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Riassunti marazzini, Sintesi del corso di Linguistica Generale

riassunti volume di Marazzii

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 14/06/2016

Michela.Rosina
Michela.Rosina 🇮🇹

4

(2)

3 documenti

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Scarica Riassunti marazzini e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! RIASSUNTI MARAZZINI, LA LINGUA ITALIANA L’ITALIANO L’italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea, prima al mondo per numero di parlanti (nel ‘500 con le conquiste coloniali le lingue indoeuropee approdarono su altri continenti; l’inglese in America del Nord, Canada e Africa, spagnolo e portoghese in America centrale e meridionale, francese in Canada e Africa..), cosiddetta in quanto vi rientrano quasi tutte le lingue d’Europa e quelle di molte regioni dell’Asia Meridionale. L’italiano rientra poi nella grande sottofamiglia delle lingue ROMANZE, dette anche NEOLATINE, in quanto figlie del latino, assieme a portoghese, spagnolo (castigliano), catalano, francese, provenzale e rumeno. Oggi circa 640 milioni di persone parlano una lingua romanza. ITALIANO: XV posto per numero di parlanti madrelingua, circa 59 milioni (benchè la popolazione conti 60 milioni, bisogna sottrarre i bambini che non sono ancora in grado di parola). Nel quadro internazionale, l’importanza della nostra lingua è legata, più che al piano politico-militare, alla ricchezza letteraria e artistica accumulata nel corso dei secoli. DOVE: L’italiano oggi si parla in tutta la Repubblica Italiana, di cui è lingua ufficiale. È inoltre parlato dallo Stato Vaticano (benchè la lingua ufficiale della Chiesa resti il latino), nella Repubblica di San Marino (30.000 persone), nel Canton Ticino e Grigioni della Svizzera (300.000 persone) ed è una delle lingue ufficiali della Confederazione Elvetica, in Slovenia (4.000 persone) e in Croazia (20.000 persone). In questi due ultimi paesi la presenza dell’italiano risale all’antico dominio veneziano in Istria e Dalmazia, diminutie drasticamente dopo la prima guerra mondiale (Foibe). Sono inoltre presenti minoranze sempre più ristrette di parlanti italiani nel Nizzardo e nel Principato di Monaco, nelle ex-colonie italiane (Corno d’Africa) e nell’ex protettorato di Rodi. Vanno infine citate le comunità di emigrati italiani, sparse in tutto il mondo. Grande flusso migratorio dall’Italia è iniziato nella seconda metà dell’Ottocento, ed è proseguito fino agli anni ’70 del XX sec, ma quasi tutti questi emigrati parlavano un dialetto, non l’italiano standard. La lingua italiana è nota anche alle persone di ceto elevato a Malta, dove era comunemente parlata fino all’arrivo degli inglesi nel 1815, dove inoltre sta riguadagnando terreno grazie alla radio ed alla televisione. Da non dimenticare che l’italiano viene poi imparato e studiato in luoghi dove si verifica una cospicua affluenza di turisti italiani. ALLOGLOTTI IN ITALIA: per tracciare un quadro linguistico completo di una nazione, occorre prestare attenzione anche alle minoranze linguistiche. In Italia sono presenti gruppi alloglotti sia di origine romanza sia non romanza. Parliamo di penisole linguistiche quando aree linguistiche più grandi, confinanti con il nostro territorio nazionale, si estendono in parte anche all’interno dei nostri confini (ad es Altoadige), viene usata l’espressione continuità transfrontaliera da studiosi come Toso. Parliamo invece di isole linguistiche per indicare comunità di alloglotti molto piccole o isolate (chiamate anche colonie). ALLOGLOTTI che parlano lingue del gruppo ROMANZO: ▲ In Piemonte si parla PROVENZALE nelle valli alpine occidentali delle province di Torino e Cuneo e nella alta Val di Susa. I più importanti centri provenzali della val Pellice sono di religione Valdese. Una colonia Valdese del XV sec è sopravvissuta in Calabria, a Guardia Piemontese, dove permangono le tracce di un dialetto provenzale arcaico. ▲ In Valle d’Aosta si parla il FRANCO-PROVENZALE, val d’Aosta media e bassa val di Susa, valle di Laenzo e 2 colonie in Puglia, Faeto e Celle. In val d’Aosta il francese è per tradizione la lingua di cultura ed ha lo status di lingua ufficiale con l’italiano. ▲ Valli alpine dolomitiche che fanno corona al gruppo del Sella: parlate della sezione centrale dell’area ladina. Il LADINO è considerato dai glottologi e sociolinguisti come una lingua a se stante, val Badia, Gardena, Fassa: qui il ladino è oggetto di studio ed insegnamento nelle scuole dal 1948. Nel Friuli e nella Carnia: parlate ladino-orientali, note come FRIULANO. Parlate ladine sono presenti anche in Svizzera, indicate con il nome di ROMANCIO (canton Grignoni). ▲ SARDO: considerato dai glottologi come una vera e propria lingua per le sue caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono da tutte le altre lingue romanze. Si distinguono 4 varietà di sardo: GALLURESE, SASSARESE, LOGUDORESE E NUORESE, CAMPIDANESE. Le prime due hanno subito l’influsso del toscano, con cui sono venute a contatto tra XI e XII sec per la penetrazione economica-politica dei pisani. Ad Alghero si parla CATALANO in seguito alla conquista militare della città da parte di Pietro IV d’Aragona. Più in generale la dominazione catalana del XIV e XV sec e poi quella spagnola hanno influenzato tutte le varietà del sardo. GRUPPI ALLOGLOTTI NON ROMANZI : La più numerosa comunità tedescofona occupa l’alta Valle dell’Adige e designa se stessa con il nome di Südtirol (che indica un rovesciamento rispetto alla prospettiva italocentrica). Questa minoranza etnica gode di uno statuto speciale che interessa la provincia autonoma di Bolzano. Il tedesco ha qui lo status di lingua ufficiale, insegnato a scuola come prima lingua, mentre l’italiano è imparato come lingua seconda. Ma bisogna tener presente il fatto che il tedesco del Südtirol è un dialetto tedesco e la comunità tedescofona vive dunque una situazione di diglossia: il dialetto si usa nella comunicazione familiare, la lingua tedesca vera e propria in situazioni formali elevate. Alcuni dialetti tedeschi vengono parlati anche nei tredici comuni del veronese e nei sette comuni del vicentino, in Piemonte e in valle d’Aosta. Ci sono due isole greche l’una in Calabria alle pendici dell’Aspromonte, l’altra a Salento. Da alcuni studiosi viene riscontrata l’eredità della Magna Grecia, da altri l’occupazione bizantina. Le minoranze slave si sono molto affievolite da quando l’Istria passò all’allora Jugoslavia. Rimangono alcuni gruppi slavi in provincia di Gorizia, Trieste e Udine. Sono presenti poi sul suolo italiano numerose antiche isole albanesi nate a seguito di immigrazioni risalenti al XV sec (scappavano dai turchi), soprattutto in provincia di Foggia e di Campobasso, ma anche in Calabria e Sicilia (piana degli Albanesi). I nuovi gruppi etnolinguistici affluiti in Italia negli ultimi decenni stanno soppiantando le vecchie minoranze storiche, per importanza e peso sociale, il numero è difficile da calcolare a causa dei clandestini. Non sono poi da dimenticare gli zingari. I DIALETTI D’ITALIA L’Italia è la nazione più ricca e differenziata per varietà linguistiche. L’italiano è stato per secoli quasi esclusivamente idioma letterario, largamente adottato a partire dal Cinquecento in tutta la penisola, quando la lingua parlata restava invece il dialetto locale. Ancora all’inizio del Novecento, la maggior parte dei parlanti era costituita da dialettofoni. La differenza tra dialetto e lingua non è assoluta, in quanto i due termini sono definibili solo in rapporto l’uno con l’altro. La LINGUA è un dialetto che per cause storiche, culturali e sociali ha raggiunto uno status superiore, ha maggiore diffusione del dialetto, unifica un territorio più ampio, è simbolo di un’identità nazionale, ha superiore dignità culturale, è strumento della classe dominante, è insegnata a scuola e codificata da precise norme grammaticali. Il DIALETTO invece è usato in un’area più ristretta, ha prestigio sociale minore ed è simbolo di un’identità locale. codificato dai grattatici in base a principi normativi largamente condivisi, a cui è attribuito prestigio da parte della comunità. L’italiano normato è uniformemente diffuso nello scritto, mentre ancora non si è diffusa una pronuncia davvero “standard” (priva cioè di tratti diatopici o diastratici) padroneggiata solo da esperti di dizione. TRATTI COMUNI DI ITALIANO E FIORENTINO CLASSICO 1. Anafonesi: fenomeno per cui la è tonica si trasforma in i davanti a –gn-, -gli- , -ng- mentra la ò tonica si trasforma in u davanti a –ng- Ad es: familia(m)>famèglia>famiglia Lingua(m) >lengua>lingua Fungu(m)>fongo>fungo 2. Dittongazione di E breve ed O breve del latino in sillaba tonica aperta, ad es venit >vieni, focus >fuoco 3. Il passaggio di e atona protonica ad i, ad es nepòte>nipote, decembre>dicembre 4. Passaggio di –ar- atono ad –er- nel futuro di prima coniugazione, es amarò>amerò, passaggio di ny a j es: januarius>gennaro>gennaio 5. Assenza della metafonesi caratteristica dei dialetti settentrionali. ELEMENTI CHE DIFFERENZIANO FIORENTINO E ITALIANO 1. Gorgia 2. Tendenza alla monottongazione di – uò- es buono>bono, nuovo>novo Lo standard non garantisce tuttavia nessuna omogeneità, in quanto anche nell’italiano normato si infiltrano alcuni elementi di substandard, che hanno portato alla formulazione della categoria “italiano di uso medio” (F. Sabatini). Questo italiano di uso medio, rispetto all’italiano standard, è astratto, rappresenta una realtà diffusa di cui tutti abbiamo comune esperienza (ad es uso di gli anche per le, loro, dislocazione con ripresa del pronome atono “Paolo non l’ho più visto”, uso dell’imperfetto al posto del congiuntivo. ESEMPI DI TESTI DIALETTALI ▲ Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) Le lingue del Monno ▲ La principessa di Carini , canto popolare sicialiano. ESEMPI DI ITALIANO POPOLARE ▲ Il libro dei canti di Maddalena pizzicarola in Transtevere (1523-1537): scritture popolari legate alle esigenze della vita pratica, semialfabetizzazione del popolo in un quadro didattico regolato dallo spontaneismo. ▲ Lettera di un emigrato politico che dalla Francia nel 1936 scrisse ai parenti rimasti ad Adria, ricco di anomalie morfologiche, tracce del parlato, tratti dialettali, da non interpretare come semplici errori ma come un tentativo di avvicinarsi alla lingua italiana. NB: si distingue la letteratura dialettale spontanea, frutto dell’uso naturale del dialetto da parte del popolo, e riflessa cioè frutto di una ragionata scelta stilistica da parte di un autore colto (è il caso ad esempio di Pasolini). NOZIONI FONDAMENTALI DI FONETICA E GRAMMATICA STORICA LA TRASCRIZIONE FONETICA I sistemi di scrittura delle lingue naturali sono frutto dell’evoluzione storica della grafia, motivo per cui mostrano ridondanze e complicazioni più o meno numerose, mentre manca l’unicità del rapporto tra suono e grafia, necessaria a scopo scientifico. Solo un sistema grafico artificiale, creato ad hoc può ambire a tale univocità. Oggi il sistema prevalente di trascrizione fonetica adottato dagli studiosi di tutto il mondo è l’IPA (international Phonetic Alfabet ), la cui prima versione appare nel 1886, poi continuamente rivisto, ampliato, perfezionato etc... L’alfabeto fonetico nasce da una standardizzazione internazionale concordata ma non è di uso agevole per tutti gli utenti. Alcune nazioni hanno elaborato per proprio conto sistemi diversi di notazione dei suoni a scoppo scientifico. Ad esempio in Italia Ascoli ha fondato un alfabeto diverso. Le trascrizioni fonetiche in IPA sono convenzionalmente poste tra due sbarrette oblique (trascrizione fonematica) o tra due parentesi quadre (trascrizione fonetica vera e propria). FONETICA E GRAFIA DELL’ITALIANO La fonetica studia la natura fisica dei suoni delle lingue. La fonetica articolatoria, in particolare, si occupa del modo in cui i suoni vengono articolati dall’apparato fonatorio umano. Sistema VOCALICO della lingua italiana 7 vocali (non 5) in quanto la e e la o si distinguono in chiuse o aperte. Tale distinzione ha valore fonematico in quanto può distinguere due parole altrimenti uguali. Le vocali si classificano in base al luogo di articolazione nella cavità orale (centrale, anteriore, posteriore). Vocale centrale/media: a 3vocali anteriori/palatali: i è é 3vocali posteriori/velari: u ò ó (dette anche labiali o arrotondate perchè nell’articolazione del suono le labbra sono protese in avanti ). Le vocali, a differenza delle consonanti, sono tutte sonore in quanto pronunciate facendo vibrare le corde vocali. Si distinguono poi in toniche quando portano l’accento e atone quando non lo portano. Combinazioni particolari di suoni vocalici sono i dittonghi che possono essere ascendenti (piede, uomo) o discendenti (fai, causa). La i e la u che entrano nei dittonghi vengono pronunciate in una maniere intermedia tra quella di una vocale e quella di una consonante, motivo per cui prendono il nome di semiconsonanti o semivocali. Sistema CONSONANNTICO della lingua italiana Le consonanti possono essere pronunciate con un restringimento del flusso d’aria, dette fricative o con un’occlusione di tale flusso d’aria, dette occlusive. La combinazione delle prime con le seconde produce le affricate. Le consonanti possono inoltre essere sorde (no vibrazione delle corde vocaliche) o sonore. La classificazione delle consonanti tiene conto di: modo di articolazione, vibrazione delle corde vocaliche, punto di articolazione (labbra, denti, palato o velo palatino). Labiali Dentali Velari Occlusive sorde sonore Fricative sorde sonore Affricate sorde sonore Inoltre se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio di aria dal naso, si ottengono le consonanti nasali /m/, /n/ / / (ogni). Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, abbiamo le consonanti laterali dentale laterale / / e la palatale laterale / / (figlio). Se la lingua crea una serie di ostruzioni che si susseguono come vibrando, abbiamo la consonante vibrante /r/. NOZIONI ELEMENTARI DI GRAMMATICA STORICA Le modificazioni subite dal latino nel corso della sua trasformazione non sono state casuali ma hanno seguito determinate regole di sviluppo studiate dalla grammatica storica, che si differenzia dalla grammatica descrittiva e da quella normativa in quanto , mentre queste studiano le norme che governano una lingua sul piano sincronico contemporaneo, la grammatica storica lavora sul piano diacronico. Le leggi della grammatica storica non sono certo prive di eccezioni e anomalie ma vanno intese come tendenze dominanti. I. FENOMENI DEL VOCALISMO Il latino aveva 10 vocali (5 lunghe e 5 brevi), ma a partire da un determinato momento la quantità non venne più avvertita e si trasformò in qualità: lunghe diventano chiuse e brevi diventano aperte, dalle 10 vocali latine si passò alle 7 toniche italiane. Es: ī >i (vīnum>vino) Î ē > é chiusa (lignum > legno, telam >tela) ESITI DI CONSONANTE +L nessi latini di consonante +L passano in italiano al nesso consonante +i es: florem> fiore. In posizione intervocalica consonante+L raddoppia dopo la caduta della vocale mediana, es neb(u)lam>nebbia, spec(u)lum>specchio. III. MORFOLOGIA : caduta delle consonanti finali, perdita della quantità vocalica, collasso delle declinazioni (surrogate dall’introduzione di forme e costruzioni definite analitiche. Passaggio da un sistema linguistico sintetico a uno analitico. Gli articoli determinativi italiani derivano dai pronomi dimostrativi latini , illum, illam che persero il loro valore dimostrativo e divennero di uso più frequente già a partire dal II sec d.C. Da (IL)LU(M)> LO (originariamente unica forma m. Sing), IL, EL Da (IL)LA(M)>LA DA (IL)LI>LI e da (IL)LAS>LE Dal numerale UNU(M), UNA(M) deriva l’articolo indeterminativo un, uno, una. Fondamentale il ruolo assunto dalle preposizioni, che subentrarono alla funzione solitamente affidata ai casi, in alcuni casi continuarono alcune preposizioni latine, in altri vennero create dalla combinazione di elementi latini. Ad es dentro deriva da de+intro. Le parole italiane derivano dall’accusativo delle parole latine, sebbene ci siano alcune eccezioni quali: re, moglie, uomo, che derivano dal nominativo. Inoltre i nomi maschili riconducibili alla II declinazione continuarono la desinenza del nominativo maschile plurale. Es lupu(m)>lupo, lupi>lupi. Il genere neutro è sparito nel passaggio all’italiano, lasciando solo qualche traccia, ad es corno che ha il plurale corni,corna; braccio al pl bracci e braccia. Per la maggior parte si sono trasformati in maschili, alcuni neutri plurali sono diventati femminili come folia>foglia. Anche il sistema verbale subì modifiche sostanziali nel passaggio dal latino all’italiano: si ridussero le coniugazioni, da 4 a 3, nacquero i tempi composti e il passivo perifrastico, nonchè il condizionale. Il futuro indicativo inoltre deriva dall’infinito del verbo + presente del verbo avere. Ad es cantabo viene sostituito da cantare+habeo>cantare*ao> contarò. Il condizionale è formato dall’infinito del verbo+ perfetto di avere es: cantare +*hebui>cantare*ei>canterei. IV. SINTASSI Nel latino classico era normale la costruzione con il verbo posto alla fine della frase. Il latino volgare preferì l’ordine diretto: sogg+verbo+c.ogg+c. Indiretti, ordine mantenuto poi nel passaggio all’italiano. Il latino classico era inoltre ricco di molti costrutti impliciti (ad es la proposizione oggettiva espressa mediante inf+acc). Il latino volgare al posto di questo costrutto introdusse una congiunzione subordinante quod/quia+ indicativo, da cui l’italiano. L’italiano ha poi eliminato le congiunzioni ne, ut, cum e ne ha introdotte di nuove con la combinazione preposizione/avverbio +che (perchè,poichè,benchè...). Nascita, sviluppo e mezzi della linguistica italiana da pag 61 a 77. ORIGINI E PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO Nel latino volgare erano presenti tendenze innovative rispetto ai modelli della lingua classica e letteraria, che gli studiosi talvolta spiegarono in riferimento a fenomeni di sostrato e substrato, ossia per influenza delle parlate preesistenti nei territori conquistati da Roma. In tal modo, soprattutto in passato, si sono spiegati diversi fenomeni linguistici, giustificando per es la presenza di vocali turbate nelle parlate settentrionali come influenza del sostrato celtico, con il sostrato osco-umbro la tendenza all’assimilazione –nd>nn, mb>mm nei dialetti centromeridionali. Problema altrettanto discusso è quello del superstrato, cioè l’influenza esercitata dalle lingue che si sovrapposero al latino del tempo delle invasioni barbariche. Oggi diversamente dal passato, si tende ad attribuire alle lingue germaniche degli invasori meno rilevanza nello sviluppo del latino. Adstrato è invece l’influenza esercitata da una lingua confinante. Che cosa succede alla caduta dell’impero romano d’occidente? ▲ Il REGNO GOTICO: i Goti, o megli Ostrogoti, entrarono in Italia nel 489, guidati da Teodorico, con il sostegno dell’imperatore di Bisanzio, che voleva eliminare Odoacre, che nel 476 aveva deposto l’utimo imperatore romano d’occidente: Romolo Augusto (o Augustolo). Il regno gotico si concluse con la guerra intrapresa dagli eserciti di Giustiniano, guidati da Belisario e Narsete (535-553). Il dominio gotico sull’Italia non fu dunque molto lungo, la lingua gotica è nota soprattutto grazie ad una traduzione della Bibbia realizzata solo nel IV sec dal vescovo Wulfila. I termini gotici entrati nella lingua italiana sono meno di una settantina ( astio, bega, melma, nastro, stecca, strappare...). ▲ DOMINIO LONGOBARDO l’invasione dei Longobardi nel 568 fu più violenta e brutale ed il loro dominio durò molto più a lungo, fino alla venuta dei franchi nell’VIII sec, lasciando traccia nella denominazione di gran parte dell’Italia settentrionale, detta “Lombardia” (termine di origine bizantina, indica la zona occupata dal popolo longobardo in contrapposizione alla Romània, oggi detta Romagna) governata dai bizantini. Oggi ci si riferisce ad una regione geografica più limitata. Le parole longobarde assorbite dall’italiano e dai dialetti sono oltre 200, e comprendono i toponimi in –ingo e –engo, termini come guancia, stinco, stramberga (da strain pietra e berga alloggio), panca, federa, staffa, faida inoltre verbi come schernire, russare, scherzare, spaccare, tuffare, spruzzare. ▲ INSEDIAMENTO FRANCO insediamento diverso rispetto a quello gotico e longobardo, furono delle elites nobiliari che si insediarono ai vertici del potere civile e militare. Difficoltà nell’individuazione di termini di origine franca sta nello stabilire che non si tratti di termini dell’antico francese, permeati in una fase successiva. Termini come bosco, guanto, usbergo, biondo. L’influenza d’oltralpe fu molto forte tra XI e XII sec, con la diffusione della letteratura provenzale e francese. Trovatori settentrionali che poetarono in lingua d’oc nel’200 (es entree d’Espagne) mentre opere come il milione di Marco Polo furono scritte in francese. Nel periodo carolingio entrarono termini relativi all’organizzazione politica e sociale (corte, cameriere, balia, barone, dama, lignaggio, rise etc...). La genesi di una lingua è un fenomeno molto lungo e complesso. Nel caso del passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli. Il latino continuò a mantenere a lungo il dominio della cultura e della scrittura, mentre vi fu un lungo lasso di tempo in cui la lingua volgare, formatosi da una progressiva evoluzione dal latino volgare, esistette nell’uso ma non in forma scritta. Il latino usato per scrivere, lontano ormai da quello degli autori classici, viene designato come “latino medievale”(diverso dal latino classico così come da quello volgare), etichetta che si adatta ad autori molto lontani nel tempo come Isidoro di Siviglia e persino Dante. Ad un certo punto però l’esistenza del volgare iniziò a farsi sentire proprio nel latino medievale, lasciando trapelare volgarismi in maniera più o meno marcata a seconda del livello di cultura dello scrivente. Solo nel XIII sec tuttavia alcune scuole di scrittori scelsero la nuova lingua in maniera motivata o sistematica, date le profonde motivazioni culturali necessarie per compiere la complicata operazione di mettere per iscritto una lingua parlata. La presenza del volgare si registra in maniera occasionale anche in carte di uso pratico (atti notarili, elenchi di conti...) di epoca precedente. La caratteristica fondamentale dei documenti antichi del volgare è la casualità della loro realizzazione, nonché del loro ritrovamento. I PIU ANTICHI DOCUMENTI Il primo problema che sorge nell’approcciarsi ai piu antichi documenti dell’italiano, è quello di stabilire l’intenzionalità dello scrivente, il suo grado di coscienza linguistica: voleva scrivere in latino o in volgare ? Paragonando il primo documento della lingua francese i giuramenti di Strasburgo dell’842 di Nitardo, con l’atto di nascita della lingua italiana, il Placito Capuano, notiamo che: ▲ Entrambi riportano una formula di giuramento ▲ Il documento italiano è più tardo di oltre un secolo e non si lega ad un evento storico di rilievo ma ad una controversia giudiziaria di portata locale ▲ La volontà nell’uso del volgare è, nel caso dello scritto di Nitardo, estremamente evidente (per ragioni di storicità), più dubbia nel caso italiano. Le più antiche testimonianze italiane di volgare sono per la maggior parte documenti d’archivio (atti notarili, verbali processuali etc...). caso a parte è quello dell’ iscrizione della catacomba romana di Cammodilla, anonimo graffito tracciato su di un muro, interessante in quanto si tratta di un’antica testimonianza (IX sec) che rivela, almeno laddove vi è il raddoppiamento fonosintattico di “a bbove” per “a voce”, la sua natura di registrazione del parlato. Apparentato a questo graffito è l’ affresco della basilica sotterranea di San Clemente a Roma benchè più tardo, oltre a trovarsi nella stessa città, condivide la sua natura di “scrittura esposta”. Il pittore ha introdotto una serie di parole dalla funzione didascalica o che indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffigurati per mostrare il loro ruolo nella storia narrata. Alla fine dell’XI sec (1001-1100) il latino è adottato nella parti più elevate del testo , il volgare invece registra con marcato espressionismo plebeo voci e azioni dei personaggi. Rientra nella categoria delle cosiddette “scritture esposte” destinate ad essere viste e lette da chi passa e osserva l’immagine per intenderne il senso. Tra questi due documenti murari si indica però, a livello cronologico, un documento d’archivio, il placito Capuano 960, che per il suo carattere ufficiale, viene solitamente considerato l’atto di nascita della nostra lingua. La sua scoperta risale al Settecento, ma solo nel Novecento è stato rivalutato nella sua importanza: a differenza dell’ indovinello veronese non vi può essere dubbio sulla chiara e cosciente separazione tra latino e volgare, impiegati con scopi e funzioni differenti. Si tratta di un verbale notarile redatto dal notaio Atenolfo per volere del giudice Arechisi, riguardante una disputa per il possesso di un terreno che aveva coinvolto un tale Rodelgumo d’Aqiono ed un abate del monastero di Montecassino. Durante la redazione di questo verbale fu fatta una scelta inconsueta rispetto alle abitudini del tempo: anziché tradurre in latino eventuali formule testimoniali pronunciate in volgare durante il processo, si decise di mantenere la formula volgare come tale, anche nella verbalizzazione. un gran numero dei più antichi documenti italiani è dovuto alla penna dei notai, categoria sociale che più frequentemente usava la scrittura e che era costantemente impiegata in un lavoro di trascrittura della lingua parlata in latino giuridico. Non a caso è in quest’ambito che si lascia spazio alla nuova lingua. Nel caso della postilla amiatina 1087, il volgare emerge dalla postilla aggiunta alla fine dell’atto notarile, che presenta fenomeni linguistici tutt’ora caratteristici della zona di Amiata. Carta osimana del 1151 e la carta fabrianese del 1186: atti notarili provenienti dalla zona marchigiana in cui latino e volgare si alternano. Carta picena del 1193 rogito di un atto di vendita in cui il notaio riporta in volgare un patto ufficioso, non ufficiale, stabilito tra le parti. Al gruppo delle carte giudiziarie è necessario ascrivere due pergamene del 1158 che conservano le testimonianze di Travale , tali pergammene riportano le testimonianze di sei “boni homines” di ▲ Poesia religiosa: in primis il cantico di frate sole di San Francesco, databile al 1223-1224, è oggi considerato un monumento insigne della poesia, anche per molti secoli fu tramandato solo in ambiente francescano, con il solo valore di preghiera religiosa. La tradizione delle laudi religiose ebbe un grande sviluppo non solo nel Duecento ma anche nel Trecento e Quattrocento, i laudari venivano trascritti in ampi quaderni ed utilizzati poi dalle confraternite come preghiere cantate. Data la loro capillare diffusione a partire dalla zona umbra all’Italia settentrionale, furono uno dei canali principali di diffusione di modelli centrali in area settentrionale. ▲ In Italia settentrionale fiori, nel corso del Duecento, una letteratura moraleggiante in volgare, l’area prevalente di questa letteratura è lombarda e la lingua usata dai principali esponenti (Girardo Patecchio, Giacomino da Verona etc...) è fortemente settentrionale, anche perchè la letteratura toscana dovevaancora affermarsi a livello paradigmatico all’epoca. ▲ In area toscana, soprattutto nella parte occidentale, fra Pisa e Lucca, si sviluppò la poesia siculo-toscana con i suoi centri principali a Pisa ed a Lucca, nonchè Arezzo, e a partire dal 1260 fino al 1280 anche Firenze. Il loro stile riflette quello dei poeti siciliani, presi a modello anche per quanto riguarda la metrica (si pensi alla fortuna del sonetto, usato poi per secoli e secoli). In tutti i poeti del Duecento toscano si trovano gallicismi e sicilianismi quali-i finali al posto di –e, alcuni dei sicilianismi dei poeti siculo-toscani passano poi agli Stilnovisti, a Dante ed a Petrarca per poi passare stabilmente all’intera tradizione lirica italiana. In Toscana si stava immettendo quindi nella lirica locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia. Le prime esperienze poetiche di Dante appaiono ben inserite nella poesia volgare di Firenze, sia per temi sia per le forme linguistiche. Il lessico poetico tuttavia segna una crescita quantitativa. Nella vita nuova poi realizzò un connubio particolare tra poesia e prosa in volgare, divenendo uno dei fondatori di questo genere. DANTE non solo fu un grande poeta e padre della lingua italiana ma anche il primo teorico del volgare. Egli esprime le proprie teorie nel Convivio in cui il volgare viene celebrato come “sole nuovo” destinato a sostituire il latino per un pubblico che non sa più comprendere il latino dei classici. Nel de vulgari si riconosce che la letterariettà del latino deve essere uno stimolo per la regolarizzazione del volgare. Il de vulgari, composto in latino durante l’esilio ma prima della commedia, è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia in volgare; rimase a lungo sconosciuto e riscoperto solo in età Rinascimentale, divenendo uno dei testi fondamentali nel dibattito linguistico del Rinascimento. Conoscio della portata innovativa del tema scelto ad oggetto di indagine, decide di muovere dalle origini: • L’uomo è l’unico essere dotato di linguaggio, fatto che lo contraddistingue dalla bastia ma anche dagli angeli celesti. • L’origine delle lingue viene ricondotta all’episodio della torre di Babele, al principio della storia delle lingue, che variano non solo nello spazio ma anche nel tempo. • La grammatica è una creazione dei dotti, artificiale, volta a dare stabilità e a frenare la continua mutevolezza degli idiomi. • Anche il volgare deve farsi letterario per acquistare una dignità pari al latino e distinguersi dal parlato • Dante rivolge la sua attenzione allo scenario linguistico dell’Europa, definendola sulla base dei diversi modi per dire “ si”. Procedendo dal generale al particolare e mirando ad una trattazione approfondita dell’italiano, Dante si avvicina passo dopo passo al suo scopo: afferma il francese, provenzale e italiano discendono da un’unica matrice, per poi evidenziare che la lingua italiana si caratterizza per una grande diversificazione interna in diverse parlate locali, esaminate alla ricerca del volgare migliore. La realtà è che tutte sono indegne del volgare illustre nella loro forma naturale di lingue parlate. La nobilitazione del volgare deve avvenire attraverso la letteratura, aderendo a quei modelli stilistici a cui stilnovisti guardano con ammirazione (Dante condanna quindi poeti come Guittone d’Arezzo caratterizzati da uno stile rozzo e plebeo). Il de vulgari diventa nella parte finale un trattato di teoria e critica letteraria, in cui viene passata al vaglio la tradizione poetica volgare precedente. Rispetto all’alto sviluppo della poesia, la PROSA DUECENTESCA appare in ritardo: osservando il testo narrativo più interessante del XII sec, il Novellino, si nota una vistosa semplicità stilistica nonchè una certa povertà sintattica. Infatti all’epoca era ancora il latino a detenere il primato assoluto nell’ambito della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di cultura (doc. Giudiziari, giuridici, amministrativi, contabili, trattati di filosofia, teologia, medicina etc...). Inoltre il volgare è necessariamente influenzato dal latino, come dimostrano i volgarizzamenti, ossia rifacimenti di testi classici in volgare. Da notare che la volgarizzazione dal latino o dal francese non è una vera e propria traduzione ma una scrittura dall’alto valore sperimentale attraverso cui cominciarono a stabilirsi le strutture della prosa italiana. Rispetto all’influenza del latino, quella esercitata dal francese risulta essere molto minore, benchè tale lingua sia stata talvolta usata da alcuni scriventi italiani (il milione di Rusticello da Pisa, 1298 e il Tresor di Brunetto Latini). È necessario inoltre ricordare che alle due lingue di comune impiego nella prosa, latino e francese, non si contrappone un unico tipo di volgare ma predominava anzi una sostanziale varietà che sarà superata parzialmente solo alla fine del Medioevo. Non esiste ancora una prosa-modello che sia in grado di imporsi su quella delle altre regioni, ma il suolo centrale della Toscana stava andando delineandosi, anche se Firenze non ricopre ancora un ruolo centrale, emergono tuttavia altri centri toscani: ad Arezzo abbiamo Guittone e frate Ristoro, autore dell’unico libro di scienza dell’epoca e scritto in volgra, composizione del mondo. Al di là della prosa letteraria finora affrontata, è necessario tener conto del fatto che le occasioni in cui si usava la scrittura erano spesso dettate da interessi pratici fondamentali per la documentazione dell’antico fiorentino sono le scritture mercantili. IL TRECENTO Posto a parte, tra le opere di Dante, è necessario riservare alla Commedia, scritta in una lingua diversa da quella teorizzata nel de vulgari , il cui stile usa risorse piu vaste di quelle stilnoviste. (forse il de vulgari viene lasciato incompiuto proprio perchè Dante aveva elaborato una strada diversa). La ricchezza tematica e letteraria della Commedia inoltre favorirono la promozione del volgare, dimostrando nei fatti le possibilità illimitate della nuova lingua. Il successo della Commedia e della lingua toscana andarono di paripasso, essendo stata scritta mentre Dante era in esilio nel nord Italia, si collega linguisticamente non solo alla Toscana e a Firenze ma anche ai dialetti settentrionali, creando un connubio che ne favori la diffusione. Il successo del toscano fu reso irreversibile dal successo di altri due autori fiorentini: 1. Il decameron di Boccaccio 2. Il canzoniere di Petrarca Certamente il fiorentino era una lingua dotata di particolari potenzialità intrinseche, in quanto abbastanza simile al latino e a mezza via tra le parlate del nord e quelle del sud, nonchè per motivi economico-sociali data la vivacità di Firenze che intratteneva rapporti mercantili con il resto d’Italia. Tuttavia il suo successo non sarebbe stato altrettanto veloce e determinante senza la letteratura, data la situazione politica d’Italia, priva di un centro e di un’amministrazione unica. Tullio de Mauro ha asserito che quando Dante cominciò a scrivere la Commedia il vocabolario italiano era già costituito al 60 %, Dante se ne appropriò e lo arricchì tanto che alla fine del Trecento era completo al 90%. In che modo Dante incrementò il patrimonio linguistico italiano? Inserendo una serie di latinismi di provenienza diversa: ▲ Letteratura dei classici ▲ Latino delle Sacre Scritture ▲ Latinismo scientifico, della filosofia tomistica e della scienza medievale. La Commedia si caratterizza per la sua tendenza ad accogliere elementi linguistici dalla provenienza piu disparata, nell’intento d espressione di tutta la realtà culturale, di tutta la concretezza terrena. Le situazioni della Commedia vanno dal profondo dell’inferno alla “visio dei”, passano dal turpiloquio al sublime teologico, proprio per questo motivo si è parlato di plurilinguismo in riferimento al linguaggio poetico di Dante, in contrapposizione al monolinguismo della lirica italiana. Benchè nella Commedia non manchino, oltre a latinismi, provenzalismi, interi passi in latino o provenzale, non si può fare a meno di notare la sostanziale fiorentinità dell’opera. La lingua del Dante della Commedia è poi caratterizzata da una polimorfia tale per cui si alternano forme dittongate e non dittongate, presenza di i e o in sede protonica e di a in sede protonica. Tale polimorfia si traduce in una sostanziale tendenza al polimorfismo della lingua italiana. La libertà di Dante nell’uso della lingua è dimostrata dai neologismi da lui introdotti. Ancor piu influenza nella nascita della lingua italiana ebbe la lingua di Petrarca. Caratteristica fondamentale del linguaggio poetico di PETRARCA è la sua selettività che esclude molte parole usate da Dante nella Commedia in quanto inadatte al genere lirico. Da notare che la parte dell’opera di Petrarca scritta in volgare è molto ridotta rispetto a quella in latino, lingua che usa con grande disinvoltura come strumento non solo di comunicazione ma anche di riflessione, come testimoniano le postille apposte al codice degli abbozzi. Il volgare non è quindi una lingua “naturale” (per l’uomo colto è il latino) ma quella di un raffinato gioco poetico. Sul piano della sintassi Petrarca di sottrae alla banalità del quotidiano facendo largo uso della dispositio che muta l’ordine regolare delle parole, nonchè di figure retoriche di suono e di posizione che diventeranno caratteristiche del linguaggio politico italiano. Petrarca, com’era comunque normale all’epoca, unisce al nome i possessivi, gli articoli, le preposizioni, manca l’apostrofo introdotto nel Cinquecento, i segni di interpunzione sono limitati a pochi elementi, sono presenti latinismi grafici (come le H etimologiche, le X e il nesso TJ inoltre segni di abbreviazione). A differenza della poesia, la prosa trecentesca non si era ancora stabilizzata in una tradizione salda: il salto di qualità si ebbe con il Decameron di BOCCACCIO. In tale opera ricorrono varie situazioni narrative in contesti sociali diversi: Tutte le classi sociali si muovono sulla scena in quadri geografici ed ambienti molto diversi, il che, unito alla ricerca di realismo dell’autore, si traduce in una etrema varietà di modelli linguistici. Qua e là emergono personaggi che introducono elementi diversi dal fiorentino, come il veneziano di Chichibio, il senese di Tingoccio, le novelle spesso inscenano vivaci dialoghi caratterizzati dall’aderenza ai modelli del parlato. Tuttavia lo stile boccacciano, poi a lungo imitato, è quello caratterizzato da una complessa ipotassi, che si ritrova soprattutto nelle cornici delle novelle nonchè nelle parti piu elevate e nobili. È uno stili magniloquente, caratterizzato da frequenti inversioni latineggianti e posposizioni dei verbi in clausola.ampiamente imitati furono poi i nessi usati da Boccaccio per regolare la successione del periodo (adunque, allora, appresso, avvenne che....). per quanto riguarda la grafia di Boccaccio si notano latinismi grafici (X, CT, DV, H etimologiche)... segni di interpunzione piu numerosi e ricchi rispetto a quelli di Petrarca. Boccaccio è inoltre autore di uno dei piu antichi testi in volgare napoletano, L’epistola Napoletana, uno dei primi esempi di letteratura dialettale riflessa, ossia cosciente di essere tale: si tratta di uno scritto scherzoso, di un’imitazione “ad orecchio” del parlato vivo del tempo, che ne coglie le peculiari caratteristiche fonetiche, lessicale e sintattiche (frutto del soggiorno napoletano dell’autore). Il genere dei volgarizzamenti continuò anche nel Trecento, nella forma di veri e propri rifacimenti del testo originale. Ricordiamo di Domenico Caralca le vite dei santi padri e i Fioretti di san Francesco, la Cronica rifacimento in volgare di una precedente versione latina dello stesso autore. Inoltre nel Trecento nella prosa non letteraria fatta di norme, bandi, statuti, atti notarili, testamenti etc.. si registra una certa resistenza al progressivo affermarsi del toscano letterario, come avviene nella poesia e nella prosa letteraria, mentre continua a predominare il carattere locale, in misura maggiore nelle aree periferiche. precedenti molto differenziate sia a livello diatopico che diastratico), tendono all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali, tanto che è difficile circoscriverle geograficamente ad un territorio preciso, piuttosto si possono ascrivere genericamente ad un area (settentrionale o meridionale), evolvendo così in forme di coinè, lingua comune super-dialettale, una lingua scritta che mira all’eliminazione dei tratti più tipicamente locali, appoggiandosi a latino e toscano. A contribuire fortemente alla nascita di una coinè furono certamente le corti signorili, non solo nelle cancellerie di corte aumentarono gli ambiti di impiego del volgare, ma gli stessi cortigiani qui impiegati si spostarono al servizio di questo o quel principe. Tale mobilità favoriva l’incontro con interlocutori di altre regioni, favorendo il livellamento linguistico. Il maggiore o minore livellamento è dunque frutto di uno sforzo cosciente, tentativo di superare il particolarismo. Dunque i modelli letterari toscani esercitarono la loro influenza anche al di là dell’ambito artistico, in quanto molti scriventi erano anche attenti lettori degli autori toscani e ne erano più o meno consciamente influenzati nella stesura di scritture di uso pratico (lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimane accentuato). La LETTERATURA RELIGIOSA contribuì alla diffusione di modelli linguistici toscani o centrali nelle regioni italiane periferiche e tra il popolo. Nel Quattrocento troviamo laudari cioè raccolte di laude, in molte comunità dell’Italia settentrionale. Le sacre rappresentazioni venivano inserite per un pubblico popolare che aveva così occasione di incontrare una lingua più nobile e toscanizzata. La predicazione era un’altra occasione in cui il popolo entrava in contatto con il volgare, spesso molto vicino al dialetto locale illustre. Inoltre nel Quattrocento si registrano casi in cui la lingua toscana esercitava prestigio sulla predica (è il caso ad es di Bernardino da Siena, Savonarola, non toscano che dovendo predicare a Firenze adattò la propria lingua settentrionale al toscano --> processo di toscanizzazione ). Inoltre, muovendosi da luogo a luogo e facendo esperienza di un pubblico sempre diverso, i predicatori erano spinti a parlare un volgare che andasse oltre ai particolarismi regionali. L’invenzione della STAMPA fu una vera rivoluzione: tra le conseguenze di questa innovazione vi fu la diminuzione del prezzo dei libri, con una diffusione mai vista prima, che non poteva non avere risvolti anche sul piano linguistico. La stampa produsse una regolarizzazione sempre maggiore della scrittura, anche per la grande diffusione della norma bembiana nel ‘500, che realizzò una maggiore omogeneità linguistica nei testi, sottraendoli alle oscillazioni della coinè quattrocentesca. La stampa è un’invenzione di Gutenberg, la Bibbia uscì in Germania, a Magonza nel 1456. I primi tipografi attivi in Italia erano tedeschi, ma ben presto l’arte tipografica cominciò ad essere praticata da aritigiani nostrani, concentrandosi nelle città ed in particolare a Venezia, capitale della stampa italiana per lungo tempo: produsse quasi metà degli incunaboli italiani. Un incunabolo è un libro quattrocentesco appartenente al primo periodo di produzione dell’arte tipografica, in genere stampato già con un’ottima qualità di carta e caratteri. A Venezia furono attivi alcuni tra i più grandi stampatori della storia del libro, in primis Aldo Manuzio. Venezia conservò e confermò il suo primato anche nel Cinquecento e Seicento. Il primo libro volgare italiano è stato a lungo considerato i fioretti di san Francesco, Roma 1469, ma ora è emerso un libro di preghiere mutilo Parsons Fragment del 1462circa. Oltre l’80% della stampa italiana era invece in latino. Tra il 1470 e il 1472 si ebbero le prime stampe del Canzoniere di Petrarca, del Decameron e della Commedia. La prima edizione a stampa di un testo viene chiamata princeps, o edizione principe. La cultura umanistica produsse una serie di testi in cui latino e volgare entrarono in simbiosi, a volte a scopo comico, raramente con intento serio. Nel Quattrocento e nel primo Cinquecento dunque gli esperimenti di mistilinguismo furono frequenti ed elevarono a livello d’arte quella che in realtà era una pratica comune. La contaminazione è tuttavia volontaria e studiata, non casuale nè data dall’importanza del volgare o dalle mancanze lessicali toscane. Ci sono due diversi esperimenti di lingua artificiale plasmata dai dotti, due contaminazioni colte tra latino e volgare: 1. MACARONICO: linguaggio comico nato come divertimento nell’ambiente universitario padovano a fine Quattrocento. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodica di parole in volgare, o viceversa dalla deformazione dialettale di parole latine. Il comico nasce dal cozzare di queste due componenti, quella dialettale, plebea, usata soprattutto a livello lessicale, e quella latina, aulica nella struttura grammaticale o metrica. I temi trattati sono bassi, goliardici. In scene di sapore popolare vengono calate citazioni di autori classici, paragoni tra cose grandi e nobili e cose piccole e ridicole. 2. POLIFILESCO: a differenza del Macaronesco, non ha intento comico. Nè è un esempio l’eccezionale hypnerotomachia Poliphili, da cui il nome del genere stesso (guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), romanzo anonimo del 1499. Il toscano letterario, boccaccesco, subisce un’estrema latinizzazione, fino al limite dello snaturamento. Il volgare toscano acquistò di fatto un prestigio crescente fin dalla seconda metà del Trecento, quando cominciarono a diffondersi fuori Toscana le grandi opere di Dante, Petrarca, Boccaccio, ampiamente presenti nelle biblioteche delle famiglie signorili del Settentrione, accanto alla letteratura romanzesca francese. A Milano dapprima Filippo Maria Visconti e poi Ludovico il Moro e la sua cerchia furono grandi lettori degli antichi scrittori toscani. A Ferrara, presso gli estensi, operava Matteo Maria Boiardo, autore dell’amorum libri e dell’Orlando innamorato, imitazione petrarsca che seguì una prima fase in cui l’autore scrisse in lingua latina. Nel sud Italia, presso la corte Aragonese di Napoli, fiorì una poesia che, prendendo a modello Petrarca, iniziò ad avvicinarsi alla lingua letteraria toscana. Maggiori esponenti della poesia meridionale sono Cariteo e Sannazzaro, autore di un Arcadia genere bucolico in cui si alterano egloghe pastorali e parti in prosa. IL CINQUECENTO Nel Cinquecento il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento dei dotti che gli era mancato nel Quattrocento. Vero e proprio trionfo del volgare, celebrato da autori quali Ariosto e Tasso, Machiavelli, Guicciardini, conquista nuovi spazi del sapere raggiungendo un pubblico piu ampio, dando il via a quel processo di erosione del monopolio del sapere da parte del latino. Nonostante nel Rinascimento il volgare prenda sempre piu spazio, il latino non si presenta per nulla in una posizione marginale. Si percepiva un clima totalmente nuovo, caratterizzato da una crescente fiducia nella nuova lingua, anche grazie al processo di regolamentazione ancora in corso (vengono realizzate le prime grammatiche e i primi lessici che offrono soluzioni a problemi pratici degli scriventi, interessati a scrivere il piu correttamente possibile. Le conseguenze sono: il tramonto delle coinè quattrocentesche, spazzate via dalla norma sostenuta da Pietro Bembo, principe dei grammatici dell’epoca, grazie alla quale l’italiano raggiunse lo status di lingua di altissima dignità. Il latino stesso mantenne una posizione di preminenza in diversi settori, in particolare per quanto riguarda il diritto e l’amministrazione della giustizia. Il latino era pane quotidiano per i giuristi, non più solo nelle disquisizioni teoriche, ma prende sempre più piede anche nella pratica, nelle verbalizzazioni, nei processi, dove spesso e volentieri si verifica un intreccio tra latino e italiano. Significativi per comprendere il rapporto latino-italiano sono i dati forniti dalla produzione dei libri: in latino si presentava la filosofia, la medicina e la matematica, il volgare invece era usato per la scienza, in particolare quella applicata (ricette di cucina, cosmesi, culinaria, architettura...). nella letteratura e nella storiografia, grazie al contributo di Machiavelli e Guicciardini, il volgare trionfa in maniera decisiva. La maggior parte dei libri in volgare vennero stampati a Venezia, che mantiene il suo primato anche nel XVI sec. 1501: Aldo Manuzio pubblicò in un formato editoriale di piccole dimensioni (tascabile), che avrebbe reso celebri le sue edizioni, e con il carattere tipografico corsivo, dello aldino , il Petrarca volgare curato da Bembo, dando il via ad una collaborazione rivoluzionaria: in tale edizione infatti si verifica un netto taglio con la tradizione latineggiante, abbandonando le tradizionali grafie latineggianti. Ma le innovazioni introdotte da Bembo furono ancora maggiori in quanto proprio sulla forma linguistica di tale edizione si sarebbero fondate le teorie delle Prose della volgar lingua . compariva inoltre, per la prima volta con regolarità scrupolosa, l’apostrofo per segnalare un’elisione. Diventerà poi ampiamente diffuso grazie all’immediato successo. 1502: Aldo Manuzio pubblicò la Commedia dantesca curata da Bembo. La questione della lingua dibattuta nel Cinquecento, fondamentale in quanto alla base della stabilizzazione grammaticale e normativa dell’italiano, vede le teorie estetico-letterarie collegarsi ad un progetto concreto di sviluppo delle lettere e alla sua esecuzione da parte dell’industria editoriale. Al centro di tale dibattito possiamo collegare le Prose della volgar lingua , 1525. Opera strutturata in 3 libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano, poco sistematica data la sua struttura dialogica, attraverso cui sono espresse norme e regole della lingua. Nelle Prose venne innanzi tutto svolta un’ampia analisi storico-linguistica, secondo la quale l’italiano sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbarici. Il riscatto del volgare sarebbe stato possibile solo attraverso l’operato degli scrittori e attraverso la letteratura. Quando Bembo parla di lingua volgare intende il toscano, ma non quello parlato nella Firenze del XVI sec, piuttosto il toscano letterario trecentesco di Petrarca, Boccaccio e in parte di Dante. La lingua dunque non si acquisisce dal popolo (opposto alla Grammatichetta vaticana di L.B.A.), quanto dai modelli scritti dei grandi trecentisti. La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un ideale rigorosamente classicistico. Sostanzialmente Bembo trasportò la sua concezione del latino (cioè che era favorevole ad una regolamentazione del latino legata al periodo aureo della classicità, dunque modellata su Cicerone e Virgilio) nella teoria italiana- volgare, modellata su Petrarca e Boccaccio. Ciò non escludeva la possibilità che il volgare raggiungesse ancora risultati eccellenti. La soluzione di Bembo fu quella vincente in quanto formalizzava quanto era avvenuto davvero nella prassi; il volgare si era diffuso in tutta Italia come lingua di letteratura attraverso l’umiliazione dei trecentesci. Ora la riflessione grammaticale permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo. Con TEORIA CORTIGIANA si intende tendenzialmente l’opinione di Calmeta che, ci dice Bembo nelle sue prose, sosteneva che il volgare migliore fosse quello delle corti italiane, e in pratica quello di Roma: Calmeta faceva riferimento ad una sostanziale fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di Dante e di Petrarca, e doveva essere affinata attraverso l’uso della corte di Roma, città cosmopolita in cui la circolazione di genti di provenienza diversa favoriva il diffondersi di una conversazione super-regionale di qualità alta. La corte di Roma aveva esercitato gran fascino anche su altri: MARIO EQUICOLA aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutta Italia, il cui modello stava nella corte di Roma. Di “lingua comune” aveva parlato anche BALDASSAR CASTIGLIONE nel Cortegiano. Bembo obiettava ai sostenitori della teoria cortigiana che una lingua d’uso era difficile da definire in maniera precisa, e proprio questo difetto fece sì che tale tecnica non uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco. Notevole anche la teoria di Giovan Giorgio Trissino, strettamente legata alla riscoperta del De vulgari di Dante, data alle stampe da Trissino in traduzione italiana nel 1529, anno in cui pubblicò il Castellano, trattato in cui affermava che, avendo Petrarca usato vocaboli provenienti da tutta Italia, la lingua da lui usata non era fiorentino, bensì italiano, appellandosi poi alle pagine del De vulgari , in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina. La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il Discorso-dialogo intorno alla nostra lingua di Machiavelli: Dante dialoga con Machiavelli facendo ammenda degli ▲ Nei settori pratici si assiste ad una crescita dell’impiego dell’italiano: aumentano le occasioni di scrivere anche per i meno colti, sembra infatti che : mentre nelle campagne l’analfabetismo era molto diffuso, nelle città non mancavano popolani in grado di scrivere, pur con un ricco afflusso di regionalismi e dialettismi. I Libri dei segreti sono raccolte di ricette medico-alchemiche, culinarie, trattati di dietetica, ricettari, che offrono un ottimo esempio di italiano extraletterario, ricco di termini quotidiani. Fin dall’inizio del Cinquecento la COMMEDIA si rivelò come genere ideale per la realizzazione di un vivace mistilinguismo, alla ricerca di particolari effetti del parlato. La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi codici per i diversi personaggi che finirono poi per cristillazzarsi (ad es: innamorati è toscano, vecchi veneziano, capitani e bravi spagnolo, servi bergamasco...). Giambattista Della Porta in La fantesca mette in scena una serie di TIPI TRADIZIONALI: la figura del pedante, del capitano, erede del fanfarone plautino. Per quanto riguarda l’uso caricaturale dei dialetti, da notare il fatto che taluni autori introducono personaggi che utilizzano diverse parlate, dallo spagnolo al napoletano, francese, milanese, fiorentino, genovese, pugliese etc... dando origine a vere e proprie commedie poliglotte, scenari plurilinguistici. La parola chiave con cui descrivere il linguaggio poetico cinquecentesco è PETRARCHISMO: nella cultura italiana ed europea significa in primo luogo la scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi in linea con il modello di Bembo. Per quanto riguarda invece gli autori di POEMI, mentre Ariosto fu riconosciuto nella sua grandezza e preso a modello linguistico, Tasso fu oggetto di aspre critico da parte dell’Accademia della Crusca. Egli non mise mai in discussione la sostanziale toscanità della lingua italiana, ma non riconobbe il primato del fiorentino. La polemica con la crusca non toccò la produzione lirica, anzi largamente imitata a Firenze ma il suo poema. Lo stile di Tasso epico era giudicato oscuro, distorto, sforzato, la sua lingua “troppo colta”, i suoi versi “aspri”. Inoltre sulla base di un confronto tra la Gerusalemme liberata e il Furioso , gli venne rivolta l’accusa di essere innaturale e sforzato. I cruscanti criticavano il poema di Tasso in quanto, essendo difficile da comprendere se ascoltato, costringeva il pubblico ad una lettura silenziosa, ad un esame visivo del testo, motivo di preoccupazione nell’ottica toscanista erano poi i latinismi, spesso usati come alternativa al fiorentino. I cruscanti mostrano dunque uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto letterario, dato che Tasso si era volutamente distaccato da Ariosto e dal modello bembiano. Significato più profondo ha la veemenza con cui Salviati attaccò Tasso. Salviati infatti provava fastidio nei confronti di una stella delle letteratura che ancora una volta brillava lontana da Firenze e sembrava non riconoscerne il primato. Anzi, Tasso nella sua Apologia proponeva la distinzione tra fiorentino antico e fiorentino moderno, contestando che i fiorentini potessero essere giudicati migliori di altri competenti in letteratura. La lingua volgare inoltre era ormai qualcosa di separato dal volgo, qualcosa che aveva acquisito una dimensione colta. Le dispute tra Tasso e Salviati, delinearono il profilarsi di un divorzio, quello tra l’ambiente accademico, che svolgeva un ruolo normativo della lingua, e la letteratura che prendeva le distanze da tale autorità. La Chiesa svolse un ruolo fondamentale nella storia linguistica, nel periodo compreso tra il concilio di Trento e la fine del Seicento. La lingua ufficiale rimase il latino ma il problema del volgare si pone nell’ambito della catechesi e della predicazione, il rapporto tra la chiesa e la lingua volgare fu affrontato nel corso del Concilio di Trento 1545-1563: ci si interrogò sulla legittimità delle traduzioni della Bibbia, senza giungere tuttavia ad una scelta definitiva, affidandola ai singoli papi, che intervennero con la realizzazione dell’ INDEX dei libri proibiti. Paolo IV nel 1559 ribadì l’illegalità del possesso di una BIBBIA IN VOLGARE senza apposita licenza, in allineamento con le posizioni più rigide emerse al concilio di Trento, in quanto la questione insita nella traduzione della Bibbia, era la libera interpretazione della scrittura, rischiosa fonte di errori e di eresie. Questo era stato uno dei punti cardine della Riforma Protestante di Lutero, cui la Chiesa preferì rispondere ribadendo le proprie posizioni e cristallizzandosi. Analogo è il problema della MESSA che, a differenza del mondo protestante, continuò ad essere detta in latino, di cui venne ribadita la funzione di lingua sacra. Il Concilio di Trento insistette poi sul fatto che la PREDICAZIONE in lingua volgare era uno dei punti fondamentali a cui dovevano attenersi i parroci, in quanto momento di confronto con i fedeli. Anche dopo il Concilio di Trento la Chiesa dovette affrontare una vera e propria questione sulla lingua: che forma e qualità doveva avere il volgare utilizzato nelle OMELIE? L’influenza di Bembo e delle Prose è riconoscibile già nel primo predicatore di tale periodo, Cornelio Musso, allievo egli stesso di Bembo a Padova. Il settore della predicazione si presentava in qualche modo come “vergine” ricollegabile alle regole dell’oratoria antica, arte di cui la cultura cristiana voleva impadronirsi per metterla al servizio della verità religiosa. Questo è l’intervento di un’opera come Il predicatore ovvero Demetrio Falero dell’elocuzione” di Francesco Panigarola, autore poi del Predicatore con cui si inseriva nella disputa normativa sull’italiano, sostenendo i principi bembiani, il primato del fiorentino parlato come lingua adatta al pulpito se depurata delle particolarità più evidenti. Nella seconda metà del Cinquecento fiorirono poi un insieme di opere retoriche con cui la Chiesa cercava di stabilire le norme per una predicazione alta, colta. IL SEICENTO L’Accademia della Crusca ebbe, ad inizio Seicento, un’importanza eccezionale in quanto realizzò quello che a tutti gli effetti è il PRIMO VOCABOLARIO ITALIANO ma anche il primo dizionario monolingue europeo, contenente tuttavia poco più di 25 mila lemmi. Non è questione di solo quantità ma del risultato culturale nel complesso. Risultato sorprendente se si pensa al contesto in cuii tale organismo si trovò ad operare: associazione privata, no sostegno pubblico, in un Italia divisa in stati diversi (dunque poco adatta a sottostare ad un’unica autorità normativa, come dimostrano le numerose polemiche suscitate dal vocabolario della Crusca). Nonostante tutto ciò, la Crusca riuscì nel suo intento di restituire a Firenze il magistero della lingua. La Crusca volse i propri interessi alla lessicografia a partire dal 1591: ebbe allora luogo una discussione sul MODO di fare il vocabolario con una conseguente spartizione degli spogli da compiere, dando il via ad un’importante opera di schedatura. In questo lungo lavoro gli accademici seguirono le indicazioni del loro grande maestro, Salviati, sul canone degli autori da consultare per la realizzazione del vocabolario, rifacendosi dunque non solo alle TRE CORONE ma anche agli autori toscani minori del Trecento fiorentino che, sse da un punto di vista contenutistico potevano apparire irrilevanti, sul piano della forma erano ritenuti degni di affiancare i grandi della letteratura. Al momento della realizzazione del vocabolario Salviati era già morto e dopo di lui non emerse alcuna personalità nell’Accademia che potesse ereditarne il ruolo di spicco. Molti accademici erano inoltre giovani, dilettanti ed inesperti (fatto che contribuisce ad accrescere la loro bravura, alla luce del risultato raggiunto). La squadra di lessicografi mantenne proprio per questo una notevole collegialità nelle sue scelte, motivo per cui si può dire che la loro opera fu frutto del lavoro di un’ equipe. L’opera venne stampata, probabilmente per motivi economici, a Venezia nel 1612 con il titolo “il Vocabolario degli accademici della Crusca”. Nel vocabolario la lezione delle Prose sopravviveva, ma veniva filtrata attraverso l’interpretazione fiorentina di Varchi e Salviati, fornendo il tesoro della lingua del Trecento interpretandola con l’uso moderno. Nonostante le critiche, il Vocabolario assunse un prestigio sovranazionale e internazionale, egando definitivamente l’accademia della Crusca alla storia della lingua: per secoli si accollò il compito di approvvigionamento e revisione dell’opera. Nel 1623 uscì la II edizione (di impianto uguale ma con numerose aggiunte), nel 1691 a Firenzee venne stampata la III edizione (divisa in 3 tomi a causa dell’aumento del materiale, sia di lemmi che di esempi e definizioni). La III edizione fece dunque un notevole salto quantitativo ma anche qualitativo, frutto di trent’anni di lavori cui parteciparono vivaci forze intellettuali. Il primo avversario della Crusca fu PAOLO BENI docente universitario di Padova, autore dell’Anticrusca in cui al canone di Salviati venivano contrapposti gli autori cinquecenteschi, in primis Tasso, escluso dagli spogli del Vocabolario. Beni insisteva sulla concezione della lingua come patrimonio comune –teoria cortigiana- e basava le proprie osservazioni su un giudizio in sè negativo della prosa del Trecento, che aveva avuto il suo massimo esponente in Boccaccio, la cui lingua venne criticata da Beni per irregolarità, Beni apprezzava piuttosto i moderni. Critico nei confronti della Crusca fu anche ALESSANDRO TASSONI, che inviò un elenco di osservazioni agli accademici fiorentini, che molto probabilmente se ne servirono per la II edizione: criticava la lingua antica di Boccaccio, le pretese dei fiorentini sulla lingua, esprimendo ammirazione per i moderni, suggerendo espedienti e legittimamente in uso IMPROPONIBILITà DELL’ARCAISMO LINGUISMO. DANIELLO BARTOLI espresse la sua disapprovazione nei confronti del rigorismo grammaticale alla base del canone dei cruscanti nella realizzazione del Vocabolario, attraverso una serie di osservazioni eterogenee contenute nell’opera Il diritto e il torto del Non si può evitando acritiche “a priori” all’Accademia. Il grammatico deve usare con cautela il suo diritto di condanna e di veto. In sostanza nel Seicento erano ormai disponibili tutti gli strumenti normativi: la grammatica era solida e ben codificata, il vocabolario era un volume ampio chiaramente articolaro in lemmi posti in ordine alfabetico e facilmente consultabile, l’industria tipografica, con la sovrabbondante produzione veneziana, aveva stabilizzato l’impiego della lingua e la grafia si era assestata in forme moderne, la punteggiatura era ormai simile all’odierna. L’uso dell’italiano si era diffuso in più ambiti nel ‘500, la lingua godeva di un buon prestigio internazionale grazie alla letteratura e alla cultura, nonostante la debolezza politica dell’Italia. Nel Seicento la lingua italiana portò a compimento la propria maturità in un campo in cui non si era ancora pienamente affermaata: quello della scienza. La PROSA del Seicento deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, in primis per merito di Galileo, che scelse l’italiano per la stesura delle sue opere fin da quando aveva 22 anni, scelta nè facile nè scontata, in quanto comportava la rinuncia a quella funzione di comunicazione internazionale garantita dal latino. Scegliere il volgare significava staccarsi polemicamente dalla casta dottorale, per volgere la propria attenzione alla ricerca di un pubblico nuovo: per esempio nella prefazione all’opera Le operazioni del compasso geometrico e militare Galileo afferma di usare il volgare per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per il latino. L’intento divulgativo della scienza è indubbio, inoltre Galileo, toscano di nascita e legatissimo alla sua patria, diede fiera mostra di un toscano naturale ed elegante, che illuminava la sua prosa. La scelta del volgare fu irreversibile e il latino divenne anzi la lingua degli avversari: nel Saggiatore sono riportate in latino le tesi dell’avversario, in italiano le confutazioni. Pur scegliendo il volgare non si collocò mai al livello basso o popolare, favorito dalla sua origine toscana e dal soggiorno a Padova, assumendo un tono elegante e medio. Galileo raggiunse un grande rigore logico-dimostrativo ed un’eccezionale chiarezza linguistico- terminologica: quando nomina e definisce un concetto o una cosa nuova, preferisce attenersi ai precedenti comuni ed evita di introdurre una terminologia inusitata o troppo colta, TECNIFICAZIONE dei termini in uso, evitando di usare il latino il greco, ma senza rifiutare grecismi o latinismi preesistenti (ad es cannocchiale vs telescopio), atteggiamento contrario alla tendenza del linguaggio scientifico moderno, disposto al grecismo e al cultismo: a Galileo si deve dunque il merito per l’assenza in ambito astrologico di quelle opere terminologiche di chimici e medici. Ha inoltre un’eccezionale capacità descrittiva che gli permette di passare dalle minuzie del mondo degli insetti alle regole generali della fisica. Il MELODRAMMA è un genere nato a cavallo tra Cinquecento e Seicento, destinato ad avere grande successo nel XVIII sec, sviluppatasi a partire dalla Camerata dei Bardi di Firenze. Il melodramma permette di affrontare la questione del rapporto poesia-musica, così come fu dibattuto sarcastico lo spazio eccessivo che le polemiche linguistiche avevano avuto in Italia, dove la cultura sembrava essere linguisticamente malata di retorica e formalismo. La posizione che meglio esprime gli ideali dell’età dei Lumi rispetto ad una tradizione conservatrice, è quella di MELCHIORE CESAROTTI che nel Saggio sulla filosofia delle lingue elabora un sistema universalmente valido sul linguaggio applicato in particolare alla situazione italiana, per molti aspetti tuttora condivisibili. Il saggio si apre con delle enunciazioni teoriche: • Tutte le lingue nascono e derivano, nella loro fase primordiale sono “barbare” ma non lo sono sul piano relativo, in quanto tutte sono efficaci all’uso della nazione parlante • Nessuna lingua è pura • Nessuna nasce da un progetto razionale e per ordine di un autore ma per libero e non espresso consenso della maggioranza (elemento innovativo e democratico). • Nessuna lingua è perfetta • Nessuna lingua è satura, il progresso chiederà sempre termini nuovi, solo laddove non v’è progresso nè attività intellettuale la lingua può dirsi completa • Le lingue dunque sono tutte in continuo mutamento • Le lingue non sono parlate in maniera uniforme nella nazione. Affronta il problema della distinzione lingua orale-lingua scritta: la scritta ha maggior dignità in quanto frutto di riflessione e strumento dei dotti, non dipende dal popolo nè dai soli scrittori, non può essere modellata sulla lingua di un certo secolo nè è opera dei grammatici. POLEMICA ANTIPURISTICA: a differenza degli illuministi del Caffè, non invoca la libertà da ogni regola, riconosce il valore dell’uso ma quando c’è discordanza nell’uso diventa necessario seguire la “miglior ragion sufficiente” che non significa “rimescolare gli archivi delle parole”: gli scrittori sono liberi di introdurre termini nuovi o di ampliare il significato dei vecchi, ammette l’introduzione di termini stranieri, ma con cautela. A questa posizione aperta al contributo delle lingue straniere, si collegano interessanti osservazioni sul genio della lingua. Il GENIO della LINGUA (carattere intrinseco di un idioma) era usato dagli avversari di prestiti stranieri per dimostrarne l’improponibilità, che dovevano ripugnare al genio nazionale della lingua che li accoglieva. Cesarotti propone una distinzione tra: GENIO GRAMMATICALE ossia la struttura grammaticale di una lingua, che non deve essere alterato, e il GENIO RETORICO da cui invece dipende il lessico, settore in cui tutto è alterabile. Dunque i forestierismi non possono nuocere ad una lingua finchè non intaccano le strutture grammaticali. La parte finale del trattato è dedicata ad esaminare la situazione italiana, cercando soluzioni positive alla questione della lingua. Proposta una magistratura della lingue: poichè la lingua è della nazione, doveva essere istituito un “consiglio nazionale della lingua” con sede a Firenze, che avrebbe rinnovato i criteri lessicografici, presentando attenzione alla terminologia delle arti, mestieri, attraverso una schedatura dei diversi modi di dire nelle varie regioni d’Italia per poi compiere una scelta. Infine sarebbe stato necessario confrontare il lavoro finale con i vocabolari delle altre nazioni e infine compilare un vocabolario in due forme, una ampia e una ridotta. Il suo appello cadde inascoltato. Nel Settecento, con l’Illuminismo, si cominciò a pensare che la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio di cui ogni uomo doveva essere provvisto per assumere un ruolo nella società produttiva. Artigiano, mercante o agricoltore, tutti dovevano saper scrivere e parlare italiano. Anche prima potevano esistere scuole in cui si insegnava a leggere e scrivere in volgare, presso parrocchie ed ordigni religiosi: nel Settecento però sono le organizzazioni statali a darsi da fare, sotto lo stimolo degli intellettuali illuministi, seguaci delle nuove convenzioni democratiche del sapere, che non di rado si preoccuparono di indicare la strada per le riforme necessarie, sulla via del progresso, anche se la situazione in Italia rimase complessivamente difficile, data la mancanza di uno Stato unitario razionale. Dunque si tratta di una realtà frammentaria e disuguale, diversa da stato a stato. Nel ‘700 prese piede la POLEMICA CONTRO IL LATINO, ossia contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli, cui certamente avrebbe giovato maggiormente una cultura incentrata sulle esigenze dei commerci e delle attività pratiche. Alla fine del XVIII sec furono avviate nel Lombardo-Veneto una serie di riforme nelle scuola, grazie all’interesse che manifestò in tale ambito Maria Teresa d’Austria, dando il via ad un nuovo metodo didattico, in cui prendeva forma l’unità della “classe” in senso modeno, nacque l’idea di una scuola comune con il compito di insegnare a leggere e scrivere, istituita dall’Ottocento in poi nell’Italia Settentrionale. Nonostante le riforme scolastiche, l’uso della lingua continuò ad essere un fatto d’elite: il toscano era riservato a situazioni ufficiali, ai libri, ma lo spazio della comunicazione familiare era occupato dai dialetti. Quando i dialetti non bastavano, era necessario ricorrere a quello che Manzoni ha definito come “parlar finito” uso di una lingua ritenuta elegante, usando parole che si supponevano italiane o aggiungendo finali italiane alle parole dialettali terminanti in consonante. La lingua italiana quindi era scritta ma poco parlata, in quanto concepita come qualcosa di artifiale, che si prestava poco alla conversazione naturale. Nelle città e nelle campagne, nel Settentrione e nel Mezzogiorno, si parlava DIALETTO, per popolani, borghesi o nobili che si fosse, solo eccezionalmente un italiano velato di dialetto. Ciò fece nascere il fenomeno per cui la lingua italiana doveva essere classificata tra le lingue morte, cosa che in realtà non era. Tuttavia il suo status di strumento iper colto lo manteneva ancorato al passato e chiuso ad innovazioni. Nel Settecento l’opera italiana conobbe un grande successo anche all’estero, confermmando il prototipo dell’italiano come lingua del canto e della poesia. Laddove era necessario usare tecnicismi riguardanti qualsiasi aspetto di quest’ambito l’italiano entrava in crisi. Nonostante ciò il melodramma trovò paladini del calibro di Voltaire, Rousseau e Diderot. Nei paesi di lingua tedesca l’italiano, ampiamente diffuso a Vienna, Dresda e Salisburgo, ebbe nuovo trionfo quando l’opera giunse a Vienna. Mozart parlava l’italiano e utilizzò libretti scritti dall’italiano Da Ponte (don Giovanni, nozze di Figaro). Per quanto riguarda Goldoni, dovette anch’esso confrontarsi con il problema della lingua che si poneva ad ogni autore teatrale: non esistendo una lingua comune di conversazione in Italia, per simulare il parlato senza imparare il toscano, era necessario ricorrere al dialetto, oppure ad una lingua mista. Goldoni optò di volta in colta per l’una o l’altra soluzione. All’uso del dialetto, che Goldoni padroneggiava perfettamente, riuscendo a rendere in maniera realistica qualsiasi ambiente reale, si affiancava una sorta di “fantasma scenico” un italiano che ha spesso la vivacità del parlato ma si alimenta grazie all’uso scritto non letterario, accogliendo francesismi, dialettismi, regionalismi, dialetto e italiano si alternano e talvolta confondono secondo un procedimento caratteristico del parlato. 1690--> fondazione dell’Arcadia, movimento che con le sue colonie si diffuse in ogni centro italiano, raggiunse dimensioni gigantesche. Tale movimento ebbe come strumento una lingua tradizionale, ispirata a Petrarca, priva degli eccessi del Barocco. Il linguaggio della poesia del Settecento continua ad ispirarsi ai modelli del passato, come si nota dall’impiego fino alla nausea di onomastica, mitologia, e toponomastica classica, con un relativo alto uso di latinismi e arcaismi, nonchè troncamenti con lo scopo di distinguere la poesia dalla prosa, ossia di sollevare i versi dallo scivolamento nella banalità prosastica. Il Settecento è il secolo di questo linguaggio, inalterato fino alla stagione delle avanguardie novecentesche, si stabilizza mentre l’orizzonte tematico sembra ampliarsi: si pensi alla fortuna della poesia didascalica e di quella morale--> NOBILITAZIONE VERBALE DEGLI OGGETTI COMUNI. È necessario includere nella categoria della prosa letteraria settecentesca anche la prosa saggistica, che in questo secolo costituisce uno dei nuclei più solidi della produzione culturale. In quest’ambito molti scriventi invocavano il confronto con francese ed inglese: ALESSANDRO VERRI in un saggio sui Difetti della letteratura pubblicato sul Caffè, loda l’ordine del francese e la brevità della scrittura inglese, auspicando una semplificazione sintattica anche per l’italiano. Nonostante gli auspici di uno stile moderno, divulgativo e libero, gli stessi intellettuali riformatori facevano fatica a realizzare tale stile o vi rinunciavano addirittura. Controcorrente è lo stile di GIAMBATTISTA VICO, ricco di latinismi e arcaismi, con vere e proprie cascate di subordinate. Anche VITTORIO ALFIERI è controcorrente perchè non perse occasione per parlare male della lingua francese e descrivere le difficoltà che si ponevano ad un grande piemontese nell’apprendimento del toscano, inaugurando la tradizione ottocentesca del soggiorno a Firenze. Lo stile di Alfieri nelle tragedie si caratterizza per un volontario allontanamento dalla normalità ordinaria e dal cantabile, che si caratterizza per l’asprezza e la durezza rimproverata da alcuni contemporanei e certo lontana dal gusto dei moderni. L’OTTOCENTO All’inizio dell’800, anche per reazione contro l’egemonia della cultura francese, si sviluppò un movimento noto come PURISMO : caratterizzato dall’intolleranza di fronte ad ogni innovazione e da una marcata esterofobia , atteggiamento che ebbe come conseguenza un forte antimodernismo e si sviluppò il culto dell’epoca d’oro della lingua italiana, identificata nel Trecento. Ciò che sorprende tuttavia non è tanto l’inattualità di questa tendenza, quanto piuttosto la sua grande fortuna. Il capofila del purismo italiano fu il veronese ANTONIO CESARI, autore dell’opera Dissertazione sopra lo stato presente della lingua manifesto del conservatorismo purista, in cui il canone della perfezione linguistica veniva fissato non solo nelle opere letterarie trecentesche ma anche negli scritti notarili, nelle note contabili vagheggiate come risalenti ad una mitica età della perfezione ora perduta. Altre figure che si muovono a sostegno di questo movimento sono: ▲ Il napoletano PUOTI, concezione puristica meno rigida, più aperta ad autori del Cinquecento, maestro di De Sanctis e Settembrini ▲ Lo scrittore piemontese CARLO BOTTA ▲ LUIGI ANGELONI, uno dei puristi più scatenati. Fu lo scrittore VINCENZO MONTI, all’apice della sua celebrità letteraria ad opporsi alle esagerazioni del Purismo, nel 1813 in una lettera privata dimostrò di non sopportare Cesari, definito “Grammuffastronzolo di Verona”, epiteto che riprendeva sarcasticamente le giunte di Cesari al Vocabolario della Crusca, giunte per cui gli verrà rinfacciato da Monti di aver semplicemente incorporato alla Crusca voci che altri cruscanti prima di lui avevano ripudiato in quanto “lordure”. Aspre sono le critiche di Monti alla crusca stessa, raccolte nella serie di volumi intitolata Proposte di correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. Lo scontro con i puristi si sviluppò soprattutto a Milano (in parte a Torino) dove circolò, pur rimanendo inedito, uno scritto di Stendhal I pericoli della lingua italiana in cui si metteva a fuoco molto bene la situazione linguistica italiana, caratterizzata dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua italiana . Soluzione MANZONIANA alla “QUESTIONE DELLA LINGUA”: la teoria linguistica manzoniana segna un punto di svolta nelle discussioni sulla questione della lingua: alcune delle sue pagine migliori stanno in una serie di carte private, pubblicate nel 1974, con il titolo di Della lingua italiana, frutto di una riflessione linguistica durata 30 anni, di cui Manzoni non diede mai esibizione negli interventi pubblici, motivo per cui non si possono considerare solo le opere rese pubbliche quando era in vita. La mole e la complessità degli scritti postumi supera largamente quella degli scritti editi, sulla tematica linguistica. Manzoni affrontò il problema della lingua a partire dalla sua personale esperienza di romanziere: mentre il linguaggio poetico degli Inni sacri si inserì perfettamente nella tradizione, le sue prose linguistiche ebbero il via con la stesura del Fermo e Lucia. Questa prima fase linguistica, descritta in una lettera a Fauriel del 1821, viene di solito definita come “eclettica” in quanto Manzoni cercava di raggiungere uno stile moderno attraverso il ricorso a vari elementi, accettando francesismi e milanismi, senza vincoli puristi. La seconda fase che Manzoni chiamò toscano-milanese corrisponde alla stesura dei Promessi sposi per la I edizione (1825-27), uscita a fascicoli. La lingua è genericamente toscana ma ottenuta per via libresca, attraverso vocabolari e spogli lessicali. Ma questo studio libresco non poteva bastare: nel 1827, dopo la pubblicazione della I edizione del romanzo, andò a Firenze e il contatto diretto con la lingua toscana fu decisivo, alla base della successiva e impegnata riflessione alla prosa boccacciana) e quello classicistico (che guardava alla tradizione rinascimentale)--> la prosa di Monti e Leopardi rappresenta alcuni dei migliori successi cui giunge il classicismo. Una svolta nella prosa letteraria è quella segnata da Manzoni nei Promessi sposi nella I edizione e nella II. L’uso manzoniano ha in certi casi influenzato decisamente il destino della lingua italiana. Altra svolta fu segnata da VERGA, soprattutto nei Malavoglia, Verga non abusa del dialetto ma adatta la lingua italiana a plausibile strumento di comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare, adottando alcune parole siciliane note in tutta Italia per poi ricorrere a innesti fraseologici di modi proverbiali aventi un corrispondente in dialetto. Particolarmente innovativo, dal punto di vista sintattico, risulta il discorso indiretto libero, soluzione terza al discorso diretto e indiretto: non vengono aperte virgolette cosicchè apparentemente è ancora lo scrittore a riferire i pensieri a le parole del suo personaggio, ma nella voce dello scrittore affiorano modi e forme propri del discorso diretto. Il linguaggio poetico ottocentesco si caratterizza per la sostanziale fedeltà alla tradizione aulica e illustre, come testimonia per esempio la solennità dei Sepolcri di Foscolo. Il lessico viene selezionato in modo da ascriversi alla serie delle parole “nobili”, diverse dalla quotidianità, tramite il distaccarsi dal modello prosastico. Tale doppia serie lessicale, fatta di cultismi e latinismi, fu caratteristica del linguaggio poetico italiano fino alla svolta novecentesca. Anche LEOPARDI sembra acconsentire a tali principi, rifacendosi alla tradizione petrarchesca e tassiana, soprattutto ereditando da Tasso il principio de “vago”, del linguaggio poetico, per cui non ci devono essere termini che definiscono in maniera precisa ed univoca, quanto parole che evocano qualcosa di vago. Chiusura verso il linguaggio della quotidianità, che premeva ormai sul linguaggio poetico, alle prese spesso con temi nuovi. L’ottocento fu poi il secolo in cui ebbe eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in dialetto, cui si opponeva PIETRO GIORDANI, che affermava che il dialetto era nocivo alla nazione, percependo se mai la mancanza di una lingua comune largamente diffusa. Romantici --> difensori del dialetto Classicisto --> trasizione letteraria nazionale nobile. IL NOVECENTO Il Novecento è stato un secolo decisivo per la storia della lingua italiana, in cui si sono rese evidenti lee inevitabili conseguenze dell’unificazione politica, verificabili in molti settori: la scuola, la cultura, l’editoria, la vita politica --> si pensi ad esempio alla mobilitazione delle masse popolari che divennero attive con l’organizzazione di lotte contadine ed operaie, scioperi, manifestazioni in piazza, all’origine delle quali vi erano ideologie diverse, dalla socialista alla comunista e poi alla nazionalista e alla fascista. I diversi partiti in cui si esprimevano tali ideologie analizzavano analoghi strumenti di comunicazione, in primis l’oratoria dei comizi e i discorsi pubblici (oggi sostituiti dai dibattiti trasmessi attraverso i media) oltrechè la STAMPA: tale comunicazione, a livello nazionale, si svolgeva in italiano, con grandi conseguenze linguistiche. Altra occasione di mobilitazione di massa fu la GRANDE GUERRA, una delle prime occasione- espressioni nazionali per il basso popolo della Nuova Italia (il Risorgimento aveva coinvolto soprattutto i ceti borghesi). Masse di contadini sradicate dalle regioni d’origine e portate al fronte, guerra statica, “di posizione”, durante la quale i soldati si ritrovarono a stretto contatto con gli ufficiali che parlavano in italiano. Nel Novecento si ebbe una grande INDUSTRIALIZZAZIONE, con la formazione di grandi agglomerati urbani, conseguente allo spostamento di abitazioni dalle zone rurali e dal Mezzogiorno al Nord. È un secolo in cui si svilupparono in maniera eccezionale le nuove TECNOLOGIE, anche nell’ambito della comunicazione: dapprima vi fu la radio, poi la televisione, e negli ultimi anni del secolo l’informatica e la telematica diedero con frutto INTERNET e la telefonia mobile. Per secoli la lingua italiana era stata utilizzata nel ristretto campo della letteratura e della cultura alta, mentre lo spazio della comunicazione quotidiana era affidato ai dialetti: nel Novecento i dialetti rimasero vitali, ma ad essi cominciò ad affiancarsi l’italiano nell’uso familiare ed informale, giungendo talvolta, nella II metà del secolo, a sostituirli. L’italiano ovviamente non fu più identico a quello di prima e subì un processo di cambiamento più rapido rispetto a quanto era avvenuto nel secoli precedenti. Era per forza di cose destinato a semplificarsi, a perdere parole e raffinati di sintassi--> semplificazione delle strutture, diminuzione delle parole davvero in uso degli utenti con le relative discussioni periodiche sulla vera o presunta decadenza della lingua italiana, a seguito soprattutto della scolarizzazione di massa degli anni Settanta e Ottanta. L’oratoria tradizionale di pazza del primo Novecento era profondamente diversa dalla retorica che caratterizza la comunicazione televisiva: ne sono un indubbio esempio i discorsi di Mussolini, di cui resta la documentazione radiofonica e cinematografica, ma a rappresentare ancor più un modello di oratoria magniloquente e letteraria è senza ombra di dubbio D’Annunzio, che influì profondamente sulla retorica del fascismo, caratterizzata dall’abbondanza di metafore religiose e militari, tecnicismi del sapere “romano”, ossessione per i numeri. Peculiare dell’oratoria mussoliniana è il dialogo con la folla che risponde con grida di approvazione ai silenzi del Duce. La politica linguistica fascista si manifestò con un carattere fortemente autoritario, gli aspetti più noti di questa politica sono la battaglia ai forestismi (AUTARCHIA CULTURALE), LA REPRESSIONE DELLE MINORANZE ETNICHE, POLEMICA ANTIDIALETTALE. Italianizzazione forzata portò alla revisione dell’onomastica locale nelle aree alloglotte, nonchè dei cognomi forestieri, slavi o tedeschi. 1930: soppressione nei film delle scene in lingua straniera 1940: Accademia d’Italia: istituzione culturale rappresentativa del regime, fu incaricata di sorvegliare la permeazione di prestiti straniere e di indicare delle alternative possibili. In questo periodo venne fondata la rivista : LINGUA NOSTRA, in cui emerseero una serie di discussioni normative. BRUNO MIGLIORINI elaborò una concezione definita “NEOPURISTA”. Il neopurismo, moderatamente avverso al forestierismo, va distinto dalla politica xenofoba fascista, da cui si distingue per il rifiuto di mescolare questione della lingua e questione di razza. Con l’avvento della repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba, non si sono più verificati interventi autoritari di politica linguistica, ad eccezione di quelli contro l’uso sessista della lingua negli anno 80, per cui si respingevano le forme “maschili non marcate” e le professioni in – essa (ad es avvocatessa vs avvocata). Sotto il fascismo furono pubblicati veri e propri elenchi di parole proscritte, di provenienza straniera, con i relativi sostituti. Venne portata avanti una battaglia contro l’allocutivo “lei” per sostituirlo con il “voi” e “tu”, considerati più “romani”. Tale campagna era destinata al fallimento in quanto il “lei” era radicato nella lingua italiana sin dal Cinquecento, mentre il “voi” suonava come dialettale nel sud Italia, e dunque era evitato. Provocatoriamente Benedetto Croce, abituato da buon napoletano alla forma allocutiva del voi, passò risolutamente al lei, a seguito di questa campagna. All’inizio del Novecento, nonostante la dichiarata avversione di Benedetto Croce (il più autorevole pensatore dell’epoca) a ogni lingua modello, benchè ormai privato della sua funzione dagli innovatori, l’Accademia della Crusca tentava ancora una volta di concludere una V e nuova edizione del suo vocabolario. Quando divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile nel 1923 tolse alla Crusca il compito di preparare il vocabolario, tuttavia anche il VOCABOLARIO FASCISTA prodotto dall’Accademia d’Italia non ebbe esito felice, venne pubblicato solo il primo volume (dalla A alla C). Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane il Prontuario di pronunzia e di ortografia ad uso primario degli annunciatori radiofonici, in cui si sviluppa la questione della pronuncia romana laddove sia diversa dalla fiorentina. CARDUCCI è probabilmente l’ultimo scrittore che incarna appieno il ruolo tradizionale del vale, aderendo alle convenzioni linguistiche che nobilitano il linguaggio poetico. Autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D’Annunzio e Pascoli, testimoniano nelle lore opere le trasformazioni in atto nel linguaggio letterario. Anche D’Annunzio ricercò la nobilitazione delle proprie poesie attraverso la selezione lessicale, ma pur aderendo al canone tradizionale, fu un autore innovativo per la sua capacità di sperimentare una miriade di forme diverse (dissemina le sue poesie di arcaismi, tecnicismi, preziosismi) che ebbero grande influenza talvolta sul linguaggio Novecentesco, dato il suo enorme successo, autore di una serie di neologismi tra i quali si è affermato “velivolo” nonchè il nome da lui suggerito per la celeberrima “rinascente” milanese. Collaborò poi con la nascente cinematografia dell’epoca, ponendo didascalie ai muti, nonchè nomi latini di persona, tra cui quello di Maciste, così noto che passò all’italiano comune per indicare un uomo forzuto. PASCOLI rappresenta la rottura con il linguaggio poetico tradizionale, soprattutto il Pascoli delle Myriciale, nonchè con i crepuscolari e le avanguardie. 1. PASCOLI : con lui si amplia il numero di soggetti poetabili e il diritto di cittadinanza poetica sarà allargato a tutte le parole, non solo sublimi ed arcaiche ma anche attuali e quotidiane. Innovativo fu il gusto per ciò che risultava basso e umile, per elementi insoliti e stridenti con la tradizione. 2. La POESIA CREPUSCOLARE, spesso ispirandosi allo stesso Pascoli, accentuò la tendenza alla prosa e al tono prosastico (tendenza di tutto il Novecento) abbassando e rovesciando il sublime. 3. Appello ad un provocatorio rinnovamento della forma, venne portato avanti da tutte le AVANGUARDIE, in Italia identificabili per lo più con il FUTURISMO, uso di parole miste ad immagini, caratteri tipografici di dimensioni diverse, abolizione della punteggiatura, dell’onomatopea, dell’infinito.... Per quanto riguarda la PROSA non va sottovalutato il carattere innovativo dela prosa dannunziana, che ne Notturno (scritto a seguito di un periodo di momentanea cecità dovuto ad un incidente) si caratterizzava per un periodare breve, sintassi nominale, frequenti a capo, fornendo un modello di poesia in prosa che sarà tra i più seguiti nel Novecento. Interessante è la riproduzione dell’oralità che caratterizza la prosa di PIRANDELLO, non tanto nei romanzi quanto nelle opere teatrali, con uno stile che risulta essere l’esatto contrario di quello di D’Annunzio. Altro grande scrittore di inizio Novecento fu Italo Svevo, noto per la sua esperienza non facile con la lingua, data dalla sua provenienza da un area geografica e da un’esperienza culturale lontana dai santuari della letteratura, scrittore che non venne capito dalla letteratura ufficiale, fatta eccezione per Montale, letteratura che lo accusò di “scrivere male”.
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