddizione con il radicalismo ideologico del partito socialdemocratico. Così, nel corso degli anni Novanta comincio a maturare una corrente di sinistra critica nei confronti del 'kautskismo', mentre già si era consolidato all'interno della socialdemocrazia un indirizzo "riformistico", che aveva trovato il proprio principale esponente nel dirigente bavarese Georg von Vollmar che si era pronunciato a favore di un programma di riforme graduali, per realizzare il quale non si dovevano temere alleanze con i partiti "borghesi". Posizioni simili furono sostenute negli anni successivi dai dirigenti del movimento sindacale, che conobbe in Germania una straordinaria crescita, accompagnata dalle prime esperienze di contrattazione collettiva e da significative conquiste all'interno di singole fabbriche. Il dibattito sul revisionismo Gli scritti di Eduard Bernstein dal 1895 aprirono all'interno del movimento socialista europeo il 'dibattito sul revisionismo. Bernstein si richiamava alla prefazione che Engels aveva scritto nel 1895 in cui diceva che il tempo delle "ribellioni vecchio stile", della "lotta di strada con le barricate" era tramontato a causa dei progressi tecnici che permettevano aglie eserciti di schiacciare rapidamente qualsiasi insurrezione aggiungendo che gli sviluppi degli anni Ottanta e Novanta avevano dimostrato che "la socialdemocrazia prospera molto meglio con i mezzi legali che con i mezzi illegali e con la sommossa": quindi il solo compito del partito è quello di aumentare I propri voti, consensi mediante il lavoro di propaganda. Da qui Bernstein parte per una revisione della teoria di Marx, rivolta in primo luogo contro l'ortodossia socialdemocratica tedesca. Bernstein contesta la teoria dell'inevitabile crollo del capitalismo, la tesi dell'accentuarsi delle crisi economiche e dell'anarchia di mercato, richiamando l'attenzione sul progredire di processi di organizzazione del capitalismo, a cui si accompagnano a suo giudizio, attraverso le società anonime, dinamiche di decentramento della ricchezza. Lo sviluppo storico smentisce inoltre tesi marxiane di una progressiva polarizzazione della società borghese nei due campi nemici della borghesia e del proletariato, e del crescente impoverimento della classe operaia. La stratificazione sociale è, per Bernstein, più complessa di quella ipotizzata da Marx e le conquiste economiche della classe operaia gli fanno ritenere possibile un progressivo miglioramento della condizione dei lavoratori all'interno del sistema capitalistico. Il superamento del capitalismo appare, a Bernstein, come un processo graduale, che non deve necessariamente passare nè attraverso un crollo del sistema vigente nè una rottura rivoluzionaria. Sposta l'azione politica socialdemocratica nella direzione di una realizzazione di società senza classi con una lotta da condurre giorno per giorno nel presente. Centrale è la lotta salariale. Piena accettazione della democrazia promuovono l'egualitarismo, cioè la "morale degli schiavi" predicata dal cristianesimo. Nietzsche considera tutte le forme di governo della sua epoca come egualmente democratiche. Persino le monarchie sono costrette a sottomettersi al conformismo della società di massa, al progressivo e generalizzato appiattimento dell'esperienza. Tanto il 'suddito' quanto il 'sovrano' partecipano di quella medesima condizione di non-libertà che traspare nell'imporsi di un tipo umano mediocre, lavoratore\consumatore, che Nietzsche chiama "l'uomo del gregge”. Tuttavia questa evidenza può essere vissuta come disperazione e decadenza da parte di chi subisce il fallimento delle logiche razionalistiche, oppure, come potenza, cioè come un disincantato dire "si" alla radicale assenza di senso della vita. E’, questo, il nichilismo estremo che provoca la distruzione del mondo dei vecchi valori, ma anche il luogo che questi occupavano, ossia il mondo della trascendenza, in modo che i vecchi valori non siano sostituiti da nuovi valori. Nichilismo passivo nichilismo attivo Il nichilismo può essere indice o di debolezza (passivo) o di forza (attivo). L’esempio di nichilismo passivo è rappresentato dal desiderio del Nulla espresso nella filosofia schopenhaueriana. Il nichilismo attivo si manifesta con la promozione e l’accelerazione dei processi di distruzione, la volontà di potenza diventa "intima essenza dell'essere". Il nichilismo attivo estremo trapassa infatti da una dimensione distruttiva (o reattiva) a una costruttiva (o creativa). E’ questa la forma di nichilismo che Nietzsche rivendica come propria quando afferma di essere "il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in se fino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dietro di se, sotto di se, fuori di se". 1.2.L'eterno ritorno L'uomo che dice "sì" La forma estrema del nichilismo è il nulla (la "mancanza di senso") eterno!", l’obiettivo della sua filosofia è il ritorno. Il significato prevalente dell'idea nietzscheana di eterno ritorno è legato alla sua dimensione di scelta, piuttosto che di struttura cosmica già data: decidere l'eterno ritorno significa che merita di ripetersi soltanto ciò che risulta dotato di sufficiente potenza affermativa. Con l'eterno ritorno Nietzsche indica il passaggio tra l'uomo che dice no (il nichilismo della rinuncia) e l'uomo che ha imparato a dire "si", a 'volere' che il tempo sia un presente che eternamente ritorna, riscattando la finitezza umana da ogni costruzione trascendente per vivere la realtà in modo affermativo. La "redenzione" dal peso del passato, da quelle catene del risentimento e della morale che dominano l'uomo della tradizione platonico-cristiana, è possibile solo attraverso una radicale trasformazione del modo di vivere il tempo che faccia dell'esistenza qualcosa di voluto. 1.3.Il superuomo e la volontà di potenza Il superuomo Chi è in grado di dire di sì alla vita accettando la dimensione tragica dell'esistenza e facendo propria la prospettiva dell'eterno ritorno, di reggere la morte di Dio e lo smarrimento delle certezze assolute, di emanciparsi dalla morale socratico-cristiana e dalla metafisica, e di procedere oltre il nichilismo è il "superuomo", o meglio "l'oltre-uomo", l'Übermensch, la cui immagine oscilla tra quella della "bella individualità" e quella dell'avventuriero. Non e l'esteta dannunziano o un'entità biologica di tipo darwiniano, ma è un uomo diverso da quello che conosciamo, e un uomo-oltre-l'uomo. Se tutti gli idoli, come scrive Nietzsche, sono al crepuscolo e il mondo vero è diventato favola, allora l'Übermensch è l'oltre-uomo capace di annullare i significati ascetici e moralistici che la parola uomo tradizionalmente ha in se, e di rivendicare la natura 'terrestre' e corporea della vita. Queste caratteristiche di Super-Uomo possono appartenere soltanto ad una élite, che non si limita a porsi al di sopra delle masse, ma che, in quanto "razza dominatrice", ha "bisogno della schiavitù" delle masse "come della sua base e condizione”. Il pensiero antidemocratico e antiegualitario intende evidenziare che l'Übermensch è l’essere superiore che si oppone al "gregge" degli inferiori. Volontà di potenza La volontà di potenza coincide con la volontà redentrice capace di conciliarsi con il tempo e di liberarsi dal peso del passato; in tal modo la volontà di potenza sembra identificarsi con il modo di essere del superuomo e con l'essenza dell'eterno ritorno. Tuttavia, in altri testi Nietzsche identifica la volontà di potenza con "l'intima essenza dell'essere" e in particolare con la vita stessa, concepita come una forza espansiva e votata all'autoaffermazione. La vita è volontà di potenza in quanto è il continuo, necessario superamento di se stessa. 1.4. Le interpretazioni Il pensiero di Nietzsche nel XX secolo La deformazione a cui è stato sottoposto Nietzsche in epoca nazista, mediante il suo arruolamento nell'apparato ideologico del regime, era già stata contestata negli anni Trenta da autori come Martin Heidegger, Karl Jaspers e Karl Lowith, i quali avevano preso le distanze da una lettura politica dell'opera nietzscheana. E tuttavia dopo la denazificazione del secondo dopoguerra che ha cominciato ad affermarsi la figura di Nietzsche come di un maître- à-penser, interpretato ora come pensatore 'terminale', in cui la modernità si dissolve, ora al contrario come l'emblema stesso della volontà di potenza della cultura occidentale (Heidegger), ora invece come il profeta di un'umanità liberata (Vattimo, Deleuze). Nietzsche offre nel complesso un'analisi impolitica della politica: ciò che egli rifiuta è proprio il 'valore' stesso della politica, come rifiuta il 'valore' della religione o della metafisica. La sua soluzione della crisi politica della modernità è infatti più apolitica, che politicamente di 'destra'. 2. Tönnies Il comunismo e il nichilismo sono ben presenti anche nella riflessione di quegli intellettuali che diedero vita alla stagione della sociologia classica tedesca. Max Weber affermò che "l'onestà di un intellettuale può essere misurata dalla sua posizione nei confronti di Nietzsche e di Marx. Il mondo in cui viviamo porta infatti in buona misura l'impronta di Marx e Nietzsche". Anche Ferdinand Tonnies sviluppò in buona parte la propria formazione intellettuale sotto l'influenza dei due autori richiamati da Weber. Un sociologo hobbesiano E’ l'uguaglianza il terreno su cui Tonnies incontrò l'opera di Thomas Hobbes, a cui dedicò fondamentali studi durante la sua vita. Il confronto con Hobbes si rivela di strategica importanza per comprendere l'intenzione politica di fondo della sociologia di Tonnies: proprio la questione sociale appariva ai suoi occhi sintomatica del persistere di rapporti di dominio "illegittimi" all'interno della società moderna, e il ruolo assegnato da Tonnies alla scienza sociale consisteva nel porre le condizioni per un'ulteriore espansione dell'hobbesiano "dominio della ragione". La democrazia, che di tale espansione costituiva l'esito ultimo, non poteva, per lui, che incontrare il movimento operaio come uno dei suoi soggetti fondamentali. Comunità e società Nella sua prima opera, Comunità e società (1887), si trova la contrapposizione concettuale tra una forma di rapporto sociale (la comunità) contraddistinta da una "perfetta unita delle volontà umane come stato originario o naturale" e una forma di rapporto sociale (la società) i cui protagonisti sono "non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati". Modernità e razionalizzazione La sociologia di Tonnies è un indagine sulle forme specifiche di relazione tra gli individui, cresciute sul terreno della moderna società. Centrale, nella sua riflessione, è il concetto di 'diritto naturale': quest'ultimo rappresenta lo standard razionale a cui devono essere condotte le forme di relazione non razionali che non soltanto sopravvivono come "residui" della tradizione ma che all'interno della società moderna hanno riprodotto quello stato di natura che la fondazione dello Stato avrebbe dovuto cancellare dal suo orizzonte. La modernità si presenta così come strutturata da una tensione al futuro che fa del "progresso" e della "rivoluzione" le sue più rilevanti determinazioni concettuali. Essa, d'altra parte, è anche l'epoca della razionalizzazione e la sociologia è la scienza che ne consente la comprensione e il governo: negli anni della Repubblica di Weimar, Tonnies, intervenendo all'interno degli animati dibattiti tedeschi sul parlamentarismo e sulla democrazia, avrebbe sviluppato questa concezione "progettuale" della sociologia da una parte indagando il ruolo dell'opinione pubblica, dall'altra recuperando, ancora da Hobbes, la categoria di rappresentanza. Attraverso la rappresentanza, lo Stato democratico diventa capace di rappresentare i movimenti della società e di gestire efficacemente, attraverso la legislazione sociale, le tensioni generate dalla "questione sociale". Su questa via sarebbero apparse via via più evidenti a Tonnies le insufficienze della società borghese, e, per quanto egli non sia mai pervenuto a teorizzare il completo superamento della proprietà privata, si sarebbero fatte più marcate le affinità tra il suo pensiero e il movimento socialista, che sembra costituire per lui il possibile superamento, o almeno il temperamento, del nichilismo moderno. 3. Weber 3.1. Capitalismo e scienza sociale In Weber si nota un orientamento per l'analisi storico-sociale del diritto. Nascono così le prime opere scientifiche di Weber, la Storia delle società commerciali nel medioevo (1889) e la Storia agraria romana (1891) in cui si vede l'interesse per le condizioni materiali, non soltanto giuridiche, che hanno reso possibile l'affermazione del capitalismo in Europa, che avrebbe rappresentato uno dei temi dominanti dell'intera opera weberiana e la percezione della centralità della "questione agraria" nella Germania di fine Ottocento, scossa da tensioni e conflitti inediti tra "citta" e "campagna". La scoperta del capitalismo E’ un'esperienza concreta di indagine 'sul campo 'che risulta decisiva per la definizione di un metodo di lavoro che si apre in direzione della sociologia e per la precisazione dei temi della ricerca di Weber. Studiando le trasformazioni dell'agricoltura prussiana Weber ebbe modo di constatare che il tradizionale ceto nobiliare degli Junker era trasformato in una moderna classe di imprenditori capitalistici che puntavano alla ricerca del profitto e non più al mantenimento del loro status. Fu così che Weber scoprì il capitalismo che gli sembrò una potenza sovversiva e nichilistica: la sua affermazione corrispondeva al travolgimento di ogni "comunità di interessi" tra datori di lavoro e lavoratori, alla dissoluzione di tutti i legami "personali" e "concreti" tra di essi, sostituiti dalla mediazione "oggettiva" e "astratta" del salario monetario. Il problema del soggetto Il capitalismo è una potenza oggettiva, destinata a dominare il presente e il futuro senza possibilità di sottrarsi. Accanto a questa teorizzazione, crescono le domande sul “soggetto” del capitalismo, cioè su colui che è all’origine del capitalismo, la necessità di fornire delle risposta nasce dal fatto che per Weber la scienza sociologica deve partire dalla comprensione delle intenzioni del soggetto individuale. Dal punto di vista delle religioni, Weber evidenzia che la dottrina della predestinazione, divulgata dal protestantesimo, origina nel credente il bisogno psicologico di trovare conferme della propria elezione, conferme che trova con un sistematico disciplinamento dei propri impulsi attraverso il lavoro, e ciò avrebbe posto le basi della diffusione di una condotta di vita metodica e razionale, funzionale all'affermarsi del tipo d'uomo capitalistico. Razionalizzazione e disincantamento del mondo La religiosità protestante sposta il baricentro dell'agire del credente dall'oggettività delle opere e dei sacramenti alla soggettività della coscienza. Questo schema interpretativo delle origini del capitalismo viene precisato e inserito in un grandioso affresco della storia dell'Occidente come processo di "razionalizzazione" e di "disincantamento del mondo", un processo inaugurato dal gesto con cui la religione giudaico-cristiana, collocando attraverso la profezia la salvezza in una dimensione oltremondana, ha liberato dall'ipoteca dell'animismo magico la sfera mondana, rendendola disponibile all'appropriazione da parte di una ragione che si configura fin da principio come strumento di "dominio del mondo". La soggettività borghese presente alle origini del processo di secolarizzazione viene progressivamente fagocitata e infine nullificata dal capitalismo, che si cristallizza in un "cosmo oggettivo" di relazioni sociali coattive, che si impongono al soggetto con la forza della loro oggettività imprigionandolo in una "gabbia d'acciaio". Burocratizzazione L'intero pensiero di Weber è dominato da una domanda di fondo sul destino della borghesia, dalla sua preoccupazione per il "tipo umano" tipico della modernità. In termini politici la prima preoccupazione è per i principi di "libertà" che si mostrano inconsistenti di fronte alle tendenze tecniche dominanti nel presente, che stringono l'impresa capitalistica e lo Stato moderno nel segno comune della burocratizzazione universale. Capitalisti e uomini politici appaiono sempre più come "macchine" che rispondono a imperativi e norme totalmente oggettive. Anche l’intellettuale è messo a dura prova dal contesto di burocratizzazione che mette in seria difficoltà la sua capacita di tenere sotto controllo il senso complessivo del suo sapere. lotte fra le diverse classi politiche, anche se si deve distinguere la classe politica in senso stretto, ossia la classe "speciale" delle persone che svolgono le funzioni politiche vere e proprie, dalla sfera più ampia della classe dirigente, ossia da quell'insieme di persone che rivestono le posizioni dominanti nei diversi ambiti della vita sociale. Struttura e formazione della classe politica Mosca ritiene infatti che la classe politica sia differenziabile in un primo strato, molto ristretto, composto da coloro che "monopolizzano la direzione dello Stato e occupano, alle volte a turno, le cariche più importanti", e in un secondo strato "molto più numeroso che comprende tutte le capacita direttrici del paese. Per quanto riguarda la formazione della classe politica, Mosca evidenzia una regolarità storica: quella che vede la storia politica dell'umanità come uno scontro tra due opposte tendenze, quella democratica e quella aristocratica. Quando prevale la tendenza democratica, la classe politica esistente viene rinnovata attraverso la cooptazione di individui collocati originariamente ai gradi inferiori della piramide sociale; quando invece prevale la tendenza aristocratica si giunge inevitabilmente a uno scontro vero e proprio tra la classe al potere e quella che ne è esclusa. A seconda dell'esito del conflitto, si può avere il rinnovamento 'nella' classe politica oppure il rinnovamento 'della' classe politica. L'organizzazione della classe politica può essere ricompresa in due tipologie: quella in cui l'autorita si impone gerarchicamente sugli strati inferiori della piramide politica (principio autocratico) e quella in cui la maggioranza delega l'esercizio dell'autorita alla minoranza che si trova al vertice (principio liberale). I tipi ideali di organizzazione politica Lo Stato rappresentativo moderno è tipico dell’unione tra il principio liberale della competizione elettorale con il principio autocratico che si esprime nella burocrazia. Coniugando i modi di trasmissione dell'autorita con le diverse forme di esercizio del potere, Mosca enuclea quattro tipi ideali di organizzazione dei sistemi politici: •autocratico-aristocratico, quando la stabilità del potere politico è associata a un'organizzazione che pone l'autorita al culmine della gerarchia; •aristocratico-liberale, quando tale stabilita è unita a una qualche forma di partecipazione politica; •autocratico-democratico, allorché la tendenza al rinnovamento della classe politica si compie nel quadro di una forte organizzazione gerarchica; •liberale-democratico, nel momento in cui la caduta degli ostacoli che si oppongono all'inclusione degli individui nell'area della classe politica permette forme effettive di partecipazione dei governati alla vita politica. Con l'introduzione della teoria della "formula politica", Mosca indica l'insieme dei principi astratti che garantiscono il potere della classe politica in accordo con le convinzioni prevalenti nella società che governa. Si tratta dell'ideologia, che serve ai governanti per giustificare il proprio potere e per garantire la coesione sociale. Questo non significa che le formule politiche siano una "pura e semplice mistificazione": esse corrispondono al principio, radicato nella natura umana, che invece di piegarsi alla volontà di una persona concreta, preferisce giustificare l'obbedienza richiamandosi a una norma astratta. Il fatto che esse debbano soddisfare le tendenze intellettuali e morali delle masse dominate spiega la grande varietà di formule politiche, riconducibili tuttavia a due tendenze fondamentali: quelle che si basano su un principio soprannaturale e quelle che si fondano su un principio razionale. A questa seconda tipologia Mosca riconduce il principio che fa derivare ogni legittimo potere dalla volontà popolare. 4.2. Pareto La teoria delle élite di Vilfredo Pareto trae origine da un'analisi delle diversità sociali e dalle disuguaglianze, in termini di ricchezza e di potere che egli intende studiare scientificamente che gli appaiono come naturali”. Nel corso della storia ogni società si è misurata col problema della scarsità di risorse. Chi riesce ad ottimizzare l’utilizzo delle risorse fa parte dell’élite che può essere sia di governo che altro. In basso c’è il popolo dei governati che quali costituiscono lo strato inferiore o classe non eletta. La stabilità o la decadenza dell'organizzazione sociale dipendono dal modo in cui avviene il ricambio nelle posizioni di potere tra élite e strato inferiore. Classi dei residui Il fenomeno del ricambio è definito "circolazione delle élite" ed allude a due fenomeni: 1. Spostamenti 'orizzontali' all'interno della classe eletta di governo. 2. Spostamenti 'verticali' tra classe non eletta ed élite. Pareto si avvale della propria teoria dei "residui": il residuo è quella parte costante dell'azione sociale e politica che indica la manifestazione degli istinti e dei sentimenti e che rappresenta la struttura più profonda ed espressiva dell'agire umano. Egli focalizza poi l'analisi su due delle sei classi di residui: la classe I, che definisce "l'istinto delle combinazioni" ed è indicativa della propensione al cambiamento, e la classe II, che indica la "persistenza degli aggregati" ed e invece espressiva di sentimenti inclini alla conservazione. L'istinto delle combinazioni è caratteristico degli individui capaci di agire senza vincolarsi alle tradizioni, mentre la persistenza degli aggregati è tipica di chi difende la tradizione, la continuità dell'ordinamento storico, politico ed economico. In ambito politico, le condotte aderenti ai residui di classe I saranno ispirate a disponibilità per il cambiamento e quindi le élite saranno aperte, tolleranti, progressiste; i comportamenti ispirati ai residui di classe II saranno invece di un'ispirazione fideistica, patriottica o nazionalistica e le élite saranno chiuse, autoritarie, tradizionalistiche. Legittimazione del potere Anche per Pareto la forma del "reggimento politico" è meno importante della sua sostanza, che è sempre la stessa e non muta in rapporto ai tempi, ai luoghi e alle apparenze istituzionali. Nondimeno, per legittimare il proprio potere la classe governante deve avvalersi anche delle "derivazioni", ossia di quella parte variabile dell'azione che "serve per spiegare, giustificare, dimostrare". Le derivazioni hanno dunque una funzione ideologica atta ad attribuire all’agire l'apparenza di una oggettiva necessita sociale. Equilibrio dinamico del potere Se il mutamento sociale dipende dai modi con cui si realizza la "circolazione delle élite”, il cambiamento politico dipende più specificamente dal modo in cui avviene il passaggio dalla classe eletta non di governo alla classe eletta di governo. Se si interrompe il processo di passaggio degli individui dallo strato inferiore a quello superiore si interrompe l’ordine sociale e gli equilibri mutano. 4.3. Michels Tendenza elitaria delle organizzazioni Con Roberto Michels si aggiunge un elemento a conferma dell’esistenza delle élite. Ogni organizzazione, anche la più democratica, richiede la presenza di una leadership in grado di gestire il processo decisionale con efficacia, questa è una necessità che deriva dalle problematiche che l’organizzazione affronta. Ogni tentativo di controllo delle organizzazioni (partiti) da parte delle masse è inutile. Le esigenze di ordine tecnico finiscono così per sottomettere un partito nato con idealità democratiche al controllo di una leadership professionale che centralizza l'autorita, sostituisce i fini ultimi (la realizzazione della società socialista) con fini strumentali (mantenere e ampliare l'organizzazione, che diviene fine a se stessa), e procede alla scelta di nuovi leader per cooptazione piuttosto che attraverso procedure democratiche, in modo da conservare stabilmente il controllo oligarchico sull'organizzazione. Oligarchia L'organizzazione è all'origine del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati sui deleganti. Michels formula la cosiddetta "legge ferrea dell'oligarchia", secondo la quale "chi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice oligarchia". La legge prende origine dall’analisi dei partiti di massa ma è estendibile a qualsiasi organizzazione, Stato compreso. Comunque Michels riconosce che "il fatto che l'oligarchia sia inevitabile non esime i democratici dalla necessita di combatterla”. Anche in Michels, come per Mosca, l'elitismo trova una forma di compromesso con il pluralismo, dal momento che la democrazia viene concepita in termini di competizione fra oligarchie. Essa infatti permette a partiti concorrenti, ciascuno retto da un'oligarchia, di affrontarsi nella competizione elettorale: la necessità di ottenere i voti dell'elettorato offre ai cittadini la possibilità di esercitare un certo grado di influenza indiretta sulle oligarchie di partito e quindi di condizionare le scelte della minoranza governante. 4.4. Sviluppi dell'elitismo Élite e masse I continuatori della teoria delle élite tra le due guerre mondiali sono Ortega y Gasset, Lasswell, Burnham, Mannheim e Schumpeter. Lo spagnolo Ortega afferma che solo una minoria selecta capace di guidare la massa, la quale esiste unicamente "per essere diretta, influenzata, rappresentata, organizzata" è in grado di sottomettere un agglomerato indifferenziato di individui eterodiretti e di promuovere così la stabilita dell'ordine politico. Ogni società consiste infatti di "un sistema gerarchico di funzioni", da cui deriva una gerarchia di potere che divide la società in dominanti e dominati. Una democrazia realistica è quella che accentua le funzioni direttive di una minoranza governante selezionata in base al merito piuttosto che al potere, alla ricchezza o alla forza. Classificazione delle forme organizzative L'analisi del potere compiuta dallo statunitense Harold D. Lasswell (1902-1979) è in parte ispirata all'opera di Pareto. Il concetto di élite viene a definire l'insieme delle persone che si trovano alle posizioni più alte nella gerarchia dei valori. Considerando come valori rappresentativi la sicurezza, il reddito e la deferenza, Lasswell afferma che "i pochi: che ottengono la maggior parte dei valori sono l'élite; gli altri costituiscono la massa". A differenza di Pareto, per Lasswell non tutti i membri dell'élite godono del medesimo peso politico. Ciò permette di dare avvio a un programma di ricerca sulla classificazione delle élite e sulle forme organizzative di cui le élite al potere, o le contro-élite in ascesa, si avvalgono per conservare o per conquistare il predominio. La rivoluzione dei manager Agli inizi degli anni Quaranta, lo statunitense James Burnham (1905-1987) riprende da Mosca, Pareto e Michels la concezione che identifica la politica con il conflitto tra gruppi organizzati in vista del potere. Egli riprende dagli elitisti l'idea secondo cui in ogni epoca e in ogni società una frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie mani una elevata quantità di risorse imponendosi sulla maggioranza della popolazione. Rispetto all'elitismo classico, la novità introdotta da Burnham consiste nell'individuazione di una linea di tendenza, comune a entrambi i modelli di società, che si muove verso una società tecno- burocratica contraddistinta dall'affermazione dei manager quale élite dominante, il cui predominio “si fonderà sulla proprietà statale dei principali strumenti di produzione”. La posizione di controllo, e quindi di potere, assunta da una classe manageriale formata da una élite di tecnici specializzati dipende dalla struttura tecnica della produzione moderna. L'imporsi di una tecnocrazia in grado di controllare lo Stato e l'economia spodesta la sovranità del Parlamento e degli organi rappresentativi per localizzarla in enti, consigli, direzioni di partito, consigli di amministrazione, sino a ridimensionare o abolire la democrazia in nuove forme di dittatura. Le élite intellettuali Anche l'ungherese-tedesco Karl Mannheim (1893-1947) elabora una teoria delle élite. L’autore fornisce un'analisi dei processi di industrializzazione e di democratizzazione che mira a descrivere il declino delle élite tradizionali e l'affermazione concomitante di nuove élite. Mannheim propone un filone di ricerca, interno alla sua "sociologia della conoscenza", che si focalizza sui leader morali, religiosi e intellettuali, spostando così l'analisi, per seguire la sua terminologia, dall'élite "integrativa" all'élite "sublimati-va", ossia le élite intellettuali. Queste ultime, infatti, hanno la funzione di "sublimare le energie psichiche che la società, nella lotta quotidiana per l'esistenza, non esaurisce completamente” e comprendono le minoranze che favoriscono la conoscenza, la contemplazione e la riflessione. Il diverso "peso specifico" che assumono i diversi gruppi di élite dipende dalla struttura socio-economica della società. La dottrina della democrazia L'austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950), riprende invece le tesi degli elitisti allo scopo di difendere una concezione puramente procedurale della democrazia. La teoria di Schumpeter si differenzia da quella degli elitisti classici, perché si presenta come una teoria "realistica", cioè capace di descrivere i sistemi politici caratterizzati dalla concorrenza e dall'alternarsi di gruppi di leadership al potere considerati ordinariamente come democrazie. La definizione di Schumpeter è la seguente: la democrazia è "quell'accorgimento istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare". Per Schumpeter non esisterebbe alcuna promosse e guidate da un'alleanza tra la classe operaia e la massa dei contadini e dei piccolo- borghesi urbani. La rivoluzione borghese doveva essere opera del proletariato contro la borghesia stessa e la repubblica democratica doveva assumere il profilo di una dittatura degli operai e dei contadini. La conseguenza più rilevante di questo volontarismo soggettivo è che la dittatura del proletariato si trasformerà di fatto nella dittatura del partito. Questo passaggio al 'marxismo sovietico' non dipende però soltanto dalle specificità della Russia, ma è anche il frutto di quella concezione strumentale dello Stato democratico di diritto che aveva portato Marx a considerare la repubblica democratica come l'ultima forma politica della società borghese. La liberta, aveva affermato Marx, avrebbe potuto trovare effettiva attuazione solo oltre la democrazia borghese, quando lo Stato fosse stato trasformato da organo sovrapposto alla società in organo a essa subordinato. Nulla però veniva detto in merito alla istituzionalizzazione di questa libertà: la fantasia istituzionale di Marx non andava al di là della dittatura del proletariato intesa come un periodo di transizione e del riferimento all'esperienza della Comune parigina del 1870. I soviet In contrasto con la concezione socialdemocratica allora dominante Lenin riprende l'apologia marxiana della Comune per giustificare i soviet come espressione di una democrazia rivoluzionaria e proletaria. In coincidenza con la loro rinascita avvenuta nel corso della rivoluzione del 1917, Lenin stabilisce un collegamento tra i soviet e l'esperienza comunarda e inizia a considerarli un’organizzazione di lotta avente comunque un principio di forma politica e quindi un’organizzazione oponibile alla democrazia parlamentare. Lo stato sovietico E’ da notare che la partecipazione delle masse lavoratrici alla vita dello Stato è possibile con l’eliminazione dello Stato stesso. Nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo "lo "Stato" è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio. E’ compatibile con una democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale di repressione. Ciò porta a ridurre i funzionari dello Stato al ruolo di "semplici esecutori dei nostri incarichi", responsabili e revocabili, sino alla graduale "estinzione" di ogni burocrazia. I problemi e le difficoltà del primo periodo dello Stato sovietico porteranno a una situazione in cui il "noi" riferito ai lavoratori nel loro insieme, diventa sempre più il solo partito comunista con i suoi organi dirigenti che governano in nome del proletariato senza che venga a esso offerta alcuna alternativa. Alle fine del 1920 Lenin infatti riconoscerà l'impossibilita di una dittatura “democratica” e della "democrazia diretta", l'abrogazione delle vecchie forme della democrazia rappresentativa coincide con l'abolizione della democrazia anche all'interno dei soviet e del Partito comunista di governo. Il concetto di "dittatura del proletariato" si trasforma così nella dittatura politica del partito, e diviene in Urss la “normale” pratica dispotica dell'organizzazione statale. Caratteristiche dell 'imperialismo Un contributo importante in chiave rivoluzionaria della dottrina marxista viene ottenuto da Lenin con la sua analisi dell'imperialismo, attraverso la quale egli ribadisce la contraddittorietà e la storicità del capitalismo. Lenin definisce l'imperialismo come "lo stadio monopolistico del capitalismo" e lo caratterizza in base a cinque elementi: •la concentrazione della produzione e del capitale (monopoli); •la fusione del capitale bancario con il capitale industriale e la formazione del capitale finanziario; •il ruolo svolto dalla esportazione dei capitali; •il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si spartiscono il mondo; •la spartizione del mondo in zone di dominio coloniale da parte delle maggiori potenze capitalistiche. Poichè la divisione del mondo tra i differenti monopoli corrisponde ad una divisione tra governi nazionali, è inevitabile, una volta completata tale spartizione, una la tensione internazionale che degenera in guerre imperialistiche aprendo la possibilità dello scatenamento della rivoluzione socialista. 6. Il nazionalismo E’ l'ideologia che contende al marxismo il primato politico. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare non comporta solamente la diffusione di parole d'ordine rivoluzionarie dai contenuti socialisti o comunisti ma genera anche lo scatenamento di impulsi irrazionalistici, antiborghesi, antiliberali, antiparlamentari e antidemocratici, che spesso si traducono in autoritarismo politico. Il contenuto tipico di questa temperie culturale politica è la nazione. Ideologia nazionalista Quando, alla fine del secolo, gli equilibri fra Stato, società e individuo si spezzano per effetto delle pressioni esercitate dalla democrazia di massa, in Italia e in Germania gli effetti sono ancora più dirompenti che nel resto d'Europa poiché la situazione è caratterizzata dalla storica debolezza della società civile e dalla fragilità delle istituzioni politiche e da un eccesso di politica, cioè dalla particolare violenza delle contraddizioni che percorrono il corpo sociale. In questa situazione, la delusione per le angustie del liberalismo e della democrazia parlamentare genera volontà di ribellione promuovendo una diffusa disponibilità per vaghi e illusori programmi di rigenerazione e di grandezza. Ma anche in Francia il nazionalismo è fortissimo; qui pero, anzichè essere espressione di una carenza di Stato, è piuttosto il veicolo dell'opposizione controrivoluzionaria agli ideali del 1789, sempre presente all'interno della società francese. Il nazionalismo, sorto come ideologia rivoluzionaria nel corso della rivoluzione francese, è inizialmente basato sul collegamento tra il il concetto di nazione a quello di umanità che però si dissolve con i movimenti nazionalistici verso la fine dell'800, nell'epoca di protezionismo e imperialismo in concomitanza con la crisi del sistema europeo degli Stati. Il nazionalismo si traduce in ideologia reazionaria, che propugna la divisione “naturale del genere umano in nazioni sempre più simili a 'razze', in linea con la 'legge storica che prevede il trionfo delle civiltà e degli Stati più dotati su quelli più arretrati”. Lo sfondo intellettuale di questa versione del nazionalismo si colloca nell'orizzonte del pensiero irrazionalistico del XIX secolo aderendo a quel complesso di reazioni all’illuministico che negano gli ideali egualitari e cosmopoliti impostisi con la rivoluzione francese. Gli irrazionalisti ritengono che l'individuo sia dominato dalle passioni piuttosto che dalla ragione, e quindi ha bisogno di autorità e gerarchia. Il nazionalismo acquista un ruolo politico all'epoca della seconda rivoluzione industriale e della società di massa nel momento in cui sorge il problema dell'integrazione delle masse, precedentemente escluse dall'area della cittadinanza politica. Alle masse di lavoratori viene proposta, in funzione antisocialista, un'identificazione con il destino della nazione attraverso una nuova sintesi ordinativa di capitale e lavoro, che interpreta la vocazione autoritaria e bellicista dello Stato nazionale al tempo dell'imperialismo e del protezionismo. Il nazionalismo diviene una sorta di religione, uno strumento per realizzare l'integrazione e l'unità del popolo al di la dalle divisioni di classe. L'occasione storica per attuare questo progetto sarà la prima guerra mondiale che realizzerà, nel segno della morte e della tecnica, la piena nazionalizzazione delle masse e il primo grande passo verso la crisi della moderna forma-Stato. Con la prima guerra mondiale lo Stato ottocentesco manifesta la propria suprema capacità di comando e di inclusione, convogliando tutte le masse, attraverso il mito mobilitante della nazione, verso la lotta armata; ma è proprio in occasione di questo incontro fra le masse nazionali, la tecnica dispiegata e la dimensione onnipervasiva della morte, che lo Stato liberale, con le sue istituzioni, collassa, mentre il nazionalismo, incontrando il nichilismo, genera una miscela esplosiva che detonerà poi nel totalitarismo di destra. 6.1. La Germania Popolo e nazione Il tardo e difficile rapporto con lo Stato moderno agevola l’avanzare del concetto di popolo che si esprimeva con una ricerca di identità più stabile e solida di quella offerta dalle forme politiche, deboli e invecchiate. Cosi, a partire da Herder, da Fichte e dal romanticismo l'identità tedesca è spesso ricercata nelle origini germaniche e nel retaggio, che in esse si manifesta, della grecita classica oltre che nel mondo barbarico germanico e nel Medioevo. Nel popolo-nazione si esprime in sintesi sia un radicamento sia un destino, sia un diritto di sangue e di cultura, cioè il valore originario del popolo tedesco, sia il dovere di realizzare l'unita politica del popolo tedesco, decontaminandolo da tutte le commistioni a cui è stato costretto nel corso della storia, e soprattutto liberandolo dalla cultura 'occidentale'. Un intreccio di natura e storia fortemente polemico verso la Francia e Inghilterra. Rispetto a questi modelli 'occidentali' di razionalismo moderno, individualistico, universalistico e utilitaristico, la Germania intende esprimere la propria specificità nazionale, e mostrare di essere capace di superarli sia politicamente, sia economicamente, sia culturalmente, grazie allo spirito nazionale e popolare, espressione della sua vitalità naturale e non di un artificio razionalistico. Polemica contro la modernità In Friedrich Ratzel, Wil helm Heinrich Riehl, e soprattutto in Paul de Lagarde, Julius Langbehn e Dietrich Eckart si rende evidente che nel corso dei decenni il nazionalismo tedesco assume sempre più il carattere di un'ideologia antisocialista e in parte antiborghese, oltre che sempre più irrazionalistica e decadentistica. Davanti alle contraddizioni della società e della politica moderne (proletariato sradicato e rivoluzionario e imprenditore avido e senza scrupoli) si contrappone l'organismo vivente della nazione, organizzato in corporazioni. Il nazionalismo diventa antimoderno, un concetto che contrasta con la volontà di potenza che in esso si esprime; si tratta insomma di trovare il modo di essere moderni nella pratica, ma antimoderni nello spirito. E la soluzione è spesso il razzismo, ossia l'attribuzione degli aspetti dissolutori tipici della modernità alla razza ebraica, che ha pervaso la cultura occidentale con le ideologie moderne (liberalismo e socialismo), mentre il popolo tedesco può stare nel mondo moderno senza esserne subalterno, e anzi esprimervi il proprio rapporto con la Vita, la propria salda operosità, la propria creativita e combattivita di 'razza di signori'. Il popolo-nazione è la risposta alle esigenze di sviluppo politico ed economico della Germania, ai suoi timori davanti alle contraddizioni del mondo moderno, ma anche alla sua ansia di entrare da protagonista nella modernita dispiegata. Diffusione del nazionalismo nel pensiero tedesco Del pensiero razzista occorre sottolineare che vi fanno parte autori importanti e personaggi di eccellenza scientifica riconosciuta, come, ad esempio Sombart e un antichista come Theodor Mommsen. Ciò si verifica con ancora maggiore intensità allo scoppio della prima guerra mondiale, quando Johann Plenge giunge a formulare la contrapposizione fra cultura nazionale tedesca e cultura moderna, elevando il 1914 ad anno emblematico del risveglio tedesco, e antitetico al 1789 e ai suoi valori universalistici e razionalistici. Del resto, nel 1915 Werner Sombart pubblica Händler und Helden (Mercanti ed eroi), in cui l'eroismo tedesco viene contrapposto allo spirito economicistico occidentale, e un grande sociologo come Max Scheler (1874-1928) fa uscire un testo in cui egli valuta positivamente la guerra, almeno come specchio delle debolezze e delle contraddizioni della civiltà meccanizzata. 6.1.1. Spengler In Spengler il nazionalismo rientra in una riflessione che fa diventare il nazionalismo strumento di critica dell'intera civiltà moderna. Punto di partenza del pensiero di Spengler è che la politica viene ricondotta a un paradigma di tipo vitalistico: le civiltà sono per lui come organismi viventi, e quindi, più che di storia, per esse si può parlare di morfologia, come nel caso delle piante e degli animali. Nella sua opera principale trova espressione e sistemazione l'idea che l'incivilimento della vita individuale e sociale costituisca un limite alla capacita creativa di una civiltà. Definizione di cultura La forma fondamentale della storia universale viene dunque individuata da Spengler nella 'cultura' (Kultur), concepita quale organismo fornito di un proprio ciclo vitale. Essa nasce, cresce e giunge alla morte seguendo il biologico ciclo vitale che la determina e che stabilisce sua fisionomia. Nel momento in cui l'eredità biologica iniziale che governa lo sviluppo della cultura esaurisce il proprio complesso di possibilità, il suo ciclo di esistenza è destinato a spegnersi. Ogni cultura nasce a partire dalla umanità primitiva: presupposto e segno visibile di questo sorgere è la nascita della città, in cui si compie lo sviluppo dello "spirito" e in cui si costituiscono i popoli, cioè comunità di razza e di lingua che, acquisendo coscienza della propria unità, tendono a darsi organizzazione politica sotto forma di nazioni. Popoli e nazioni rappresentano il presupposto dell'organizzazione politica propria di ogni cultura. Ma il suo fondamento vero e proprio viene individuato da Spengler nella razza come "espressione del sangue": essa è l'elemento inconscio su cui poggia ogni cultura, e per questo può essere compresa unicamente per mezzo di un'intuizione immediata. Dalla cultura alla civiltà e custode dell'immenso patrimonio della romanita imperiale. Secondo questa interpretazione sociale del darwinismo, l'istinto 'naturale' alla lotta tra gli organismi va regolato all'interno dello Stato proprio perché possa liberamente scatenarsi all'esterno. Tuttavia, se il nazionalismo deve essere "socialismo nazionale", "il socialismo della nazione italiana nel mondo", esso deve assimilare le forme politiche della moderna lotta di massa per trapiantarle nel mondo produttivo della borghesia imprenditoriale, elemento trainante della rinascita nazionale. La missione di civiltà cui l'Italia, nazione proletaria, è destinata dalla propria storia, richiede infatti la formazione di un blocco delle classi produttive contro le classi "parassitarie" e, inoltre, un'educazione degli italiani finalizzata alla promozione di una morale improntata a un idealismo guerriero che esalta il "lavacro di sangue e di fuoco". Conseguentemente, Corradini è fautore di uno Stato forte, capace di organizzare politicamente e moralmente i cittadini, uno Stato organico e imperialista guidato da élite governanti, cioè da quelle "aristocrazie" che sono consapevoli dei più alti interessi del paese. Statalismo e corporativismo Alfredo Rocco (1875-1935) fu il più significativo legislatore del fascismo. Nelle sue opere, oltre a riprendere i temi legati alla missione civilizzatrice della potenza e della civiltà italiana, in quanto erede della tradizione romana e cattolica, egli si ispira alle concezioni del diritto tedesco nell'accentuare il ruolo fondante dell'autorità dello Stato, in polemica contro ogni concezione individualistica della libertà e ogni sua traduzione nella prassi della liberaldemocrazia e del parlamentarismo. La libertà del cittadino non deriva dal diritto naturale, ma dall'autolimitazione dello Stato, cui spetta il compito di introdurre nel corpo sociale i principi della gerarchia e di farsi strumento regolatore dei conflitti di lavoro, in modo da soffocare "dall'alto" ogni forma di pluralismo politico o sociale e da mobilitare tutte le risorse materiali e ideali della società in funzione di una politica di potenza. Lo statalismo di Rocco emerge tanto nella relazione sul disegno di legge relativo alle attribuzioni del capo del governo tenuta al Senato nel 1925, in cui si anticipano le linee delle cosiddette "leggi fascistissime" mediante le quali veniva profondamente alterata la struttura istituzionale dello Stato basata sullo Statuto albertino, quanto nella sua interpretazione dei nuovi ordinamenti economicosociali corporativi destinati a unire lavoratori e datori di lavoro di uno stesso settore produttivo con il compito di affermare una solidarietà nazionale che sovrasta le ragioni di contrasto e capace di subordinare le forze produttive ai superiori interessi della nazione. Il corporativismo nazionalista trasferisce l'idea della collaborazione delle classi in un progetto di sviluppo industriale e di una politica di potenza e, oltre a essere autoritario, inquadrato e disciplinato dallo Stato, è rigidamente monistico, in quanto le corporazioni avrebbero dovuto essere, almeno in linea di principio, uniche per ogni categoria rappresentata. Sara il fascismo ad ereditare, insieme a molte altre, l'idea corporativa dal nazionalismo, allo scopo di presentarla come una forma di organizzazione giuridico-economica alternativa tanto al capitalismo quanto al socialismo. 7. Il cattolicesimo democratico Il pensiero politico cattolico è sia una proposta 'ideologica' sia una critica più o meno radicale della modernità. L'intransigentismo di Pio IX Nell’800 l'atteggiamento della Chiesa cattolica in materia politico-sociale ha impedito ogni accordo con gli orientamenti razionalistici che informano la modernità. L'espressione più significativa di questo atteggiamento è stata l'enciclica Quanta cura (1864), che comprende un'appendice (nota con il nome di Sillabo) nella quale vengono raccolte ottanta proposizioni, già condannate in precedenti documenti, che riassumono, dal punto di vista della Chiesa, l'essenza del razionalismo moderno, nelle sue diverse configurazioni. Richiamandosi alla Mirarivos, con cui Gregorio XVI nel 1832 aveva posto fine al tentativo cattolico-liberale di Lamennais, la Quanta cura favorisce la tendenza volta a opporre alle ideologie e alle istituzioni moderne la visione di un cattolicesimo autosufficiente, dotato di un proprio sistema dottrinale, di impostazione scolastica, e basato su di una rigida struttura gerarchica imperniata sul papa e sulla sua infallibilità, sancita dal Concilio Vaticano I nel 1870. Leone XIII e la questione sociale L’inversione di questa tendenza sisale alla fine dell’800 con il pontificato di Leone XIII. Il nucleo dottrinale della sua enciclica Rerum novarum (1891), è costituito dal pensiero tomista, orientato in modo da distanziarsi dagli aspetti più retrivi della cultura controrivoluzionaria della Restaurazione, che saldava il cattolicesimo al legittimismo politico reazionario. Il neotomismo mira a recuperare quella distinzione tra titolarità ed esercizio del potere che permette alla Chiesa di distinguersi dal legittimismo e di accostarsi in maniera non più ostile alla causa della democrazia, sebbene rimangano intatte, sotto il profilo squisitamente intellettuale, le pregiudiziali antindividualistiche dovute a una visione comunque organica e gerarchica della realtà, intesa come un ordine creato da Dio, la cui interpretazione in ultima istanza è demandata alla suprema autorita della Chiesa. Il nucleo centrale della Rerum novarum è quello che si riferisce alla "questione sociale". In una prospettiva che sottolinea la necessaria cooperazione di Stato, Chiesa, datori di lavoro e lavoratori, l'enciclica insiste sulla necessità di pervenire a una conciliazione fra il diritto alla proprietà privata, esplicitamente riconosciuto dalla Chiesa, e le ragioni della "solidarietà sociale", che impongono un intervento a favore degli strati sociali più poveri. La Rerum novarum pone le basi per un aggiornamento della tradizionale predilezione cattolica per le "comunità intermedie" tra lo Stato e il cittadino: il riconoscimento dell'associazionismo operaio e l'impegno della Chiesa a suo sostegno prefigurano una svolta ricca di implicazioni nello sviluppo storico dei paesi dove più forte è la presenza cattolica, mentre in termini teorici comincia a prendere forma la dottrina della "sussidiarietà", secondo cui lo Stato solo in caso di necessità può sostituire la propria iniziativa alla responsabilità personale e all'azione delle comunità intermedie. 7.1. L'Italia Cattolicesimo politico Tra fine ‘800 e inizio ‘900, alcuni pensatori cattolici riprendono da Leone XIII gli aspetti che sembrano più consoni alle esigenze della solidarietà sociale, pur restando legati a quella visione di un ordine naturale e razionale di cui la Chiesa è custode inflessibile. Il principale esponente di questa tendenza è Giuseppe Toniolo (1845-1918), il cui pensiero subisce anche l'influenza di Rosmini e Minghetti, della scuola storica dell'economia tedesca e delle correnti più avanzate del tomismo di Lovanio. Alla base della sua concezione economica si trova il principio della dipendenza dell'economia da elementi di natura spirituale, religiosa e morale. La messa in evidenza del ruolo esercitato dalla religione e dalla Chiesa nello sviluppo della storia mostra come Toniolo si ispiri alla tradizione neoguelfa, e il suo interesse per le società intermedie e le corporazioni medievali si inserisce in una prospettiva che affida al cattolicesimo sociale il compito di ripristinare una visione organicistica e corporativa della società, il cui bene comune prevede un graduale progresso dei ceti inferiori, all'interno di una stabile gerarchia, determinata dai valori spirituali e dall'influenza della Chiesa. L'eredità leoniana condiziona anche il progetto di restaurazione di un ordine cattolico proposto dal cattolicesimo politico italiano. I presupposti intellettuali del pensiero di Romolo Murri (1870-1944) sono ispirati all'ideale gerarchico della Chiesa del suo tempo. Su questi presupposti Murri innesta elementi nuovi tra cui la prospettiva di un'alleanza tra la Chiesa e il proletariato, e l'accettazione del metodo liberale della competizione tra i partiti, pur con l'obiettivo di trasformare radicalmente lo Stato liberale e di realizzare un nuovo "guelfismo sociale". Murri, con progetto inizialmente tomista, abbandona abbandona questa corente e a riconosce lo Stato come forma storicamente necessaria di mediazione del conflitto sociale. La democrazia tende a perdere il proprio legame con il riordinamento corporativo della società per professioni, e appare come il risultato di un incremento graduale della coscienza individuale verso nuove forme di responsabilità sociale. A queste concezioni si ispira la "Lega democratica nazionale", sorta nel 1905 su iniziativa di un gruppo di giovani democratici cristiani guidati dallo stesso Murri, che si oppone all'orientamento clerico- moderato favorito dalla Santa Sede. Si tratta di un'esperienza che permette di realizzare una prima convergenza tra la tradizione democratica cristiana di derivazione intransigente e quella tradizione cattolico-liberale che trovera in Luigi Sturzo l'esponente più significativo. Modernismo Murri, talvolta considerato esponenti del modernismo, non si identifica con questo movimento. Il modernismo è una corrente di pensiero articolata che esprime l'esigenza di rivvicinare la cultura ecclesiastica ufficiale agli sviluppi del pensiero moderno, liberando la Chiesa dal suo arroccamento in visioni ormai superate della cultura e della politica, rimpiazzando il tomismo con la filosofia moderna e sostituendo l'apologetica classica con il metodo dell'immanenza quale via per il riconoscimento del trascendente proposto da Maurice Blondel. La manifestazione più significativa del modernismo trova espressione in Italia nelle opere giovanili di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), scomunicato nel 1926. In un primo momento Buonaiuti aveva ripreso la tendenza propria del protestantesimo liberale a concepire il Regno predicato da Gesu e vissuto dal cristianesimo primitivo come una realtà spirituale e invisibile, ma in seguito la sua attesa di un rinnovamento radicale viene orientata in un senso chiaramente terreno e mondano. L'interpretazione del messaggio cristiano lo porta ad accostare l'annuncio evangelico della liberazione terrena alle speranze alimentate dal socialismo moderno, riprendendo in chiave aggiornata l'originario escatologismo cristiano in funzione di un "socialismo cristiano" inteso come una concezione insieme sociale e religiosa, volta ad affermare l'identità tra sentimento religioso e speranze di rinnovamento sociale. Il partito popolare Conciliare cattolicesimo ed evoluzione della politica moderna è obiettivo anche del liberalcattolicesimo di Luigi Sturzo (1871-1959). Ma, al di la di certe assonanze con il modernismo radicale, la concezione ecclesiologica e sostanzialmente diversa. L'impegno politico di Sturzo, sacerdote, padre del popolarismo ed esponente di rilievo del pensiero liberale cattolico, mira a sganciare il laicato dalla tutela della gerarchia sul piano politico e sociale in modo da qualificare le iniziative delle forze democratiche in senso democratico e aconfessionale, ma senza rivedere le posizioni tradizionali del magistero. Estraneo alla Democrazia cristiana promossa da Murri e alle polemiche scatenate dalla crisi modernista, Sturzo ritiene che i cattolici debbano operare nell’ambito degli istituti democratici allo scopo di difendere l'autonomia della personalità individuale, la libertà dell'iniziativa privata, la priorità dell'individuo rispetto alle istituzioni e la sua libertà di coscienza. A partire dal 1920 il pensiero cattolico di Sturzo si vede costretto a fare i conti con le ideologie nazionalistiche e con i regimi che da esse traggono ispirazione. Un altro fattore per una presa d'atto dei problemi politico-sociali è rappresentato dalla crisi del 1929, alla quale Pio XI fa riferimento nell'enciclica Nova impendent del 2 ottobre 1931. Ancora una volta le tesi papali danno luogo, in ambito politico, a posizioni nettamente diversificate: il così autorevole riconoscimento delle contraddizioni proprie del sistema economico liberista autorizza tanto i sostenitori di una soluzione autoritaria, inclini a riproporre la prospettiva di un rinnovato corporativismo cattolico, quanto i fautori di un'azione politica aconfessionale, che dissoci lo spirituale dal politico e non rifiuti pregiudizialmente il confronto con il marxismo. 7.2. La Francia La ricchezza della cultura cattolica francese è tale da esprimerne una critica radicale e progressiva, piuttosto che cercare un compromesso. La cultura cattolica francese è la più sensibile alla denuncia del capitalismo e della ricchezza e dei limiti della democrazia liberale; la sua espressione più significativa è il personalismo sociale o comunitario, nel quale emerge una tendenza polemica analoga a quella che era stata propria, sia pure in un contesto diverso, di un cattolico come Leon Bloy (1846-1917) il quale vedeva l’Anticristo nel borghese, nella sua ipocrisia e nel suo egoismo, vedeva addirittura l'Anticristo. Personalismo Il personalismo, sorto in Francia verso il 1930 intorno alla rivista "Esprit" e sotto la guida di Emmanuel Mounier (1905-1950) per affermare il valore assoluto della persona di fronte all’oppressione delle strutture, è caratterizzato dall'esigenza di unire l'istanza individualistica con quella comunitaria, ossia di fondere, in un certo senso, il pensiero di Kierkegaard con quello di Marx. L'esigenza di superare gli opposti unilateralismi dello spiritualismo e del materialismo si traduce in una concezione che mira a superare i limiti tanto dell'individualismo, che nega la costitutivà socialità della persona isolandola dalla solidarietà con gli altri, quanto del collettivismo, che la riduce a pura unita numerica, quanto infine del capitalismo, che sottomette gli uomini al dominio del profitto. Nell'articolo programmatico della rivista "Esprit", Mounier auspica un nuovo Rinascimento con al centro la persona e non l'individuo in senso moderno, considerato come una mera astrazione biologica, psicologica e economica. Mounier afferma che il rapporto che lega una persona a un'altra non coincide con il nesso utilitaristico che connette un individuo a un altro individuo. La principale colpa pertanto il compito di imporre unità alla società, ma di articolare i diversi interessi che si manifestano nei corpi collettivi a formazione volontaria. Si tratta insomma di trasformare la finzione del contratto originario in contrattazione reale e permanente, e di assecondare lo sviluppo della dinamica trasformatrice del conflitto sociale. Alla destrutturazione della statualità e al pluralismo della realtà politica deve accompagnarsi una costituzione federale che superi il monismo giuridico e l'organicismo dello Stato in una struttura coordinata e non più gerarchica. Laski pensa a un decentramento funzionale, in quanto il ruolo politico demandato allo Stato non può incorporare la funzione economica, che va invece affidata ad associazioni rappresentative dei diversi interessi nella prospettiva dell'autogoverno funzionale dei lavoratori. La pluralità delle forme della rappresentanza costituisce, dal punto di vista della direzione politica e amministrativa, la necessaria adeguazione alle molteplici esigenze della convivenza, anche perché la moltiplicazione delle fonti di autorità incrementa la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e collega lo sviluppo sociale al consenso attivo degli individui. Gilde Questa prospettiva è assimilabile al movimento inglese industrial guildes, che rivendicava alle gilde (associazioni dei produttori) il compito di creare le condizioni per l'istituzione di una assemblea legislativa a rappresentanza funzionale da affiancare al Parlamento. Al collettivismo della Fabian Society, che vedeva nella gestione statale dell'economia la condizione prioritaria per avviare un processo di riforma sociale, il Guild Movement opponeva l'autogestione industriale, capace di rendere i lavoratori partecipi della vita dell'impresa e protagonisti di un'auspicabile industriai democracy. Riformismo statale Questa prospettiva di depotenziamento dei poteri statali in ambito economico si perde però nel pensiero di Laski nel 1925. Egli riscrive in senso costituzionalistico molti dei temi del suo periodo propriamente pluralistico, e riattribuisce, in linea con il moderato progressismo fabiano, un ruolo importante al riformismo statale. A differenza di quanto prima sostenuto, i gruppi volontari sono assoggettati al controllo dello Stato: la conciliazione tra l'Uno e i Molti, tra l'interesse pubblico e l'interesse privato, non discende da alcuna armonia prestabilita, ma dall'impiego di tecniche specifiche di mediazione politica, che assegnano un ruolo trainante al riformismo statale. L'obiettivo socialista dell'autogoverno dei produttori non può quindi prescindere dall'intervento dello Stato, la cui amministrazione si configura come una forza coercitiva neutrale che fornisce un quadro generale di riferimento, e prefigura un regime sociale fondato sulla proprietà pubblica dei beni economici. Stato, individuo, libertà Nella terza fase del pensiero di Laski del 1930, Stato e individuo si configurano come poli oppositivi della dialettica politica. Mentre lo Stato assume il profilo della necessità e della coercizione, l'individuo si radica in quel regno della libertà concepito come puramente 'negativo', senza freni che permette all'individuo "di scegliersi la propria via nella vita senza che dal di fuori gli siano imposti dei divieti". In seguito alla difficoltà delle istituzioni politiche democratiche di ottenere consenso, l'impegno per la trasformazione comunitaria si gioca ora sul terreno dell'economia piuttosto che della politica: perciò Laski aderisce al marxismo. Solo l'esperienza del comunismo consentirebbe di sostituire i “rapporti di cassa” con solidarietà e integrazione. Tuttavia, il quadro del parliamentary go-vernment resta, l'esito ineludibile dello sviluppo costituzionale. Politicamente liberale come Laski, e anch’egli avvicinatosi al marxismo, Robin George Collingwood (1889-1943) offre una versione del liberalismo più affine a quella di Croce di cui egli è amico. Da Croce deriva il principio dello sviluppo spirituale dell'individuo come un processo di progressiva emancipazione sia dalle passioni interne sia dalle costrizioni esterne, oltre che l'identificazione di libertà e conoscenza. Ciò lo porta a concepire il liberalismo non tanto come un concreto programma di partito, quanto come un metodo politico basato sulla soluzione dialettica dei problemi, in linea con quella libertà di coscienza cui aspira la coscienza umana. Il confronto con il fascismo lo induce a scrivere un'opera, Il nuovo Leviatano (1942), in cui difende un ideale di civiltà intesa come un'associazione volontaria degli individui, che scaturisce dalla liberta individuale e che deve porsi quale obiettivo la progressiva riduzione della forza nell'ambito delle relazioni sociali e politiche. 8.2. Gli Stati Uniti Il pensiero liberale e democratico ha uno sviluppo leggermente diverso da quello europeo perché non deve confrontarsi con crisi della ragione politica, 'decadenza' e irrazionalismo militante presente in Europa. Le istituzioni liberali e democratiche americane, tra varie difficoltà, conservano una sostanziale efficienza e capacità di affrontare le sfide. In questo contesto nasce il “New Deal” (rapporto tra economia e politica) e si assiste anche ad una grande elaborazione intellettuale del liberalismo, che si orienta verso la democrazia, ad opera del filosofo John Dewey. 8.2.1. Dewey Tendendo a superare l'individualismo tradizionale, Dewey è accomunabile al liberalismo inglese del secondo ‘800, ma ha una visione critica della società capitalistica, pertanto denuncia le distorsioni prodotte dal controllo esercitato da una ristretta minoranza sui mezzi di produzione, tanto che egli muove alla "ricerca di una qualche specie di socialismo" inteso come "uno sviluppo pianificato e ordinato ai fini sociali". Le limitazioni di libertà provengono da rapporti sociali che provocano eccessive differenze di reddito causati da una economia produttiva ormai collettiva che genera conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione. Per garantire una libertà individuale occorre un riordinamento dell'economia. Anche se le politiche rooseveltiane sono buone iniziative per il fatto che si prromuove l’attività sociale del goeverno, occorre un salto di qualità, ossia rinunciare ai postulati liberisti e conferire all'autorita pubblica un compito permanente di regolazione di tutte le fasi del ciclo economico nel quadro di uno sviluppo pianificato a fini sociali. Lo Stato deve quindi intervenire e non più semplicemente controllare affinchè si possano correggere le condizioni di non-libertà insite nei rapporti sociali. Il "nuovo liberalismo" di Dewey mira a promuovere una forma di organizzazione sociale capace di neutralizzare le minacce illiberali che nascono dall'affermarsi dei grandi potentati economici. Approccio scientifico allo studio della società Il pensiero di Dewey passa da un’organizzazione pianificata dell'economia viene affidata a "capitani d'industria e della finanza", a "rappresentanti degli operai" a "impiegati statali", e dunque con mezzi capitalistici che mantengono intatta la proprietà privata dei mezzi di produzione a una politica orientata a "socializzare le forze di produzione attualmente disponibili", in relativa analogia con i tentativi di pianificazione economica della Russia sovietica, e dunque attraverso la integrale socializzazione delle forze produttive. L'elemento propulsivo del progresso sociale va individuato nel "metodo dell'intelligenza", o "metodo scientifico" che non si è finora espresso per un "ritardo culturale" nella prassi politica degli USA. Solo con un ordine sociale razionalmente organizzato l’uomo può beneficiare dei vantaggi della comprensione scientifica della natura. Rimane il fatto che l'applicazione del metodo scientifico alla soluzione dei problemi sociali è ostacolata dalle profonde differenze di opinione su ciò che è socialmente benefico o dannoso. Crescita umana Tuttavia, esiste per Dewey l’indiscutibilefine della "crescita" umana intesa come la realizzazione graduale delle potenzialità umane per effetto della interazione tra "abitudine" e "impulso", fra routine e innovazione. Perciò, il governo, gli affari, la religione, tutte le istituzioni sociali hanno il compito di liberare le capacità degli individui a prescindere dalla razza, dal sesso, dalla classe o dallo status economico. Democrazia vuol dire molte cose, ma se ha un significato morale, questo sta nel decidere che la verifica suprema di tutte le istituzioni politiche e di tutti gli assetti produttivi sta nel contributo che danno alla crescita costante di ogni membro della società. Poichè la profonda ricostruzione sociale necessaria per realizzare la "crescita" va conseguita anche con strumenti politici, Dewey suggerisce a questo proposito una concezione pluralistica della società. Pluralismo II pluralismo è l’antidoto alle forme totalitarie che assorbono tutte le associazioni primarie (la famiglia, il clan, il vicinato di quartiere) nello Stato (associazione secondaria). In Dewey rimane comunqe una concezione di Stato che deve contriubuire positivamente per incrementare il processo di "crescita". Siccome le condizioni materiali di vita limitano la "crescita" della maggior parte di cittadinanza, lo Stato deve intervenire anche negli affari della "famiglia, del clan, del quartiere". Per evitare che questo intervento diventi totalitario e quindi non pluralista il metro di misura diventa il benessere "pubblico", valutato dai rappresentanti dei cittadini che esercitano il potere politico per controllare e giudicare. 8.3. L'Italia In Italia il liberalismo, escludendo Croce, non ebbe molti esponenti. L’obiettivo dei pochi liberalisti era comunque quello di difendersi dalle idee di Crispi, dal nazionalismo ed infine dal fascismo. 8.3.1. Ferrero Disordine sociale Per il liberaldemocratico vicino al radicalismo Guglielmo Ferrero, rispetto ad una ricomposizione pluralistica dei conflitti prevale la pausa incomprensibile e minacciosa, paura di fronte agli altri, concepiti come nemici reali o immaginari, paura di fronte al futuro, temuto per i suoi potenziali di incertezza e di instabilita: "L'uomo insomma vive al centro d'un sistema di terrori, in parte naturali, in parte creati da lui stesso, veri e fittizi; questi ultimi più terribili dei veri". Una condizione simile a quel bellum omnium con tra omnes che per Hobbes era lo "stato di natura". Civiltà e Potere Da disordine e paura universale nasce la civiltà, concepita come ordine artificiale capace di produrre pace e sicurezza. La civiltà e le sue forme, come la religione, la politica, la morale, non sono la prosecuzione spontanea di una naturale tendenza alla cooperazione e alla coesistenza, ma l'esito dello sforzo di annullare la paura o, quanto meno, di ridurre al minimo l'incertezza che travaglia la vita degli uomini. Lo strumento di questo sforzo è il potere che promuove strategie atte a ridurre la paura con lo scopo di controllare il timore reciproco che ciascuno prova nei confronti dei propri simili. L'uomo, col potere che crea, stabilisce un ordine che non riceve sempre il consenso degli individui. Il paradosso del potere è che per garantire l’ordine deve utilizzare proprio la paura che è la causa per cui è nato. "Il Potere è la manifestazione suprema della paura che l'uomo fa a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene". La risposta a questo paradosso, sulla quale riposa la sua concezione della democrazia, è la convergenza tra potere e società, che permette di ridurre la paura reciproca tra governanti e governati accomunandoli in un idem sentire de re publica. Secondo Ferrero non è solo la coercizione che garantisce la stabilità dell'ordine sociale ma è necessario anche il consenso, che può costituirsi solo a condizione che esistano credenze e valori condivisi in grado di operare come principi normativi capaci di orientare i corsi d'azione degli individui. Anche se il potere viene dall'alto, la legittimità viene dal basso, nelle monarchie come nelle democrazie. Principi di legittimità Il potere si libera della pausa solo se è legittimato, infatti, dove il potere è legittimo, la sovranità assume il profilo di una sorta di "contratto sottinteso" tra i soggetti e l'autorità che si configura come l'esito di una convergenza tra la costruzione dell'unità politica nel potere sovrano e i valori, i costumi, gli interessi materiali e morali più diffusi. I principi di legittimità si alternano da un'età all'altra semplicemente perché alcuni sono meglio rispondenti di altri all'orientamento generale dei valori condivisi: dal principio monarchico ereditario al principio democratico elettivo, questi principi assicurano la possibilità che l'ordine politico esibisca una razionalita congruente con l'ethos condiviso in modo da ridurre al minimo l'uso della violenza. La crisi di legittimità e il momento in cui la conflittualita dei diversi interessi sociali si acuisce sino a mettere in discussione l'ordine politico stabilito. In periodi di transizione, come le rivoluzioni, ricompare la paura del potere. Pluralismo politico e Sociale: la democrazia La democrazia, che si fonda sul principio della delega delle funzioni di comando da parte del popolo e sul diritto di opposizione delle minoranze, corrisponde al partito della rivoluzione e al partito della conservazione che finiscono per affrontarsi in base alla logica distruttiva della paura reciproca. Questa logica, spinta alle sue estreme conseguenze, non può allora che risolversi con l'affermazione di un potere assoluto e indivisibile, un nuovo regime di paura. Il maggior sostenitore fu John Maynard Keynes (1883-1946) che formula un'interpretazione del funzionamento del capitalismo alternativa alla teoria classica dell'autoregolazione del mercato al livello ottimale per effetto della armonica corrispondenza tra domanda e offerta (la cosiddetta "legge di Say"), di cui erano conseguenza le politiche liberiste del laissez faire. Secondo Keynes, la teoria ortodossa si concentra sul problema della distribuzione delle risorse in regime di piena occupazione, senza analizzare la disoccupazione involontaria dei fattori produttivi, lavoro e capitale mentre occorre partire dal presupposto che le crisi di sovrapproduzione fanno parte integrante del sistema economico capitalistico e quindi la sottoutilizzazione delle risorse produttive può generare una crisi di disoccupazione e innescare una spirale depressiva. Occorre quindi sostenere la domanda aggregata per rendere il mercato in grado di assorbire l'offerta produttiva: in questo senso, la domanda agisce come elemento propulsivo del sistema, che dimostra di aver bisogno di un'autorità esterna capace di regolarlo. Per intervenire sul livello di attività e di occupazione, lo strumento più immediatamente utilizzabile dalle autorità di governo è rappresentato dalla politica di bilancio, e cioè dalla manovra della spesa pubblica e dalla tassazione. Espansione della spesa pubblica In particolare, Keynes crede negli effetti espansivi della spesa pubblica. Le scorte devono essere consumate con l’incremento di spesa pubblica che deve affiancare la domanda privata e per incrementare tale spesa occorre far ricorso al debito pubblico, ossia un intervento in situazioni di recessione. Il mercato La critica dei dogmi liberisti non porta Keynes ad abbandonare il principio del mercato però per permettere al sistema capitalistico di realizzare le sue potenzialità occorre una sorta di socializzazione degli investimenti per il sostegno della domanda globale da parte della spesa pubblica. Keynes non abbandona neanche il terreno del liberalismo politico a cui riconosce il merito di coniugare efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale. 10. I totalitarismi Origine del termine Il termine 'totalitario' circola già nei primi anni Venti tra gli oppositori del regime fascista ed è adoperato in senso negativo da Giovanni Amendola nel 1923 oltre che da Mussolini che lo rovescia in senso positivo inteso come unificazione di volontà nello Stato. Il “fascismo” può però definirsi “autoritario” e non “totalitario” come nazismo e comunismo stalinista. Questi regimi non gradivano il termine; il nazismo preferiva connotare la propria politica in senso razziale e 'popolare' (völkisch), mentre il comunismo stanlinista si proponeva come 'rivoluzionario', 'consiliare' (sovietico) e 'socialista'. Riflessione teorica sul totalitarismo La categoria teorica e analitica di 'totalitarismo' viene poi compiutamente elaborata da Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo-1951), che dà al termine risonanza filosofica, profondità storica e valenza polemica. Caratteristiche di totalitarismo: a) ideologia totalizzante. b) partito unico. c) presenza attiva del capo carismatico in rapporto diretto con le masse. d) uso discrezionale e non legale del potere politico, e terroristico. e) controllo pieno da parte del potere politico su comunicazioni e economia. Se una forma politica non risponde a questi requisiti estremi sarà definibile piuttosto come 'autoritaria'. Il totalitarismo: risposta alla crisi dello Stato e del soggetto Il totalitarismo è una risposta alla crisi dello Stato e del soggetto che per 20 anni è stata vincente. Una crisi dovuta all'incapacità dello Stato liberale ottocentesco di contenere, nelle proprie forme e istituzioni, i potenziali umani, tecnologici ed economico-industriali mobilitati nella prima guerra mondiale; se l'ingresso sulla scena politica di una società di massa, contraddittoria e inquieta, è la caratteristica del XX secolo, il totalitarismo risponde a questo dato di novità sociologica con una strategia di annullamento dei limiti e dei confini tra Stato, società e individuo, e fra politica, etica ed economia, per realizzare la promessa di un mondo radicalmente nuovo. Tuttavia, oltre che questa promessa, è centrale per comprendere il totalitarismo il fatto che esso è capace di servirsi di tecnica ed economia a scopi distruttivi (nel presente) in vista della rigenerazione (futura). Va sottolineato che l'ingresso delle masse sulla scena politica, e il ruolo crescente della tecnica, non sono di per se stessi totalitari: le masse sono in realtà le prime vittime dell'inganno e della violenza del totalitarismo, e la tecnica, da parte sua, non esprime una diretta intenzionalità terroristica. Anzi, il secondo dopoguerra dimostrera che sono possibili ordinamenti politici in cui le masse, la tecnica, l'intervento dello Stato in economia, siano compatibili con le libertà individuali e collettive. La figura del nemico I regimi totalitari perdono la distinzione fra guerra e polizia, fra esterno e interno: conducono infatti all'esterno non 'guerre' contro 'nemici' da sconfiggere, ma campagne di polizia contro 'criminali' o 'parassiti' da sterminare, come la seconda guerra mondiale ha dimostrato per quanto riguarda le terre conquistate dal comunismo e dal nazismo; e conducono all'interno non operazioni di polizia contro 'criminali', ma vere e proprie guerre contro i 'nemici' che albergano nella società. Il nemico interno è infatti istituzionalizzato dai totalitarismi, in varie forme. Come nemico reale, che è l'oppositore dichiarato, l'avversario politico (comunisti e socialdemocratici rispetto al nazismo, zaristi, borghesi); come nemico potenziale, ossia colui che, pur non dando luogo a comportamenti ostili, può sempre diventare, in ragione della sua appartenenza a un gruppo sociale, un oppositore del regime; e come "nemico oggettivo", che differisce dagli oppositori e dai sospetti in quanto e di volta in volta individuato dalle esigenze del momento. La posizione degli ebrei nel regime nazista è ancora diversa: si tratta qui di un "nemico biologico" il cui sterminio è la ragione stessa dell'esistenza del regime nazista. 10.1. Il comunismo sovietico A Lenin si deve la costruzione del potere abnorme e illimitato del partito comunista, che divenne propriamente totalitario quando, verso la fine degli anni Venti, cadde interamente nelle mani del suo successore, Stalin, eletto segretario generale del partito nel 1922, che stravolse le istituzioni e gli strumenti creati da Lenin con finalità emancipatone ai fini di una politica interna dispotica e di una politica estera di potenza. Anche il regime staliniano impone una visione radicale e utopistica della storia, ispirata all'avvento di una nuova era. Obiettivo però realizzabile al prezzo di una pratica sistematica di terrore e repressione di massa, parallele a forti trasformazioni della impostazione economica e politica. La trasformazione totalitaria del sistema sovietico La trasformazione politica più importante avviene come conseguenza del primo piano quinquennale (1928-32). Il partito diviene la suprema autorità in materia di decisioni economiche e influenza la mobilitazione delle masse allo scopo di applicare quelle decisioni. Già nel pensiero marxista la razionalità pianificata era considerata qualificante per l’economia socialista, ma ora questo nuovo modo di concepire la pianificazione consiste nell'attribuire agli organi dirigenti del partito il ruolo di elemento propulsivo dell'economia. Il partito comunista sovietico attua un intervento di "ingegneria sociale" con cui disciplina masse di operai e kolchoz (le aziende collettive) degli agricoltori oppositori mediante un'azione sistematica di indottrinamento, addestramento e terrore. Il partito di Stalin si renderesponsabile nell’accelerazione della campagna economica svolgendo un ruolo sociale sia distruttivo sia costruttivo. L'elemento distruttivo ricade sui contadini più ricchi, i kulaki, eliminati fisicamente come classe afinchè il partito possa esercitare un completo controllo sui contadini e la totale integrazione dell'agricoltura nel sistema della pianificazione centrale, mentre quello costruttivo sta nella creazione di una nuova classe contadina, quella dell'agricoltore collettivo. Pratica del terrore Il terrore trova ulteriore espressione nel sistema dei campi di lavoro forzato o gulag, mediante i quali i nemici di classe vengono trasformati in cittadini della società socialista attraverso il potere 'purificatore' del lavoro collettivo, della emulazione socialista, della propaganda. L'altro mezzo di diffusione del terrore è costituito dalle grandi "purghe", avviate nella seconda metà degli anni Trenta e gestite dalla sempre più potente polizia politica. Nelle purghe rientrano l'arresto di membri della vecchia borghesia e la liquidazione degli elementi considerati inaffidabili all'interno del partito e dell'esercito, nonchè coloro che venivano definiti "estranei alla società", asociali. Stalinismo Nonostante la nuova Costituzione del 1936 fosse considerata come la più democratica del mondo, i diritti in essa contenuti vengono resi inefficaci da un potere politico personale privo di qualsiasi controllo, che si fonda su una combinazione di terrore poliziesco e di consenso popolare al capo carismatico. Con la mitologia dei "nemici del popolo" si individuano i protagonisti del male 'oggettivo', mentre con il culto di Stalin, viene individuato un contraltare positivo, ossia il bene soggettivo. Stalin, pseudonimo di Josif Vissarionovic Dzugasvili (1879-1953) è anche colui al quale si deve l'elaborazione del materialismo dialettico, noto come Diamat, una forma di irrigidimento dogmatico e scolastico del marxismo, trasformato da teoria del socialismo a concezione del mondo valida per ogni ambito della conoscenza, dotata del medesimo livello di scientificità delle scienze naturali. Dopo la morte di Stalin il sistema sovietico perse nel corso tempo alcuni dei caratteri più marcatamente terroristici e totalitari, per evolvere in un regime pesantemente autoritario e illiberale. 10.2. Il fascismo Per nazismo e fascismo la vera incubatrice è la prima guerra mondiale, con le dinamiche estreme, e sovvertitrici, che in essa si realizzano. Fascismo e nazismo proclamano l'inadeguatezza della ragione e la superiorità dell'istinto e della volontà evitando esplicitamente di vincolarsi a programmi ideologici circostanziati. L'ideologia fascista in Italia Il fascismo, scrive Mussolini, "non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione". In politica, ciò che conta è l'azione, purchè sia autenticamente creatrice. In generale, quella fascista è un'ideologia di base contraddittoria, che incorpora concezioni disomogenee di pensiero e che può quindi accogliere elementi tra loro incompatibili in un conglomerato incoerente di idee. E’ il nazionalismo italiano a fornire al fascismo originario buona parte del corpus dottrinale: mito della nazione, lotta delle nazioni povere contro le potenze plutocratiche, richiamo alla romanità imperiale, visione irrazionale e vitalistica dell'esistenza, esaltazione dello Stato- potenza come suprema autorità, sono tutti temi ripresi quasi integralmente dal patrimonio culturale nazionalistico. Ma la differenza tra fascismo e nazionalismo è che il primo può esistere unicamente grazie alla mobilitazione delle masse, mentre il secondo fu quasi esclusivamente un fenomeno borghese o aristocratico. Il fascismo appartiene a quella politica che si pone il problema di fare i conti con le masse, che non è certo una politica democratica in senso proprio, ma che è almeno una politica demagogica, mente aperta a una dimensione sociale. Questo spiega il fatto che il fascismo indubbiamente conobbe molto consenso, almeno dal 1929 (i patti Lateranensi) fino al 1938 (quando le leggi razziali cominciarono a suscitare dubbi) o fino alla guerra, il cui andamento rovinoso staccò del tutto il popolo dal fascismo. Programma Politico Pur coltivando la retorica dei valori tradizionali della nazione non è un movimento tradizionalista. Cerca infatti di sostituire le istituzioni consolidate dell'ordine conservatore (Chiesa e monarchia) con una leadership fondata sul culto carismatico del capo, legittimato dalla massa e da rituali quasi interamente secolarizzati, il monopolio della rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa organizzato gerarchicamente, il tentativo di incorporare totalitariamente nelle strutture di controllo del partito o dello Stato tutto l'insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali. Inizialmente, fascisti e nazisti, si considerano come i rivoluzionari della controrivoluzione, adattano nomi e simboli dei movimenti rivoluzionari e socialisti: il fascismo, stando al Programma dei fasci di combattimento del 1919, pare accogliere richieste per certi aspetti 'democratiche', derivate dall'anarco-sindacalismo. Dal punto di vista politico, il Programma chiede il suffragio universale a scrutinio di lista regionale, la rappresentanza proporzionale, il voto e l'eleggibilità per le donne, la convocazione di un'assemblea nazionale demandata a stabilire la forma costituzionale dello Stato, la rappresentanza degli interessi (che poi diverranno le corporazioni), la riduzione dell'esercito a milizia nazionale e a scopi unicamente difensivi. Dal punto di vista sociale, inarrestabile decadenza impedisce l'attuazione di un progetto politico di discriminazione delle "razze inferiori". L'affermazione di un razzismo 'attivo' avviene nel momento in cui le idee di Gobineau vengono riprese dal grande musicista Richard Wagner e dal pangermanesimo, i quali vi proiettano tratti antisemiti. Ai miti del popolo tedesco e agli eroi della fede cristiana si aggiungono stereotipi antiebraici cui l'inglese Houston Stewart Chamberlain (1856-1927) cercherà di attribuire sostanza 'scientifica'. E’ Chamberlain a dare il contributo decisivo alla popolarizzazione del mito ariano mediante l'identificazione della razza superiore con quella tedesca. Ed è proprio questo mito a fornire una spiegazione pseudoscientifica dell'antisemitismo, che in Germania e altrove aveva già solide radici, ma che solo in Germania darà luogo all'orrore della "soluzione finale". Il massimo testo espositivo del razzismo nazista, a parte il Mein Kampf di Hitler, è del tedesco Alfred Rosenberg (1893-1946), Il mito del XX secolo (1930) secondo cui ogni creazione dell'uomo viene ricondotta alla razza. La stessa verità è tale da essere riconducibile alla razza: esempio di una tale verità organica è un popolo unificato dal suo destino biologico, come quello tedesco. Il 'mito del XX secolo' consiste nella volontà di creare un nuovo tipo di uomo, ossia nell'attuare il risveglio della razza nordica; questa dovrà produre il proprio eroe e organizzarsi come comunità di uomini superiori per realizzare infine il proprio mito organico e gerarchico nel Volksstaat, o "Stato del popolo-nazione". Nemico mortale di questo progetto è la razza ebraica, che mira a impadronirsi del mondo e che cerca di distruggere la razza superiore mediante la diffusione dell'egualitarismo democratico, socialista o cristiano. Il programma del partito nazionalsocialista Le contraddizioni del nazionalsocialismo appaiono nei 25 punti del programma del Partito dei lavoratori tedeschi (Deutsche Arbeiterpartei – Dap -1919 a cui Adolf Hitler (1889-1945) aderisce nel 1920, quando si trasforma nel Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap). I punti sono una misto di parole nazionaliste, razziste, autoritarie e populiste, che garantiranno a Hitler e al partito un ampio consenso popolare. Inizialmente Hitler sceglie per il proprio movimento la denominazione di “Partito nazionalsocialista dei lavoratori” con la bandiera rossa (modificata) e istituisce, una volta giunto al potere, il Primo maggio come festività ufficiale. Ma l'ala populistica del partito, facente capo ai fratelli Strasser e a Rohm, verrà epurata in un bagno di sangue (1934) e concetti sociali verranno ridimensionati nell'alleanza con i ceti dirigenti tradizionali dell'industria, della burocrazia e dell'esercito, i quali potranno godere dei vantaggi economici derivanti dalla politica nazista la quale, con il riarmo degli eserciti, innescò una sorta di versione totalitaria del keynesismo con incremento della spesa pubblica. Politica economica Col del "piano quadriennale" del 1936, l'influenza dello Stato\Partiti sull'economia aumenta notevolmente anche se non al punto di poter definire il sistema economico tedesco come un'economia pianificata di Stato. Lo Stato controlla l'economia nel quadro di uno 'sviluppo concertato' tra lo Stato e l'industria privata, raggruppata in corporazioni (Reichsgruppen), il tutto travagliato da conflitti tra i potentati sempre mediati in ultima istanza da Hitler. La struttura capitalistica dell'economia rimane sostanzialmente inalterata anche se l’industria, in forte espansione, è subordinata al potere politico. La fonte principale dell'ideologia nazista è il Mein Kampf (La mia battaglia, ideologia nazista 1925) di Hitler. Lo Stato è Volks-staat, Stato di popolo, in polemica contro il totaler Staat (teorie di destra). E’ questa idea del popolo, dello Stato e del partito è collocata all'interno di una Weltanschauung, di una concezione del mondo, fortemente improntata a un rozzo 'darwinismo' storico e politico che vede nella storia e nella natura, del tutto equiparate, null'altro che la lotta mortale di civiltà a base etnico- razziale; una lotta vinta di volta in volta dalle civiltà razzialmente pure, e persa da quelle imbastardite. Compito del nazismo è quindi realizzare una rinascita razziale della Germania, per assicurare al popolo tedesco lo "spazio vitale" (Lebensraum) in cui realizzare l'impero razziale germanico, che comprende sia l'eliminazione degli ebrei sia la sottomissione dell'elemento non tedesco, soprattutto slavo (la razza inferiore). Il Führerprinzip è il principio di funzionamento di questo sistema politico. In aperta opposizione nell'epoca "in cui la maggioranza domina dappertutto", il Führerprinzip è "l'idea di un solo capo e della responsabilita personale". Il Führerprinzip è un sistema ideologico e organizzativo che consiste nel fatto che ogni livello o istanza è gestito da un uomo solo che se ne assume in pieno la responsabilità e che ne rende conto a un capo di livello superiore. Nel caso di Hitler, egli guida il popolo tedesco in virtù della sua designazione provvidenziale, divina, a Capo, in sintonia razziale ed esistenziale col popolo di cui deve portare a compimento il destino di dominio, rispondendone davanti alla storia. Il Fuhrer concentra in se tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, in quanto incarna l'essenza storica e il destino del popolo. Il 2 agosto 1934, alla morte di Hindenburg, ultimo rappresentante del potere legale, Hitler unisce le cariche di presidente e di cancelliere. In questo modo, la parola d'ordine nazista "un unico popolo, un unico movimento, un unico Fuhrer", diviene realtà. Il mito dell'antisemitismo L’antisemitismo è l’essenza del totalitarismo nazista di cui Hitler si avvale per conquistare l'appoggio dei ceti superiori, del proletariato messa contro gli ebrei e della piccola borghesia rovinata dalla crisi del 1929. L'antisemitismo è una personale ossessione di Hitler che fa diventare lo sterminio più importante dell'espansionismo. La razza ebraica va sterminata perchè è quella di cui gli ariani devono avere timore dal momento che contende con loro il dominio del mondo in modo subolo e senza una vera lotta ma mediante una sorta di avvelenamento rappresentato dalle ideologie universalistiche ( liberali, socialiste, razionalistiche e pacifistiche) a sfavore della razza superiore. Il fatto che l'antisemitismo e lo sterminio siano il vero obiettivo della politica nazista è dimostrato dal fatto che gli ebrei sono stati perseguiti fino all'ultimo, anche a dispetto di ogni valutazione di convenienza militare. III. FILOSOFIA E POLITICA Secondo molti pensatori politici il totalitarismo è la forma estrema del collasso delle categorie e dei concetti tipici del razionalismo moderno, illuministico e liberale, e delle sue istituzioni politiche. Fino agli anni ‘50 abbiamo quindi molti filosofi che si interrogano sulla crisi della politica moderna e sulla vicenda totalitaria, sul fatto che la politica pare sottrarsi alla ragione umana. Emerge che la ragione risulta attraversata dal conflitto, inteso come una contraddizione assoluta, non mediabile, destrutturante. Questo scacco della ragione è presente anche nella tradizione dialettica, ed esplode del tutto nei pensatori radicali della crisi. 11. Il pensiero dialettico Concretezza del soggetto Rispetto alla sua origine, il pensiero dialettico del ‘900 è critico delle categorie intellettuali e politiche del razionalismo liberale, nella cui astrattezza e facili ottimismi scorge debolezza teorica e contraddizioni irrisolte. Contraddizioni che consistono nel fatto che l'individuo è ridotto a nulla anziché essere il centro della politica. A questa crisi, in cui si conclude l'esperienza storica e politica della borghesia, il pensiero dialettico oppone analisi politiche orientate a consentire al soggetto storico reale di liberare la propria concretezza. Ma questa ricerca di concretezza lascia il campo, a partire circa dagli anni Trenta, cioè dal pieno affermarsi del totalitarismo, a una sempre più acuta percezione che le contraddizioni e i conflitti coi quali si deve misurare il pensiero dialettico siano non 'superabili', ma anzi insormontabili. 11.1. L'Italia In Italia la rinascita dell'idealismo agli inizi del XX secolo determina, almeno inizialmente, uno svecchiamento della cultura nazionale, sia di quella del positivismo sia di quella del socialismo. Sotto il profilo politico, in particolare, attraverso la ripresa dell'hegelismo si realizza una più piena consapevolezza della concreta storicità dei problemi politici (Croce), e del fatto che le istituzioni politiche debbono essere il risultato di un pieno coinvolgimento del soggetto nella prassi (Gentile). 11.1.1. Croce Idealismo liberale Attraverso la ripresa dell'eredita hegeliana Croce vuole affermare una concezione dialettica del liberalismo: la sua teoria idealistica della realtà e della storia è liberale proprio in quanto dialettica, ossia in quanto riconosce che nell'aperto conflitto tra movimenti e gruppi politici giunge a compimento e a consapevolezza lo sviluppo della storia, che consiste appunto in opposizioni e contraddizioni. Attraverso il recupero di Hegel, Croce tenta di sottrarre il liberalismo al destino di irrigidirsi nelle sue contraddizioni, ad esempio, al conflitto fra individuo e potere politico che in esso si torna a presentare (elitisti), oppure allo scontro di classe; attraverso la ripresa della dialettica Croce pensa inoltre di mostrare che le contraddizioni, essenza della storia, non possono venire risolte una volta per tutte mediante una razionalità pianificatrice, ne la loro soluzione puo essere affidata alla Provvidenza o agli automatismi del progresso. Nessun Assoluto fuori della storia, nessuna Verità trascendente, guidano il pensiero di Croce; per lui, come per Vico la verità è l'operare umano nel corso della storia. Quindi, la giustificazione di quelle contraddizioni sta nel vedere in esse lo sviluppo dell'universale, cioè dello Spirito e della libertà umana. La definizione di "storicismo assoluto" con la quale Croce qualifica il proprio pensiero coincide infatti con "l'affermazione che la vita e la realtà è storia e nient'altro che storia". Dialettica dei distinti Nella prima fase del suo pensiero (fino al 1924) Croce cerca di definire l'essenza della politica. A ciò egli giunge mediante una riforma della dialettica che affianca alla nozione hegeliana di "opposizione" quella di "distinzione" che ad Hegel è sconosciuta. Mentre gli opposti si condizionano a vicenda, i distinti, cioè i gradi dello Spirito, si condizionano soltanto in base all'ordine della loro successione. La sfera della politica La politica rientra nella sfera pratica e nella forma economica dello Spirito, che adempie alla funzione che in Hegel era assolta dalla natura, ossia di ospitare il contingente, l'individuale; a questa forma appartengono, oltre che la scienza naturale, anche il diritto e lo Stato. Il mondo della politica viene dipinto da Croce come una realtà amorale che precede la vita morale e ne è indipendente. La politica è forza, un'azione funzionale per un determinato scopo utile, così come lo Stato che è un processo di azioni utili di un gruppo di individui che si realizza nel governo. La concezione più adeguata dello Stato è dunque quella dello Stato-potenza. Lo Stato è soltanto una "forma elementare e angusta della vita pratica", che non può e non deve ricomporre il pluralismo antagonistico e dialettico delle forze politiche e ideali, poichè la realtà storica si esprime attraverso contrasti, opposizioni, contraddizioni. La filosofia idealistica coincide così con una concezione dialettica del liberalismocome "una concezione totale del mondo e della realtà". In questa fase del suo pensiero Croce mantiene dinanzi al fascismo nascente un atteggiamento di attesa e di 'comprensione' storicistica, oltre che di benevolenza tattica, nel convincimento che la nuova violenza fosse una reazione salutare al disordine postbellico e una 'cura' da cui lo Stato liberale avrebbe tratto beneficio per rafforzare la propria autorita. Libertà La seconda fase del pensiero crociano, più liberale, risale agli anni successivi alla prima guerra mondiale, quando si presenta il problema della nazionalizzazione e della rappresentanza politica di grandi masse popolari. Si affaccia così l'idea che anche il socialismo possa essere incorporato nelle istituzioni liberali e possa contribuire a razionalizzare le nuove istanze sociali, soprattutto quando, davanti al fascismo, Croce avverte l'esigenza di precisare la propria concezione della storia e della libertà. Egli perviene a una concezione dello Stato come istituzione capace di incorporare i valori del progresso morale, facendo un passo avanti rispetto alla precedente stretta associazione della politica con la forza. Antifascismo Il liberalismo di Croce diviene tanto concezione dialettica della realtà quanto fondamento di vita e di lotta pratica. E’ proprio nel liberalismo che si verifica quell'avvicinamento tra morale e politica però non è annullamento della morale e della politica l'una nell'altra. Da qui derivano le ragioni del suo antifascismo. Il fascismo non si configura più come una forma adeguata di mediazione fra tradizione e società di massa, ma come una parentesi rispetto alla tradizione liberale del Risorgimento, in quanto l'abbandono dei valori liberali propri della tradizione risorgimentale distrugge la libertà. Croce si oppone alla pretesa dello Stato etico gentiliano di assorbire l'intera dinamica sociale nelle istituzioni identificando la morale con la prassi, il pubblico con il privato, lo Stato con la società, e in generale la filosofia con la politica. Storia della libertà In varie opere di Croce, la storia delle vicende politiche viene ricondotta alla storia della libertà, e cioè a una storia etico-politica intesa quale sintesi di storia politica e di storia
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