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RIASSUNTI SASSANI - LINEAMENTI DEL PROCESSO CIVILE ITALIANO, Dispense di Diritto Processuale Civile

RIASSUNTI AGGIORNATI PER PROCEDURA CIVILE ANNO 2018-2019

Tipologia: Dispense

2018/2019
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Caricato il 18/11/2019

Terence.DeMarco
Terence.DeMarco 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTI SASSANI - LINEAMENTI DEL PROCESSO CIVILE ITALIANO e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! SASSANI – LINEAMENTI DEL PROCESSO CIVILE ITALIANO Capitolo 1 TUTELA GIURISDIZIONALE, CODICE DI PROCEDURA CIVILE, COSTITUZIONE Principio di uguaglianza L’uguaglianza è principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale anche sotto il profilo processuale. L’art. 3 Cost. impone e garantisce che tutti i soggetti e tutte le situazioni sostanziali soggettive devono aver trattamento ragionevolmente uguale sotto il profilo della tutela; ciò significa che l’accesso alla giustizia non può essere impedito o reso più difficile per la tutela di date categorie di diritti piuttosto che per la tutela di altre categorie, e significa anche che le modalità procedurali imposte per la tutela delle situazioni sostanziali non possono avere carattere discriminatorio risultando irragionevolmente più gravose per alcune categorie di soggetti piuttosto che per altre. L'uguaglianza va coniugata con la ragionevolezza; significa cioè che i meccanismi processuali devono essere sempre ed assolutamente uguali per tutti e che non è possibile differenziare le forme della tutela secondo esigenze di ragionevolezza. Diritto di azione e di difesa L’art. 24 della costituzione è la norma chiave del sistema della tutela giurisdizionale, da un lato perché il suo primo comma garantisce a tutti il diritto incondizionato di agire in giudizio, dall'altro perché il suo comma 2, stabilendo l'inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del giudizio, fornisce la base del fondamentale principio del contraddittorio. Il primo comma recita: tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi; quindi tutti i soggetti interessati possono rivolgersi al giudice per domandare e godere della tutela giurisdizionale, quando ritengono di aver subito lesione dei propri diritti o di essere comunque vittime di torti giuridicamente rilevanti. “Tutti possono agire in giudizio” non significa solo che tutti possono invocare tutela, ma anche che il diritto di agire deve essere garantito per tutta la durata del giudizio che ne deriva. Il comma 2 (“la difesa è diritto inviolabile in ogni stato è grado del procedimento”) fissa al massimo livello il diritto di difendersi, cioè di far valere le proprie ragioni nei confronti di chi ha assunto l'iniziativa dell'agire. L'inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento significa che non ci si può limitare a considerare il diritto di difesa nella fase iniziale; l'esperienza del secondo comma dell’art. 24 Cost. induce a vedere in esso la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, cioè di uno dei fondamenti della tutela giurisdizionale dei diritti. Nella normativa ordinaria il principio del contraddittorio è sancito dall’art. 101 c.p.c., che stabilisce: “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”. Contraddittorio non vuol dire che si deve sentire le ragioni anche di chi non vuole essere sentito, ma vuol dire garanzia del diritto di essere sentiti, cioè che ognuno sia messo in condizione effettiva di essere sentito se lo vuole: il contraddittorio è rispettato se sono garantite le condizioni che lo rendono possibile. L’originario art. 24 trova un complemento nella riscrittura dell’art. 111 Cost, operata dalla legge costituzionale 2/1999, la quale ha stabilito che al comma 1 del suddetto articolo fossero premessi alcuni altri commi, il primo dei quali recita: “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”; e il secondo recita: “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Capitolo 2 LA TUTELA GIURISDIZIONALE NELLA COSTITUZIONE L’ordinamento della giurisdizione Il primo comma dell’art. 101 Cost. afferma che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”: si tratta di una dichiarazione di principio che si inserisce coerentemente nel sistema costituzionale. Più importante è il secondo comma secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge; la disposizione va letta in coordinazione con l'articolo 104, il quale stabilisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Queste norme hanno un'importanza particolare perché da esse si ricava che: • l'ordine giudiziario si presenta autonomo e indipendente rispetto al potere esecutivo; • l'attività giudiziale va attuata in stretta soggezione alla legge; ciò significa che non spetta ai giudici creare il diritto che applicano: essi devono applicare il diritto obiettivo, cioè il prodotto del potere legislativo. L’art. 111 al suo attuale comma 6 stabilisce che tutti provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. La motivazione è la garanzia della corretta applicazione della legge e non avrebbe senso dire solennemente che i giudici sono soggetti soltanto alla legge se non li si obbligasse a motivare, cioè a spiegare quale uso siffatto della legge nel caso concreto. La soggezione del giudice la legge si ritrova anche nel codice di procedura; l'articolo 113 afferma: “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto”. Oltre alla legge in senso formale il giudice è soggetto: • alle norme risultanti dagli atti normativi generali interni non classificabili quali leggi in senso formale: decreti legge, decreti legislativi; • alla normativa di derivazione comunitaria, sebbene non trasfusa in atti legislativi interni (principi generali, regolamenti, direttive self-executing); • alla normativa di fonte consuetudinaria; • alla legge straniera eventualmente applicabile nel processo davanti alla giurisdizione italiana; • in taluni casi alle norme risultanti da contratti ed accordi collettivi di lavoro. Il comma 7 dell’art. 111 è anch'esso una garanzia della soggezione del giudice alla legge: contro le sentenze, siano esse pronunciate dall'autorità giudiziaria 1 specifica che agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. Il lodo è il nome tecnico della sentenza arbitrale. L'arbitrato può essere deciso secondo diritto ovvero secondo equità; la regola è che gli arbitri debbono seguire ed applicare le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che essi si pronuncino secondo equità (art. 822). Il lodo è una decisione proveniente da soggetti privati, cioè di per sé un atto privato, ma la legge gli conferisce gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria (art. 824-bis); il lodo può essere depositato in tribunale, ma l'efficacia di sentenza è indipendente da tale deposito, poiché essa gli è riconosciuta dalla data della sua ultima sottoscrizione. Il codice consente di impugnare il lodo, anche non depositato, con i mezzi dell'azione di nullità (art. 827), nonché della revocazione e dell'opposizione di terzo; le impugnazioni si propongono agli organi della giurisdizione pubblica, individuati nella corte d'appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato. Accanto all'”arbitrato rituale”, il codice contempla la particolare modalità dell’ “arbitrato irrituale”. L’art. 808-ter prevede infatti la possibilità che le parti stipulino una convenzione di arbitrato che preveda che, in deroga alla norma per cui il lodo ha l'efficacia della sentenza giudiziaria, la controversia sia definita dagli arbitri, mediante determinazione contrattuale; ai compromittenti viene quindi riconosciuto il diritto di escludere che al lodo conseguano gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria, purché essi esprimano tale volontà in modo certo ed in forma scritta. Capitolo 4 LA TUTELA GIURISDIZIONALE NELLA COSTITUZIONE Il Consiglio di Stato e gli altri giudici amministrativi L’art. 100 Cost. colloca il Consiglio di Stato tra gli organi ausiliari e lo definisce organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione. L’art. 103 stabilisce che il Consiglio di Stato ha giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione di date situazioni soggettive. L’art. 108 secondo comma afferma espressamente e solennemente che la legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali. Senza indipendenza non vi può essere vera e propria giurisdizione, perché l'indipendenza del giudicante è la prima delle garanzie della funzione giurisdizionale. La costituzione affronta i problemi del rapporto tra la giurisdizione civile e la giurisdizione del giudice amministrativo, dettando varie norme da cui si ricava l'assetto istituzionale della coesistenza tra le due giurisdizioni. L’art. 113, comma 1, prescrive: “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”. La norma ha valore di garanzia incondizionata per tutte le situazioni giuridiche potenzialmente tutelabili. Il comma 2 dell’art. 113 prescrive: “tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”; la portata della garanzia ricavabile dal primo comma viene addirittura amplificata dal secondo comma: la tutela giurisdizionale deve essere piena, al punto che il legislatore ordinario non la limita a particolari forme di impugnazione o a determinate categorie di atti. Il comma 3 dell’art. 113 afferma: “la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo L’art. 103 Cost. afferma che: “il Consiglio di Stato e gli altri organi di giurisdizione amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche di diritti soggettivi”. La limitazione dell'accesso alla cassazione per i provvedimenti del Consiglio di Stato Un importante aspetto differenziale tra le due giurisdizioni è quello della ricorribilità per cassazione delle relative sentenze. Il ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice ordinario è sempre ammesso per violazione di legge, mentre tale ricorso è assoggettato a forti limiti nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato e della corte dei conti, dall'art. 111 comma 8 Cost. Contro le decisioni di questi organi, l'accesso alla corte suprema non è escluso, ma ne è molto ridotto l'ambito essendo essi impugnabili per le sole ragioni relative alla giurisdizione. Alla corte di cassazione spetta in questo caso solo il potere di controllare che il giudice che ha esercitato o denegato la propria giurisdizione lo abbia fatto nel rispetto delle norme che la distribuiscono tra i vari organi giurisdizionali. L’asimmetria della posizione di giudici speciali e di giudice ordinario rispetto al controllo della cassazione, si riflette sul trasferimento, più volte operato dal legislatore ordinario, di una determinata materia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla giurisdizione del giudice civile, o viceversa; in questi casi, se è vero che le cose non cambiano sotto l'aspetto generale della garanzia della tutela giurisdizionale, è anche vero che le parti perdono o acquistano il diritto al controllo in cassazione. Capitolo 5 COSTITUZIONE E CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO La riscrittura dell’art. 111 Cost. La legge costituzionale 2/1999 ha inserito ulteriori prescrizioni ai 3 commi dell’art. 111. La formula “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” significa innanzitutto che l'esercizio della giurisdizione trova la sua manifestazione nel processo; l'espressione “giusto processo” è la sintesi verbale di alcuni requisiti indispensabili che si impongono al legislatore processuale, su cui gravano due obblighi fondamentali: a. regolare la disciplina procedurale da seguire e, più in generale, il funzionamento del processo; b. adeguare la legislazione processuale a canoni di giustizia processuale, canoni che si manifestano come equilibrio, proporzione, correttezza, ragionevolezza, affidabilità della procedura. Il primo obbligo indica una riserva di legge assoluta, non potendosi lasciare la conformazione del procedimento all'arbitrio di fonti normative di rango inferiore alla legge o, addirittura, alla volontà degli stessi organi giudicanti. il requisito 1 del contraddittorio è vigorosamente ribadito dal comma 2 dell'articolo 111: ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti in condizione di parità. L’imparzialità del giudice La previsione secondo cui ogni processo si svolge davanti giudice terzo imparziale, può considerarsi un recupero in chiave di diritto costituzionale nazionale del preesistente principio transnazionale contenuto nella convenzione europea sui diritti dell'uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 848/1955. L’applicazione della convenzione è garantita dalla corte europea dei diritti dell'uomo che ha sede a Strasburgo. Secondo l’art. 32, “la competenza della corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste dagli articoli 33,34 e 47”. L’art. 34 prevede che la corte può essere investita di un ricorso fatto pervenire da ogni persona, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di una delle alte parti contraenti dei diritti riconosciuti nella convenzione con i suoi protocolli”. Per l’art. 35, la corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, e l’art. 41 prevede che se la corte dichiara che vi è stata violazione della convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'alta parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa. L’art. 6 della convenzione anticipa in qualche modo il nuovo testo dell'articolo 111: ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge al fine della determinazione dei suoi diritti e doveri di carattere civile. Il nuovo comma 2 dell’art. 111 parla di “giudice terzo e imparziale”, perché la nozione di imparzialità è strettamente connessa a quella di terzietà, la quale significa che il giudice non può essere parte; il che significa non solo che egli non partecipa al processo, ma anche che egli non può parteggiare per l'uno per l'altra parte; egli deve essere personalmente indifferente rispetto agli esiti della causa così da garantire la più assoluta neutralità sia rispetto al procedere che al decidere, e non deve essere coinvolto nella dimensione di una parte a scapito delle altre. A norma dell’art. 51 c.p.c., il giudice ha l'obbligo di astenersi, cioè non può né decidere, nè trattare la causa in una serie di ipotesi che configurano presunzioni assolute di imparzialità compromessa; tali ipotesi sono: • se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto; • se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o se convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori; • se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori, • istanza per la dichiarazione di fallimento. L’art. 70 distingue un intervento necessario da un intervento facoltativo. L’intervento è necessario, a pena di nullità insanabile e rilevabile d'ufficio: • nelle cause che egli stesso avrebbe potuto proporre ex art. 69; • nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione dei coniugi; • nelle cause relative allo stato e capacità delle persone; • negli altri casi previsti dalla legge. La partecipazione del pubblico ministero è sempre necessaria nel giudizio di cassazione; in ogni altra causa in cui il pubblico ministero ravvisi un pubblico interesse, l'intervento è invece facoltativo. L’atto processuale: validità ed efficacia Gli atti di cui si compone il processo hanno naturalmente una loro forma; in linea di principio essi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo (art. 121 Cost.). L’atto per cui è prevista una data forma, atto forma vincolata, è però viziato, o nullo, solo se manca dei requisiti formali legali specificamente imposti dalla legge a pena di nullità; secondo l’art. 156, comma 1, non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge; ciò significa che non tutte le difformità dalla forma legale producono nullità, poiché la legge si limita spesso a tipizzare l’atto attraverso la descrizione di elementi formali ma senza far discendere alcuna sanzione dalla loro mancanza o imperfezione. Impossibilità di raggiungere lo scopo Un atto può incorrere in nullità, malgrado la propria completezza formale, per la sua inidoneità a raggiungere il proprio scopo: l'atto infatti è nullo quando manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2). La nozione di “scopo dell'atto” rileva anche sotto un altro profilo: secondo l’art. 156, comma 3, la nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Il raggiungimento dello scopo agisce quindi come sanatoria della nullità. Sanatoria per preclusione della rilevabilità del vizio Oltre che dal conseguimento dello scopo, sanatoria può aversi per mancata o tardiva rilevazione del vizio; ciò si spiega osservando che la nullità del diritto processuale è caratterizzata dal fatto che l'atto invalido è pur sempre un atto efficace: esso è idoneo cioè a produrre effetti finché la nullità non sia dichiarata: la nullità va quindi rilevata e la sua mancata rilevazione impedisce di rilevarla in seguito così producendo una sorta di regolarizzazione del procedimento. In particolare l’art. 157 stabilisce che: • la nullità a norma dell'articolo 156 non può essere pronunciata senza istanza di parte (nullità relativa) a meno che la legge non disponga che sia pronunciata d'ufficio (nullità assoluta); 1 • nel caso di nullità relativa, solo la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso, ma essa deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso; • la nullità relativa non può essere posta dalla parte che ha dato causa né da quella che ha rinunciato anche tacitamente. Rinnovazione dell'atto nullo Al pregiudizio derivante dalla nullità può talora porsi rimedio attraverso il meccanismo della rinnovazione dell’atto. Così la parte che ha compiuto un atto nullo può rinnovarlo, a condizione che non siano nel frattempo intervenute preclusioni o decadenze. Quanto al giudice, nel pronunciare la nullità egli deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende (art. 162, comma 1). Quanto agli effetti dell'atto rinnovato, in linea di principio essi varranno ex tunc, retroagiranno al momento del compimento dell'atto per un effetto di sostituzione di tale atto da parte del nuovo. Conversione dell'atto nullo Un atto nullo può peraltro risultare utilmente compiuto per il meccanismo della “conversione legale”. Per capire la conversione bisogna tener conto del principio di conservazione dell'atto, cioè della regola tendenziale per cui, nei limiti del possibile, è preferibile che l'atto produca effetti piuttosto che non ne produca affatto; in tal senso non solo depone la regola della sanatoria per raggiungimento dello scopo, ma parimenti la disposizione dell'articolo 159 comma 2 per cui: la nullità di una parte dell'atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti. Se il vizio impedisce un determinato effetto, l'atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo (art. 159, comma 3); qui non si ha a che fare con la sanatoria di un vizio: il vizio resta tale e l'atto non è in grado di produrre i suoi effetti tipici, ma esso produce comunque gli effetti di un altro atto di cui possiede le caratteristiche formali. Nullità formale e nullità extraformale Oltre che derivare da un vizio di forma in senso stretto, la nullità può derivare anche dalla mancanza di un suo presupposto, di un qualcosa cioè esterno all'atto stesso ma indispensabile per la sua validità. Nasce da qui la distinzione tra “nullità formale” e “nullità extraformale”: quest'ultima è la “nullità dipendente”, cioè la nullità dell'atto in sé formalmente perfetto e tuttavia dipendente dal precedente atto della serie a sua volta affetto da nullità (ovviamente non sanata). Nullità della sentenza La sentenza può essere nulla per presenza di un vizio proprio, ovvero per derivazione, cioè per proiezione su di essa di precedenti vizi del procedimento non sanati. La rilevabilità del vizio è disciplinato dall'art. 161, comma 1, secondo cui: la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. La norma sancisce il principio della “conversione della nullità in motivo di gravame”, e significa che, se non è fatta valere con il mezzo di impugnazione previsto dalla legge contro il tipo di sentenza considerato, la nullità non può farsi valere in altro modo e per altra strada; essa quindi si sana irrimediabilmente. La sanatoria può quindi prodursi sia quando la sentenza è stata ritualmente impugnata, ma la nullità non ha formato motivo specifico di impugnazione, sia quando la sentenza non è stata affatto impugnata nei termini prescritti dalla legge con suo conseguente passaggio in giudicato. Il principio della conversione della nullità in motivo di gravame riceve però una considerevole eccezione dal comma 2 dell’art. 161 che stabilisce che la regola del primo comma non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice. I termini processuali Oltre alla forma in senso stretto, il codice regola anche il tempo degli atti processuali, cioè il momento in cui essi debbono compiersi; i termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge (art. 152); essi però possono anche essere stabiliti dal giudice a pena di decadenza se la legge lo permette espressamente. Termini ordinatori nei termini perentori Taluni termini sono stabiliti a pena di decadenza: una volta scaduti, si estingue il potere di compiere l'atto processuale; in altri casi, se anche l'atto non viene compiuto entro il termine, la parte non decade dal potere di compierlo. I termini della prima categoria sono detti perentori, gli altri ordinatori; questi ultimi sono i termini funzionali alla corretta scansione dell'attività processuale, ma il cui spirare non produce la perdita del potere di compiere l'atto. I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori (art. 152, comma 2). Il calcolo del termine L’art. 155, comma 1, prescrive: nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l'ora iniziali (il giorno iniziale non si computa, cioè il primo giorno del conteggio è il successivo); per converso si computa il giorno finale. Il comma 2 aggiunge che per il computo dei termini a mesi o ad anni si osserva il calendario comune; quando il termine è dato a mesi esso si calcola per blocchi di mesi e non per giorni. I giorni festivi si computano nel termine (art. 155, comma 3); ciò significa che i giorni festivi intermedi rispetto ai giorni iniziale e finale vengono calcolati come tutti gli altri giorni; ma se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata al primo giorno seguente non festivo. Il termine finale è quello che viene in gioco quando l'atto va compiuto entro e non oltre il dato termine; esso perlopiù ha una funzione acceleratoria, nel senso che mira a sveltire i tempi del processo affinché questo non penda all'infinito, e le prerogative delle parti si svolgano entro tempi predeterminati. Talvolta però il termine non si conta in avanti; ciò accade quando la sua scadenza non è fissata in giorni, mesi o anni, successivi rispetto a un dato momento, ma è fissata a partire da eventi successivi alla sua scadenza (il convenuto deve costituirsi almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione); se la scadenza cade in un giorno festivo, essa è anticipata di diritto al primo giorno precedente non festivo; in questo modo la parte onerata dell'atto non guadagna un giorno, ma lo perde. Termini acceleratori e dilatori Ai termini acceleratori si contrappone la diversa categoria dei termini dilatori; il termine è dilatorio quando la legge vuole impedire che l'atto possa aversi 1 è determinata dall'oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio (sia cioè positivamente accertata la giurisdizione del giudice ordinario adito), non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda (art. 386); la decisione sulla giurisdizione è quindi resa sempre in ipotesi, cioè sulla mera possibilità che, al termine del processo, il giudice accerti positivamente che il diritto invocato sussista realmente: essa viene quindi valutata sulla prospettazione compiuta dall'attore. L’art. 367, comma 1, prevede che, proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, il giudice davanti a cui pende la causa, con ordinanza, sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. La Corte decide del regolamento con la modalità della camera di consiglio (art. 375); il provvedimento determina, quando occorre, quale giudice è munito di giurisdizione sulla causa; se le sezioni unite della corte di cassazione dichiarano la giurisdizione del giudice ordinario, le parti devono riassumere il processo entro il termine perentorio di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza. Sentenza declinatoria di giurisdizione e regolamento di giurisdizione d'ufficio L’art. 59 della legge 69/2009 regola la possibilità della continuazione del processo dinanzi al giudice indicato come provvisto di giurisdizione a seguito della sentenza con cui il giudice nazionale abbia declinato la propria giurisdizione; in tale sentenza il giudice deve indicare il giudice munito di giurisdizione sulla controversia sottoposta a giudizio (sempre che tale giudice esista, se cioè la carenza di giurisdizione non sia assoluta, ovvero non si manifesti nei confronti di giudici stranieri). Se entro tre mesi dal passaggio in giudicato dalla pronuncia declinatoria di giurisdizione la domanda è riproposta al giudice in essa indicato, si ha una sorta di continuazione del processo davanti al nuovo giudice: il secondo comma dell'articolo 59 della legge 69/2009 specifica che sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio. L'inosservanza del termine trimestrale per la riassunzione del giudizio impedisce che il processo possa proseguire davanti al nuovo giudice, e ciò comporta estinzione del processo; tale estinzione, dichiarata anche d'ufficio, impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. La riproposizione della domanda nei termini davanti al giudice indicato, vincola le parti ma non il giudice che può sempre sollevare d'ufficio, con ordinanza, il regolamento di giurisdizione davanti alle sezioni unite della corte di cassazione. Tale regolamento è proponibile fino alla prima udienza fissata per trattazione del merito. La proposizione del regolamento d'ufficio è subordinata alla circostanza che non si sia già avuta una pronuncia sulla giurisdizione proveniente dalla corte di cassazione. Capitolo 8 CAPACITA’ E RAPPRESENTANZA PROCESSUALE La capacità processuale Anche per compiere gli atti regolati dalla legge processuale le parti devono possedere requisiti di capacità. La capacità di essere parte è l'attitudine ad essere destinatari degli effetti del processo; si tratta di una capacità di ordine generale che corrisponde alla capacità giuridica; per le entità impersonali il discorso non cambia: non solo le persone giuridiche in senso proprio, ma anche le entità prive di personalità giuridica hanno una capacità di imputazione degli effetti processuali equiparabile alla capacità di essere parte. La capacità di stare in giudizio corrisponde invece alla capacità di agire. Secondo l’art. 75: “Sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere”, cioè le persone che hanno la capacità di agire secondo le norme dell'ordinamento sostanziale; quando la persona non ha il libero esercizio del diritto coinvolto nel processo, la legge impone che essa sia rappresentata da un'altra persona fisica, a sua volta capace. Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità (art. 75, comma 2). Le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto (art. 75, comma 3); si tratta dell'applicazione al processo del ben noto fenomeno della rappresentanza organica. Quando manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l'assistenza, ovvero quando essa si trova in conflitto di interessi con il rappresentato, ed occorre procedere o resistere in giudizio, il giudice può nominare un curatore speciale (art. 78). La rappresentanza volontaria La rappresentanza volontaria è il potere conferito dalla volontà di un soggetto capace ad altro soggetto, rappresentante, per agire in nome e per conto del primo, rappresentato; in questo caso gli atti del processo saranno compiuti dal rappresentante ma gli effetti del processo si ripercuoteranno nella sfera del rappresentato. Nel diritto processuale la regola base in proposito si ricava dall'articolo 77: “il procuratore generale e quello preposto a determinati affari non possono stare in giudizio per il preponente quando questo potere non è stato loro conferito espressamente, per iscritto, tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari”; Ciò significa che il potere di rappresentanza processuale non discende automaticamente dal potere di rappresentanza sostanziale, in quanto la rappresentanza processuale va conferita specificamente per iscritto, e non si presume, con l'eccezione degli atti urgenti e delle misure cautelari. La rappresentanza tecnica La rappresentanza tecnica è lo stare in giudizio per il tramite del difensore. L’art. 82 stabilisce che le parti non possono stare in giudizio se non con il ministero o l'assistenza di un difensore; davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti devono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; davanti alla corte di cassazione occorre peraltro il ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo degli avvocati abilitati al patrocinio presso le magistrature superiori. La regola della difesa tecnica prevede delle eccezioni, in cui la parte ha facoltà di scelta se farsi assistere da un procuratore ovvero agire di persona; così è per Le controversie di competenza del giudice di pace, di valore non eccedente i 516€, mentre per le controversie di valore superiore, lo stesso giudice di pace in considerazione della natura o dell'entità della causa può autorizzare le parti a stare in giudizio di persona. Non è invece un'eccezione la possibilità della difesa tecnica personale quando la parte ha essa stessa la qualità di avvocato: se infatti la parte ha la qualità necessarie per esercitare l'ufficio di difensore con procura 1 presso il giudice adito, essa può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore (art. 86). La procura alle liti La procura alle liti, cioè l'atto con cui la parte conferisce all'avvocato il mandato per rappresentarla e difenderla in giudizio, è regolata dall'articolo 83. Si distingue tra procura generale e procura speciale. Con la procura generale, all'avvocato è dato mandato per rappresentare e difendere il mandante non in una singola controversia ma in tutte le controversie civili, ovvero in una serie di controversie di un certo tipo, che coinvolgono quest'ultimo. La procura speciale abilita il mandatario a rappresentare e difendere il cliente in un singolo, specificato giudizio civile. Entrambe debbono rivestire la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ma la procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine degli atti procedurali indicati dall’art. 83, comma 3 (citazione, ricorso, comparsa di risposta); in tal caso l'autografia della sottoscrizione del cliente viene autenticata dallo stesso avvocato che riceve il mandato. Il difensore può compiere e ricevere, nell'interesse della parte, tutti gli atti del processo, alla condizione che non si tratti di atti che la legge riserva personalmente alla parte (come la confessione). Egli non ha i poteri dispositivi di diritti fatti valere nel giudizio: i suoi poteri sono limitati alla impostazione tecnica della controversia e alla conseguente attuazione delle scelte; naturalmente la legge fa salva la specifica volontà della parte di rimettere al legale la disposizione dei propri diritti ammettendo la possibilità di apposita procura speciale in tal senso (art. 84, comma 2). La procura è atto intrinsecamente revocabile: può essere sempre revocata dal mandante e inoltre il difensore può in ogni momento rinunciarvi; per evitare, però, vuoti di difesa o lesioni dei diritti delle controparti, sia la revoca che la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore (art. 85); si assiste quindi ad una proroga legale dello status di difensore. Capitolo 9 LA DOMANDA GIUDIZIALE La domanda giudiziale Il processo civile si apre con l’atto attraverso il quale l’attore propone la domanda giudiziale, con cui si fa richiesta di tutela giurisdizionale. Il rapporto tra domanda e tutela giurisdizionale riposa su due norme fondamentali: l’art. 2907 c.c. (alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte) e l’art. 99 c.p.c. (chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente). Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda, non potendo sceglierne una parte da trattare tralasciandone il resto, altrimenti si è in presenza del vizio di “omessa pronuncia”; simmetricamente egli deve limitarsi a pronunciare non oltre la domanda, senza cioè sorpassarne i limiti, altrimenti si è in presenza del vizio di “ultrapetita”. Questo è quanto dispone l’art. 112 in merito alla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Per arrivare alla sentenza di accoglimento, occorre innanzitutto che il giudice investito della domanda abbia verificato la regolarità del rapporto processuale. Occorre poi che il giudice, nelle forme prescritte dal diritto processuale: • Abbia individuato la norma giuridica sostanziale che giustifica la pretesa; della controversia, sarà quest’ultimo a provvedere alla fissazione della data di comparizione delle parti attraverso un decreto. Capitolo 10 I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE I provvedimenti del giudice Nel processo il giudice svolge la sua funzione essenzialmente tramite provvedimenti; l’art. 131 stabilisce che la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto; in mancanza di specifiche prescrizioni di forma, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento del loro scopo, quindi spetta al giudice valutare in quale forma rendere il proprio provvedimento, il quale assumerà la forma più appropriata allo scopo dell'atto. La sentenza è la forma a contenuto decisorio; i requisiti formali della sentenza sono: • l'indicazione del giudice davanti a cui è svolto il processo e da cui proviene provvedimento; • l'indicazione delle parti del processo; • l'indicazione delle conclusioni finali formulate dalle parti; • l'indicazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, cioè la motivazione: la concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi; • il dispositivo, cioè la sintetica e specifica deliberazione adottata dal giudice in relazione alla domanda, e in generale all'oggetto del contendere; • la data della deliberazione, la sottoscrizione del giudice. L'ordinanza e il decreto, invece, svolgono una funzione ordinatoria. Il decreto è una figura di provvedimento reso normalmente senza necessità di previa instaurazione del contraddittorio; può essere pronunciato d'ufficio ovvero su istanza anche verbale di una parte; il decreto non è motivato salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge, ed è sottoscritto dal giudice. L'ordinanza è la forma dei provvedimenti ordinatori resi normalmente nel corso del processo previo contraddittorio delle parti; l'art. 134 prevede che l'ordinanza sia motivata, seppure in maniera succinta; essa può essere pronunciata in udienza ovvero fuori udienza; le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti, o che avrebbero dovuto essere presenti; quelle pronunciate fuori udienza sono comunicate alle parti dalla cancelleria. La tipologia delle sentenze di merito Le sentenze di merito che accolgono la domanda vengono classificate in tre distinte categorie che riflettono il rapporto tra petitum e decisum: 1 • sentenze di mero accertamento, o meramente dichiarativa; • sentenza di condanna; • sentenze costitutive. Le sentenze di accertamento mero, meramente dichiarativa, sono le sentenze che corrispondono alla domanda di dichiarare la sussistenza di una data situazione di diritto: l'accoglimento consiste appunto nella dichiarazione della preesistenza del diritto vantato e dei correlativi obblighi della controparte, o della preinesistenza di una pretesa altrui. Nella sentenza di condanna, all'accertamento del diritto si aggiunge il comando, diretto al soccombente, di comportarsi in un dato modo, sotto pena di realizzazione coattiva dell'obbligo impostogli. La sentenza costitutiva non si limita ad accertare la realtà giuridica preesistente, dichiarandola come realmente è, bensì è essa stessa a creare, modificare o estinguere rapporti giuridici sostanziali; l’art. 2908 c.c. prevede che nei casi previsti dalla legge, l'autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Un esempio è costituito dal proprietario circondato da fondo o fondi altrui, che non ha uscita sulla via pubblica. Capitolo 11 DISEGNO GENERALE DEL SISTEMA DELLE NOTIFICAZIONI Notificazione e comunicazione Occorre innanzitutto distinguere la nozione di notificazione dalla nozione di comunicazione; la comunicazione è la mera trasmissione della notizia di un evento processuale, laddove la notificazione è un procedimento di trasmissione formale di atto documentale, ed è normalmente attuata attraverso consegna al destinatario di copia conforme dell'atto (trasmissione dunque non della notizia dell'atto ma dell'atto stesso). Mentre la notificazione è atto proprio dell'ufficiale giudiziario, la comunicazione è atto proprio del cancelliere; essa è attuata attraverso il “ biglietto di cancelleria”, che è il veicolo delle comunicazioni prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni (art. 136, comma 1); esso è consegnato dal cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, o è rimesso all'ufficiale giudiziario per la notifica (art. 136, comma 2). Le comunicazioni possono essere eseguite a mezzo telefax o a mezzo posta elettronica nel rispetto della normativa. L’art. 137 comma 1 stabilisce in generale che le notificazioni sono seguite dall'ufficiale giudiziario, sull'istanza di parte o su richiesta del pubblico ministero o del cancelliere; sempre in generale, lo stesso articolo stabilisce che l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme all'originale dell'atto da notificarsi. Se l'atto è costituito da documento informatico, la notifica avviene tramite consegna all'indirizzo di posta elettronica certificata; se però il destinatario non dispone di un indirizzo di posta elettronica certificata, l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante la consegna di una copia dell'atto su supporto cartaceo, da lui dichiarata conforme all'originale, e conserva il documento informatico per i due anni successivi (art. 137, comma 3). Elemento essenziale della notificazione è la “relazione di notificazione”, che fa da certificazione per la notificazione stessa; essa deve contenere l'indicazione della persona alla quale è stata effettuata la consegna, della sua qualità e del luogo in cui è avvenuta la consegna stessa, gli eventuali motivi della mancata consegna e le notizie riguardanti la reperibilità del destinatario. La notifica a mezzo di servizio postale Oltre alla notificazione direttamente compiuta dall'ufficiale giudiziario, la legge prevede in generale la forma della notificazione a mezzo di servizio postale (art. 149); la notificazione in questo caso si perfeziona, per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario, e per il destinatario al momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell'atto. la legge 53/1994 prevede che l'avvocato munito di procura alle liti possa eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, in generale a mezzo del servizio postale, oppure direttamente nella notifica tra avvocati, cioè nel caso in cui il destinatario sia anch'esso un avvocato. La facoltà però raramente viene utilizzata, a causa delle numerose incombenze preventive che l'avvocato deve compiere. La notifica in mani proprie e la notifica presso residenza, dimora, domicilio L’art. 138, comma 1, prevede che l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione di regola mediante consegna della copia dell'atto nelle mani proprie del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se ciò non è possibile, ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale è addetto; nel caso in cui il destinatario rifiuti di ricevere la copia dell'atto, ciò deve essere annotato dall'ufficiale giudiziario, e la notificazione si considera ugualmente fatta in mani proprie. Se la notificazione in mani proprie non è possibile, ma è noto almeno uno dei luoghi di residenza, dimora o domicilio, l'ufficiale giudiziario, a norma dell’art. 139, procede alla consegna in detti luoghi; quando non è noto il comune di residenza del destinatario, la notificazione si fa nel comune di dimora, o in mancanza in quello di domicilio. Nel caso in cui il destinatario non venga trovato, la consegna può essere fatta a un familiare, o alla persona addetta ai lavori di casa, purché non minori di anni 14 o palesemente incapaci; eventualmente la copia dell'atto può anche essere consegnata al portiere dello stabile o a un vicino, i quali dovranno comunque sottoscrivere una ricevuta e l'ufficiale giudiziario darà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo raccomandata. Le procedure sostitutive in caso di irreperibilità o di ignoranza dell'indirizzo In caso di irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall'articolo precedente, l’art. 140 prevede che la notifica si compie attraverso una procedura sostitutiva, scandita in tre atti; l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa comunale dove la notifica deve eseguirsi, affigge poi avviso del deposito in comune, in busta chiusa e sigillata, sulla porta dell'abitazione o dell'ufficio del destinatario, infine dà notizia al destinatario per raccomandata dell'avvenuto deposito nella casa comunale. L’art. 143 stabilisce che, in caso di residenza dimora o domicilio sconosciuti, l'ufficiale giudiziario dovrà depositare l’atto nella casa comunale dell'ultima residenza conosciuta del destinatario; in 1 condizione che dalla legge non siano attribuite alla competenza di altro giudice; sulle cause di valore superiore è competente il tribunale. Quest'ultimo è altresì competente per le cause di valore indeterminabile, cioè per quelle cause che, pur non essendo attribuiti in ragione della materia, non consentono una effettiva e diretta applicazione del parametro monetario, perché insuscettibili di immediata quantificazione pecuniaria (es.: la domanda con cui si chiede di accertare la nullità di un marchio o la titolarità di un brevetto, la domanda di accertamento dell'appartenenza ad una associazione). Un caso peculiare di competenza mista, cioè di competenza per materia e per valore, è quello dell'art. 7 comma 2 secondo cui il giudice di pace è competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e natanti, purché il valore della controversia non superi i € 20.000. Regola fondamentale è che il valore, agli effetti della determinazione della competenza, si determina dalla domanda (art. 10); la domanda va considerata nel suo obiettivo petitum, senza alcuna preventiva indagine sulla fondatezza; se l'atto introduttivo contiene più domande contro il medesimo convenuto, esse si sommano tra loro e gli interessi scaduti, le spese e i danni anteriori alla proposizione si sommano col capitale. L'art. 14 detta criteri per la valutazione delle cause relative a somme di denaro e di quelle relative a beni mobili: la competenza si determina in base alla somma indicata in domanda, o al valore del bene mobile dichiarato dall'attore; occorre però distinguere le cause relative a somme di denaro da quelle relative a beni mobili; per le prime, se l'attore indica il valore della somma, ai fini della competenza non rileva l'eventuale contestazione di tale valore da parte del convenuto (sul valore deciderà poi in merito il giudice adito); diversamente per le cause relative a beni mobili, la determinazione del valore incide solo sulla competenza, non anche sul merito. Nella prima difesa, il convenuto può infatti contestare il valore dichiarato del bene mobile: in tal caso il giudice decide ai soli fini della competenza, in base a quel che risulta dagli atti e senza apposita istruzione (il giudice dovrà quindi valutare il valore del bene mobile ed eventualmente dichiararsi incompetente). In mancanza di indicazione del valore del bene mobile, o di dichiarazione del valore della somma, la causa si presume di competenza del giudice adito anche agli effetti del merito: ciò vuol dire che il valore della causa resta contenuto all'interno dei massimali della competenza attribuita al giudice. In caso di richiesta da parte di più soggetti, o contro più soggetti, dell'adempimento per quote di un'obbligazione, il valore della causa si determina dall'intera obbligazione (art. 11); per la determinazione della competenza sulle controversie immobiliari, l'art. 15 sembra imporre un calcolo convenzionale sulla base del valore catastale dell'immobile; in realtà la norma non ha più uno spazio applicativo perché il giudice di pace non ha competenze per valore in materia di diritti reali immobiliari, in quanto oggi l'unico giudice competente in materia immobiliare è il tribunale. Competenza per territorio I fori generali sono quelli che sono determinati in funzione di un criterio di localizzazione del convenuto, indipendentemente dal tipo di controversia sottoposta a giudizio; i fori speciali sono invece riservati dalla legge alla trattazione di specifiche controversie. I fori generali I fori generali sono quello delle persone fisiche (art. 18) e quello delle persone giuridiche (art. 19). A norma dell'art. 18, se la legge non dispone specificamente in modo diverso, è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora; all'ultimo comma si stabilisce che se il convenuto non ha residenza, nè domicilio, né dimora nello Stato o se la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede l'attore. L'art. 19 prevede che qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha la sede; è competente altresì il giudice del luogo dove la persona giuridica ha uno stabilimento o un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda (le società non dotate di personalità giuridica, le associazioni non riconosciute e i comitati hanno sede dove svolgono attività continuativa). I fori speciali Fori speciali sono i fori determinati in funzione del tipo di controversia sottoposta al giudizio. Così per le cause relative a diritti di obbligazione, l'art. 20 attribuisce competenza al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione dedotta in giudizio. L'art. 22, per le cause ereditarie, attribuisce competenza al tribunale del luogo dell'aperta successione. Le cause relative a delitti reali su beni immobili, quelle in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto d'azienda, quelle relative ad apposizione di termini e di osservanza delle distanze, sono devolute al tribunale del luogo dove è posto l'immobile o l'azienda (art. 21, comma 1). I fori speciali vengono distinti in fori facoltativi e fori esclusivi. I fori facoltativi sono detti così perché la loro scelta è lasciata alla volontà dell'attore; il caso esemplare è quello dell'art. 20 che consente all'attore di decidere se chiamare il convenuto davanti al suo foro generale, ovvero davanti al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione dedotta in giudizio. I fori esclusivi impongono invece all'attore di agire nello specifico foro determinato in funzione del tipo di causa, senza possibilità quindi di far ricorso al foro generale. Sono fori esclusivi i fori che la legge determina: • per le cause relative a diritti reali, • per le cause relative ad azioni possessorie, • per le cause ereditarie, • per le cause tra soci e condomini, • per le cause relative alle gestioni tutelari e patrimoniali, • per le cause nelle quali è parte una amministrazione dello Stato, • per le cause di opposizione all'esecuzione, • per il procedimento di esecuzione forzata. Altra distinzione rilevante è quella tra foro derogabile e foro inderogabile. Per derogabilità si intende infatti la possibilità che le parti scelgano convenzionalmente di sottoporre una determinata controversia alla competenza di un giudice diverso da quello del foro competente per legge. 1 L'art. 6 stabilisce che la competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi stabiliti dalla legge; il generale potere di derogare pattiziamente alla disciplina legale della competenza è attribuito alle parti dall’art. 28 nel campo della competenza territoriale. L’art. 28, dopo aver stabilito in linea di principio la derogabilità, si affretta a dichiarare assolutamente inderogabili i fori stabiliti: • per le cause previste nei numeri 1,2, 3,5 dell'art. 70 (casi di intervento obbligatorio in causa del pubblico ministero), • per il procedimento di esecuzione forzata, e il procedimento di opposizione alla stessa, • per i procedimenti cautelari, • per i procedimenti possessori, • per i procedimenti in camera di consiglio, • per ogni altro caso in cui l'inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge. Affinché sia valido, l'accordo per la deroga deve riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto (art. 29 comma 1). Rilevazione dell'incompetenza e pronuncia sulla questione di competenza Ai sensi dell'art. 38, tutti i tipi di incompetenza devono essere eccepiti dalla parte interessata, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L'eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice che la parte ritiene competente. L'incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile sono rilevabili d'ufficio non oltre l'udienza di prima comparizione. L’art. 38 aggiunge che le questioni sollevate con l'eccezione di incompetenza sono decise, in base a quello che risulta dagli atti e, quando si è reso necessario dall'eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni. La decisione sulla sola competenza è resa in forma di ordinanza; invece il codice prevedeva la forma della sentenza, la quale resta in vita solo per il caso in cui il giudice decide contestualmente sulla competenza e sul merito (il che accade quando rigetta l'eccezione di competenza e decide il merito). Il regolamento di competenza Contro l'ordinanza che si limita a pronunciare sulla questione di competenza, la sola impugnazione ammessa è il regolamento di competenza, cioè un rimedio diretto alla corte di cassazione affinché essa regoli la competenza; il regolamento di competenza è un vero e proprio mezzo di impugnazione, e come tale esso è classificato dall'art. 323. Di fronte a provvedimenti che hanno ad esclusivo oggetto questioni di competenza, il regolamento è l'unico mezzo di impugnazione, sicché il codice lo definisce necessario (art. 42). Può accadere però che, nello stesso provvedimento il giudice abbia contestualmente deciso della competenza e del merito della causa; ciò non è decreto da emettere entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo, la data dell'udienza per un periodo non superiore a 45 giorni; in tal caso il cancelliere comunica alle parti costituite la data della nuova udienza. Poiché l'attore, nell'indicare nell'atto di citazione la data della prima udienza, è sottoposto a un termine minimo ma non a un termine massimo, può differire nel tempo la data del giudizio; questo accade spesso quando l'attore non è sicuro di avere ragione e in questo modo intende mettere il convenuto alle strette, sperando di ottenere una soluzione pacifica. A rimedio di questa situazione, senz'altro spiacevole per il convenuto, egli può richiedere al giudice l'anticipazione della prima udienza, mantenendo però salvi i termini minimi previsti per i casi di notificazione in Italia e all'estero, quindi rispettivamente di 90 e 150 giorni. Capitolo 15 LE NULLITA’ DELLA CITAZIONE Nullità afferenti alla vocatio in ius Come tutti gli atti giuridici, anche l'atto di citazione può essere viziato; l'articolo 164 si occupa di elencare queste possibilità e di regolare la loro eventuale sanatoria. Appartengono alle nullità riguardante la vocatio in ius: 1. l'omissione o l'assoluta incertezza dell'organo giudiziario davanti a cui si chiede tutela; 2. l'omissione o l'assoluta incertezza delle identità delle parti; 3. la mancata indicazione della data dell'udienza di comparizione; 4. l'assegnazione al contenuto di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge, 5. la mancanza dell'avvertimento che la costituzione tardiva comporta la decadenza di cui all’art. 167. Tali vizi sono sanati dalla costituzione del convenuto; se il convenuto non si è costituito il giudice ha il dovere invece di rilevare la nullità e di disporre d'ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio; se la rinnovazione non avviene entro il termine, il processo si estingue; mentre la tempestiva rinnovazione della citazione sana i vizi ex tunc, quindi gli effetti della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione (art. 164, comma 2). La rinnovazione ha quindi effetto retroattivo, come effetto retroattivo possiede la costituzione spontanea del convenuto; tuttavia, nell'ipotesi in cui la nullità è collegata dalla legge all'attentato al diritto del convenuto di difendersi adeguatamente, questi deve essere messi in condizione di recuperare effettivamente i tempi della propria difesa, per questo ai sensi dell’art. 164, comma 3, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini. Nullità afferenti alla editio actionis L’art. 164, comma 4, prescrive la nullità della citazione se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto della domanda (il petitum) o se manca l'esposizione dei fatti che portino a individuare la causa petendi. La presenza spontanea del convenuto non può sanare la nullità in quanto il convenuto stesso non può in questo caso sapere da cosa deve difendersi e né tanto meno 1 il giudice stesso può sapere su cosa deve pronunciarsi. Quindi il comma 6 dell’art. 164 stabilisce che il giudice, rilevato d'ufficio questo tipo di nullità, se il convenuto non si è costituito, fisserà un termine perentorio per la rinnovazione della citazione, se invece si è costituito il convenuto, il termine sarà fissato per integrare la domanda; quindi in conseguenza di rinnovazione, l'attore dovrà fissare una nuova data per la prima udienza, in caso di integrazione sarà il giudice a stabilire direttamente la nuova udienza. In questo caso la sanatoria non è retroattiva, infatti il comma 6 stabilisce che restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione; in altre parole, se, dopo la notifica della citazione nulla e prima della sanatoria della nullità, fosse avvenuta la scadenza di un termine di decadenza o di prescrizione per l'esercizio del diritto fatto valere dall'attore, né la decadenza né la prescrizione sarebbero evitate dalla successiva rinnovazione. Capitolo 16 LA DIFESA DEL CONVENUTO Costituzione del convenuto Il convenuto si costituisce a mezzo di procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura i documenti che offre in comunicazione. La costituzione è tempestiva se avviene almeno 20 giorni prima della data fissata per la prima udienza nell'atto di citazione, oppure almeno 20 giorni prima dell'udienza fissata a norma dell’art. 168-bis comma 5. La comparsa di risposta Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti offerti in comunicazione, e formulare le conclusioni (art. 167, comma 1); il comma 2 aggiunge che egli a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande di convenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di ufficio; il terzo comma aggiunge che il convenuto, se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell'art. 269. Quindi elementi facoltativi della comparsa di risposta sono: la proposizione delle eccezioni di rito e di merito rilevabile anche d'ufficio, e l'indicazione dei mezzi di prova di cui il contenuto intende avvalersi, compresi i documenti che offre in comunicazione. Mere difese ed eccezioni Il convenuto, di fronte alla domanda dell'attore, può rifiutarsi di costituirsi, venendo in questo caso processato in contumacia, oppure può anche costituirsi e aderire a quanto affermato dall'attore; ma ovviamente il convenuto cercherà nella maggior parte dei casi di contrastare la posizione dell'attore. Una prima forma di difesa è la contestazione dei presupposti o delle modalità del processo che lo vede convenuto; in tal modo il convenuto solleva la questione della violazione della legge che presiede al corretto procedere e, quindi, introduce una eccezione processuale, o eccezione di rito e mira ad una pronuncia sulla procedura che impedisca l'accoglimento della domanda ma senza affrontare il merito della controversia. L'altra possibile difesa riguarda il merito della controversia, cioè il diritto dedotto dall'attore, e la sussistenza degli obblighi e delle soggezioni affermate nei suoi confronti; in tal modo egli domanda al giudice un accertamento negativo, rispetto a quanto chiesto in positivo dall'attore. Sul piano del merito, la forma più elementare di contestazione è la mera difesa, cioè la semplice contraddizione delle altrui affermazioni. Il convenuto, può non limitarsi a negare la presenza dei presupposti richiesti dalla legge per l'accoglimento della domanda, in quanto può, a sua volta, introdurre nel processo fatti diversi da quelli dedotti dall'attore: di fronte ai fatti costitutivi, a fondamento della domanda, il convenuto potrà dedurre fatti idonei a valere da fatti estintivi del diritto fatto valere, o modificativi di esso, o ancora impeditivi dell'accoglimento della pretesa, sollevando quindi un'eccezione di merito. La domanda riconvenzionale Il convenuto, invece di limitarsi a contrapporre eccezioni all'azione esercitata contro di lui, ampliando l'oggetto sul quale dovrà pronunciarsi il giudice, può sfruttare il processo per formulare delle contro-domande, può cioè chiedere una pronuncia a proprio favore su un diritto non ricompreso nell'ambito del giudizio segnato dalla domanda dell'attore, un diritto che, in astratto, egli avrebbe potuto tutelare in via di azione autonoma, ma che date le circostanze può essere giudicato nel processo in corso. Le eccezioni processuali Le eccezioni processuali si dividono in due categorie: formali ed extraformali. Quando ci troviamo di fronte ad una nullità formale dell'atto processuale, la disciplina è quella prevista dall’art. 157: solo la parte nel cui interesse è posto un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso, la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa né da quella che vi ha rinunciato tacitamente; la regola, quindi, è quella della rilevabilità solo a istanza di parte della nullità formale di un atto del processo. Le nullità extraformali sono quelle che denunciano la mancanza, l'incompletezza o il vizio di qualcosa strettamente necessario per la corretta instaurazione del processo, quindi quelle che riguardano i presupposti processuali. In linea di principio possiamo dire che anche qui vige la rilevabilità d'ufficio: il giudice tendenzialmente deve rilevare la carenza di un presupposto processuale. Capitolo 17 IL GIUDICE ISTRUTTORE Il giudice istruttore e i suoi poteri Il giudice istruttore designato è investito di tutta l'istruzione della causa, secondo il principio di immutabilità previsto dall'articolo 174. Esso fissa le udienze successive ed i termini entro i quali le parti devono compiere gli atti processuali. Nei casi in cui il tribunale decide in formazione collegiale, i poteri del giudice istruttore sono limitati alla fase istruttoria, compiuta la quale il 1 convenuto aveva potuto replicare sollevando le proprie eccezioni alla domanda principale; l'attore, a sua volta, di fronte alla riconvenzionale potrà proporre una riconvenzionale della riconvenzionale (reconventio reconventionis); la sede per la reconventio reconventionis è proprio la prima udienza di trattazione, in cui l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono la conseguenza della domanda riconvenzionale. Inoltre, l'attore può essere autorizzato a chiamare un terzo del processo, ai sensi degli artt. 106 e 269, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le novità in dipendenti dallo svolgimento dialettico del contraddittorio Le parti possono inoltre precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, potendo quindi in ogni momento aggiustare le loro posizioni. Quel che è vietato è la “mutatio libelli”, la trasformazione cioè dell'azione esercitata in giudizio. Per precisazione si intende l'attività con cui si rende esplicito ciò che era implicito nelle difese; per modificazione si intende l'attività di adattamento della linea difensiva ai fatti nuovi o ai nuovi argomenti addotti dalla controparte. Precisando ci si limita a svolgere qualcosa di implicitamente contenuti in quello che si era detto fino a quel momento; modificando invece si mira ad ottenere lo stesso risultato perseguito, con la domanda o con l'eccezione, ma individuando una via diversa per raggiungerlo (Es.: nell'atto di citazione ho asserito che il diritto sul bene mi deriva da acquisto a titolo ereditario, ora modifico il titolo del diritto in una intervenuta usucapione). I termini per le memorie Il comma 6 dell’art. 183 regola la possibilità di concedere un termine alle parti per svolgere le attività di integrazione della materia del contendere in un momento successivo: se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini: • ulteriori 30 giorni per depositare memoria relativa alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte; • ulteriori 30 giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande ed eccezioni medesime e per indicare mezzi di prova e produzioni documentali; • ulteriori 20 giorni per l'indicazione di prova contraria. Salva l'applicazione dell’art. 187, il giudice, secondo il comma 7 dell’art. 183, provvede sulle richieste istruttorie fissando l'udienza di cui all’art. 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti; se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro 30 giorni. Con tale provvedimento la trattazione della causa cambia oggetto, passando dalla fase dell'istruzione preliminare (che serve per determinare nella maniera più compiuta il tema della decisione) alla fase della istruzione probatoria. Nel caso in cui l'ordinanza disponga anche l'ammissione di mezzi di prova d'ufficio, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi, nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere ai sensi del settimo comma. Si vuole assicurare in questo modo il contraddittorio sulle prove ammesse in via ufficiosa. Capitolo 19 LE UDIENZE ISTRUTTORIE E L’ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA Ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova Ai sensi dell’art. 183, il giudice deve formulare il giudizio preliminare rispetto all'attività probatoria, valutando due cose: che il mezzo di prova richiesto sia ammissibile e che il fatto da provare sia rilevante; esprimere un giudizio di ammissibilità significa valutare se l'ordinamento consente di utilizzare lo specifico mezzo di prova dedotto. Riguardo la rilevanza, più che alla prova in sé, cioè la possibilità giuridica del mezzo di prova, il giudizio di rilevanza attiene al fatto oggetto della prova; nell'ammettere la prova, il giudice deve controllare che il fatto che si intende provare abbia effettiva influenza sulla decisione della causa. La verifica dei requisiti è importante per le prove costituende, cioè per quelle procedure probatorie che debbono espletarsi al processo; è invece meno significativo per le prove costituite, cioè precostituite prima e fuori dal processo, quali le prove documentali. Quando si allegano documenti del processo, di fatto si riduce ai minimi termini l'operazione di ammissibilità e rilevanza della prova: il buon senso dice infatti che si spenderebbero più energie per un esame anticipato dei documenti intesi a verificare se essi sono effettivamente ammissibili e rilevanti, di quelle che si spenderebbero per accettare la loro allegazione; si verificherà quindi al momento del loro impiego se si rispettano le regole di ammissibilità e rilevanza. Il giudice istruttore procede a giudicare dell’ammissibilità e rilevanza della prova in vista della fissazione dell'udienza per l'assunzione delle prove, qualora non ritenga che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova (art. 187); può infatti capitare che gli eventi storici accaduti e dedotti in giudizio siano incontestabili; quando i fatti in causa sono pacifici non c'è evidentemente bisogno di istruzione probatoria; in questo caso, a norma dell'art. 187, il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio. Per prova contraria si intende la prova dell'inesistenza dello stesso fatto che la controparte vuole provare positivamente (o, viceversa, la prova positiva del fatto di cui la controparte ha chiesto di provare in negativo). Se l'attore vuole provare che un determinato fatto è accaduto, e chiede di disporsi la prova testimoniale, esperire prova contraria significa poter chiamare un altro testimone per sentir dire che quello stesso fatto non è accaduto. Poteri istruttori ufficiosi La prova può essere direttamente disposta dal giudice, senza che la sua iniziativa dipenda da istanze di parte (prove ammissibili d'ufficio). L’art. 115 dispone che spetta alle parti proporre le prove che vanno poste a fondamento della decisione; ma lo stesso comma 1 fa salvi i casi in cui la legge preveda specificamente che il giudice possa d'ufficio individuare, ammettere ed esperire 1 mezzi probatori. I casi di disponibilità, e quindi di ammissione, d'ufficio della prova non sono pochi; i più importanti sono: 1. in materia di prova testimoniale, il potere del giudice di disporre la prova per testi al di fuori dell'iniziativa di parte; l'assunzione di nuovi testimoni se alcuno dei testimoni si riferisce per la conoscenza di fatti ad altre persone; la rinnovazione dell'esame testimoniale; 2. l'ordine di ispezione di persone e cose (art. 118); 3. la nomina del consulente tecnico (art. 191); 4. la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213); 5. il differimento del giuramento suppletorio (art. 240); 6. l'esibizione dei libri, scritture contabili, lettere, telegrammi e fatture riguardanti imprese soggette a registrazione (art. 2711 c.c.); 7. la richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali nel rito del lavoro (art. 421, comma 2). Anche quando si parla di prova d’ufficio, questa non riguarda l'individuazione del fatto da provare; l'individuazione del fatto da provare spetta sempre alla parte, la fonte della prova può autonomamente essere individuata ed introdotta dal giudice. Il comma 8 dell'art. 183 prevede che nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova, con l'ordinanza di cui al settimo comma, ciascuna parte può dedurre, entro il termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi, nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere ai sensi del settimo comma. La ratio è che di fronte all'esercizio del potere di disporre d'ufficio mezzi di prova, non si può pretendere che le parti debbano restare inerti; esse devono invece essere messe in condizione di proporre loro volta mezzi di prova ad hoc la cui ragion d'essere sta proprio nell'ammissione del mezzo di prova d’ufficio. La consulenza tecnica Una fondamentale attività istruttoria a cui il giudice può ricorrere di sua iniziativa è la consulenza tecnica (C.T.U.), che è il particolare strumento istruttorio deputato a fornire le valutazioni tecnico-scientifiche eventualmente richieste per la decisione; si tratta delle valutazioni che il giudice non è in grado di compiere perché non possiede le competenze tecniche proprie della materia. La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Il consulente tecnico è inquadrato dal codice tra gli ausiliari del giudice. L’art. 61 dispone che quando è necessario, il giudice può farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di processo civile, l'espressione onere della prova assume il significato fondamentale di regola di giudizio per il fatto non provato. Alla distribuzione dell'onere fra le parti presiede l'art. 2697 c.c.: “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”. La prova dei fatti che costituiscono il fondamento del diritto fatto valere, fatti costitutivi, spetta a colui che fa valere il diritto in giudizio. Il comma 2 dell’art. 2697 c.c. ci dice che introdotto in via di eccezione un fatto impeditivo (estintivo o modificativo), la sua mancata prova comporta il rigetto dell'eccezione stessa. L'effettività dell'onere dipende anche dalla posizione in concreto assunta dall'avversario rispetto al fatto da provare; se l'esistenza del fatto da provare è contestata dall'avversario, l'onere diventa attuale; se invece il fatto dedotto non viene contestato l'onere non si concretizza: il fatto non contestato si intende come riconosciuto, e la sua mancata prova non nuoce all’onerato. L’art. 115, al comma 1, alla previsione per cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, aggiunge “nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”. Le inversioni dell'onere probatorio I criteri di ripartizione dell'onere segnati dall’art. 2697 possono essere derogati da disposizioni speciali di legge o, entro certi limiti, dall'accordo delle parti. L’art. 2698 stabilisce la nullità dei patti con i quali è invertito ovvero è modificato l'onere della prova quando: • si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre; • quando l'inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Inversione per presunzione legale Talora la legge prevede che non debba essere data prova di un dato elemento della fattispecie legale: il fatto è considerato infatti sussistente fino a prova contraria; ne segue che, trattandosi di fatto costitutivo, l'attore è sgravato dell'onere di dare la prova; se invece si tratta di fatto impeditivo, estintivo o modificativo, è il convenuto che non soggiace all'onere di provare (es. nel settore delle obbligazioni contrattuali, al creditore che agisce contro il debitore inadempiente basta provare l'inadempimento per ottenere affermazione della responsabilità del debitore, mentre non deve provare che l'inadempimento è stato colposo, pur potendo la responsabilità del debitore discendere solo da inadempimento colposo). L’art. 2728, al comma 1, stabilisce che le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite; in questi casi è l'altra parte a doverne sopportare l'onere della prova. La presunzione legale che, permettendo la prova contraria, si risolve in una inversione dell'onere della prova, prende il nome di presunzione relativa; con tale nome si distingue questa da quei casi in cui la presunzione legale non ammette prova contraria, non essendo consentita dalla legge la prova liberatoria rispetto alla fissazione legale di un elemento di fatto. Quando questo accade si parla di presunzione assoluta. Il meccanismo presuntivo 1 A norma dell’art. 2727 c.c., le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato. L'impiego del ragionamento di tipo presuntivo è consentito anche al giudice; sotto il nome di presunzioni semplici, l’art. 2729 c.c. regola infatti il fenomeno delle presunzioni giudiziali: “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”. Capitolo 21 I MEZZI DI PROVA La prova testimoniale Si dice testimonianza la dichiarazione che, resa in giudizio da un terzo (teste) estraneo alla controversia, dà notizia dell'esistenza o della conformazione dei fatti rilevanti per la decisione della causa; la dichiarazione del testimone ha lo scopo di fornire al giudice gli elementi fattuali da utilizzare per il giudizio, restandone esclusi i giudizi logico-ricostruttivi del teste, le sue opinioni sulla portata degli eventi e le relative valutazioni giuridiche. Il risultato della testimonianza fornisce sempre un dato sottoposto al libero apprezzamento del giudice, a cui è rimessa tanto la valutazione del grado di attendibilità del teste, quanto la compatibilità della dichiarazione con il complesso dei dati istruttori. L’art. 2722 c.c. manifesta il disfavore della legge alla prova per testimoni intesa a controbattere il valore probatorio di un documento; la testimonianza è inammissibile se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, quando si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea; la norma dà corpo al dato di comune esperienza che, di fronte ad una stipulazione in forma scritta, è poco plausibile che le parti non abbiano messo per iscritto tutte le loro manifestazioni di volontà, lasciando alla forma orale pattuizioni di contenuto aggiuntivo o addirittura contrastanti con quanto risultante dal documento. Una minore implausibilità caratterizza invece gli accordi verbali, aggiunti o contrari, successivi alla stipulazione scritta dei contratti, sicché l’art. 2723 c.c. lascia all'autorità giudiziaria il potere di consentire la prova testimoniale previo giudizio di verosimiglianza (“soltanto se appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali”), sempre avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza. La prova testimoniale è però ammessa in ogni caso in tre ipotesi previste dall’art. 2724 c.c.: 1. quando vi è un principio di prova per iscritto, che è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta domanda, che, pur non essendo prova del fatto, lasci apparire verosimile il fatto allegato; 2. quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3. quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. La prova testimoniale viene dedotta dalla parte mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (art. 244). La esclusiva riserva alla parte della deduzione della prova, attualmente è prevista solo nel processo di fronte a giudice collegiale, poiché l'art. 281-ter ha dato al giudice monocratico il potere di disporre d'ufficio la testimonianza, con il correlato potere di formularne capitoli, quando la notizia dell'esistenza di un teste derivi dalla esposizione dei fatti delle parti. Per poter essere sentito come teste, il terzo deve essere del tutto indifferente all'esito del giudizio, infatti vengono eliminate tutte le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246); inoltre l'ordinanza che ammette la prova può ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti. Su richiesta della parte interessata, i testi vengono invitati a comparire per rendere la loro dichiarazione (intimazione ai testimoni, art. 250). L'ufficiale giudiziario intima poi ai testimoni ammessi dal giudice istruttore di comparire nel luogo, nel giorno e nell'ora fissati, indicando loro il giudice che assume la prova e la causa nella quale devono essere sentiti; con la legge di riforma 80/2005 si è introdotta la possibilità che l'intimazione al teste possa essere effettuata anche dal difensore attraverso l'invio di copia dell’atto a mezzo di fax o posta elettronica. All'atto dell'assunzione della testimonianza i testi vengono identificati (art. 252), e devono dichiarare il loro eventuale interesse nella causa. A questo punto i testi prestano giuramento: essi sono esaminati singolarmente e separatamente (cioè senza che l'uno possa ascoltare gli altri) e sono ammoniti dal giudice “sull’obbligo di dire la verità e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false e reticenti” (art. 251). Il giudice istruttore interroga il testimone sui fatti sui quali è chiamato a deporre, ma può anche rivolgergli, d'ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire fatti stessi; le risposte devono provenire personalmente dal teste che non può servirsi di scritti personali. Se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice istruttore, su istanza di parte o d'ufficio, può disporre che essi siano messi a confronto (art. 254). Ai sensi dell'art. 257, comma 1, se alcuno dei testi si riferisce, per la conoscenza di fatti, ad altre persone, il giudice può disporre d'ufficio che esse siano chiamate a deporre; si tratta del caso della testimonianza de auditu o de relato. È vietato, a norma dell'art. 253 comma 2, alle parti e al pubblico ministero di interrogare direttamente i testi. La mancata comparizione del teste intimato consente di ordinare una nuova intimazione, ma il giudice può disporre l'accompagnamento forzato del teste all'udienza stessa o ad altra successiva (art. 255 comma 1); con la medesima ordinanza il giudice, in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo, può condannarlo ad una pena pecuniaria tra i 100 e i € 1000; se invece il testimone compare e rifiuta di giurare, o rifiuta di deporre senza giustificato motivo, ovvero se vi è fondato sospetto che egli abbia detto la verità, o ancora sia stato reticente, il giudice istruttore lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale (art. 256). L’art. 257-bis ha introdotto nel processo italiano una forma di testimonianza per iscritto, l'ammissibilità della quale è subordinata all'accordo delle parti, ed è disposta dal giudice tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. Il teste rende la deposizione rispondendo separatamente ad ogni quesito; egli deve compilare il modello di testimonianza in ogni sua parte precisando a quali quesiti non è in grado di rispondere e indicandone la ragione. la deposizione sottoscritta dal testimone con apposizione di propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza; il documento viene spedito con raccomandata o consegnato in cancelleria; la mancata consegna o spedizione del termine fissato dal giudice può dar luogo 1 forza di prova legale del giuramento resta tale anche in caso di successivo accertamento della sua falsità; l'art. 2738 prosegue stabilendo che l'altra parte non può chiedere la revocazione nella sentenza qualora il giuramento sia stato dichiarato falso. Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque Stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale, o con atto sottoscritto dalla parte (art. 233); esso deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro specifico. Come tutte le prove costituende, la prestazione del giuramento è assoggettata ad apposito provvedimento ammissivo del giudice. Anche l'ordinanza ammissiva del giuramento decisorio fa parte dei provvedimenti che vanno notificati personalmente al contumace. La parte deferente può revocare il giuramento fino al momento in cui la controparte abbia dichiarato di essere pronto a prestarlo; un'ipotesi particolare di revocabilità del giuramento è quella in cui il giudice modifica la formula proposta dal deferente (art. 236): in tal caso questi può revocarlo, e ciò nonostante la controparte si sia dichiarata pronta a giurare. La parte a cui sia stato deferito il giuramento decisorio può: 1. asseverare con giuramento la formula deferitagli (la parte giura e vince totalmente o parzialmente la causa); 2. rifiutarsi di giurare (la parte non giura e vince la controparte che ha deferito il giuramento: l’art. 239: la parte alla quale il giuramento decisorio è deferito, che non si presenta senza giustificato motivo all'udienza fissata, o, comparendo rifiuta di prestarlo, soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso); 3. asseverare con giuramento una formula diversa da quella deferitagli (la parte giura su un altro oggetto e perde); 4. riferire il giuramento (la parte a cui è deferito il giuramento decisorio, finché non abbia dichiarato di essere pronto a giurare, può riferirlo all'avversario nei limiti fissati dal codice civile (art. 234). Il giuramento suppletorio Il giuramento suppletorio è una tecnica di decisione della causa riservata al giudice in sede di valutazione delle risultanze probatorie: un giudice in dubbio sulla prova del fatto decisivo può rimettere alla parte il potere e la responsabilità di scegliere deferendole giuramento. La parte invitata a giurare assume su di sé tutte le formalità e le responsabilità connesse all'istituto: prima fra tutte la responsabilità, anche penale, del fatto giuramento con l'obbligazione in tal caso di risarcire i danni. A differenza del giuramento decisorio, il suppletorio non è riferibile alla controparte: la parte a cui è deferito il giuramento non può liberarsi dal proprio impegno investendo la controparte del compito di giurare o soccombere. Il giuramento estimatorio è deferito dal giudice al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti. se la stima del valore dell'oggetto della domanda è obiettivamente impossibile o molto difficile, la perplessità del giudice può essere superata dalla remissione alla parte di una dichiarazione giurata, con gli stessi effetti del giuramento suppletorio. L’atto pubblico Per atto pubblico l’art. 2699 c.c. intende il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato; l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in Sua presenza o da lui compiuti. la pubblica fede che la legge ricollega all'atto pubblico significa, dal punto di vista processuale, che l'atto pubblico è prova legale rispetto: 1. alla provenienza del documento; 2. alla data e al luogo della redazione dell'atto; 3. all'identità delle parti presenti alla redazione dell'atto; 4. alle dichiarazioni rese dalle parti; 5. a tutti gli altri fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale e come tali accertati nell'atto. Tutti i dati coperti dalla pubblica fede fanno stato fino a querela di falso; ciò significa che essi non possono venir contestati se non attraverso una formale accusa di falsità, in mancanza della quale essi si impongono al giudice senza consentire alcuna prova contraria. La pubblica fede non copre le dichiarazioni delle parti nel senso di garantirne la veridicità; essa riguarda solo il fatto che, in una certa data, un certo luogo, davanti un certo notaio, le parti hanno fatto quelle dichiarazioni, come tali registrate dal notaio. La scrittura privata Con scrittura privata si indica il documento sottoscritto dal soggetto privato e recante dichiarazioni imputabili al sottoscrittore proprio in virtù della sua sottoscrizione (documento autografo). Secondo l’art. 2702 c.c., la scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta. Ad essere pienamente provata, fino a querela di falso, è solo la provenienza della dichiarazione dal sottoscrittore, non invece l’esistenza o l’attualità dell’effetto giuridico conseguente alla dichiarazione stessa: se la dichiarazione ha ad oggetto l’assunzione di una obbligazione, ad essere provato è il fatto che il sottoscrittore ha reso quella dichiarazione, non l’obbligazione in sé che potrebbe non essere affatto sorta perché, ad esempio, il dichiarante era incapace. La firma si ha per riconosciuta: 1. se essa era stata originariamente autenticata come tale da notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò abilitato; 1 2. se esplicitamente Tizio la riconosce come sua, o l’ha in precedenza riconosciuta come tale; 3. se egli non la disconosce, attraverso sua formale negazione, o attraverso dichiarazione di non conoscerla resa nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla sua produzione in giudizio; 4. se Tizio è stato dichiarato contumace. Quando la sottoscrizione non è legalmente attribuibile alla parte contro cui la scrittura è prodotta, questa non avrà bisogno di esperire alcuna querela di falso, e spetterà invece la controparte di mostrare la provenienza la scrittura. Ora, la sottoscrizione non si considera legalmente attribuita nell'ipotesi in cui essa sia stata formalmente negata: secondo l’art. 214 comma 1, colui contro cui la scrittura viene prodotta è infatti tenuto a negare formalmente la propria sottoscrizione; quando questo accade, la parte che intende valersi della scrittura, se vuole ancora servirsene deve chiederne la verificazione (art. 216 comma 1). ESEMPIO: poiché un documento che presenta la mia sottoscrizione mi attribuisce la dichiarazione in esso contenuta, volendo negare la mia paternità della dichiarazione: • se ritengo che la sottoscrizione sia apocrifa, mi basta negare che essa provenga da me alla prima occasione processuale utile; in tal modo costringo la mia controparte a fare istanza di verificazione della autografia della sottoscrizione, se vuole servirsi del documento; • se la sottoscrizione è effettivamente ed innegabilmente mia, posso contestare la corrispondenza della dichiarazione alla sottoscrizione, proponendo querela di falso. La verificazione della scrittura è un procedimento incidentale che si inserisce all'interno del procedimento di merito in cui è stata prodotta la scrittura di cui la parte intende servirsi nonostante il disconoscimento operato dal preteso sottoscrittore. La parte che intende valersene deve infatti chiedere la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione (art. 216). Il secondo comma dell'articolo prevede che l'istanza per la verificazione della scrittura può anche proporsi in via principale con citazione; in questo caso la parte deve dimostrare l'esistenza di uno specifico interesse alla verificazione; se comunque il convenuto riconoscerà scrittura, le spese sono poste a carico dell'attore. La verificazione è basata sul meccanismo della comparazione della sottoscrizione disconosciuta con altre scritture del medesimo soggetto. Il giudice di regola nomina un consulente tecnico e determina le scritture che debbono servire da comparazione; in mancanza, il giudice istruttore può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura, anche alla presenza del consulente tecnico. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta. La querela di falso provvedimenti di merito, e dall'altro ha il potere di costituirsi ancora in seguito, ma finché ciò non avviene non può interloquire nello svolgimento del processo. Il contumace non subisce alcuna presunzione di torto: se contumace è il convenuto, l'attore resta infatti onerato della prova dei fatti costitutivi; si suole parlare di tacita contestazione (ficta contestatio), negandosi che nella contumacia del convenuto si possa vedere una tacita ammissione della ragione avversaria (ficta confessio). Da un lato bisogna assicurare che la contumacia di una parte non vada a detrimento della parte che si sia costituita; dall'altro bisogna salvaguardare i diritti del contumace. L’art. 292 prescrive che certi atti del processo devono essere portati a conoscenza del contumace; innanzitutto tra questi troviamo gli atti che modificano la materia del contendere; pertanto l'art. 292 prescrive che le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate personalmente al contumace nei termini che il giudice istruttore fissa con ordinanza. Gli altri atti che devono essere portati a conoscenza del contumace sono gli atti che creano oneri in capo al destinatario, in quanto impongono di prendere posizione sul loro contenuto sotto pena di subire effetti negativi; tali atti devono essere notificati al contumace perché questi deve essere in condizione di reagire, altrimenti subirebbe gli effetti ad essi ricollegati senza saperne nulla; così lo stesso articolo 292 dice che deve essere notificata personalmente al contumace l'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento. L’art. 293 prevede che la parte dichiarata contumace possa costituirsi in ogni momento del procedimento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni; la costituzione può avvenire mediante deposito di una comparsa, della procura e dei documenti in cancelleria o mediante comparizione all'udienza; in ogni caso il contumace che si costituisce può disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice istruttore, le scritture contro di lui prodotte. Una rimessione in termini del contumace involontario che si costituisce è prevista dall'art. 294, secondo cui egli può chiedere di essere ammesso a compiere attività ormai precluse se dimostra che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile. Capitolo 23 LE ORDINANZE ANTICIPATORIE Le anticipazioni di tutela nel processo Con il termine anticipazione si intende la possibilità di concedere e, per l'avente diritto, di ottenere subito, l'utilità che fisiologicamente si dovrebbe avere al termine del processo. Se il processo verte sul pagamento di somme e la debenza di tali somme non è contestata, tanto vale che si abbia una condanna immediata dal pagamento del richiesto; poi il processo potrà andar avanti per tutto il resto, ma intanto è opportuno che si abbia una condanna immediata del pagamento delle somme non contestate (art. 186-bis). Quando vi è prova scritta del diritto ad una prestazione al pagamento di somma di denaro ovvero la consegna di un bene mobile, poiché esiste già nel sistema un meccanismo per cui con tale prova si può ottenere, subito e inaudita altera parte, la condanna al pagamento o alla consegna di cose (decreto ingiuntivo), chi inizia un processo ordinario di cognizione provvisto di questa prova scritta, potrà ottenere lo stesso effetto del decreto ingiuntivo, cioè un provvedimento che immediatamente condanni a pagare o a consegnare una cosa determinata (art. 186-ter). Se la fase istruttoria del processo si è già svolta e, all'esito di questa, 1 risulta provato il diritto di credito ovvero provato un obbligo di restituzione di una cosa mobile o immobile, il giudice istruttore, invece di seguire tutto l'iter normale, può immediatamente emettere una pronuncia di condanna su istanza di parte al pagamento, alla consegna o al rilascio di quella cosa (art. 186- quater). La legge offre quindi la possibilità di una condanna immediata, sulla base della non contestazione, ovvero sulla base di una prova scritta, ovvero ancora in presenza di risultati istruttori di facile decifrazione, attraverso sub- procedimenti conclusi da condanne nella forma dell'ordinanza. L'ordinanza per il pagamento di somme non contestate L’art. 186-bis recita: “su istanza di parte il giudice istruttore può disporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite; se l'istanza è proposta fuori dall'udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione; l'ordinanza costituisce titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo; l'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli articoli 177 primo e secondo comma, e 178 primo comma.”. Quando si parla di parti costituite, ovviamente la norma esclude che la contumacia valga come non contestazione. Affidando il carattere di esecutività all'ordinanza, vuol dire che la pronuncia di condanna è anche immediatamente efficace nel senso che è automaticamente e direttamente spendibile in caso di mancato adempimento. Ai sensi del comma 2, l'ordinanza conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo; questa precisazione è l'esatto opposto della regola sancita dall'articolo 310 secondo comma, secondo cui le ordinanze emesse nel corso del processo non sopravvivono all'estinzione del processo. Il legislatore ha considerato che le anticipatorie sono ordinanze non riconducibili alla disciplina generale dell’ordinanza istruttoria. Tuttavia l'ordinanza anticipatoria resta soggetta, per tutto il corso il processo, alla disciplina delle ordinanze revocabili degli articoli 177 e 178. Capitolo 24 L’ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA DELL’ISTRUZIONE Conclusa l'istruttoria, il giudice può emettere un'ordinanza di condanna a pagare, consegnare o rilasciare, se i risultati istruttori sono tanto evidenti da consentire senza indugio questi effetti. Il primo comma dell'art. 186-quater recita: “esaurita l'istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova; con un'ordinanza, il giudice provvede sulle spese processuali”. Quest'ordinanza, come quella prevista dall'articolo 186-bis, è titolo esecutivo ed è peraltro revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Una volta esaurita l'istruzione, il giudice (art. 188) rimette le parti al collegio della decisione a norma dell'articolo seguente; ai sensi degli articolo 189 (se si tratta di causa a decisione collegiale) e 190 (se si tratta di causa a decisione monocratica) egli invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni. Segue la normale fase decisoria con lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. A questo punto la causa è, di fatto e di diritto, passata in decisione, cioè diventata concretamente decidibile e verrà decisa quando il giudice depositerà la sentenza in cancelleria. Nell'ipotesi prevista dall’art. 186-quater, appare possibile evitare la fase della decisione perché la parte che ritiene chiaro il risultato istruttorio a proprio favore può chiedere al giudice di decidere immediatamente nella forma semplificata dell'ordinanza prevista; ciò è possibile quando si disputa del pagamento di somme di denaro, oppure dell'obbligo di restituire un bene mobile determinato (consegna) o un immobile (rilascio). L'ordinanza è concedibile solo su istanza di parte e il giudice non può pronunciarla d'ufficio. Se appare palese che la parte che ha chiesto l'ordinanza non ne ha diritto, il giudice potrà semplicemente astenersi dal pronunciare il provvedimento e il processo proseguirà automaticamente verso la sua conclusione. Solo se ritiene l'istanza seria e opportuno il suo accoglimento, il giudice deve provocare il contraddittorio in funzione di quella che sarà una decisione dei diritti delle parti, e in seguito a questo emettere l'ordinanza di accoglimento totale, parziale o anche di rigetto. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo; se dopo la pronuncia dell'ordinanza il processo si estingue, l'ordinanza sopravvive all'estinzione del processo. Con l'ordinanza il giudice provvede sulle spese processuali. Mentre l'ordinanza del 186-bis è sempre revocabile per tutto il corso del giudizio con ordinanza del giudice istruttore, quella prevista dal 186-quater è revocabile ma non tramite altra ordinanza in corso di causa, ma solo per mezzo della sentenza finale che definisce il giudizio. Pronunciata l'ordinanza, si apre infatti uno scenario con più possibilità: 1. il processo si chiude sull'ordinanza; 2. il processo prosegue e giunge la sentenza finale di merito che si sostituisce all'ordinanza; 3. il processo si estingue. L’ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza se la parte intimata non manifesta entro 30 giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla sua comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza. Se la sentenza conferma l'ordinanza, essa si sostituirà all'ordinanza stessa e sarà autonomamente impugnabile con i mezzi normali di impugnazione delle sentenze. La sentenza finale si sostituisce ugualmente all'ordinanza anche se la contraddice, in tutto o in parte, ma può accadere che nel frattempo l'ordinanza, che è titolo esecutivo, sia stata già eseguita; in tal caso la sentenza dovrà disporre la restituzione di quanto adempiuto in ottemperanza alla ordinanza. In caso di estinzione del processo l'ordinanza del 186-quater sopravvive ad esso, ma con una particolarità rispetto a quella del 186-bis: infatti non divenendo assolutamente definitiva, avrà l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza; ciò vuol dire che l’ordinanza ha effetti non limitati a quanto concede in accoglimento dell'istanza, ma anche a quel che nega. ESEMPIO: se sono stati chiesti € 1000 e il giudice ha accolto l'ordinanza per 500 euro, e il processo nel frattempo si estingue, significherà che l'ordinanza ha accolto per 500 e ha contestualmente rigettato per 500. Capitolo 25 L’ORDINANZA INGIUNTIVA 1 precedenti esauriscono il merito della domanda ma non definiscono il processo, per questo sono chiamate sentenze parzialmente definitive. Talvolta accade però che lo stesso processo si frazioni in più distinti giudizi; è il fenomeno della separazione dei processi in fase decisoria, contemplato dall'art. 279 numero 5; questa possibilità di separazione è circoscritta alle ipotesi degli articoli 103 e 104. L’art. 103 è la norma su quel particolare tipo di plurisoggettività processuale detto litisconsorzio facoltativo; con esso si indica il cumulo di più domande provenienti da più attori, ovvero il cumulo di più domande nei confronti di più convenuti; ai nostri fini rileva che ai sensi del secondo comma dell'articolo 103 il giudice può disporre, nel corso dell'istruzione o nella decisione, la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo. A sua volta l’art. 104 è la norma che consente di proporre cumulativamente, in un unico processo, domande non connesse tra di loro nei confronti della stessa parte: “contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse”, a condizione che il giudice investito sia competente su ognuna di esse. Quando la facoltà di separazione, attribuita al giudice dagli articoli 103 e 104, è esercitata in fase di decisione, essa è regolata dal comma due dell'art. 279 numero 5; la norma prevede la possibilità che il giudice decida solo alcune delle cause fino a quel momento riunite, e contestualmente disponga la separazione delle altre cause e l'ulteriore istruzione rispetto alle medesime, ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza. Le decisioni saranno quindi prese in forma di sentenza; con distinta ordinanza verrà poi disposta e disciplinata la prosecuzione del processo. Al contrario delle sentenze pronunciate ai sensi dell'art. 277 comma 2 (non definitive perché non conclusive del processo), le sentenze pronunciate in quest'occasione avranno invece il carattere della definitività, considerato lo scioglimento del cumulo processuale che ne è conseguenza e la definizione del merito. Le sentenze non definitive su preliminari di merito e pregiudiziali di rito In caso di frazionamento in più decisioni di una domanda avente un unico oggetto, avremo una sentenza unica, ma è possibile che anche l'oggetto dell'unica domanda dia luogo a più decisioni. Si limitano a definire il processo quelle sentenze che pronunciano sulla impossibilità di giudicare del merito dichiarando, per esempio, la nullità della citazione ovvero l'incapacità della parte; qui si ha, evidentemente, definizione del processo senza decisione di merito. Sentenze che non definiscono il processo, né esauriscono il merito della causa, sono invece quelle che decidono di una questione di merito o di rito in maniera tale che la controversia debba necessariamente proseguire, e che quindi assumono un carattere interlocutorio; queste sentenze sono chiamate nel codice non definitive. Ciò può accadere, per esempio, quando la sentenza rigetta una questione pregiudiziale di natura processuale, e quindi apre la strada a ulteriori attività processuali volte alla verifica dell'esistenza del diritto controverso. Così, mentre si è visto che la pronuncia che accoglie l'eccezione di nullità della citazione chiude necessariamente il processo, la pronuncia che rigetta tale eccezione chiude la relativa questione, ma non chiude il processo, che appunto prosegue per affrontare il merito della causa. Esigenze di economia processuale favoriscono la possibilità che la causa venga decisa su una questione preliminare di merito quale quella di prescrizione: di fronte alla possibilità che il termine di prescrizione sia effettivamente decorso, l’art. 187 consente di rimettere la causa e decisione sulla ragionevole prospettiva dell'accoglimento dell'eccezione di prescrizione con una sentenza che decide il merito e chiude il processo ma può anche accadere che le cose vadano così: al momento di decidere, il giudice si convince che il termine prescrizionale fu interrotto. In questo caso si avrà una sentenza in cui si afferma la non prescrizione del diritto, a cui consegue la rimessione della causa in istruttoria tramite un'ordinanza accoppiata alla sentenza: la causa ritorna in istruttoria perché dovranno essere verificati i fatti costitutivi che tornano ad essere rilevanti dopo lo scioglimento negativo dell'eccezione di merito o di rito; quindi duplicità di provvedimenti: sentenza per le questioni decise definitivamente e ordinanza per la riapertura dell'istruzione. La sentenza di condanna generica Nell’ipotesi che, accertata la sussistenza del diritto di credito, sia ancora da determinarsi l'ammontare della prestazione dovuta, l'art. 278 consente il giudice di limitarsi, su istanza di parte, a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Una tale sentenza è in realtà una sentenza dichiarativa, cioè di accertamento della responsabilità del debitore, ma a questa certamente la legge ricollega alcuni effetti propri della condanna allorché, come nel caso in esame, esso si coordini con la concreta possibilità di una successiva determinazione dell'ammontare dell'obbligazione; il fatto che manchi la caratteristica più vistosa della condanna specifica (la qualità di titolo esecutivo), non esclude che la nostra multa comporti due importanti, ma complementari, effetti della sentenza di condanna, cioè: a. La possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore, effetto che non compete invece alle sentenze puramente dichiarative; b. la trasformazione in prescrizione ordinaria del termine breve di prescrizione a cui eventualmente sia assoggettato il diritto accertato in sentenza: con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica quel diritto, sebbene originariamente sottoposto a prescrizione quinquennale, resta soggetto alla prescrizione decennale. Ai sensi dell’art. 2818, ogni sentenza che comporta condanna al pagamento di una somma o all'adempimento di altre obbligazioni, ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore; la sentenza che porta a condanna del risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è appunto la sentenza di condanna generica. L'attore può fin dall'origine limitare la propria domanda alla condanna generica, cioè alla richiesta dell’acclaramento della responsabilità del convenuto; in tal caso la sentenza di condanna generica avrà il carattere della sentenza definitiva. Accade però anche che l'attore nel corso del processo ritenga di dover limitare la richiesta alla condanna generica; su istanza di parte, il giudice può allora limitarsi a pronunciare la condanna generica, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione (cioè per una ulteriore sentenza avente ad oggetto una condanna specifica) in un momento successivo. In questo caso la condanna generica prende la forma della sentenza non definitiva del giudizio, sentenza non definitiva che: non contiene 1 condanna alle spese, e resta soggetta al possibile differimento dell'impugnazione essendo contro di essa consentita la riserva di appello e la riserva di ricorso per cassazione. L’art. 278 prevede che se una prima quantificazione è stata già raggiunta, il giudice con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte può condannare il debitore al pagamento di ciò per cui si è raggiunta la prova; quest'ordine di pagare è chiamato provvisionale e il giudice lo può concedere nei limiti della quantità per cui già ritiene raggiunta la prova. Capitolo 27 IL PROCESSO PLURISOGGETTIVO Il processo con più parti Le sentenze svolgono effetti nei confronti delle parti: l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, ha efficacia tra le parti, i loro eredi aventi causa (art. 2909 c.c.). Il cumulo soggettivo dal lato passivo Il cumulo soggettivo, trattato dall'art. 33, è l'ipotesi dell'attore che propone più domande contro più convenuti. Le cause contro più persone che dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi se sono connesse per l'oggetto o per il titolo, possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o di domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo; più convenuti possono quindi essere trascinati da un unico attore nello stesso processo, eventualmente anche in deroga alle norme sulla competenza se c'è una connessione per il titolo o per l'oggetto. Il litisconsorzio facoltativo Secondo l’art. 103 (litisconsorzio facoltativo), più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo, oppure quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni. La loro riunione è meramente facoltativa, e tuttavia è utile non solo per esigenze di economia di attività, ma soprattutto perché la trattazione unica (simultaneus processus), garantendo l'unitarietà dell'istruzione e della cognizione, garantisce anche la coerenza giuridica delle decisioni, decisioni che potrebbero invece risultare tra loro incompatibili se conseguissero a processi distinti ed autonomi. L’articolo 103 prevede che possa aversi litisconsorzio quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni, si parla di litisconsorzio per connessione impropria e un esempio è costituito dal caso in cui la questione riguardi l'interpretazione di una determinata clausola di un contratto collettivo di lavoro. Il codice non disciplina lo svolgimento del processo nel litisconsorzio facoltativo, ma restano fermi due principi: l'unità formale del procedimento e l'indipendenza sostanziale delle cause cumulate. Proprio perché facoltativo il giudice può disporre, nel corso dell'istruzione o anche al momento della decisione, la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza. La separazione non è però concepibile in alcune ipotesi di litisconsorzio facoltativo in cui ad una pluralità di parti non corrisponde una pluralità di interesse ad evitare che si crei una apparenza di ragione altrui che potrebbe farsi valere in seguito contro di lui. La fattispecie c) si comprende agevolmente se si considera che il creditore, che ha un generale diritto di garanzia sui beni del debitore, così come può vedere assottigliarsi o estinguersi tale garanzia per atti di disposizione del debitore, può parimenti soffrire lo stesso pregiudizio per via di provvedimenti giudiziari che riconoscano a soggetti diversi dal debitore diritti reali su beni facenti parte della garanzia patrimoniale di questi. Con l'intervento adesivo dipendente non si ha un allargamento oggettivo della materia del contendere, in quanto al terzo non interessa che si accerti una propria situazione soggettiva, ma solo che vinca la parte adiuvata. L’art. 267 prevede che il terzo si costituisca presentando in udienza o depositando in cancelleria una propria comparsa formata a norma dell'articolo 167; inoltre l'articolo 268 ammette l’intervento fino alla precisazione delle conclusioni. L'intervento su istanza di parte Capita che nel corso del processo fra Tizio e Caio, l'una o l'altra delle parti ritenga opportuno allargare la controversia anche a Sempronio, chiamando in causa. L’art. 106 prevede che ognuna delle parti possa chiamare in causa il terzo in due casi: a. quando ritiene comune la causa al terzo; b. quando pretende essere garantita dal terzo. La pretesa di essere garantito proviene dal convenuto, che può chiamare in causa tanto: • un terzo nei cui confronti far valere un obbligo di essere anche processualmente garantito rispetto alla pretesa esercitata dall'attore (garanzia formale); • un terzo, privo di obblighi processuali nei suoi confronti, ma la cui posizione sostanziale presenti particolari mezzi di collegamento a quella del chiamante (garanzia semplice). Il caso della garanzia formale è tipicamente integrato dalla chiamata che il locatario, citato in giudizio da terzi opera nei confronti del locatore: ai sensi dell’art. 1586 comma 2, quest'ultimo è tenuto ad assumere la lite qualora sia chiamato nel processo; si tratta quindi di un obbligo processuale di difesa e gestione della lite, che si aggiunge all'obbligo di tenere indenne il locatario garantito dalle eventuali conseguenze pregiudizievoli di una sentenza sfavorevole. Ipotesi di garanzia semplice è quella della chiamata (ad opera del debitore solidale convenuto dal creditore), di altro condebitore che la legge assoggetti a regresso in caso di pagamento del debito da parte del convenuto; qui il debitore convenuto non ha diritto ad essere difeso dal terzo, né vi sono obblighi di assumere la lite da parte del terzo, ma nonostante questo si può parlare di un rapporto di garanzia intimamente connesso alla struttura sostanziale dei rapporti dedotti, diritto di garanzie che si basa sul diritto di regresso previsto e regolato dalla legge (art. 1298). Una volta chiamato in causa, il terzo diventa parte e il convenuto mirerà ad esercitare direttamente domanda di regresso nei confronti del condebitore. La giurisprudenza riconosce peraltro al convenuto anche la possibilità di chiamare 1 in giudizio terzi sulla base di rapporti estranei a quello dedotto in giudizio, ma nei cui confronti egli potrebbe vantare diritto di regresso se condannato (garanzia impropria): il caso principale è quello di diritti di rivalsa nei confronti dell'assicuratore; usando un processo già in corso per l'esercizio di azione di regresso, il convenuto imputa subito al terzo la propria responsabilità, senza aspettare di essere prima condannato per poi tentare causa nei suoi confronti. L’art. 108 prevede che se il garante compare e accetta di assumere la causa in luogo del garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione; in ogni caso la sentenza di merito pronuncerà ed avrà effetti nei confronti del garantito che, sebbene estromesso, non perde la sua qualità di parte della domanda e della sentenza: l'estromissione infatti è disposta dal giudice con ordinanza, ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l'estromesso. Il terzo può essere chiamato in giudizio anche sul presupposto della comunanza di una sua situazione giuridica con l'oggetto della causa, sia per iniziativa del convenuto che dell'attore. Può infatti accadere che nella propria difesa il convenuto contesti: a. La proprie responsabilità, indicando correlativamente la responsabilità di un terzo; b. oppure, senza declinare la propria responsabilità, contesti la legittimazione dell'attore a chiedere l'accertamento effettivamente richiesto, nel senso che il diritto fatto valere spetterebbe ad altro soggetto terzo. In quest'ultima ipotesi il convenuto mostra di avere interesse all'estensione della causa al terzo: solo in questo modo egli infatti potrà ottenere una estensione del giudicato nei confronti del terzo, evitando il rischio di essere condannato due volte (cioè di essere condannato nei confronti dell'attore con un titolo che non potrà essere in futuro opposto al terzo). Quando invece la contestazione del convenuto investe la legittimazione passiva (cioè si risolve nella indicazione di un altro soggetto quale vero obbligato), la chiamata può venire tanto per iniziativa dell'attore che del convenuto. È orientamento consolidato dalla giurisprudenza che la chiamata, da parte del convenuto, nel terzo responsabile, fa sì che si estenda automaticamente al terzo la domanda dell'attore, con possibilità di legittima condanna del terzo chiamato anche in mancanza di apposita domanda e di richiesta di condanna. L'intervento per ordine del giudice L’art. 107 prevede che il giudice possa ordinare la chiamata di un terzo al quale ritiene la causa comune. La posizione del terzo è sempre in qualche modo offerta al giudice dagli atti di parte; essa è cioè introdotta o dall'attore (che introduce un rapporto caratterizzato da elementi di comunanza con il terzo), ovvero dal convenuto (che invoca posizioni di terzi quali fatti impeditivi dell'accoglimento della domanda); questo vuol dire che in moltissimi casi la parte potrebbe chiamare essa stessa il terzo. I classici esempi di intervento per ordine del giudice sono: • la chiamata di C, proprietario di altro fondo confinante, in giudizio volto alla costituzione, a favore del fondo intercluso di A, di una servitù di passaggio sul confinante fondo di B (nella specie il convenuto B aveva eccepito che il fondo di C consentiva un passaggio più comodo e breve); • la chiamata di C (acquirente), nel giudizio in cui A (mediatore) aveva chiesto a B (venditore) il pagamento della provvigione spettantegli (nella specie il convenuto B aveva eccepito un patto per cui la provvigione sarebbe stata posta a carico dell'acquirente); • la chiamata di C, datore di lavoro formale, nel giudizio in cui il lavoratore A aveva convenuto B chiedendo l'accertamento della sua effettiva dipendenza da quest'ultimo, facendo valere la presunzione di effettiva dipendenza posta dalla legge sul divieto di intermediazione di manodopera; • chiamata dell'ente previdenziale (INPS) nel giudizio in cui l'attore A aveva chiesto il riconoscimento, nei confronti del datore di lavoro B di un pregresso lavoro dipendente che comportava regolarizzazione della posizione previdenziale. Il giudice ordina la chiamata, nel senso che stabilisce un termine entro il quale la parte interessata deve concretamente effettuare la citazione del terzo; il termine perentorio e la sua inadempienza determinano cancellazione della causa dal ruolo. L'ordine di chiamata determina solo l'onere della denuntiatio litis al terzo (cioè della comunicazione a questi della litispendenza, di modo che il terzo sia informato del suo coinvolgimento nell'accertamento e possa, se vuole, partecipare attivamente al processo): spetta invece alla parte chiamante determinare se produrre questo semplice allargamento dell'accertamento al terzo, oppure se proporre autonoma domanda contro questi. La chiamata del terzo può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore che, allo scopo, fissa un'apposita udienza (art. 270 comma 1); al terzo si applicano, rispetto alla udienza per la quale è citato, le disposizioni e termini previsti per il convenuto dagli articoli 166 e 167 (art. 271 comma 1). Capitolo 29 IL LITISCONSORZIO NECESSARIO Il litisconsorzio necessario L’art. 102 tratta il fenomeno del litisconsorzio necessario che si verifica quando sorge l'esigenza di pronunciare nei confronti più parti, le quali devono agire o essere convenute nello stesso processo. Il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito; cioè, tutte le parti necessarie devono partecipare al processo e, se questo non è accaduto dall'origine, il giudice deve provvedere a che ciò avvenga in un momento successivo ordinando l'integrazione del contraddittorio. I presupposti L’art. 102 non ci dice quali sono i casi in cui la sentenza deve pronunciare nei confronti di più parti; lascia all'interprete il compito di determinare quando si ha litisconsorzio necessario, in quali casi, cioè, il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di altre parti. Quando è la legge a dire che più parti devono partecipare al processo, il problema è risolto in partenza: l’art. 102 in 1 Secondo il comma 1 dell’art. 111, il processo prosegue tra le parti originarie: se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie. L'atto di trasmissione del diritto controverso (la successione a titolo particolare in esso) non è rilevante per la decisione del giudice il quale deve decidere come se la cosa non fosse accaduta e deve, perciò, valutare lo stato di diritto e di fatto anteriore all'evento successorio. Il problema dei soggetti nei cui confronti la sentenza di merito deve svolgere i suoi effetti sostanziali è risolto con l'estensione di tali effetti contro il successore a titolo particolare. La posizione del successore a titolo particolare e il principio del contraddittorio La disciplina esaminata mira a evitare che spostamenti di titolarità del diritto intervenuti nel corso del processo possano danneggiare le parti. La soluzione adottata dall'ordinamento italiano (e omogenea ad altre presenti negli ordinamenti europei di civil law) è quella, non della nullità, ma della inopponibilità dell'acquisto alla parte che sarebbe danneggiata dall’atto di disposizione; l’atto è quindi valido, ma colui che subentra nel diritto non può far valere il suo titolo successorio nei confronti della controparte del suo dante causa. Il successore nel diritto controverso può sempre far valere le sue ragioni, intervenendo volontariamente nel processo in corso, ovvero impugnando la sentenza sfavorevole al suo dante causa (art. 111, commi 3 e 4); egli inoltre può sempre essere chiamato ad intervenire; intervenendo o impugnando la sentenza il successore si trasforma in parte formale del processo. Se le altre parti vi consentono, l'alienante (nella successione per atto tra vivi) o il successore universale (nella successione mortis causa) può domandare la sua estromissione dal processo, che rappresenta l'uscita di una parte dal procedimento, non nel senso del suo totale estraniamento da tutti i possibili effetti di questo, ma nel senso della fine della sua partecipazione attiva agli sviluppi della vicenda processuale; in tal modo il successore a titolo particolare si fa carico di sostenere in prima persona la linea difensiva che, nella controversia sul diritto che gli è pervenuto, sarebbe spettata al suo dante causa. Le eccezioni alla efficacia della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare Due sono le eccezioni, richiamate dal comma 4 dell'art. 111: • la prima eccezione è la salvezza delle norme sull'acquisto in buona fede dei beni mobili; • la seconda eccezione è la salvezza delle norme sulla trascrizione delle domande giudiziali. La salvezza delle norme sull'acquisto in buona fede dei beni mobili rinvia all'articolo 1153, comma 1 c.c., cioè alla norma per cui “colui al quale sono alienati beni mobili da parte chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”, e significa che gli acquisti, del terzo in corso di causa, intanto sono inopponibili al vincitore del processo in quanto siano realmente a titolo derivativo; quando l'acquisto del diritto controverso è solo apparentemente a titolo derivativo, perché in realtà è a titolo originario, viene meno la regola per cui su di esso prevale il riconoscimento giudiziale del diritto a favore della controparte del dante causa; il terzo avente causa che in buona fede riceve il possesso materiale del bene, fa salvo il suo acquisto perché il comma 2 dell’art. 1153 (“la proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa”) gli conferisce un titolo di acquisto impermeabile alle vicende dei precedenti titolari. L’art. 2643 onera della formalità della trascrizione di varie categorie di atti dispositivi riguardanti la proprietà su beni immobili; la mancata trascrizione degli atti rende inopponibile l'atto ai terzi che abbiano invece trascritto un proprio titolo sullo stesso bene; parimenti il proprio titolo di acquisto resta inopponibile al terzo se trascrizione vi è stata ma successivamente alla trascrizione dell'acquisto del terzo. Gli articoli 2652 e 2653 creano un onere di trascrizione delle domande giudiziali: le domande riguardanti atti soggetti a trascrizione devono venire trascritte. Nei casi in cui vige questo onere di trascrizione della domanda, per valutare se si applica o meno la disciplina dell'articolo 111, occorre guardare alla data non dell'acquisto, ma della trascrizione del titolo d'acquisto in relazione alla data non della domanda, ma della trascrizione della domanda. Se la trascrizione dell'atto di alienazione del diritto controverso risulta anteriore alla data della trascrizione della domanda giudiziale, l'acquisto non soggiace alla regola dell'ultimo comma dell'art. 111: l'anteriorità della trascrizione lo rende indifferente agli effetti della sentenza e il terzo avente causa fa salvo il suo acquisto. Capitolo 31 LA RIUNIONE DI PIU’ CAUSE CONNESSE L’art. 40 L’art. 40 prevede e disciplina la riunione davanti ad un solo giudice di due o più cause che, proposte di fronte ad uffici giudiziari diversi, presentano punti di connessione tra di loro che ne rendono opportuno il cumulo di fronte ad un solo ufficio giudiziario. Questa riunione, possibile solo in presenza di più e distinti uffici giudiziari, può essere disposta anche d'ufficio e, proprio perché l'ufficio è unico, non pone problemi di competenza. Il giudice di fronte a cui viene rilevata la connessione con altra causa, se ne ravvisa la sussistenza, pronuncia ordinanza con cui fissa alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice preventivamente adito; vale quindi la regola della “prevenzione”, nel senso dell'attrazione delle controversie successive da parte della causa proposta per prima; fa eccezione il caso della connessione per accessorietà, in cui la causa accessoria va riassunta davanti al giudice della causa principale, anche se proposta dopo la proposizione della causa accessoria. La connessione può essere rilevata anche d'ufficio, ma non oltre la prima udienza; la riunione va evitata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse: in tal caso, pur riconoscendosi l'esistenza di una connessione, non potrà fissarsi alcun termine per la riassunzione e le cause resteranno separate. In caso di cause da trattare con riti diversi, il comma 3 dell’art. 40 impone l'adozione del rito ordinario a scapito di quello speciale, facendo però salva l'ipotesi che una delle cause consista in una causa di lavoro o previdenziale: in tal caso sarà il rito del lavoro a prevalere sia sul rito ordinario e sugli eventuali altri riti speciali. 1 Il comma 6 stabilisce che se una causa di competenza del giudice di pace è connessa per i motivi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 (accessorietà, garanzia, pregiudizialità, compensazione e riconvenzionalità) con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte dinanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo; il comma 7 aggiunge che se le cause così connesse sono proposte davanti il giudice di pace o al tribunale, il giudice di pace deve pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale. Inoltre, le cause rientranti nella competenza esclusiva del giudice di pace (competenza per materia) possono essere proposte in cumulo con altra causa ad essi connessa, di fronte al tribunale competente a conoscere di quest'ultima, in deroga all'esclusività della competenza del giudice di pace; ove le cause connesse siano state proposte separatamente di fronte ai due organi, il giudice di pace deve sempre pronunciare l'ordinanza sulla connessione a favore dei tribunali, anche d'ufficio e senza il limite temporale della prima udienza. L'ordinanza che pronuncia sulla connessione ai sensi dell'articolo 40 è impugnabile con regolamento di competenza necessario. Capitolo 32 LE MODIFICAZIONI DELLA COMPETENZA PER RAGIONI DI CONNESSIONE Il rapporto di accessorietà tra cause L’art. 31 disciplina la accessorietà cioè un particolare tipo di connessione tra cause per cui, ad una domanda detta principale, si aggiunge una domanda il cui oggetto può considerarsi accessorio rispetto all'oggetto dell'altra (Es.: la domanda di condanna al pagamento degli interessi). Le domande accessorie possono essere proposte al giudice territorialmente competente per la causa principale in modo da essere decise nello stesso processo, ma nel rispetto dei limiti di competenza per valore di questi (viene richiamato l’art. 10, per cui, ai fini della determinazione della competenza per valore, le varie domande proposte nei confronti della stessa persona si sommano tra loro); la domanda accessoria potrà quindi essere trattata e decisa da un giudice territorialmente incompetente, ma non da un giudice incompetente per valore. Cause di garanzia Si ha garanzia propria quando, in virtù di una norma di legge ovvero di una previsione contrattuale, un soggetto sia obbligato a tenere indenne un altro soggetto rispetto ad un determinato accadimento. Si ha garanzia propria formale quando il garante, oltre a dover tenere indenne il garantito sul piano del diritto civile, ha anche l'obbligo di assumerne la difesa processuale; altrimenti si avrà garanzia propria semplice. Si ha garanzia impropria quando manca un obbligo, nascente dalla legge o da un contratto, di tenere indenne un altro soggetto e sussiste solo una dipendenza meramente fattuale tra la responsabilità del garante e del garantito: se quest'ultimo è responsabile, e quindi tenuto al pagamento di una somma di denaro nei confronti di un terzo, allora contestualmente, in virtù di questo fatto, anche il garante sarà tenuto nei suoi confronti al pagamento della medesima somma. L’art. 32 consente di proporre la domanda di garanzia di fronte al giudice competente per la causa principale, affinché delle due cause si decida in un unico processo; quando la causa di garanzia eccede la competenza per valore del giudice adito, quest'ultimo rimette entrambe le cause, principale e di garanzia, di fronte al giudice superiore. per materia o funzionale del giudice originariamente adito. Di fronte alla domanda riconvenzionale che esce dalla sua competenza, il giudice applica le disposizioni dei due articoli precedenti; cioè è tenuto a rimettere contemporaneamente la causa originaria e quella riconvenzionale al giudice competente assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione davanti a lui (art. 34); egli però ha la possibilità, se la domanda originaria è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, di trattenere quest'ultima per deciderne senza indugio, rimettendo le parti al giudice competente per la sola decisione relativa alla causa riconvenzionale (art. 35). Capitolo 33 LA DISCIPLINA DELLA LITISPENDENZA E DELLA CONTINENZA La litispendenza La litispendenza indica la vigenza di un processo, cioè l'attualità del giudizio; il codice usa però il termine anche per indicare l'evenienza che davanti a due differenti giudici penda la stessa causa. A tal fine, a norma dell'art. 39, devono considerarsi tre elementi: i soggetti, il petitum e la causa petendi. Quindi, non c'è litispendenza tra due processi se le parti non coincidono; non basta che sia in gioco la tutela dello stesso diritto, ma occorre che si chieda specificamente un provvedimento del medesimo contenuto; la domanda A coincide con la domanda B se, oltre all'oggetto, coincide anche la causa petendi, cioè se quel che si chieda al giudice è domandato allo stesso titolo in ambedue i casi. Inoltre, il ragionamento non funziona quando il diritto fatto valere non consiste in un diritto che è individuato dal suo fatto costitutivo, bensì è un tipo di diritto identificabile indipendentemente dal suo fatto costitutivo: si parla in tal caso di diritti autoindividuati (diversi i fatti costitutivi, unico il diritto e quindi la litispendenza è assicurata). Se la stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d'ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo; con questo provvedimento il secondo giudice si spoglia della causa a favore del primo, resta così l'unico giudice investito della controversia. La declaratoria di litispendenza non è soggetta a termini o a preclusioni, potendo aversi in ogni stato e grado, né ha bisogno di apposita eccezione di parte gravando sul giudice il dovere di dichiararla ove la rilevi. L'ordinanza di pronuncia sulla litispendenza è soggetta al regolamento necessario di competenza (art. 42). La litispendenza internazionale La litispendenza internazionale è stata generalizzata nell'ordinamento interno con l'entrata in vigore dell’art. 7 della legge 218/1995. Il testo dell’art. 27 del regolamento 44/2001 stabilisce che qualora davanti al giudice di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende d'ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza del giudice adito in precedenza. Anche l’art. 7 della legge 218/1995, per il caso che penda davanti ad un giudice straniero una domanda tra le stesse parti e avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo, impone al giudice italiano di sospendere il giudizio, solo se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l'ordinamento italiano. La continenza 1 Litispendenza vuol dire pendenza contemporanea della stessa causa davanti ai due giudici; può darsi però che di fronte a due diversi giudici, invece che la stessa causa, pendano due cause che, pur intercorrendo tra le stesse parti e presentando altri elementi di coincidenza nell'oggetto e nel titolo, tuttavia presentino taluni fattori differenziali che impediscono di parlare di completa identità. L'esperienza processuale offre talora una coincidenza parziale di elementi che il codice etichetta come “continenza”: la causa B contiene la causa A, perché, pur presentando rispetto a quest'ultima identità di parti, di petitum e di causa petendi, B offre un quid pluris, un qualcosa che manca in A (ESEMPIO: Tizio conviene Caio sia presso il giudice di pace di Velletri per la condanna al pagamento del prezzo di merce da lui venduta con contratto e consegnata a Caio, sia in un secondo momento presso il tribunale di Roma per la condanna dello stesso prezzo e, in più, al risarcimento dei danni patiti per la mancata corresponsione del prezzo). Nella continenza il secondo giudice deve pronunciarsi a favore del primo se, e solo se, il primo giudice sia competente anche sulla seconda causa. Altrimenti sarà il giudice di pace adito per primo a dover dichiarare la continenza a favore del giudice competente; infatti prescrive l’art. 39, comma 2, che se il giudice preventivamente adito non è competente per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine per la riassunzione davanti il giudice successivamente adito sono da lui pronunciate. La riassunzione del processo effettuata nel termine di fronte al giudice a favore del quale è dichiarata la continenza, non apre un processo nuovo, ma determina prosecuzione del processo pendente. Anche l'ordinanza di continenza è soggetta ad impugnazione con il mezzo del regolamento necessario di competenza. Capitolo 34 LA FASE DECISORIA DAVANTI AL TRIBUNALE COLLEGIALE Rimessione al collegio e di precisazione delle conclusioni L’art. 189 recita: il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio a norma dei primi tre commi dell’art. 187 e dell’art. 188, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183; le conclusioni di merito devono essere interamente formulate anche nei casi previsti dall’art. 187, commi 2 e 3; la rimessione investe il collegio di tutta la causa, anche quando viene a norma dell’art. 187, commi 2 e 3. Scopo della precisazione delle conclusioni è consentire alle parti di avvalersi di tutti gli elementi emersi nel corso della trattazione e dell’istruzione, al fine di definitivamente fissare ciò che intendono far decidere al collegio; la norma pone alla precisazione specifici limiti, che sono quelli delle domande e delle eccezioni formulate negli atti introduttivi, o delle precisazioni e modificazioni delle stesse entro il limite temporale di cui al comma 6 dell'art. 183. Le nuove domande erroneamente proposte per la prima volta in tale sede, devono perciò essere dichiarate inammissibili, e l'inammissibilità è rilevabile anche d'ufficio; può peraltro accadere che con la precisazione delle conclusioni, si abbandonino alcune delle domande o eccezioni già formulate nel corso il processo: si tratta di una condotta processuale perfettamente legittima, a seguito della quale esse escono dal thema decidendum, esimendo il collegio dal potere-dovere di pronunciarvisi. Secondo la giurisprudenza, l'omissione di precisare le conclusioni non comporta alcuna nullità: l'unica conseguenza sarà che si intenderanno confermate per intero le domande e le ragioni già formulate all'inizio o nel corso del processo. La precisazione delle conclusioni nei casi di rimessione al collegio ai sensi dell’art. 187, commi 2 e 3 La rimessione della causa al collegio per la decisione non avviene nei soli casi di esaurimento dell'istruttoria, ma anche in altri due gruppi di ipotesi. Il comma 2 ricorda che può accadere che l'istruttore si accorga della presenza di una questione di merito avente carattere preliminare ed in grado di definire il giudizio; il giudice istruttore deve valutare, di fronte ad una eccezione avente ad oggetto una questione di merito capace di provocare il rigetto della domanda della controparte, se appaia fondato oppure no, e dunque se sia o meno il caso di rimettere le parti al collegio per far decidere la causa. Ciò spiega anche perché la legge si preoccupi di precisare che la questione deve essere in grado di definire il giudizio: se così non fosse infatti la rimessione in decisione sarebbe inutile, dato che, anche se la questione fosse fondata, la causa non potrebbe comunque essere decisa. Ebbene, se il giudice istruttore ritiene che la questione sia fondata, invita le parti a precisare le conclusioni, ma non esclusivamente in riferimento a quella questione, ma in relazione a tutto l'oggetto del processo. Il comma 3 riguarda invece una questione di diritto, come per esempio la competenza o la giurisdizione (pregiudiziali di rito). Anche le pregiudiziali di rito devono essere, ove si riscontra la fondatezza, capaci di provocare l'emissione di una pronuncia che chiude il processo davanti al giudice adito ma, a differenza delle preliminari di merito, non comportano una pronuncia sul diritto, dato che chiudono il processo con l'affermazione della mancanza di uno dei suoi presupposti indispensabili (una sentenza che dichiara la nullità della citazione, chiude il processo senza entrare nel merito del diritto azionato). In tali casi l'onere delle parti di precisare le conclusioni anche in relazione al merito della controversia in caso di rimessione al collegio è ancora più evidente, perché se il collegio ritiene infondata la questione di rito, ben può entrare nel merito e decidere la causa con sentenza definitiva. Possiamo concludere che, qualunque sia il motivo per il quale l'istruttore decide di rimettere la causa al collegio per la decisione, ai sensi dell'articolo 189, la rimessione comporta sempre che il collegio sia investito della decisione di tutta la controversia nel suo complesso, e le parti hanno sempre l'onere di precisare tutte le loro conclusioni, se vogliono essere sicuri che siano prese in considerazione al momento della decisione. Lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica e la decisione della causa Dopo la rimessione al collegio per la decisione, la legge consente ancora alle parti la produzione di scritti difensivi. Secondo l’art. 190: le comparse conclusionali devono essere depositate entro il termine perentorio di 60 giorni dalla rimessione della causa al collegio e le memorie di replica entro i 20 giorni successivi. Le comparse conclusionali sono scritti difensivi con i quali ciascuna delle parti ha la possibilità di riepilogare, coordinare e svolgere in modo compiuto e disteso, anche alla luce dei risultati della trattazione e dell'eventuale attività istruttorie, le ragioni di stato di diritto che giustificano, a suo avviso, l'accoglimento delle domande o eccezioni che ha formulato; esse non possono contenere domande od eccezioni nuove rispetto a quelle consentite 1 Il procedimento davanti al tribunale monocratico Il giudice singolo, designato ai sensi dell'art. 168-bis, mutua dal collegio tutti poteri decisori. Fatte precisare le conclusioni a norma dell'articolo 189, dispone lo scambio delle comparse conclusionali delle memorie di replica, indi deposita la sentenza in cancelleria entro 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica (art. 281-quinquies). Simmetricamente alla procedura davanti al collegio, anche di fronte al giudice monocratico è possibile che una delle parti, al momento della precisazione delle conclusioni, chieda di discutersi oralmente e, quindi, insista per la fissazione di un'apposita udienza; in tal caso il giudice, disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali, fissa l'udienza di discussione orale non oltre 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime (art. 281-quinquies). La decisione immediata a seguito di trattazione orale L’art. 281-sexties consente al giudice di servirsi di forme semplificate quando le circostanze lo suggeriscano; in tal caso egli, in luogo di disporre lo scambio di comparse, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza e pronunciare sentenza al termine della discussione. Su istanza allora della parte che chiede un rinvio, il giudice potrà fissare altra udienza, rinviando a questa sede la discussione e la pronuncia della decisione. L'oralità della procedura viene completata dalle modalità della pronuncia della sentenza, che avviene attraverso letture in udienza tanto del dispositivo quando della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Una procedura decisoria come quella descritta trova spazio nell'ipotesi in cui il giudice istruttore arrivi all'udienza di precisazione delle conclusioni con una idea già sufficientemente precisa della ragione e del torto delle parti; invece di rinviare la decisione all'esito degli scambi di rito, può essere opportuno decidere subito, lasciando che il contraddittorio si estrinsechi nella discussione orale all'udienza. Secondo l’art. 281-sexties la motivazione deve consistere nella concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ma la norma va necessariamente integrata dall’art. 118, comma 1 disp. att. che individua la motivazione e la concisa esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Capitolo 36 LE SPESE PROCESSUALI Introduzione La regola primaria è quella della anticipazione dei costi, nell'articolo 8 d.p.r. 115/2002, la quale stabilisce che ciascuna parte deve anticipare di tasca propria le spese degli atti processuali che compie. L'attore, oltre all'onorario dell'avvocato, deve pagare l'imposta del contributo unificato di iscrizione al ruolo al momento della sua costituzione in cancelleria per l'iscrizione a ruolo della causa; l'entità del contributo varia a seconda del valore della controversia. Il convenuto, se invece di limitarsi a formulare le difese o a sollevare eccezioni vuole proporre una domanda riconvenzionale, deve farne espressa dichiarazione nella comparsa di risposta e poi pagare un'integrazione del contributo unificato. Inoltre nel caso ci si avvalga di ausiliari del giudice, la relativa retribuzione graverà sulla parte che ha domandato la consulenza. La condanna alle spese L’onere del pagamento a carico di chi chiede è la regola provvisoria e non anche la regola finale. L’art. 91 stabilisce che il giudice, quando pronuncia la sentenza con cui chiude il giudizio di fronte a sé, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari della difesa; se alla liquidazione si provvede al termine di una fase di impugnazione della sentenza, la liquidazione riguarderà non solo le spese del grado corrente ma anche i precedenti gradi di giudizio (riallocazione delle spese). La liquidazione delle spese è fatta anche: a. dal giudice che abbia rigettato la richiesta di un provvedimento cautelare ante causa, non essendovi certezza in ordine alla futura installazione del processo di merito, b. dal giudice che abbia concesso ante causam un provvedimento cautelare a carattere anticipatorio. La legge 69/2009 ha integrato l’art. 91 comma 1 con la previsione secondo cui, se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione la proposta (chi è stato messo dalla controparte in condizioni di ottenere subito quel che poi si vede riconoscere dal giudice alla fine del processo, merita di pagare le spese dell'attività processuale a cui il suo rifiuto ha dato luogo e che si è rivelata poi sostanzialmente inutile). La liquidazione delle spese Ciascun difensore, al momento del passaggio in decisione della causa, deve unire al fascicolo di parte la “nota-spese”, indicando in modo distinto e specifico gli onorari e le spese. Il giudice presa visione delle note spese, provvede alla liquidazione senza che vi sia bisogno che nel precisare le conclusioni le parti ne facciano espressa ed apposita richiesta; naturalmente, il giudice non è obbligato a liquidare proprio la somma indicata dalla parte nella nota spese, potendola ridurre se ritenuta eccessiva. La compensazione delle spese L’art. 92 comma 2 prevede la compensazione in caso di soccombenza parziale e reciproca; ma il giudice può compensare parzialmente o per intero le spese dalle parti anche in caso di soccombenza totale di una parte nei confronti dell'altra, ma solo se concorrono gravi ed eccezionali ragioni espressamente indicate nella motivazione. Compensazione totale vuol dire che tutte le spese restano a carico delle parti che le hanno effettuate senza possibilità di ripetere nulla; compensazione parziale significa che una parte viene condannata ad una rimborso solo parziale delle spese sostenute dall'altra; resta il limite del divieto di condannare alle spese la parte totalmente vittoriosa. La condanna al risarcimento dei danni: la responsabilità aggravata Con la responsabilità aggravata, contemplato dall'art. 96, si è di fronte ad una vera e propria condanna al risarcimento del danno per fatto illecito, il quale sta nell'aver abusato dello strumento del processo, il quale viene considerato fonte di responsabilità extracontrattuale. Due sono le fattispecie tipiche di responsabilità aggravata. La prima è contemplato dal comma 1 dell’art. 96 e 1 sanzione il fatto di aver agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave; è il caso di chi ha agito, o resistito, in giudizio mostrando di sapere di avere sicuramente e palesemente torto ma usando tutti i mezzi per ritardare l'altrui vittoria. Il comma 2 delinea, a sua volta, un insieme di ipotesi di responsabilità aggravata che assumono un autonomo rilievo rispetto al generico comportamento doloso o gravemente colposo del comma 1; Le ipotesi sono quelle del soggetto che: • abbia attuato un provvedimento cautelare a tutela di un diritto poi dichiarato inesistente nel giudizio di cognizione; • abbia trascritto domanda giudiziale ovvero iscritto ipoteca giudiziale a tutela di un credito poi dichiarato inesistente; • abbia iniziato il processo esecutivo per la tutela coattiva di un diritto poi dichiarato inesistente dal giudice del processo di cognizione. In tali casi la responsabilità prescinde dall'accertamento del dolo o della colpa grave, bastando che la parte si sia attivata senza la normale prudenza. Una terza possibilità di condanna pecuniaria che va ad aggiungersi alla condanna alle spese è stata creata dalla legge 69/2009, la quale ha aggiunto un terzo comma all'art. 96: “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”. A giudicare della responsabilità aggravata è competente solo il giudice che ha pronunciato nel merito della controversia; ne segue che la relativa domanda va proposta all'interno dello stesso processo e non può invece essere proposta in separata sede, con autonoma domanda. Capitolo 37 IL REGIME DELL’ESECUTIVITA’ DELLA SENTENZA L’esecutività della sentenza di primo grado e l'inibitoria in appello La sentenza di condanna nasce esecutiva, cioè è tale dal momento in cui è emessa in primo grado; l’art. 282 dice che la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva: essa cioè vale da titolo esecutivo tra le parti; potendo essere riformata dalla sentenza d'appello, essa non è definitiva, e ciò comporta il rischio che la sua esecuzione si riveli ingiustificata in un secondo momento, con conseguenze intuibili. L’art. 283 lega la possibilità di sospendere l'efficacia esecutiva, o l'esecuzione, della sentenza di primo grado alla proposizione dell'appello, conferendo al giudice di tale grado di giudizio il relativo potere “quando ricorrono gravi e fondati motivi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Non può essere considerato grave motivo la dannosità in sé dell'esecuzione, perché l'esecuzione forzata è per definizione dannosa per chi la subisce, occorrendo quindi qualcosa in più; questo qualcosa viene trovato in una combinazione di fattori: in primo luogo nella previsione della fondatezza dell'appello; inoltre occorre che l'esecuzione giustificata dalla sentenza di condanna possa produrre un danno rilevante (grave) che appare opportuno evitare in attesa della decisione del merito dell'appello. Riguardo la possibile insolvenza di una delle parti, se la sentenza ha condannato per esempio una società di piccole dimensioni ed in condizioni economiche precarie al pagamento di una somma ingente, il giudice d'appello “prima” e il “dopo” è dato proprio dal momento della precisazione delle conclusioni. Bisogna anche stabilire qual è l'effetto del mutamento della legge sostanziale sopravvenuta al giudicato (ius superveniens, comprensivo anche delle sentenze di incostituzionalità della legge). Lo ius superveniens si comporta come irretroattivo rispetto al giudicato; la legge sostanziale nuova trova immediata applicazione nel processo e il giudice deve quindi tenerne conto ai fini della decisione. I soggetti vincolati al giudicato (limiti soggettivi) Ai sensi dell’art. 2909 l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato per le parti, i loro eredi e i loro aventi causa. Il principio del contraddittorio impone che possano prodursi effetti giuridici, e quindi possa pronunciarsi, solo nei confronti di chi abbia partecipato, o sia stato messo in condizione di partecipare al processo; la parte rimasta soccombente rispetto alla decisione non potrà aggirarla agendo di nuovo per ottenere un beneficio che le è stato negato, e lo stesso vale per la parte vittoriosa. I limiti soggettivi sono facili da vedere quando l'azione esercitata è un'azione per sua natura bilaterale, caso in cui i limiti soggettivi coincidono con quelli oggettivi. In altri casi avviene che l'azione esercitata riguardi diritti che, per loro natura, sono plurilaterali mentre la domanda svolta in giudizio è stata correttamente proposta da due sole parti, onde la sentenza pronuncia legittimamente nei confronti di queste; ciò avviene per l'azione di rivendica: in questo caso i limiti soggettivi del giudicato operano nel senso che l'accertamento relativo alla proprietà farà stato tra attore e convenuto, ma non impedirà mai a un terzo, estraneo al processo e alla sentenza, che si pretenda a sua volta proprietario, di agire nei confronti del vincitore, pretendendo di essere lui il proprietario, di ottenere eventualmente una sentenza che dica che è lui il vero proprietario; quindi i terzi non possono essere pregiudicati da una pronuncia resa inter alios. Gli eredi e gli aventi causa dell’art. 2909 sono i successori, dal lato attivo e passivo, in situazioni rispetto a cui l'accertamento ha già fatto stato; nel momento del loro subentro, costoro si trovano infatti la situazione in cui succedono è già legittimamente conformata dall'intervenuto accertamento e possono legittimamente godere o non possono farci niente. Le cose sono diverse per i successori subentrati nel rapporto giuridico prima del giudicato poiché in questo caso il successore non subentra in una situazione già compiuta ed immutabile. Bisogna distinguere tra subentro nel rapporto giuridico prima della proposizione della domanda e dopo la proposizione della domanda. La successione ante causam nelle situazioni sostanziali controverse impone a chi agisce in giudizio di provocare, o comunque estendere, il contraddittorio al successore; nell'ipotesi di successione mortis causa occorre quindi agire direttamente contro l'erede; nell'ipotesi di successione a titolo particolare tra vivi la domanda dovrà investire l'avente causa. Nelle successioni in corso di causa, il diritto in cui si succede è qualificato dalla legge quale “successione nel diritto controverso” e la sua disciplina è contemplata dall'art. 111, al cui comma 4 dice che, in tal caso, il successore nel diritto controverso subirà, o godrà, gli effetti della sentenza che viene comunque resa nei confronti delle parti originarie; e poiché la successione avviene in un momento in cui il giudizio è in divenire, qui il successore potrà partecipare alla formazione della decisione, intervenendo, spontaneamente o su chiamata, ovvero impugnando la sentenza (art. 111 comma 3). 1 Capitolo 39 LE FASI DI QIESCIENZA DEL PROCEDIMENTO Le fasi di quiescienza del procedimento La quiescienza è uno stato di arresto della procedura, un periodo nel corso del quale il processo pende ma non possono venir compiuti i normali atti della serie procedimentale; la quiescenza è sempre uno stato provvisorio, e l'arresto del processo può venir meno attraverso specifici atti d'impulso (come l'atto di riassunzione); in mancanza di tali atti alla scadenza di un determinato lasso di tempo, il processo è destinato a estinguersi. Il procedimento di cognizione può restare quiescente per varie cause: sospensione, interruzione, cancellazione della causa dal ruolo. La sospensione L’art. 298, comma 1, prescrive che durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento; la sospensione interrompe i termini in corso, i quali torneranno a decorrere dalla ripresa della procedura. Il codice prevede due figure di sospensione: necessaria e concordata dalle parti. Le parti possono ottenere, di comune accordo e sulla base di una semplice richiesta al giudice, una sospensione del processo (art. 296); questa sospensione concordata è un istituto praticamente morto per la ridicola misura temporale del periodo massimo di sospensione: 3 mesi. Di fronte alla concreta possibilità di eventi in vario modo rilevanti per la controversia, è bene che lo svolgimento del giudizio ne prenda atto, arrestandosi temporaneamente per poter riprendere allorché, una volta verificatosi l'evento, di esso si possa tenere debitamente conto. Le principali figure di sospensione previsto dalla legge (oltre alle ipotesi degli articoli 295 e 296) sono: • sospensione per rimessione alla corte di giustizia dell'unione europea • sospensioni previste per preventiva pendenza di un identico giudizio di fronte all'autorità giurisdizionale di un altro Stato membro • sospensione per pendenza di processo straniero • sospensione per rimessione alla corte costituzionale • sospensione per proposizione del regolamento di competenza • sospensione per proposizione del regolamento di giurisdizione • sospensione per proposizione dell'istanza di ricusazione • sospensione per proposizione della querela di falso • sospensione per impugnazione della sentenza non definitiva in ipotesi di prosecuzione dell'istruttoria • sospensione del giudizio di cassazione in un'ipotesi di proposizione di revocazione contro la stessa sentenza • sospensione per improcedibilità della domanda dovuta al mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione nel rito del lavoro • sospensione per improcedibilità della domanda per mancato esaurimento dei procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa dei ricorsi in materia di previdenza e assistenza obbligatorie • sospensione discrezionale dei processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sottoposta alla corte di cassazione • sospensione del processo di merito in caso di ricorso per cassazione contro la sentenza che decide in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale. La sospensione necessaria A norma dell’art. 295, il giudice dispone che il processo sia sospeso quando occorre risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa; qui l'esigenza è legata al fatto che un altro giudice deve decidere un'altra causa, pendente tra le stesse parti, che si presenta pregiudiziale rispetto a quella considerata; la pregiudizialità consiste nel fatto che la decisione nel merito del processo passibile di sospensione dipende giuridicamente dalla decisione della causa pregiudiziale (Esempio: la causa di riconoscimento o disconoscimento della paternità rispetto alla causa di alimenti). La sospensione non può aversi quando la causa pregiudiziale pende di fronte allo stesso giudice della causa pregiudicata: in questo caso, se la causa pregiudiziale è stata instaurata con domanda autonoma rispetto alla causa pregiudicata, dovrà farsi applicazione dell’art. 274, cioè della riunione di procedimenti relativi a cause connesse (la riunione, in generale facoltativa, diviene doverosa di fronte alla alternativa della sospensione). Quando invece la causa pregiudiziale sorge nel corso della trattazione della causa dipendente, il processo non subisce alcuna sospensione poiché il giudice dovrà trattare, nell'unico processo pendente di fronte a lui, ambedue le cause (simultaneus processus), ovvero se incompetente sulla causa pregiudiziale, dovrà rimettere al giudice competente ambedue le cause. In ipotesi di due cause legate da nesso di pregiudizialità e proposte di fronte ai giudici diversi, per aversi sospensione occorre che sia impossibile l'applicazione del meccanismo dell’art. 40, comma 1, cioè della riunione di fronte al giudice preventivamente adito delle due cause; occorre cioè che questa riunione sia resa in concreto impossibile per tardività della rilevazione (art. 40 comma 2, la connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza), oppure per l'impossibilità di proficua trattazione congiunta a causa del differente stato di trattazione delle due cause (art. 40 comma 2, la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse). I provvedimenti relativi alla sospensione hanno forma di ordinanza, pronunciata dal giudice istruttore; nelle cause a struttura collegiale, essa è però 1 In caso di morte della parte il ricorso deve contenere gli estremi della domanda, e la notificazione entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell'ultimo domicilio del defunto. Capitolo 40 L’ESTINZIONE La rinuncia agli atti L’estinzione del processo è il fenomeno per cui il rapporto processuale instaurato non si conclude con la sentenza di merito ma con un provvedimento che chiude il processo senza pronunciare sulla domanda; le cause di estinzione sono: la rinuncia agli atti del giudizio e l'inattività delle parti. L'attore può rinunciare agli atti del giudizio in corso con effetto estintivo dello stesso; la rinuncia non può ovviamente provenire dal convenuto. Il processo si estingue se la rinuncia è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione; l'art. 306 comma 1 specifica che l'accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni. L'effetto dell’atto è l’estinzione del processo, cioè la chiusura del rapporto processuale in corso: in sé considerata la rinuncia agli atti significa rinuncia al processo ma non all'azione, non cioè al diritto tutelato dal processo, e quindi non alla possibilità di proporre daccapo, in un autonomo il futuro giudizio, la domanda giudiziale; in tal senso la rinuncia agli atti viene distinta dalla sempre possibile rinuncia all'azione, cioè al diritto azionato, che comporta la irriproponibilità della relativa domanda giudiziale. L’art. 306 impone che la rinuncia debba provenire dalla parte personalmente, ovvero dal procuratore speciale; la dichiarazione di rinuncia può essere fatta verbalmente all'udienza, ovvero con atti sottoscritti e notificati alle altre parti (art. 306 comma 2). Per essere efficace, inoltre, la rinuncia deve essere accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione. Non hanno interesse alla prosecuzione le parti che si sono limitate a chiedere il rigetto della domanda in punto diritto; questo tipo di eccezione dà infatti luogo, se accolta, ad un provvedimento che produce, nella sostanza, lo stesso effetto della dichiarazione di estinzione che conseguirebbe alla rinuncia agli atti del giudizio: non può allora invocare un interesse alla prosecuzione del processo chi vuole che il processo intentato muoia, chiudendosi in maniera simmetrica a quella che conseguirebbe la dichiarazione di estinzione. La parte che si è difesa entrando nel merito della domanda, avendo chiesto il rigetto della domanda per mancanza del diritto fatto valere, mostra di avere interesse a proseguire il processo, quindi a una sentenza di merito. Vanno quindi considerati interessati alla prosecuzione del giudizio e devono quindi accettare la rinuncia a pena di inefficacia dell'atto, le controparti dell'attore che hanno esperito difese di merito nel processo. Il convenuto che ha esperito eccezioni di diritto e di merito non manifesta un vero interesse alla prosecuzione del processo: l’eccezione di rito è di per sé pregiudiziale rispetto a quelle di merito, e la sua proposizione indicherebbe inequivocabilmente che egli si ritiene a priori soddisfatto della chiusura del processo senza esame del merito, cioè di un effetto simmetrico a quello della rinuncia agli atti. Quanto alle spese, l’art. 306 ultimo comma prevede che il rinunciante debba rimborsare le spese effettuate dalle altre parti e che la liquidazione delle spese è fatta dal giudice istruttore con ordinanza non impugnabile; naturalmente fatto salvo diverso accordo delle parti. L'inattività delle parti Il primo gruppo di casi di inattività è descritto dal comma 1 dell’art. 307; si tratta di casi in cui un processo in stato di quiescenza deve essere riassunto entro il termine perentorio di 3 mesi dalla data in cui è entrato in quiescenza. I casi in cui il giudice ordina la cancellazione dal ruolo sono: • quello in cui nessuna delle parti costituite è comparsa all'udienza di recupero fissata dal giudice quando la prima udienza è andata deserta • quello in cui nessuna delle parti costituite è comparsa all'udienza di recupero fissata dal giudice quando una qualunque udienza successiva alla prima è andata deserta • quello in cui nessuna delle parti ha provveduto alla citazione del terzo ordinata dal giudice • quello in cui, costituitosi tardivamente l'attore, anche il convenuto si sia costituito fuori termine eccependo l‘intempestività della costituzione del primo. Il processo deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di 3 mesi, che decorre rispettivamente dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto a norma dell'articolo 166, o dalla data del provvedimento di cancellazione, in mancanza di tempestiva riassunzione, il processo si estingue. In tutti questi casi, una volta riassunto, il processo si estingue se nessuna delle parti si sia costituita (quindi dopo la riassunzione non è ripetibile la vicenda di una nuova cancellazione); l'estinzione si verifica alla data della scadenza del termine per la costituzione della parte nei cui confronti è operata la riassunzione. Il processo si estingue inoltre se nei casi previsti dalla legge il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo; in altri termini, se il processo è stato già riassunto dopo un termine di quiescenza, una nuova, eventuale cancellazione della causa dal ruolo determinerà sempre estinzione immediata. Un secondo gruppo di casi è contemplato dal comma 3 dell’art. 307, che richiama il comportamento inerte delle parti alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire o riassumere o integrare il giudizio; il processo si estingue immediatamente ove queste non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Rientrano in tali previsioni: • l’art. 164, comma 2 (mancata rinnovazione della citazione nulla nel termine perentorio fissato dal giudice che, di fronte alla mancata costituzione in giudizio del convenuto, riscontri un vizio della vocatio in ius) • L’art. 291 (mancata rinnovazione della notificazione della citazione, nel termine perentorio fissato del giudice che, in sede di udienza di prima 1 comparizione e trattazione, riscontri un vizio della notificazione che potrebbe giustificare la mancata costituzione del convenuto) • L’art. 102, comma 2 (mancata integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice quando questi riscontri un litisconsorzio non integro) • L’art. 305 (mancata riassunzione o prosecuzione del processo interrotto entro 3 mesi) • L’art. 50 ultimo comma (mancata riassunzione, entro i termini del comma 1, del processo di fronte al giudice dichiarato competente) • L’art. 290 (mancata costituzione dell'attore non correlata ad istanza di prosecuzione del processo da parte del convenuto) • L’art. 181, comma 2 (mancata comparizione dell'attore all'udienza fissata ad hoc dal giudice a seguito della mancata comparizione dell'attore, già costituito, alla prima udienza). Nelle ipotesi previste al comma 1 dell’art. 307 l'estinzione consegue ad una doppia inattività: la primitiva inattività considerata dalla legge è idonea a provocare solo un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo; occorrerà poi che passi un trimestre senza una successiva attività di riassunzione perché possa prodursi l'estinzione. Nelle ipotesi previste dal comma 3, fattispecie dell'estensione è una singola inattività: l'estinzione è immediata e consegue alla cancellazione della causa dal ruolo. Rilevazione e pronuncia di estinzione L’ultimo comma dell’art. 307 afferma che l'estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d'ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio; la dichiarazione retroagisce al momento in cui si è perfezionata la fattispecie estintiva. La parte interessata alla prosecuzione può proporre reclamo al collegio contro la declaratoria di estinzione nei modi di cui all'articolo 177 commi 3, 4 e 5 (art. 308, comma 1). Il comma 2 dell’art. 308 aggiunge che il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza, se respinge il reclamo, e con ordinanza non impugnabile se la accoglie. Gli effetti dell'estinzione Gli effetti dell'estinzione sono stabiliti dall’art. 310. A estinguersi è il processo: l'estinzione da un lato impedisce di compiere ulteriori atti della serie, dall'altro rende inefficaci gli atti compiuti. L'estinzione non estingue l'azione. L’art. 2945, comma 3, prescrive che se il processo si estingue, rimane fermo il solo effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo (atto interruttivo che coincide con la proposizione della domanda giudiziale); ne segue che, se il processo è durato più del termine di prescrizione del diritto, la domanda sarà riproponibile ma sarà anche fondata l'eventuale eccezione di prescrizione del convenuto: non potendosi considerare sospeso tra le parti il corso della prescrizione, questa si sarà ormai consumata. revocazione straordinaria, caratterizzati sotto alcuni aspetti come mezzi di impugnazione, ma che, sotto altri aspetti, presentano caratteri di autonome azioni di accertamento esercitate nella forma delle impugnazioni: a differenza delle impugnazioni ordinarie, esse non danno luogo ad un prolungamento del processo attraverso un nuovo grado dello stesso, così impedendo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ma vengono esperite contro la sentenza già passata in giudicato; esse danno vita ad un processo, distinto, anche se naturalmente collegato a quello nel quale fu pronunciata la sentenza impugnata. Il termine breve L’art. 325 stabilisce: a. un termine di 30 giorni per esperire l'appello contro la sentenza di primo grado, nonché per proporre la revocazione e l'opposizione di terzo di cui all'articolo 404 comma 2; b. un termine di 60 giorni per esperire il ricorso contro le sentenze ricorribili per cassazione. Si tratta di termini perentori, sicché una volta inutilmente scaduti, l'impugnazione diventa inammissibile. Secondo l'articolo 326, i termini decorrono dalla notificazione della sentenza. Decorrenza dalla notificazione della sentenza significa che essi decorrono da una data mobile perché la notificazione della sentenza è atto meramente facoltativo; la sentenza viene ad esistenza attraverso la sua pubblicazione, cioè attraverso il deposito in cancelleria, dal quale giorno essa prende la sua data; la notifica della sentenza da cui decorrono i termini di 30 o 60 giorni previsti dall'articolo 325 è un atto successivo al deposito e meramente eventuale. Va ricordata la eccezionalità del regolamento di competenza, il cui termine non decorre dalla notificazione dell'ordinanza bensì dalla sua comunicazione. Ai fini del decorso del termine breve, la notificazione della sentenza va fatta al procuratore della parte costituita nel giudizio e non personalmente alla controparte. La notifica della sentenza fa scattare il termine breve per impugnare non solo nei confronti del notificatario, ma anche nei confronti della parte notificante: il principio è infatti quello della comunanza del termine ad entrambe le parti. Il termine lungo L’art. 327 comma 1 stabilisce che anche in mancanza di notificazione, la sentenza non resta perennemente soggetta ad impugnazione, poiché, decorso un semestre dalla sua pubblicazione, essa comunque non è più soggetta ad impugnazione e passa in giudicato. Il termine semestrale è stato introdotto dalla legge 69/2009 in sostituzione del termine di un anno contemplato dal testo originario dell'articolo. La sentenza, una volta depositata in cancelleria, deve comunque essere impugnata entro sei mesi, dopo di che essa assume la definitività della cosa giudicata; tuttavia all'interno di questo arco temporale, se una parte vuole accelerare il passaggio in giudicato della sentenza, può notificare la stessa alla controparte; non è possibile recuperare il potere d'impugnazione, in pratica allungare il termine lungo in scadenza, notificando la sentenza sotto scadenza del semestre. Interruzione del termine breve e regime del termine lungo 1 Durante la decorrenza del termine breve può però sopravvenire, in capo al notificatario, uno degli eventi previsti nell'articolo 299 (morte, incapacità, estinzione della persona giuridica): l'evento produce interruzione del termine per l'impugnazione e un nuovo termine breve inizia a decorrere dal giorno in cui venga rinnovata la notificazione della sentenza (art. 328, comma 1); per semplificare il compito alla parte onerata della rinnovazione, questa può essere fatta agli eredi collettivamente e impersonalmente, nell'ultimo domicilio del defunto. Va ricordato inoltre che il comma 3 dell'art. 328, attualmente viene considerato inapplicabile. L'eccezione al termine semestrale L’art. 327, comma 2, stabilisce che la disposizione del primo comma, cioè il limite finale di sei mesi dalla pubblicazione, non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art. 292. La regola per cui la sentenza passa comunque giudicato decorso il semestre dal deposito, non si applica dunque nell'ipotesi di contumacia involontaria del convenuto, al quale è permesso di impugnare la sentenza anche dopo la scadenza dei sei mesi, con l'avvertenza che l'ammissibilità della relativa impugnazione dipende dalla prova che la nullità dedotta affettante l'atto introduttivo gli ha impedito la conoscenza effettiva del processo. Quindi, la presenza della nullità degli atti contemplati nell'articolo 327 comma 2 non è da sola sufficiente a rendere ammissibile l'impugnazione tardiva: la prova della mancata conoscenza del processo deve essere offerta da chi esperisce l'impugnazione tardiva e tale prova, lungi dall'esaurirsi nella dimostrazione della nullità della notifica dell'atto introduttivo, deve consistere nel fatto che, in conseguenza della dedotta nullità, la parte non abbia avuto la conoscenza effettiva del processo concluso dalla sentenza impugnata. L’acquiescenza L'impugnazione può diventare improponibile, oltre che per scadenza dei termini, anche per sopravvenuta acquiescenza (art. 329). Facendo acquiescenza alla sentenza, la parte soccombente esprime la propria volontà di non impugnarla e, quindi, ne fa accettazione; la manifestazione di acquiescenza può consistere in una dichiarazione (successiva alla sentenza proveniente dalla parte personalmente o dal suo procuratore comandato ad hoc) di accettazione espressa della pronuncia giudiziale o di formale rinuncia a sottoporla a gravame (accettazione espressa), ovvero in un comportamento concludente (accettazione tacita); questo comportamento deve consistere in atti incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione. L'esecuzione spontanea della sentenza da parte del soccombente non è un atto di acquiescenza tacita, in quanto l'adempimento è un atto dovuto e non può essere scambiato con la rinuncia ad impugnare la sentenza. Acquiescenza parziale o impropria Il secondo comma dell’art. 329 prevede a sua volta che la proposizione di una impugnazione parziale importi acquiescenza alle parti della sentenza non impugnata; quindi se la parte risulta soccombente rispetto a due capi della sentenza, l'impugnazione di uno solo di essi fa sì che il giudice dell'impugnazione non possa conoscere e decidere dell'altro, con la conseguenza che sul capo non impugnato si formerà automaticamente giudicato. Questa riduzione dell'ambito dell'impugnazione però si produce purché le parti della sentenza non impugnate possano considerarsi autonome e non dipendenti dal capo impugnato; a complicare le cose sta infatti la disposizione del comma 1 dell’art. 336, secondo cui la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. L'acquiescenza che l’art. 329 comma 2 provoca rispetto alle parti non impugnate della sentenza, fa sì che, una volta impugnata una parte, non sia comunque possibile investire le parti di sentenza non originariamente impugnate proponendo la seconda impugnazione della stessa specie; la successiva impugnazione, se proposta, va dichiarata inammissibile. La notificazione dell'impugnazione La notificazione dell'atto di impugnazione avviene di norma presso il procuratore domiciliatario della parte contro cui essa è proposta; si intende che ciò è possibile quando si abbia a che fare con parti costituite nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza impugnata: quando l'impugnazione deve notificarsi ad una parte contumace, essa dovrà essere fatta ad essa personalmente. Trascorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, l'impugnazione, nei casi in cui essa è ancora ammessa (art. 327, comma 2) si notifica comunque, non al procuratore costituito ma personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti. Ai sensi del comma 2 dell’art. 330, se dopo la notificazione della sentenza si verifica il venir meno della parte nei cui confronti deve proporsi l'impugnazione, questa può essere notificata, sempre in luoghi previsti dal comma 1, collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta. Le impugnazioni incidentali Non è possibile che un singolo soccombente possa frazionare la sentenza, impugnandone in primo momento un capo di decisione e successivamente un altro; ciò è vietato dall'articolo 329 comma 2. Quando invece la soccombenza è distribuita tra le parti, ognuna di esse è legittimata ad impugnare i capi della sentenza ad essa sfavorevoli, con la conseguente possibilità di più impugnazioni contro la stessa sentenza; in questo caso si parlerà di impugnazioni incidentali. Tutte le impugnazioni che possono riguardare la sentenza vanno inderogabilmente trattate e decise unitariamente, cioè nello stesso procedimento; in tal senso, proposta la prima impugnazione, impugnazione principale, tutte le successive assumono la forma dell'impugnazione incidentale, cioè dell'impugnazione successiva ed interna allo stesso procedimento di impugnazione derivante da quella principale, nelle forme prescritte dal mezzo di impugnazione considerato. Contro la stessa sentenza non possono quindi aver luogo procedimenti distinti che rendono concretamente possibili decisioni tra loro contrastanti; principio fondamentale è quello della unitarietà del processo di impugnazione, per cui una volta aperto un procedimento di impugnazione contro una data sentenza, esso deve fungere da contenitore di tutte le ulteriori possibili impugnazione di essa. L’art. 333 stabilisce che le parti alle quali siano state fatte le notificazioni previste dagli articoli precedenti devono proporre a pena di decadenza le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo. La riunione delle 1 non sono delegabili ad un membro dello stesso. La collegialità integrale per ogni fase del giudizio si impone per i giudizi in grado d'appello, mentre non vale per i giudizi in unico grado affidati alla corte d'appello, nei quali casi viene mantenuta la dinamica giudice istruttore/collegio propria dei giudizi davanti al tribunale. Rispetto alle sentenze dei giudici di pace, funge da giudice d'appello il tribunale in formazione monocratica, della circoscrizione in cui cade l'ufficio del giudice di pace da cui proviene la sentenza. Le sentenze appellabili Sono soggette ad appello le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge ovvero dall'accordo delle parti a norma dell'art. 360 comma 2 (art. 339). L'appello è escluso dalla legge, innanzitutto nei confronti dei provvedimenti, peraltro in forma di ordinanza, che pronunciano solo sulla competenza, contro i quali è ammesso esclusivamente il regolamento di competenza; sono viceversa appellabili le sentenze che pronunciano contemporaneamente sulla competenza e sul merito, con il solo limite che l'appello non può limitarsi alla statuizione relativa alla competenza. Non appartengono al novero delle sentenze di primo grado, e pertanto nei loro confronti la legge esclude l'appello, le sentenze in unico grado, che sono: • La sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'art. 114, definita espressamente inappellabile dall’art. 339; • le sentenze rese dalla corte d'appello che giudica non in funzione di giudice d'appello bensì su domanda ad essa direttamente proposta; queste sentenze sono ricorrenti per cassazione in virtù dell'art. 360 secondo cui possono essere impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in unico grado; • le sentenze contenenti accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi pronunciata dal giudice del lavoro: queste sentenze sono impugnabili soltanto con ricorso immediato per cassazione. Sono invece appellabili, ma con appello soggetto a specifici limiti, le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'art. 113, comma 2; l'appello è dato esclusivamente per violazione di norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia (art. 339, ultimo comma). L’art. 360, comma 2, prevede l'inappellabilità di una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello a favore dell’esperibilità diretta del ricorso per cassazione; il caso configura un accordo processuale che comporta non la nuda rinuncia ad impugnare la sentenza, ma la scelta di un diverso mezzo di impugnazione (ricorso per saltum); in tal caso l'impugnazione può proporsi soltanto a norma dell'art. 360 comma 1, numero 3, cioè per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Appellabilità delle sentenze non definitive e riserva d'appello Oltre alle sentenze conclusive del rapporto processuale (definitive), sono appellabili, se emesse in primo grado: • Le sentenze “parzialmente definitive”, cioè non conclusive del processo ma decisorie di domande (cioè esaurienti uno dei più oggetti controversi cumulati nel processo); • le sentenze non definitive in senso proprio, cioè le sentenze che non solo non chiudono il processo, ma non definiscono neppure il giudizio sul diritto fatto valere (esempio: la sentenza che si limita ad accertare l'insussistenza della prescrizione del diritto); • la sentenza di condanna generica prevista dall'art. 278. Quanto alla loro appellabilità, le sentenze non definitive, nonché quella di condanna generica, soggiacciono ad una particolare disciplina prevista dall’art. 340, che consente alla parte soccombente di non appellare tali sentenze, senza peraltro che ne consegua il loro passaggio in giudicato, attraverso il meccanismo della riserva di appello: il soccombente dichiara di voler proporre comunque appello ma se ne riserva l'effettiva proposizione in un momento successivo; la sorte della sentenza resta pertanto sospesa: essa sarà impugnabile unitamente alla sentenza che definisce il giudizio. La riserva va fatta, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa (art. 340 comma 1); la riserva peraltro non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello (art. 340 , comma 3). Piuttosto che frazionare il processo proponendo un'impugnazione immediata contro la sentenza non definitiva, il legislatore ha lasciato la parte soccombente libera di impugnare in un secondo momento. Rispetto alle sentenze appellabili dell’art. 340, la parte soccombente ha quindi 3 scelte: 1. appellare immediatamente la sentenza; 2. restare inerte (non proporre impugnazione immediata, né fare riserva di appello); 3. fare riserva di appello. In quest'ultimo caso la parte prenota la successiva impugnazione, da esperire quando giungerà la sentenza finale; se, fatta la riserva, al momento dell'impugnazione della sentenza definitiva non sopravviene l'impugnazione della non definitiva, la riserva perde effetto con una sorta di passaggio in giudicato retroattivo: la sentenza il cui passaggio in giudicato era stato sospeso passerà in giudicato retroattivamente. La riserva è sotto condizione risolutiva: essa vale ma a condizione che sia eseguita nei termini prestabiliti dall'impugnazione, altrimenti non ha alcun effetto. Se la riserva è stata regolarmente fatta ma un'altra parte a sua volta appella immediatamente la sentenza, viene meno anche la riserva della parte che abbia preferito questa strada rispetto all'impugnazione immediata. Effetto devolutivo e effetto sostitutivo L’appello è caratterizzato da alcuni effetti peculiari che lo caratterizzano quale gravame: l'effetto devolutivo e l'effetto sostitutivo. Effetto devolutivo significa 1 trasferimento della controversia in appello; la materia del contendere non è trasferita automaticamente per il solo fatto che sia proposto un qualunque appello; per far sì che l'oggetto del giudizio di primo grado corrisponda all'oggetto del giudizio d'appello, è necessario poter escludere che l'appellante si sia limitato a proporre un appello ad ambito più ristretto; oltre infatti alla generale possibilità di acquiescenza parziale, occorre considerare lo specifico meccanismo dell'art. 346 che impedisce il semplice appello della sentenza che comporta il nuovo giudizio sulle eccezioni raccolte in primo grado; la devolutività della controversia in appello fa sì che il giudice di secondo grado riesamini l'intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta. In ogni caso la pronuncia resa in appello ha natura ed effetto sostitutivo della pronuncia gravata; l'effetto sostitutivo è l'attitudine della sentenza d'appello a sostituirsi integralmente alla sentenza impugnata, non solo nel caso in cui questa venga riformata, ma anche nel caso in cui venga confermata. L’ambito dell’appello Tutte le volte in cui sia possibile suddividere la sentenza in più parti o capi, l'appello di uno di questi capi fa sì che automaticamente si debbano intendere rinunciare gli altri capi, che passano automaticamente in giudicato; non sarà possibile per il giudice d'appello giudicare su di essi. In appello, la norma generale dell'art. 329 va completata dall'ulteriore prescrizione dell'art. 346 (“Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate). Forme e modalità dell'appello Nel giudizio di cognizione ordinaria, l'appello si propone con atto di citazione ad udienza fissa, simmetricamente alla domanda che introduce il giudizio di primo grado: l'appello si propone con citazione contenente l'esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell'impugnazione, nonché le indicazioni prescritte nell'art. 163 (art. 342, comma 1). L’art. 342 prescrive che l'atto d'appello deve contenere oltre all'esposizione sommaria dei fatti, i motivi specifici dell'impugnazione; ciò significa che l'appellante deve indicare, non solo i punti e i capi impugnati, ma anche le ragioni per cui viene chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi di fatto di diritto posti a base dell'impugnazione; lo scopo è quello di precisare esattamente il contenuto e la portata delle relative censure. i motivi sono peraltro liberamente determinabili, a differenza che nel ricorso per cassazione, in cui la tipologia dei motivi è prestabilita dalla legge; inoltre essendo l'appello mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno (non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito), il principio della specificità dei motivi prescinde da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano indicate, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l'impugnazione. Trova applicazione l'art. 163-bis: i termini minimi a comparire per l'appellato sono determinati in 90 giorni, il che vuol dire che l'appellante deve fissare la data dell'udienza a non meno di 90 giorni dalla notifica, 150 in caso di luogo della notificazione situato all'estero. L’art. 347, comma 1, stabilisce che la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale; la procedura è
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