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RIASSUNTI SECONDA PARTE DIRITTO PRIVATO, Sintesi del corso di Diritto Privato

Riassunto della seconda parte di diritto privato

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 04/01/2021

Giovanni2.0.0.0.
Giovanni2.0.0.0. 🇮🇹

4.4

(17)

35 documenti

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Scarica RIASSUNTI SECONDA PARTE DIRITTO PRIVATO e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Privato solo su Docsity! possibile dalla volontà del fondatore. Fino a tempi recenti la fondazione ha avuto importanza marginale nella nostra realtà socio-economica, essendo strumento principalme utilizzato per realizzare l'intento di soggetti con non trascurabili disponibilità economiche di perpetuare il proprio nome, ancorandolo ad un'organizzazione con finalità di pub blico interesse. Dall'ultimo quarto del secolo scorso, il panorama è mutato. Innanzitutto, la rinata disponibilità a fronte della crisi del welfare state, di cittadini ed imprese a destinare risorse finanziarie a fini di utilità sociale, senza la mediazione del potere politico, ha trovato proprio nella fondazione uno strumento duttile ed efficiente (es Fondazione Fondo l'Ambiente Italiano FAI, Fondazione Telethon). In secondo luogo, la legge ha imposto la trasformazione in fondazioni di diritto privato: (i) di singoli enti pubblici; (ii) di intere categorie di enti pubblici. IL COMITATO->organizzazione di più persone che, attraverso raccolta pubblica di fondi, costituisce un patrimonio con il quale realizzare finalità di natura altruistica. Il comitato, al pari dell'associazione, nasce da un accordo di tipo associativo, in forza del quale più soggetti (promotori) si vincolano all'esercizio in comune di un'attività di raccolta, tra il pubblico, dei mezzi con cui successivamente realizzare il programma enunciato ai fini della sollecitazione delle oblazioni. L’attività del comitato si articola in due fasi: a)i promotori annunciano al pubblico la volontà di perseguire un determinato scopo (es soccorrere i terremotati), invitando interessati (sottoscrittori) effettuare offerte denaro o altri beni (oblazioni); b) i promotori gestiscono i fondi raccolti, onde realizzare lo scopo annunciato ai sottoscrittori. Il patrimonio del comitato è costituito dai fondi pubblicamente raccolti, con i quali ben potrebbero essere acquistati beni, mobili ed anche immobili. Su detti fondi grava però, diversamente da quel che accade nell'associazione e conformemente a quel che accade nella fondazione, un vincolo di destinazione allo scopo programmato. Solo l'autorità governativa è legittimata,qualora i fondi raccolti fossero insufficienti allo scopo, o questo non fosse più attuabile, o fosse raggiunto a dare loro una diversa destinazione. Dalle esemplificazioni contenute nel disposto dell'art. 39 c.c. si deduce che lo scopo del comitato deve essere di pubblico interesse o altruistico. Non è invece necessario,anche se è frequente,che sia di durata limitata nel tempo. Il codice prevede che il comitato possa vivere o come ente non riconosciuto, dotato di semplice soggettività, o richiedere ed ottenere il riconoscimento e, con esso, la personalità giuridica. In questa seconda ipotesi l'atto costitutivo dovrà essere redatto in forma pubblica. Il procedimento e condizioni per riconoscimento->medesimi previsti per riconoscimento associazioni e fondazioni. Per le obbligazioni del comitato riconosciuto risponde solo quest'ultimo con il suo patrimonio: autonomia patrimoniale perfetta. Ai sottoscrittori può essere richiesto esclusivamente di effettuare le oblazioni promesse. Per le obbligazioni del comitato privo di riconoscimento rispondono personalmente, in solido con il patrimonio dell'ente, anche tutti i componenti il comitato. Ai sottoscrittori non può essere richiesto che di effettuare le oblazioni promesse. ALTRE ISTITUZIONI DI CARATTERE PRIVATO. Personalità giuridica agli effetti civili è attribuita agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti appartenenti alla Chiesa Cattolica (es conferenza episcopale italiana, parrocchie), per i quali è conseguentemente prevista l'iscrizione nel registro delle persone giuridiche. IL TERZO SETTORE. Il declino della famiglia patriarcale, l'emergere nel tessuto sociale di tutta una serie di nuovi bisogni da soddisfare (es esigenze di assistenza ai tossicodipendenti, immigrati), la crisi del welfare state indotta dalle necessità di contenimento della spesa pubblica hanno determinato, a partire dalla fine degli anni 70, la progressiva espansione del c.d. terzo settore: cioè, della realizzazione di attività di utilità sociale nei settori dell'assistenza, della tutela dell'ambiente, della promozione della cultura e dell'arte, ecc. ad opera di enti senza fini di lucro (c.d. enti non profit), espressione della società civile. La materia è stata oggetto di una revisione organica ad opera del D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117: c.d. codice del terzo settore. Innanzitutto, viene per la prima volta fornita una definizione normativa di ente del terzo settore (ETS), per tale intendendosi quell’ente di carattere privato che,senza scopo di lucro, persegue finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in uno dei settori tassativamente indicati nell'art. 5 D.lgs, n. 117/2017 ed è iscritto nel registro unico nazionale del terzo settore. La qualifica di ETS è preclusa alle fondazioni bancarie, alle formazioni politiche, ai sindacati, alle associazioni economiche. Agli ETS è consentito svolgere attività d'impresa : a) sia in via esclusiva o principale; b) sia in via secondaria e strumentale rispetto a quella di interesse generale, esercitata in via principale. Nel primo caso, sarà proprio attraverso l'esercizio dell'attività d'impresa che l'ente realizzerà i propri fini istituzionali; nel secondo, l'esercizio dell'attività d'impresa sarà invece finalizzato a supportare (es attraverso il perseguimento di profitti) l'attività di interesse generale dall'ente svolta in via principale. Se esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma d'impresa, gli ETS sono soggetti all'obbligo di iscrizione, oltre che nel registro unico nazionale del terzo settore anche nel registro delle imprese. Agli ETS,anche laddove esercitino attività d'impresa e, conseguentemente, perseguano il lucro oggettivo, è comunque precluso il lucro soggettivo, essendo loro vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi a favore di fondatori, associati, lavoratori e collaboratori , amministratori ed altri componenti degli organi sociali, sia nel corso della vita dell'ente, sia in ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo, sia in caso di estinzione o scioglimento dell'ETS, il cui patrimonio residuo dovrà essere devoluto ad altro ente del terzo settore. Gli ETS debbono redigere il bilancio di esercizio, depositandolo presso il registro unico nazionale del terzo settore. Se esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma d'impresa commerciale, gli ETS debbono tenere le scritture contabili dal codice civile imposte alle imprese commerciali e redigere il bilancio di esercizio, depositandolo presso il registro delle imprese, secondo modalità e contenuti previsti per le società di capitali. Essendo loro precluso lo scopo di lucro soggettivo, gli ETS di appaiono destinati ad assumere forma giuridica dell'associazione, fondazione o degli altri enti di carattere privato diversi dalle società. Gli ETS costituiti in forma di associazione o di fondazione acquisiscano personalità giuridica mediante l'iscrizione nel registro unico nazionale del terzo settore, previo controllo di legittimità del relativo atto costitutivo ad opera del notaio che lo ha ricevuto; possono acquistare personalità giuridica solo qualora loro patrimonio sia non inferiore a 15K se associazioni,e a 30K se fondazioni. tutto. Immobili sono altresì considerati alcuni altri beni non incorporati al suolo: i mulini e gli edifici galleggianti, quando siano saldamente ancorati alla riva o all'alveo per destinazione permanente; A) mobili, per tali intendendosi tutti gli altri beni,comprese le energie. I BENI REGISTRATI->sono oggetto di iscrizione in registri pubblici, che chiunque può liberamente consultare. Nel nostro ordinamento sono istituiti: a) il registro immobiliare, tenuto presso gli uffici periferici dell'Agenzia delle Entrate, in cui sono pubblicizzate le vicende relative ai beni immobili; b) il pubblico registro automobilistico, in cui pubblicizzate vicende relative autoveicoli; c) i registri indicati dal cod. nav.,in cui sono pubblicizzate vicende relative navi e galleggiant; d) il registro aeronautico nazionale in cui pubblicizzate le vicende relative agli aeromobili. I PRODOTTI FINANZIARI. Per prodotti finanziari si intendono tutte le forme di investimento di natura finanziaria, esclusi i depositi bancari e postali non rappresentati da strumenti finanziari. Tra i prodotti finanziari una posizione di particolare rilievo occupano gli strumenti finanziari, azioni, obbligazioni ed altri titoli di debito il cui tratto comune è quello della loro idoneità a formare oggetto di negoziazione sul mercato dei capitali. La legge impone a chiunque intenda effettuare una offerta al pubblico di prodotti finanziari l'obbligo di predisporre un prospetto informativo, contenente,in una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell'emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti. BENI FUNGIBILI E INFUNGIBILI. a) fungibili (o di genere o generici), per tali intendendosi quelli che sono individuati con esclusivo riferimento alla loro appartenenza ad un determinato genere (es denaro): essi possono essere sostituiti indifferentemente con altri, in quanto non interessa, secondo la comune valutazione, avere proprio quel bene, ma una data quantità di beni di quel genere; b) infungibili, per tali intendendosi quelli individuati nella loro specifica identità (opera d'arte); tali sono, di regola, i beni immobili. La fungibilità o infungibilità dipende, anzitutto, dalla natura dei beni: il quadro di un celebre autore è infungibile, mentre il denaro è eminentemente fungibile. La fungibilità o infungibilità può, peraltro, derivare anche dalla volontà delle parti, le quali possono attribuire carattere infungibile ad un oggetto che, secondo la comune valutazione, dovrebbe essere considerato fungibile (es per me può avere interesse acquistare una determinata copia di un certo libro perché appartenuta ad una persona cara). Le due categorie sono sottoposte ad una disciplina parzialmente diversificata. Ad es mentre per trasmettere all'acquirente la proprietà di un bene infungibile è sufficiente che le parti raggiungano un accordo al riguardo, senza necessità di ulteriori adempimenti (es consegna del bene),per il trasferimento della proprietà di una determinata quantità di beni fungibili, non basta che sia intervenuto, al riguardo, un accordo fra venditore ed acquirente; occorre altresì la separazione, la quale consiste nella numerazione, nella pesatura o nella misura della parte dovuta. Un vecchio aforisma giuridico avverte che «genus numquam perit». Esso esprime una verità indiscutibile: potrà perire la quantità di grano che si trova nel mio granaio ; ma mai potrà perire tutto il genus. A questa che sembra una verità lapalissiana si connettono conseguenze giuridiche. Se mi sono obbligato a dare una certa quantità di beni fungibili e il mio vino va perduto per una causa qualsiasi, io non mi libero dall'obbligazione, perché non vi è una impossibilità assoluta: tutto si riduce nell'obbligo di procurarmi dell'altro vino di quella stessa qualità. La distinzione tra cose fungibili ed infungibili serve altresì a distinguere il mutuo dal comodato. BENI CONSUMABILI E INCONSUMABILI. a) consumabili, per tali intendendosi quelli che non possono arrecare utilità all'uomo senza perdere la loro individualità (es cibo,carburante), o senza che il soggetto se ne privi (es danaro); b) inconsumabili, per tali intendendosi quelli che sono suscettibili di plurime utilizzazioni senza essere distrutti nella loro consistenza (es edificio), ancorché, sovente, si deteriorino con l'uso (es vestito,autovettura) (beni deteriorabili). I beni consumabili sono anche detti beni ad utilità semplice o a fecondità semplice; i beni inconsumabili sono anche detti beni ad utilità permanente o a fecondità ripetuta. La distinzione ha notevole importanza pratica, in quanto talune regole o istituti trovano applicaz agli uni e non agli altri e viceversa. ES usufrutto che è un diritto reale con il quale si attribuisce il godimento di uno o più beni a persona diversa dal proprietario, con l'obbligo di rispettare la destinazione economica e di restituire lo stesso o gli stessi beni ricevuti, non è concepibile rispetto ai beni consumabili. Rispetto a tali beni è, invece, configurabile un rapporto diverso: il quasi-usufrutto (art. 995 c.c.: il quasi-usufruttuario ha diritto di servirsi dei beni e deve restituire il valore al termine dell'usufrutto). Altro aspetto della distinzione tra beni consumabili ed inconsumabili si ravvisa nella distinzione tra comodato e mutuo. Il comodato è un contratto con il quale si consegna ad una persona una cosa a titolo gratuito, perché se ne serva con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Esso non è concepibile rispetto ai beni consumabili. A questi si addice la figura del mutuo in cui si ha l'obbligo di restituire non la stessa cosa, ma la stessa quantità di beni dello stesso genere. BENI DIVISIBILI E INDIVISIBILI. a) divisibili, per tali intendendosi quelli suscettibili di essere ridotti in parti omogenee senza che se ne alteri la destinazione economica (es appezzamento di terra); B) indivisibili, per tali intendendosi quelli che non rispondono a tale caratteristica (es un animale vivo). La nozione di bene divisibile assume rilievo in caso di contitolarità di diritti sul bene. Difatti mentre, se il bene è divisibile, si può sempre ottenere lo scioglimento della comunione, se il bene è indivisibile, lo scioglimento della comunione può aver luogo soltanto o con l'attribuzione dell'intero nella porzione di quello tra i condividenti che ne facciano richiesta, con addebito dell'eccedenza a beneficio degli esclusi; o con la vendita del bene all'incanto e successiva ripartizione del ricavato tra gli aventi diritto. BENI PRESENTI E FUTURI. a) beni presenti, per tali intendendosi quelli già esistenti in natura: solo questi possono formare oggetto di proprietà o di diritti reali; b) beni futuri, per tali intendendosi quelli non ancora presenti in natura (ES frutti che verranno prodotti da un albero):essi possono formare oggetto solo di rapporti obbligatori, salvo i rari casi in cui ciò sia vietato dalla legge (donazione beni futuri). Negozi aventi per oggetto un bene futuro->due situazioni distinte. Può darsi che chi acquista un bene futuro non voglia assumere alcun rischio: è perciò stabilito che, se esso non viene ad esistenza, il contratto non produce effetto e nessun corrispettivo è dovuto dall'altra parte (es compratore dei frutti di un fondo nulla deve pagare, se i frutti non prodotti): emptio rei speratae. Se invece le parti si affidano alla sorte (contratto detto aleatorio): comprano ciò che si ricaverà dal getto della rete, e quindi lo stesso prezzo sarà dovuto sia nel caso in cui la rete esca dal mare piena di pesci, sia in quello in cui risulti vuota: emptio spei. I FRUTTI. Si distinguono in: a) frutti naturali, che sono prodotti direttamente da altro bene, vi concorra o meno l'opera dell'uomo (es prodotti agricoli) . Perché si possa parlare di frutti, occorre che la produzione abbia carattere periodico e non incida né sulla sostanza ne sulla destinazione economica della cosa madre: es taglio periodico di alberi di un bosco destinato alla produzione di legna, costituisce frutto dell'immobile (terreno). Finché non avviene la separazione dal bene che li produce, i frutti naturali si dicono pendenti: essi formano parte della cosa madre (cosa fruttifera) e non hanno ancora esistenza autonoma. Sono considerati come beni futuri e possono, quindi, formare oggetto unicamente di rapporti obbligatori. Solo con la separazione i frutti naturali acquistano una loro distinta individualità e divengono oggetto di un autonomo diritto di proprietà: che spetta al proprietario della cosa-madre salvo che questi non ne abbia già disposto a favore di altri. b) frutti civili, che sono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Se io concedo il mio appartamento in locazione ad altri e questi mi paga un corrispettivo, io ricavo dalla mia cosa un quid che non è naturalmente prodotto da essa, ma sostituisce le utilità che avrei ricavato dalla cosa: perciò si chiama frutto civile. Tali sono anche gli interessi dei capitali, i dividendi azionari. I frutti civili devono presentare il requisito della periodicità. COMBINAZIONE DI BENI. I beni possono essere impiegati dall'uomo o separatamente o insieme o collegati ad altri, in guisa da accrescerne l’utilità. Distinzioni: a) bene semplice, per tale intendendosi quello i cui elementi sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi senza distruggere o alterare fisionomia del tutto(es animale,fiore); b) bene composto, per tale intendendosi quello risultante dalla connessione, materiale o fisica, di più cose, ciascuna delle quali potrebbe essere staccata dal tutto ed avere autonoma rilevanza giuridica ed economica. Se vendo un bene composto (es automobile), la vendita abbraccia tutti gli elementi (carrozzeria, motore) di cui consta. Ciò non esclude che l'individualità dei singoli elementi possa riaffiorare (es se il proprietario intende vendere soltanto il motore o le ruote). Nell'ipotesi in cui singoli elementi appartengano a persone diverse dal proprietario del tutto, bisogna distinguere: se il tutto è una cosa mobile (automobile) il proprietario di un singolo elemento (gomme) può rivendicarlo, se esso può separarsi senza notevole complesso organizzato o dei singoli elementi costitutivi di essa, purché organizzi e diriga ad un determinato fine produttivo o di scambio l'attività economica dell'azienda, assumendone il rischio. Così l'azienda sarebbe una cosa composta funzionale, in cui le singole cose sono collegate non materialmente, ma funzionalmente, in virtù del loro impiego, della loro destinazione comune. Alle teorie materialistiche si contrappongono le teorie immaterialistiche, che considerano l'azienda come un bene immateriale. L'azienda consiste tutta nell'organizzazione dei vari beni. Vi è chi dà rilievo al concetto di organizzazione e chi considera l'azienda come universitas iuris o iurium. Da ultimo, la Suprema Corte è giunta a ritenere che essa debba essere riguardata come bene unitario a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista, il cui elemento unificatore, dal legislatore indicato nell'organizzazione per l'esercizio dell'impresa, è ancorato ad un'attività, a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico. Tra gli elementi che formano l'azienda particolare importanza ha l'avviamento. L'espressione è nata dal linguaggio comune: si dice che un complesso aziendale è ben avviato per affermare che fa molti affari. Sinteticamente si può definire l'avviamento come la capacità di profitto dell'azienda. Disputata è la natura dell'avviamento: alcuni lo identificano con la clientela, ma questa è piuttosto l'effetto dell'avviamento e si distingue, perciò, da esso; altri lo considerano come un bene immateriale, un prodotto dell'ingegno, basandosi sulla considerazione che il successo di un'impresa dipende dall'iniziativa, dalla genialità e dall'intraprendenza dell'imprenditore. Secondo la Cassazione l'avviamento è una qualità immateriale dell'azienda, che può anche mancare (come accade nel caso di un'azienda di nuova formazione che non sia ancora entrata in attività, ma sia suscettibile di iniziarla). Uno dei fattori che contribuiscono a costituire l'avviamento, ossia sede ove si svolge attività aziendale, risulta oggi tutelato dalla legge, che ha previsto, a favore dell'imprenditore che gestisce azienda in locali altrui, il diritto a conseguire una indennità qualora venga a cessare la locazione dell'immobile, purché non a seguito di sua inadempienza o recesso. Ha dato luogo a dispute anche il rapporto tra le nozioni di impresa e di azienda. Il codice non dà la definizione di impresa, ma quella di imprenditore: l'imprenditore è chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. L'imprenditore è il soggetto principale della produzione, colui che ne assume l'iniziativa e il rischio. L'azienda è lo strumento indispensabile per l'attività dell'imprenditore. L'impresa è l'attività economica svolta dall'imprenditore; l'azienda è, invece, il complesso dei beni di cui l'imprenditore si avvale per svolgere l'attività stessa. IL PATRIMONIO->complesso dei rapporti attivi e passivi, suscettibili di valutazione economica, facenti capo ad un soggetto. Questo concetto è diverso da quello comune di patrimonio, secondo cui solo chi ha beni possiede un patrimonio. Invece, qualunque soggetto ha un patrimonio, intesa l'espressione in senso giuridico, anche se ha soltanto o prevalentemente debiti. Il patrimonio non è considerato come un bene unico e, quindi, esso non è una universitas. La regola tradizionale è che ogni soggetto ha un patrimonio ed un patrimonio solo, con il quale risponde dei propri debiti. Non è concesso al singolo di staccare dei beni o dei rapporti giuridici dal proprio patrimonio per riservarli ad alcuni creditori, escludendo gli altri. Ciò può avvenire soltanto nei casi previsti dalla legge. Peraltro sono venute moltiplicandosi le ipotesi in cui la legge prevede o consente la separazione di taluni cespiti dal restante patrimonio di un medesimo soggetto. Su detti cespiti (patrimonio separato) possono agire in via esecutiva non tutti i creditori del titolare, bensì solo alcuni di essi. ES beni costituiti in fondo patrimoniale, sui quali non può far valere le proprie ragioni chi sapeva che il suo credito è stato dal debitore assunto per scopi estranei ai bisogni della famiglia; al patrimonio di chi ha accettato l'eredità con beneficio d'inventario, sul quale non possono far valere le proprie ragioni i creditori del defunto ed i legatari; ai beni costituiti in trust, istituto di matrice anglosas, in cui alcuni cespiti patrimoniali vengono trasferiti da un settlor ad un trustee per una determinata finalità, e vengono a costituire un patrimonio separato rispetto agli altri rapporti facenti capo al trustee stesso. Diverso dal patrimonio separato è il patrimonio autonomo->quello che viene attribuito ad un nuovo soggetto, mediante la creazione di una persona giuridica (es società di capitali, associazione riconosciuta), od anche solo di un ente che, sebbene sprovvisto di personalità, sia dotato di autonomia patrimoniale, ancorché imperfetta (es associazione non riconosciuta, comitato). BENI PUBBLICI / COMUNI / COLLETTIVI / DEGLI ENTI ECCLESIASTICI. Di beni pubblici si parla in due sensi: a) beni appartenenti ad un ente pubblico: beni pubblici in senso soggettivo; b) beni assoggettati ad un regime speciale, diverso dalla proprietà privata, per favorire il raggiungimento dei fini pubblici cui quei cespiti sono destinati: beni pubblici in senso oggettivo. Sono pubblici in senso oggettivo i beni demaniali ed i beni del patrimonio indisponibile. Tradizionalmente, i beni demaniali si distinguevano, a loro volta, in: A) beni immobili del demanio necessario, in quanto appartenevano necessariamente allo Stato (demanio marittimo,militare,idrico); B) beni immobili e universalità di mobili del demanio accidentale, che possono appartenere anche a privati e che sono demaniali solo se appartengono allo Stato o ad altro ente pubblico territoriale (demanio stradale,aeronautico,culturale). I beni demaniali, in quanto direttamente preordinati al soddisfacimento di interessi imputati alla collettività rappresentata dagli enti territoriali, sono assoggettati da un regime particolare: non possono formare oggetto di negozi di diritto privato (incommerciabilità dei beni demaniali); non possono formare oggetto di possesso, conseguentemente, non possono essere acquistati per usucapione da privati, non sono assoggettabili ad esecuzione forzata, non possono essere espropriati per pubblica utilità. Quello sin qui descritto è il sistema tradizionale dei beni demaniali. Peraltro, la disciplina del federalismo demaniale prevede che il regime dei beni demaniali continui ad applicarsi soltanto al demanio marittimo,idrico,aeroportuale,miniere; e che gli altri beni, se ed in quanto oggetto di trasferimento a comuni, province, città metropolitane e regioni, entrino a far parte del loro patrimonio disponibile. Una modifica ben più radicale dovrebbe conseguire all'attuazione del c.d. federalismo demaniale, delineato dall'art. 19 L.5 maggio 2009, n. 42, e dal D.Lgs. 28 maggio 2010, n. 85. Due le linee di fondo, cui si ispira il nuovo sistema: a) contrazione del patrimonio pubblico dello Stato, mediante attribuzione di molti beni immobili statali del demanio ed anche del patrimonio indisponibile (es spiagge,porti) agli enti territoriali non statali (comuni, province, città metropolitane e regioni), che saranno però tenuti a favorirne la massima valorizzazione funzionale, a vantaggio diretto o indiretto della collettività territoriale rappresentata; b)contrazione del numero complessivo dei beni pubblici in senso oggettivo,mediante attribuzione dei beni così trasferiti agli enti locali al loro patrimonio disponibile; con la conseguenza che detti beni potranno essere alienati, seppure previa loro valorizzazione attraverso idonee varianti agli strumenti urbanistici.Faranno eccezione i beni appartenenti al demanio marittimo, idrico ed aeroportuale, cosi come, le miniere, che, seppur trasferiti agli enti locali, resteranno assoggettati al regime demaniale. IL FATTO, L'ATTO E IL NEGOZIO GIURIDICO. I FATTI GIURIDICI. Per fatto giuridico si intende qualsiasi avvenimento cui l'ordinamento ricolleghi conseguenze giuridiche.Si distinguono fatti materiali(abbattimento albero,distruzione documento) e fatti in senso ampio, comprensivi sia di omissioni (es mancato esercizio di un diritto che, se l'inerzia si protrae per il tempo determinato dalla legge, conduce alla estinzione del diritto per prescrizione), sia fatti interni o psicologici (es affinché sia ammissibile l'azione revocatoria di un atto di disposizione posto in essere da un debitore occorre che il debitore conoscesse il pregiudizio che l'atto arrecava alle ragioni del creditore). Si parla di FATTI GIURIDICI in senso stretto o naturali quando determinate conseguenze giuridiche sono poste in relazione ad un certo evento senza che assuma rilievo se a causarlo sia intervenuto o meno l'uomo (es: Sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l'opera dell'uomo, come i prodotti agricoli,delle miniere). Si pensi alla morte di una persona, che provoca l'apertura della successione mortis causa del defunto, o a un'inondazione o a un terremoto, che possono provocare perdite di proprietà, estinzioni o modificazioni di diritti, ecc. Si parla, invece, di ATTI GIURIDICI se l'evento causativo di conseguenze giuridiche consiste in un'azione umana (reati,contratti). La giuridicità di un fatto, dunque, non dipende mai da caratteristiche intrinseche di quell' avvenimento, bensì soltanto dalla circostanza che da quell'evento derivi. CLASSIFICAZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI. Gli atti giuridici (atti umani consapevoli e volontari rilevanti per il diritto) si distinguono, sul piano della valutazione giuridica, in due grandi categorie: atti conformi alle prescrizioni dell'ordinamento (atti leciti) e atti compiuti in violazione di doveri giuridici e che producono la lesione del diritto soggettivo altrui (atti illeciti). Gli atti leciti si suddistinguono in operazioni (o anche atti reali o materiali o comportamenti) che consistono in modificazioni del mondo esterno (es presa di possesso di una cosa), e dichiarazioni, che sono atti diretti a comunicare ad altri il proprio pensiero, la propria opinione o il proprio stato d'animo o la propria volontà. Tra le dichiarazioni, la maggiore importanza va attribuita ai negozi giuridici, ossia alle dichiarazioni con le quali i privati, nell'ambito dell'autonomia a loro riconosciuta dall'ordinamento, esprimono la volontà di regolare in un determinato modo i interessi, soggetto, per acquistare qualsiasi tipo di diritto, beneficio o vantaggio, accetta un correlativo sacrificio, mentre si dice a titolo gratuito il negozio per effetto del quale un soggetto acquisisce un vantaggio senza alcun correlativo sacrificio. Di alcuni negozi la legge presume la gratuità (es deposito), di altri presume l'onerosità (es mutuo e mandato). Taluni contratti, poi, sono essenzialmente gratuiti, come la donazione o il comodato: la previsione di un corrispettivo snaturerebbe il contratto. In genere l'acquirente a titolo gratuito è protetto meno intensamente dell'acquirente a titolo oneroso: ad es. il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi, mentre il donante, se non è in dolo, non risponde dei vizi della cosa donata; l'acquirente a titolo oneroso, purché sia in buona fede, non è pregiudicato dall'annullamento dell'atto di acquisto del suo dante causa o dalla revoca di quell'atto, mentre l'acquirente a titolo gratuito non ha eguale protezione, quand'anche sia in buona fede. In tema d'interpretazione del contratto il legislatore stabilisce che, in caso di dubbi, il contratto deve essere inteso, se è a titolo gratuito,nel senso meno gravoso per l'obbligato. La gratuità non coincide con la liberalità,che rappresenta la causa della donazione e si connota per l'intento di arricchire il beneficiario di un'attribuzione patrimoniale; la gratuità è categoria più ampia, perché comprende tutti i casi di attribuzioni patrimoniali o di prestazioni a fronte delle quali non si ponga una specifica controprestazione da parte del destinatario, che però possono essere sorrette da un intento non liberale del disponente. LA RINUNZIA. Negozio abdicativo è la rinunzia, che è la dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dismettere il diritto stesso senza trasferirlo ad altri. Non si esclude che altri possa avvantaggiarsi della rinunzia, ma questo vantaggio può derivare solo occasionalmente e indirettamente dalla perdita del diritto da parte del suo titolare. La rinunzia, per es., al diritto di usufrutto importa la consolidazione dell'usufrutto con la nuda proprietà, per effetto della quale il potere di godere la cosa ritorna al proprietario; tuttavia tale conseguenza non costituisce effetto diretto della rinunzia, che in sé e per sé produce soltanto l'estinzione del diritto di usufrutto: essa, invece, deriva dal principio della elasticità del dominio, in virtù del quale la proprietà, prima compressa, riprende automaticamente la sua espansione originaria, non appena il diritto che la limitava viene meno. Ciò spiega come la rinuncia, pur avvantaggiando indirettamente il nudo proprietario, non debba farsi con la forma atto pubblico richiesta per la donazione. Lo stesso discorso vale per rinuncia ad un credito (remissione del debito, art. 1236 c.c). S'intende che non ricorre la figura della rinunzia se la dismissione del diritto è fatta verso un corrispettivo. Manca, invero, in quest'ipotesi l'elemento della unilateralità, caratteristico della rinunzia (da segnalare che, in materia successoria, l'art. 478 stabilisce che la rinuncia ad un'eredità compiuta verso corrispettivo determina, in realtà, l'accettazione dell'eredità). Secondo un orientamento, la rinuncia va tenuta distinta dal rifiuto, il quale si caratterizza per il fatto che o il diritto non è ancora presente nella sfera del dichiarante, e dunque in realtà il soggetto impedisce che vi faccia ingresso (rifiuto impeditivo); oppure il diritto dismesso, pur presente nella sfera del dichiarante, non è ancora pienamente stabile, ossia è suscettibile di essere rimosso con effetto retroattivo (rifiuto eliminativo). Così, il soggetto chiamato a divenire erede, che rinuncia all'eredità, in realtà impedisce un acquisto al proprio patrimonio: infatti, i beni ereditari non sono mai stati nella titolarità del chiamato, avendo quest'ultimo soltanto il diritto di accettare o meno l'eredità. Nel caso invece in cui un soggetto sia beneficiato dal testatore con un legato, l'acquisto della titolarità del bene legato è immediato; e tuttavia il beneficiato può eliminare retroattivamente tale bene dalla propria sfera giuridica con la rinuncia al legato. ELEMENTI DEL NEGOZIO GIURIDICO. Gli elementi o requisiti del negozio giuridico si distinguono in elementi essenziali, senza i quali il negozio è nullo, ed elementi accidentali, che le parti sono libere di apporre o meno. In relazione al contratto, gli elementi essenziali sono elencati dall'art. 1325 c.c., che li definisce requisiti; la mancanza o il vizio dei requisiti del contratto ne comporta la nullità. Gli elementi essenziali si dicono generali, se si riferiscono ad ogni tipo di contratto; particolari, se si riferiscono a quel particolare tipo considerato. Così, elemento essenziale particolare della vendita è il prezzo. Una parte della dottrina distingue dagli elementi essenziali i presupposti del negozio, che sono circostanze estrinseche al negozio, indispensabili perché il negozio sia valido. Tali sono ad es la capacità della persona che pone in essere il negozio e la sua legittimazione a disporre del rapporto che forma oggetto del negozio. Elementi accidentali sono la condizione, il termine, il modo: non appartengono alla struttura necessaria del negozio, ai fini della sua validità, ma se vengono apposti, essi incidono sull'efficacia del negozio. LA DICHIARAZIONE. La volontà del soggetto diretta a produrre effetti giuridici dev'essere dichiarata, esternata: deve uscire dalla sfera del soggetto, perché gli altri possano percepirla e averne conoscenza. I modi con cui questa estrinsecazione della volontà avviene corrispondono in sostanza a quelli con cui nella vita di relazione rendiamo noti ad altri le nostre intenzioni o il nostro pensiero. Non è, pertanto, difficile rendersi conto delle distinzioni, correnti nella scienza giuridica, con cui si classificano le modalità di manifestazione della volontà. A seconda dei modi con cui la dichiarazione avviene, essa si distingue, dunque, in dichiarazione espressa (se fatta con parole,linguaggio dei segni) e dichiarazione tacita (consistente in un comportamento che risulti incompatibile con la volontà contraria). In alcuni casi l'ordinamento giuridico, per evitare incertezze, non si accontenta di una manifestazione tacita dell'intento, ma richiede la dichiarazione espressa della volontà della parte. Vecchia questione è se il silenzio possa valere come dichiarazione tacita di volontà. La dottrina prevalente e giurisprudenza negano valore al detto volgare chi tace acconsente. Il silenzio può avere valore di dichiarazione tacita di volontà soltanto in concorso di determinate circostanze, che conferiscano al semplice silenzio un preciso valore espressivo: ciò avviene se la parte aveva l'onere, per legge, per consuetudine o per contratto, di formulare una dichiarazione; oppure se, in base alle regole della correttezza e della buona fede, il silenzio, dati i rapporti tra le parti, ha il valore di consenso. E'il caso regolato dall'art. 1712, comma 2, c.c.: il silenzio del mandante, al quale sia stata comunicata l'esecuzione del mandato, implica approvazione dell'operato del mandatario, anche se questi si è discostato dalle istruzioni ricevute. LA FORMA. Qualsiasi volizione del soggetto deve essere esternata e ciascuno sceglie le modalità di manifestazione delle proprie volontà come meglio preferisce. L'ordinamento, di regola, non impone rigidi formalismi per riconoscere effetti giuridici agli atti dei privati (principio della libertà della forma). Peraltro talvolta il legislatore avverte la necessità di prescrivere che un determinato atto sia compiuto secondo determinate forme solenni. Le prescrizioni di forma trovano giustificazione in varie esigenze: di certezza, conoscibilità, ponderazione dell'atto.La forma può essere prescritta in considerazione del tipo di atto: si pensi al matrimonio, del quale la legge regola le particolari modalità di celebrazione, o agli atti di diritto successorio. Nel caso del contratto non esiste un regime formale generale e uniforme, in quanto specifici vincoli di forma risultano imposti in relazione all'oggetto del contratto, o in relazione al tipo di contratto. In questi casi, definiti a forma vincolata, si dice che la forma è richiesta ad substantiam actus, in quanto l'atto compiuto in forma diversa da quella legale è invalido. BOLLO E REGISTRAZIONE. Non sono requisiti di forma né il bollo né la registrazione di un atto. Per molti negozi lo Stato, per ragioni fiscali, impone la « bollatura » degli atti: acquistando le marche da bollo, e applicandole sulla carta utilizzata per la redazione delle scritture, le parti versano all'Erario l’importo dei valori bollati acquistati. L'inosservanza delle prescrizioni in materia di bollo non dà luogo, tuttavia, alla nullità del negozio, ma ad una sanzione pecuniaria. Solo la cambiale e l'assegno bancario, se non sono stati regolarmente bollati al momento dell’emissione, pur essendo validi a tutti gli altri effetti, non hanno efficacia di titolo esecutivo. Anche la registrazione, che consiste nel deposito del documento presso l'ufficio del registro, serve prevalentemente a scopi fiscali, in quanto le parti devono pagare un' imposta, di regola proporzionale al valore economico dell'affare risultante dal negozio sottoposto a registrazione. LA PUBBLICITA'. Le vicende giuridiche non interessano soltanto le parti che ne sono direttamente coinvolte, ma anche i terzi, i quali possono interesse a conoscere determinati atti e situazioni giuridiche vicende per regolare il loro comportamento. In molti casi, pertanto, la legge impone l'iscrizione dell'atto in registri tenuti dalla P.A., che chiunque può consultare. La pubblicità serve a dare ai terzi la possibilità di conoscere l'esistenza e il contenuto di un negozio giuridico, o lo stato delle persone fisiche. 3 tipi di pubblicità: A) La pubblicità-notizia. Assolve semplicemente la funzione di rendere conoscibile un atto, del quale il legislatore ritiene opportuno sia data notorietà. L'omissione di tale formalità dà luogo ad una sanzione pecuniaria, ma è irrilevante per la validità e l'efficacia dell'atto, il quale rimane operante tra le parti ed anche opponibile ai terzi indipendentemente dalla mancata attuazione dello strumento pubblicitario. La pubblicità-notizia costituisce, pertanto, contenuto di un obbligo, non di un onere. ES di pubblicità notizia è pubblicazione matrimoniale che serve a rendere noto l'imminente matrimonio, onde consentire a chi sia a ciò legittimato di proporre eventuale opposizione, facendo valere eventuali ragioni ostative alla celebrazione. L'attuazione della pubblicità non influisce in alcun modo sulla validità ed efficacia dell'atto; è prevista, infatti, soltanto una sanzione amministrativa pecuniaria per gli sposi e l'ufficiale dello stato civile che abbiano celebrato il matrimonio senza che la celebrazione sia stata preceduta dalla pubblicazione, ma matrimonio è valido. B) La pubblicità dichiarativa. Serve a rendere opponibile il negozio ai terzi. L'omissione della pubblicità dichiarativa non determina l'invalidità dell'atto, che produce egualmente i suoi effetti tra le parti del negozio. E' rispetto ai terzi che gioca la mancata attuazione di questa figura di pubblicità. Si immagini che Primus abbia venduto lo stesso immobile prima a Secundus e poi a Tertius, ma che quest'ultimo trascriva per primo il suo titolo di acquisto nei registri immobiliari. Il conflitto tra Secundus e Tertius sarà risolto a favore di quest' ultimo, nonostante Tertius abbia acquistato dopo Secundus: e ciò perché la vendita da negozio giuridico e, in generale, le azioni di mero accertamento. Non sono prescrittibili nemmeno le singole facoltà (o diritti facoltativi), che formano il contenuto di un diritto soggettivo. La prescrizione estingue il diritto, NON l'azione. Inizio della prescrizione. Presupposto della prescrizione estintiva è l'inerzia del titolare del diritto soggettivo. Poiché non si può parlare di inerzia quando il diritto non può essere fatto valere, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto avrebbe potuto essere esercitato. Così es se il diritto deriva da un contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale , la prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata o il termine è scaduto. Sospensione ed interruzione della prescrizione. La prescrizione presuppone l'inerzia ingiustificata del titolare del diritto: essa, quindi, non opera, allorché sopraggiunga una causa che giustifichi l'inerzia stessa, così come nel caso in cui l'inerzia stessa venga meno. Entrano qui in gioco i due istituti della sospensione e della interruzione della prescrizione. La « sospensione » è determinata: a) o da particolari rapporti intercorrenti fra le parti: così es la prescrizione rimane sospesa tra i coniugi, se non legalmente separati ; tra le parti di un'unione civile ; tra chi esercita la responsabilità genitoriale e chi vi è sottoposto; tra tutore ed interdetto o minore; tra la società ed i suoi amministratori; b) o dalla condizione del titolare: così es la prescrizione rimane sospesa nei confronti dei minori non emancipati e degli interdetti per infermità di mente, se privi di rappresentante legale; nei confronti dei militari in servizio attivo in tempo di guerra. Crediti retributivi dei prestatori di lavoro, la giurisprudenza ritiene che il decorso della prescrizione venga sospeso per tutta la durata del rapporto: in quanto, in tal caso, l'inerzia lavoratore a azionare propri diritti potrebbe essere determinata da timore licenziamento. Le cause di sospensione della prescrizione indicate dalla legge sono tassative. L'« interruzione » ha invece luogo: a) o perché il titolare avvia un procedimento; Oggi, la prescrizione è altresì interrotta: (i) dall'avvio di una procedura di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili o commerciali ; (ii) dalla sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita; (iii) dalla domanda presentata per avviare una procedura di risoluzione extra giudiziale; b) o perché, quando si tratti di diritti di credito o di diritti potestativi, il titolare pone in essere un qualsiasi atto stragiudiziale idoneo a costituire in mora il debitore; c) o perché il soggetto passivo effettua il riconoscimento dell'altrui diritto (es si riconosce debitore nei miei confronti, promettendo di pagarmi appena possibile); L'interruzione e la sospensione della prescrizione giurisprudenza possono essere rilevate d'ufficio dal giudice, sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti, senza necessità di domanda di parte. Il fondamento dei due istituti della sospensione e dell’interruzione è diverso: nella sospensione l'inerzia del titolare del diritto continua a durare, ma è giustificata; nell'interruzione è l'inerzia stessa che viene meno, o perché il diritto è stato esercitato, o perché esso è stato riconosciuto dall'altra parte. La sospensione spiega i suoi effetti per tutto il periodo per il quale gioca la causa giustificativa dell'inerzia, ma non toglie valore al periodo eventualmente trascorso in precedenza. Perciò essa può paragonarsi ad una parentesi. Nella sospensione il tempo anteriore al verificarsi della causa che la determina non perde la sua rilevanza, ma si somma con il periodo successivo alla cessazione dell'operatività dell'evento sospensivo. Invece l'interruzione, facendo venir meno l'inerzia, toglie ogni valore al tempo anteriormente trascorso: dal verificarsi del fatto interruttivo, perciò, comincia a decorrere, per intero, un nuovo periodo di prescrizione. Durata della prescrizione. Si distinguono la prescrizione ordinaria e le prescrizioni brevi. La prescrizione ordinaria trova applicazione in tutti i casi in cui la legge non disponga diversamente: essa matura in 10 anni. Un periodo più lungo, 20 anni, è peraltro richiesto, in armonia con il termine per l'usucapione , per l'estinzione dei diritti reali su cosa altrui. La prescrizione breve (termini più brevi)->prevista per altre categorie di rapporti. Tra i casi più significativi vanno menzionati il diritto al risarcimento del danno conseguente ad un illecito extracontrattuale, che si prescrive in 5 anni , che si riducono a 2 nel caso di danni derivanti da circolazione di veicoli . Nel caso, però, in cui il fatto dannoso costituisca reato, per il quale sia previsto un termine di prescrizione più lungo, quest'ultimo si applica anche all'azione civile di risarcimento del danno ; se poi il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione il termine di prescrizione dell'azione civile risarcitoria ritorna a decorrere a far tempo dalla data di estinzione del reato o dal momento in cui la sentenza penale diviene irrevocabile. In 5 anni si prescrivono altresì i diritti a prestazioni periodiche , quelli derivanti da rapporti societari, nonché i crediti di lavoro, le azioni di annullamento del contratto. Di regola annuale è la prescrizione dei diritti derivanti da taluni rapporti commerciali (es mediazione). Le prescrizioni presuntive-> hanno fondamento e disciplina radicalmente differenti rispetto alla prescrizione estintiva. Quest'ultima è una vicenda estintiva del diritto, che consegue al mancato esercizio del diritto stesso per un determinato periodo di tempo. Le prescrizioni presuntive, invece, si fondano sulla presunzione che un determinato credito sia stato pagato, o che si sia comunque estinto per effetto di qualche altra causa. Dunque mentre la prescrizione estintiva è essa stessa causa di estinzione del diritto, nella prescrizione presuntiva la legge semplicemente presume che si sia verificata una causa estintiva di esso. La parte che solleva in giudizio l'eccezione di prescrizione ha l'onere di puntualizzare se intende avvalersi di quella estintiva o di quella presuntiva, trattandosi di eccezioni diverse e non fungibili. L'istituto della prescrizione presuntiva si basa sulla considerazione che vi sono rapporti della vita quotidiana nei quali l'estinzione del debito avviene contestualmente all'esecuzione della prestazione e senza che il debitore abbia cura di richiedere e di conservare una quietanza che gli garantisca la possibilità di provare, anche a distanza di tempo, di aver già provveduto ad estinguere il debito. Si pensi al corrispettivo della cena consumata al ristorante, al compenso delle lezioni private. Perciò la legge, trascorso un breve periodo: 6 mesi, 1 anno o 3 anni, a seconda dei casi, presume che il debito relativo al compenso di dette prestazioni sia stato estinto. Si noti bene: non è che il debito si estingua, ma si presume che si sia estinto. In altre parole, il debitore, se intende rifiutare l'adempimento che dovesse essergli richiesto una volta decorso il termine in cui si matura la prescrizione presuntiva, è esonerato dall'onere di fornire in giudizio la prova dell'avvenuta estinzione del credito azionato, come altrimenti dovrebbe fare in base alla regola generale : spetterà al creditore offrire la prova che la prestazione non è stata eseguita. Le prescrizioni presuntive non operano, perciò, sul terreno del diritto sostanziale come la prescrizione estintiva. Esse riguardano, invece, la prova e s'inquadrano nell'istituto generale delle presunzioni . Le presunzioni sono di due specie: presunzioni iuris tantum (che ammettono la prova contraria) e presunzioni iuris et de iure (che non l'ammettono). La presunzione che nasce, a favore del debitore, dalla prescrizione presuntiva appartiene alla prima categoria. Tuttavia, contro la presunzione di estinzione non è ammesso qualsiasi mezzo di prova. Il creditore, il quale abbia imprudentemente lasciato trascorrere l'intero periodo prescrizionale prima di pretendere il pagamento, ove la prescrizione presuntiva gli venga opposta in giudizio, può vincerla soltanto: a) ottenendo dal debitore l'ammissione che l'obbligazione è tuttora esistente; b) deferendo alla parte debitrice giuramento decisorio: ossia, invitandola a confermare sotto giuramento che l'obbligazione si è davvero estinta. Il vantaggio che il debitore riceve opponendo la prescrizione presuntiva è chiaro: egli è esonerato dall'onere di provare il fatto che avrebbe determinato l'estinzione del debito, ed il giudice deve rigettare la domanda di pagamento, senza bisogno che egli dimostri di avere effettivamente già pagato. Per sfuggire a questa conseguenza, il creditore può deferire il giuramento decisorio. Ma il giuramento è un espediente pericoloso: se il debitore non è una persona corretta, basta che egli affermi di aver pagato perché la lite sia decisa a suo favore. Vero è, tuttavia, che il creditore, qualora abbia elementi da cui risulti la falsità del giuramento, può denunciare per il reato di falso giuramento. La giurisprudenza ritiene che le prescrizioni presuntive, trovando ragione unicamente nei rapporti che si svolgono senza formalità, dove il pagamento suole avvenire senza dilazione, non operino se il credito trae origine da un contratto stipulato in forma scritta. LA DECADENZA. Il fondamento della prescrizione è l'inerzia del titolare: il trascorrere del tempo determina l'estinzione del diritto che il titolare, trascurando di esercitarlo, ha in certo modo abbandonato. Invece, alla base della decadenza, sta esclusivamente la fissazione, da parte del legislatore o in forza di una specifica clausola contrattuale, di un termine perentorio entro il quale il titolare del diritto deve compiere una determinata attività, in difetto della quale l'esercizio del diritto è definitivamente precluso, senza che abbiano rilevanza le circostanze subiettive che hanno determinato l'inutile decorso del termine. Così es la legge concede alla parte soccombente in un giudizio il potere di impugnare la sentenza; ma l'impugnazione dev'essere proposta in un breve termine, trascorso il quale inesorabilmente l'impugnazione diventa inammissibile: si decade, cioè, dal diritto di proporre l'impugnativa .Perciò, la decadenza produce l'estinzione del diritto in virtù del fatto oggettivo del decorso del tempo. La decadenza implica, quindi, l'onere di esercitare il diritto entro il tempo prescritto dalla legge. Disciplina specifica della decadenza, divergente da quella della prescrizione: ad essa non si applicano le norme relative all'interruzione e neppure quelle relative alla sospensione. La decadenza può, quindi, essere impedita solo dall'esercizio del diritto mediante il compimento dell'atto previsto (per tornare al nostro es il passaggio in giudicato della Finalità del processo cautelare->conservare lo stato di fatto esistente, per rendere possibile l'esecuzione dell'emananda sentenza. LA COSA GIUDICATA. Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, è concesso alle parti di promuovere il riesame della lite, impugnando la decisione. Tuttavia, questo riesame non può andare all'infinito e non può essere consentito senza limiti: verificatesi certe condizioni il comando contenuto nella sentenza non può essere più modificato da alcun altro giudice, costituendo res iudicata. Ad eventuali ulteriori tentativi di una delle parti di proseguire il dibattito si può opporre la cosa giudicata o il passaggio in giudicato della sentenza. L'efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo: esso preclude ogni ulteriore riesame e impugnazione della sentenza. S'intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ivi indicati. Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale: non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o di riesame tra me e l'altra parte, neppure in futuri processi: Res iudicata pro veritate habetur->indiscutibilità dell'accertamento contenuto nella sentenza. L’art. 2909 c.c.->l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato «fa stato » ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi causa. La cosa giudicata in senso sostanziale consiste, dunque, nella definitività dell'accertamento contenuto nella sentenza anche al di fuori del processo nel quale è stata pronunziata; rispetto, quindi, a qualunque futuro processo ed anche a prescindere dal processo: così, ad es., se Tizio ha contestato il mio diritto di proprietà su un bene che voglio vendere, io posso mostrare al potenziale acquirente la sentenza che ha respinto la domanda di Tizio e tranquillizzarlo che sarà sicuro da ogni suo ulteriore attacco. PROCESSO ESECUTIVO. Se non viene spontaneamente adempiuto neppure il comando contenuto nella sentenza, colui a cui favore detto comando è stato emesso può iniziare il procedimento esecutivo. Peraltro, solo in alcuni casi detto procedimento riesce a assicurare coattivamente proprio quel risultato voluto dal comando contenuto nella sentenza: esecuzione forzata in forma specifica. Ciò accade nelle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito: a) un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa deteminata, mobile o immobile (es obbligo dell'inquilino, alla scadenza del contratto di locazione, di consegnare l'unità immobiliare al proprietario); nel qual caso l'avente diritto otterrà la consegna o il rilascio forzati del bene stesso (es se alla cessazione rapporto inquilino non rilascia l'appartamento locatogli, il concedente, dopo aver ottenuto una sentenza di rilascio, sarà immesso nella materiale disponibilità dell'immobile, grazie all'intervento dell'ufficiale giudiziario); b) un obbligo avente ad oggetto un facere fungibile (es obbligo dell'appaltatore di ultimare l'edificio che si è impegnato a realizzare); nel qual caso l'avente diritto potrà ottenere soltanto che esso sia eseguito da altri, seppure a spese dell'obbligato. Ove si tratti invece di in esecuzione di un obbligo avente ad oggetto un facere infungibile, l'avente diritto non potendo la prestazione, proprio perché infungibile, essere eseguita da altri che dall'obbligato danno: potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno; c) un obbligo avente ad oggetto quel particolare facere infungibile consistente nella conclusione di un contratto ; nel qual caso l'avente diritto potrà ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso; d) un obbligo avente ad oggetto un non facere; nel qual caso l'avente diritto potrà ottenere a spese dell'obbligato, la distruzione della cosa che sia stata realizzata in violazione di detto obbligo; sempreché la distruzione non sia di pregiudizio all'economia nazionale. Tutto ciò presuppone che la violazione dell'obbligo di non facere si sia tradotta nella realizzazione di un opus suscettibile di distruzione. In caso contrario l'avente diritto non potendo materialmente impedire che controparte continui a tenere la condotta vietata potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno. La forma di gran lunga più importante di procedimento esecutivo è quella che ha per oggetto espropriazione dei beni del debitore: esecuzione mediante espropriazione forzata. In questo procedimento il bene o i beni colpiti dall'esecuzione vengono, di regola, venduti ai pubblici incanti e la somma ricavata ripartita tra i creditori. Il procedimento di espropriazione forzata ha inizio con il pignoramento, che è l'atto con il quale si indicano i beni assoggettati all'azione esecutiva. Importante è richiamare attenzione sugli effetti di diritto sostanziale del pignoramento: l'art. 2913 c.c. stabilisce che non hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento. Siffatta inefficacia dipende non già dall'incapacità del debitore sottoposto a pignoramento e nemmeno dalla perdita della proprietà dei beni, che non è ancora avvenuta; bensì dalla destinazione dei beni alla espropriazione. Detta inefficacia è relativa: può essere, cioè, fatta valere solo dal creditore pignorante e dai creditori intervenuti nell'esecuzione. Sicché ES se il processo esecutivo si estinguesse, il debitore che avesse effettuato l'alienazione non potrebbe opporre l'inefficacia stessa all'acquirente. La legge tiene conto anche della situazione dei terzi che abbiano acquistato in buona fede, ignorando il pignoramento. Se si tratta di mobili non iscritti nei pubblici registri, basta l'acquisto del possesso a salvaguardare il diritto del terzo. PROVA DEI FATTI GIURIDICI. L'esito di un giudizio può dipendere dalla soluzione di una quaestio facti: ossia dall'accoglimento di una delle contrapposte versioni che, circa il modo in cui si sono realmente svolti i fatti rilevanti ai fini del decidere, vengono fornite dalle parti (es Tizio assume di avere prestato 100 a Caio, che invece lo nega). Tutte le volte in cui di una circostanza, rilevante ai fini della decisione, le parti forniscono ricostruzioni contrastanti, il giudice è tenuto, per definire la lite, a scegliere tra le contrapposte versioni che gli vengono prospettate. Nel giudizio civile sono le parti che devono preoccuparsi di indicare al giudice i mezzi di prova ossia gli elementi (documenti, testimonianze) in base ai quali ciascuna ritiene di accreditare la propria versione dei fatti litigiosi: principio dispositivo. Il giudice deve infatti giudicare iuxta alligata et probata partium: sulla base, cioè, di quanto allegato e provato dalle parti. Al giudice spetta, innanzitutto, valutare se i mezzi di prova che le parti offrono o chiedono di acquisire siano: a) ammissibili, ossia conformi alla legge (sarebbe inammissibile es testimonianza di un soggetto che avesse un diretto interesse nella controversia); b) rilevanti, ossia abbiano ad oggetto fatti che possano influenzare la decisione della lite. Dopo aver ammesso e assunto le prove richiestegli (cioè, dopo aver ascoltato i testimoni, interrogato le parti, acquisito i delle documenti), il giudice valuterà, in sede di sentenza, la loro concludenza: ossia, la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti sui quali vertevano. A tal fine, il giudice riterrà provata una circostanza (o una sua modalità non già soltanto quando abbia acquisito la certezza che la stessa si sia effettivamente verificata, bensì anche quando le prove raccolte lo abbiano convinto che una delle due versioni dei fatti prospettate dalle parti sia convincente e sia quella che ben si concilia con il materiale probatorio raccolto. In ogni caso, il giudice deve motivare la propria decisione, spie quando le ragioni del suo convincimento, che deve formarsi iuxta alligata et probata partium, non essendogli consentito trarre elementi di convincimento da fonti di informazione che non siano state ritualmente acquisite in giudizio con tutte le garanzie processuali. Al giudice è peraltro consentito, in deroga al principio dispositivo ed al principio del contraddittorio, far autonomamente ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatti notori) , per tali intendendosi quelle (es circostanza coinvolgimento dell'Italia nel secondo conflitto mondiale) acquisite alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili. Un problema di prova si pone solo con riferimento ai fatti oggetto di specifica contestazione tra le parti: quelli, relativamente ai quali non sorgono divergenze di prospettazione, sono invece dal giudice posti a fondamento della decisione senza necessità di prova alcuna. L'ONERE DELLA PROVA. Può darsi che, relativamente ad un fatto con riferimento al quale le parti abbiano fornito opposte versioni, nel processo sia del tutto mancata la prova, o che i risultati delle prove raccolte siano non persuasivi o addirittura contraddittori. Se non ritiene di avere elementi sufficienti per decidere quale tra le contrapposte versioni prospettategli sia da considerare più convincente, il giudice,non potendo, ovviamente, rifiutarsi di decidere, dovrà per forza egualmente scegliere una soluzione, di certo non in base a considerazioni non giuridiche. Dovrà, invece, far applicazione della regola dell'onere della prova (art. 2697 c.c.), secondo cui allorquando un fatto, rilevante ai fini del decidere, rimane sfornito in causa di prova convincente il giudice deve accogliere la versione di esso prospettata dalla parte su cui non grava l'onere della prova (quand'anche tale ultima versione risulti non sufficientemente dimostrata). In altre parole, il rischio della mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova di un fatto controverso è addossato alla parte su cui grava l'onere della prova; che avrà, quindi, tutto l'interesse a fornirne la dimostrazione in giudizio, se non vuole correre il pericolo di veder respinta la domanda o eccezione fondata su detto fatto. Peraltro il giudice deve basare il proprio convincimento su tutte le prove acquisite, di chiunque sia stata l'iniziativa; quindi, senza dar rilievo al fatto che un mezzo di prova sia stato offerto dall'uno o dall'altro dei litiganti. Il giudice non dovrà, dunque, far ricorso alla regola dell'onere della prova, quando la dimostrazione di un determinato fatto risulti comunque fornita in causa. Da ciò consegue che della regola dell'onere della prova il giudice dovrà far applicazione non già in tutti i giudizi, ma solo in quelli in cui un fatto contestato, rilevante ai fini del decidere, rimanga sfornito di prova sufficiente: carattere residuale della regola dell'onere probatorio. Il problema più delicato diventa quello di accertare, rispetto a ciascun fatto, su quale delle parti ricada l'onere probatorio. In linea di principio, può dirsi che l'onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della sua tesi. In questo senso va intesa la norma, che accolla a chi vuol far valere un diritto in giudizio l'onere di provare i fatti (es stipulazione contratto di cui si reclama l'osservanza) che ne costituiscono il fondamento , ed a chi contesta la rilevanza di tali fatti l'onere di provarne l'inefficacia (es nullità del contratto) o di provare Tutto ciò, sempre che la scrittura privata sia invocata contro il sottoscrittore nell'ambito di un giudizio in cui lo stesso è parte. Se, invece, è invocata in un giudizio cui il sottoscrittore è estraneo, la scrittura privata ha valore meramente indiziario; salvo che per quanto riguarda la sua provenienza, se la sottoscrizione è autenticata. Sempre nei confronti dei terzi, può avere rilevanza la data della scrittura privata: ossia, l'indicazione del giorno in cui il documento è stato sottoscritto (es per stabilire, tra due contratti, quale sia stato concluso anteriormente, per tutti i fini che si possono riannodare a tale anteriorità: così, se taluno, dopo aver dato in locazione una cosa, l'abbia venduta, il contratto di locazione dev'essere rispettato anche dal compratore, se la locazione è anteriore alla vendita). Le parti, peraltro, potrebbero mettersi d'accordo in danno del terzo, apponendo una data fittizia, anteriore all'atto ( retrodatazione). Per evitare queste facili frodi, la legge stabilisce (art. 2704 c.c.) che la data della scrittura privata è, per i terzi, la seguente (data certa): (i) se si tratta di scrittura privata autenticata, la data dell'autenticazione; (ii) se si tratta di scrittura privata non autenticata, la data della sua registrazione, o la data in cui si verifica un evento che stabilisca in modo incontestabile che il documento è stato formato anteriormente. Anche al telegramma il legislatore riconosce l'efficacia probatoria della scrittura privata, ma solo se l'originale consegnato all'ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, o se è stato consegnato dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo. Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, registrazioni fonografiche formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime: disconoscimento che, tuttavia, non può essere generico, ma deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, con specifica indicazione degli elementi di non corrispondenza fra realtà storica e realtà riprodotta. La giurisprudenza ritiene che anche il messaggio di posta elettronica (e-mail) costituendo documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati sia da ricondurre al novero delle riproduzioni informatiche. Quanto ai documenti informatici, per tali intendendosi i documenti elettronici che contengono la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, occorre distinguere fra: a) documento sottoscritto con firma elettronica o qualsiasi a altro tipo di firma elettronica avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, che è equiparata alla scrittura privata autenticata; b) documento: -sottoscritto con firma elettronica avanzata; -sottoscritto con firma digitale; -comunque formato con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all'autore; che al pari di una qualsiasi scrittura privata fa piena prova, se non disconosciuta, della sua provenienza dal titolare della firma elettronica. c) documento informatico cui è apposta una semplice firma elettronica che sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio,in relazione a caratteristiche sicurezza, integrità e immodificabilit. PROVA TESTIMONIALE. La testimonianza è la narrazione fatta al giudice da una persona estranea alla causa previa prestazione della seguente dichiarazione: « consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto a mia conoscenza » in relazione a fatti controversi, di cui il teste abbia conoscenza. Di regola, il testimone è chiamato a rendere la propria deposizione oralmente davanti al giudice. Peraltro il giudice può su accordo delle parti disporre che essa venga assunta fuori udienza mediante dichiarazione scritta, cui il teste appone la propria firma autenticata. La prova testimoniale può avere ad oggetto solo fatti obiettivi, non apprezzamenti o valutazioni personali del teste. La testimonianza è considerata con una certa diffidenza dal legislatore, sia per il rischio di testi interessati o compiacenti, sia per il rischio di deformazioni inconsapevoli nello sforzo di ricordare e riferire avvenimenti del passato. Conseguentemente la prova testimoniale incontra limiti legali di ammissibilità. In primo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile quando sia invocata per provare il perfezionamento o il contenuto di un e/o del contratto avente un valore superiore a lire cinquemila, ovverosia ad di € 2,58. Non si tratta, peraltro, di un divieto rigido: il giudice, infatti, può consentire la prova oltre il limite anzidetto tutte le volte in cui, il che avviene quotidianamente, considerata l'esiguità dell'importo tuttora indicato dalla legge, lo ritenga opportuno, tenuto conto della qualità delle parti, natura contratto e ogni altra circostanza. Inoltre il giudice deve ammettere la prova testimoniale, se ricorre una delle tre ipotesi previste nell'art. 2724 c.c.; e cioè: (i) quando vi sia un principio di prova scritta: cioè quando vi sia agli atti un documento da cui scaturisca la verosimiglianza del fatto controverso; (ii) quando la parte si sia trovata nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; (iii) quando la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. In secondo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se tende a dimostrare che anteriormente o contemporaneamente alla stipulazione di un accordo scritto sono stati stipulati altri patti, non risultanti però dal documento. Quando la prova testimoniale è invece invocata a dimostrazione che, successivamente alla formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può ammettere solo se ritiene verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali. In terzo luogo, la prova testimoniale non è ammissibile se tende a provare un contratto che deve essere stipulato o anche solo provato per iscritto. In questi casi la prova per testimoni è ammissibile esclusivamente qualora la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. Le stesse regole si applicano anche alle prove testimoniali invocate per provare l'effettuazione di un pagamento o remissione di un debito. FORMA AD SUBSTANTIAM E A PROBATIONEM. Quando la forma scritta è richiesta ad substantiam, essa costituisce un elemento essenziale del contratto; cosicché, ove il requisito formale non venga osservato, l'atto è irrimediabilmente nullo. Così qualora una vendita immobiliare sia stata effettivamente stipulata, ma verbalmente, il contratto è invalido e, quindi, privo di qualsiasi effetto. La prova della stipulazione dell'atto con la forma richiesta ad substantiam può essere data con la produzione in giudizio del documento in cui l'atto stesso è consacrato. Ci si chiede se la prova che la formazione dell'atto è avvenuta proprio con l'osservanza delle forme stabilite dalla legge possa darsi altrimenti: cioè, attraverso mezzi di prova diversi dalla produzione in giudizio del documento originale (es ipotesi in cui la parte interessata lo abbia perduto). Il legislatore non consente che la forma zione del documento richiesto ad substantiam sia provata per testimoni o mediante giuramento e quindi neppure mediante confessione. Da ciò deriva che il documento attraverso cui è stata manifestata la volontà contrattuale è essenziale non solo per la validità dell'atto, ma anche per la prova dello stesso. Unica eccezione è il caso in cui la parte abbia perduto senza sua colpa (es incendio, in un infortunio, terremoto) il documento nel quale l'atto era consacrato: in tal caso potrà essere ammesso ogni tipo di prova (testimonianza, confessione, giuramento),se volta a dimostrare (1) L'originaria esistenza del documento; (2) la perdita incolpevole di esso; (3) il suo contenuto. Dal principio illustrato si ricava che il legislatore impone alla parte l'onere di custodire il documento, onde poterlo in qualsiasi momento, occorrendo, esibire al giudice; mancando il documento o la prova della sua perdita incolpevole, il giudice deve concludere che esso non è mai stato formato. Ben diversa è la situazione, quando una forma sia richiesta ad probationem tantum (es art. 1742 c.c., in tema di contratto di agenzia) In tal caso l'atto compiuto senza l'osservanza della forma indicata dalla legge non è nullo: l'unica conseguenza dell'inosservanza del requisito di forma è il divieto della prova testimoniale e di quella presuntiva, sempre che la parte non provi di aver perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. Il divieto vige solo per la parte del negozio,non per i terzi. Invero, il divieto della prova testimoniale e di quella indiziaria è volto ad indurre le parti a costituire un documento in cui l'atto risultati consacrato; seppure, in caso di forma richiesta ad probationem tantum, la mancanza del documento non pregiudichi irreparabile mente la possibilità, per le parti, di valersi dell'atto. Innanzitutto, se la formazione del contratto e quanto con esso pattuito costituisce un fatto non contestato, il giudice deve considerarlo provato. In secondo luogo, trattandosi di forma richiesta ad probationem tantum, quand'anche la formazione dell'atto o il suo contenuto fossero contestati in giudizio, la parte che ciononostante intendesse dimostrare che il negozio si è realmente perfezionato potrebbe chiedere l'interrogatorio formale della controparte nella speranza di ottenerne una confessione, o potrebbe deferire il giuramento decisorio , o ancora potrebbe produrre documenti scritti dai quali risulti il perfezionamento dell'atto. LE PRESUNZIONI. Per presunzione (prova indiretta) si intende ogni argomento, congettura, illazione, attraverso cui, essendo già provata una determinata circostanza (fatto-base o indizio), si giunge logicamente a considerare provata altresì un'altra circostanza, sfornita di prova diretta (es dalla circostanza che sia decorso già un certo periodo di tempo dal momento in cui si poteva pretendere il pagamento di determinati debiti, si trae la presunzione che il debito sia già stato pagato o comunque si sia già estinto, sebbene manchino prove dirette del pagamento o del verificarsi di un'altra causa di estinzione dell’ obbligo: prescrizione presuntiva). Le presunzioni si dicono legali quando è la stessa legge che attribuisce ad un fatto valore di prova in ordine ad un altro fatto, che quindi viene presunto: es la legge presume che chi ha il possesso di una cosa altrui sia in buona fede, che una dichiarazione diretta ad una determinata persona sia da quest'ultima conosciuta nel momento in cui la stessa giunge al suo indirizzo. Le presunzioni legali possono, a loro volta, essere: a) iuris et de iure (assolute), laddove non iure ammettono prova contraria (es presunzione Il giuramento suppletorio può essere deferito non già in base ad un'iniziativa di parte, bensì d'ufficio, in forza di un potere discrezionale dello stesso giudice, quando questi si trovi di fronte ad un fatto rimasto incerto, ma per il quale la parte che aveva l'onere di provarlo abbia fornito elementi abbastanza rilevanti, sebbene non definitivamente persuasivi. I DIRITTI REALI. L'espressione diritti reali non risale al diritto romano, che conosceva la ben diversa figura delle actiones in rem. La categoria è stata elaborata successivamente per raggruppare i diritti su cosa materiale determinata: iura in rem. Tradizionalmente si ritiene che i diritti reali siano caratterizzati: a) dall'immediatezza, ossia dalla possibilità, per il titolare, di esercitare direttamente il potere sulla cosa, senza necessità della cooperazione di terzi ; b) dall'assolutezza, ossia dal dovere di tutti i consociati di astenersi dall'interferire nel rapporto fra il titolare del diritto reale ed il bene che ne è oggetto; e dalla possibilità, per il titolare, di agire in giudizio contro chiunque contesti o pregiudichi il suo diritto: efficacia erga omnes del diritto reale; c) dall'inerenza, ossia dalla opponibilità del diritto a chiunque possieda o vanti diritti sulla cosa (es proprietario può agire nei confronti di chiunque possieda il bene per ottenerne la restituzione; la servitù di passaggio continua a gravare sul fondo anche quando la proprietà di quest'ultimo passi a terzi: diritto di sequela). Si è peraltro osservato che né l'immediatezza, né l'assolutezza, né l'inerenza caratterizzerebbero sempre e solo i diritti reali: così es l'immediatezza » difetterebbe in caso di servitù negative o di ipoteca, mentre ricorrerebbe in caso di locazione, di comodato, di anticresi; l' assolutezza difetterebbe in caso di diritti reali di garanzia e di servitù, mentre ricorrerebbe in caso di locazione per l'ipotesi di molestie arrecate da terzi che non pretendano di avere diritti sulla cosa ; l'inerenza difetterebbe in caso di proprietà immobiliare non trascritta o di proprietà mobiliare senza possesso del bene , mentre ricorrerebbe in caso di locazione ultranovennale trascritta, la quale può essere opposta a terzi . Pur in difetto di un'espressa previsione normativa al riguardo, si ritiene che i diritti reali costituiscano un numerus clausus (che sia, cioè, precluso ai privati creare diritti reali diversi ed ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge); e che gli stessi siano connotati dal carattere della tipicità (che sia cioè precluso all'autonomia dei privati di modificare il contenuto essenziale dei singoli diritti reali); Nell'ambito dei diritti reali, si è soliti distinguere tra proprietà (ius in re propria) e i c.d. iura in re aliena: cioè, i diritti reali che gravano su beni di proprietà altrui e che sono destinati a coesistere, comprimendolo, con il diritto del proprietario. I diritti reali in re aliena si distinguono, a loro volta, in diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia: i primi attribuiscono al loro titolare il diritto di trarre dal bene talune delle utilità che lo stesso è in grado di fornire; i secondi attribuiscono al loro titolare il diritto di farsi assegnare il ricavato dall'eventuale alienazione forzata del bene, in caso di mancato adempimento dell'obbligo garantito. Collegate a situazioni di diritto reale sono le obbligazioni propter rem (obbligazioni reali), che si caratterizzano per il fatto che la persona dell'obbligato viene individuata in base alla titolarità di un diritto reale su un determinato bene: es obbligo di sostenere le spese necessarie per la conservazione ed i godimento della cosa comune grava su ciascun comproprietario. Da non confondere con l'obbligazione reale è l'onere reale, in forza del quale il creditore può soddisfarsi sul bene stesso, chiunque ne diventi proprietario o acquisti diritti reali di godimento o di garanzia su di esso. L'unica ipotesi di onere reale prevista dal nostro codice civile costituita dai contributi consortili (art. 864 c.c.). LA PROPRIETÀ. Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono, proclamava lo Statuto albertino 1848, inviolabili (altre costituzioni dell'epoca dichiaravano addirittura che la proprietà è sacra). Formule siffatte esaltavano il ruolo che, all'epoca, si riconosceva all'istituto della proprietà privata, autentico pilastro dell'organizzazione sociale: espressione prima della libertà di ciascuno. L'art. 832 c.c. riprendendo molto da vicino le parallele e definizioni contenute nel codice francese del 1804 e nel codice italiano del 1865 enuncia il principio secondo cui al proprietario spetta il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo. La proprietà attribuisce, dunque, al titolare: a) il potere di godimento del bene, per tale intendendosi il potere di trarre dalla cosa le utilità che la stessa è in grado di fornire, decidendo se, come e quando utilizzarla: o direttamente (es abitando appartamento di proprietà) o indirettamente (es concedendo l'appartamento in locazione a terzi, onde ricavarne un corrispettivo in denaro); b) il potere di disposizione del bene, per tale intendendosi il potere di cedere ad altri, in tutto o in parte, diritti sulla cosa (es proprietario può vendere l'appartamento, donarlo, farne oggetto di usufrutto). L'art. 832 c.c. precisa, poi, che il potere di godimento e di disposizione che compete al proprietario è pieno ed esclusivo. Da qui idea che proprietà sia caratterizzata dai connotati: a) della pienezza (ossia, dell'attribuzione al proprietario del diritto di fare della cosa tutto ciò che vuole, persino distruggerla: al punto che il diritto di proprietà è stato definito come ius utendi et abutendi); b) della esclusività (ossia, dell'attribuzione al proprietario del diritto di vietare ogni ingerenza di terzi in ordine alle scelte che, in tema di godimento e di disposizione del bene, il proprietario si riserva di effettuare con totale arbitrio e discrezionalità). Peraltro, lo stesso art. 832 c.c. riconosce si al proprietario il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, ma entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico. In realtà, le caratteristiche dell'assolutezza e dell'esclusività sono tipiche solo della proprietà e dei beni di uso strettamente personale. Quanto agli altri beni, specie quelli utilizzati nell'esercizio di attività d'impresa, l'ordinamento non rimette integralmente al proprietario le scelte in ordine al loro utilizzo. Il codice civile detta una disciplina differenziata per la proprietà dei beni d'interesse storico e artistico, per la proprietà rurale, per la proprietà edilizia, per la proprietà fondiaria: elaborando, per ciascuna categoria di beni, una serie di previsioni miranti a conciliare l'interesse del proprietario con l'interesse degli altri proprietari o della collettività. Il distacco dalla concezione liberal-ottocentesca della proprietà appare maturato nella Costituzione repubblicana del 1948. Innanzitutto, nella nostra COST la proprietà non solo non è più, come avveniva nello Statuto albertino, dichiarata inviolabile, ma non viene neppure disciplinata né fra i principi fondamentali (artt. 1-12 Cost.), né fra i diritti di libertà (artt. 13-28 Cost.): essa è contemplata nel titolo relativo ai rapporti economici (artt. 42-44). Peraltro, anche l'attuale COST dichiara che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (art.42, comma 2, Cost.): tale garanzia implica non soltanto che non è consentito al legislatore ordinario di sopprimere l'istituto della proprietà privata, ma che sarebbe altresì in contrasto con i principi costituzionali un'eventuale trasformazione del nostro sistema in un ordinamento in cui i beni siano prevalentemente collettivizzati. È tuttavia pacifico che il legislatore potrebbe escludere l'ammissibilità della proprietà privata per quanto riguarda una o più determinate categorie di beni: anzi, è lo stesso art. 43 Cost. a prevedere che « a fini di utilità generale la legge può riservare o trasferire allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale » (e, in applicazione di questa norma, nel 1962 si è proceduto alla nazionalizzazione delle imprese elettriche ed alla costituzione di un ente pubblico l'Enel incaricato della produzione e della distribuzione dell'energia elettrica; anche se oggi l'Enel è stato trasformato in una società per azioni con titoli diffusi fra il pubblico ed il mercato della produzione e commercializzazione dell'energia elettrica è stato liberalizzato). A ciò si aggiunga che la Costituzione demanda al legislatore ordinario il compito di determinare i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. In sintesi: (i) la conformazione dei poteri dominicali compete, in via esclusiva, al legislatore (riserva di legge); (ii) il legislatore è legittimato a prevedere compressioni dei poteri dominicali solo se giustificate dalla necessità di garantire che gli stessi non vengano esercitati in contrasto con l'utilità sociale. Va segnalato che la disciplina della proprietà non si esaurisce più, oggi, nelle sole regole di derivazione nazionale fin qui ricordate. Essa, infatti, si è venuta progressivamente arricchendo di tutta una serie di previsioni sovranazionali (v. art. 1 primo protocollo addizionale CEDU, secondo cui «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni»; art. 17 Carta dei diritti fondamentali dell'UE, secondo cui «ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità»), che inducono ad interrogarsi se in qualche misura, in controtendenza rispetto al percorso compiuto dal legislatore nell'ultimo arco del secolo scorso, il diritto di proprietà non sia venuto acquisendo il carattere di diritto fondamentale dell'uomo; e, in caso affermativo, come ciò eventualmente incida, limitandolo, sul potere dello Stato nazionale di legittimamente imporre obblighi e restrizioni al diritto dominicale. La proprietà si ritiene tradizionalmente caratterizzata: a) dall'elasticità: invero, i poteri che normalmente competono al proprietario possono essere compressi in virtù della coesistenza sullo stesso bene di altri diritti reali o di vincoli di carattere pubblicistico; tali poteri sono però destinati a riespandersi automaticamente non appena dovesse venire meno il diritto reale o il vincolo pubblicistico concorrente; b) dalla imprescrittibilità: sebbene l'art. 948 c.c. riferisca l'imprescrittibilità non alla proprietà, ma all'azione di rivendicazione, è peraltro pacifico che anche la proprietà non si può perdere per non uso, bensì soltanto per l'usucapione che altri abbia a perfezionare a proprio favore; c) dalla perpetuità: è opinione diffusa che quella di una proprietà ad tempus sarebbe una contraddizione in termini. Peraltro l'ordinamento conosce talune ipotesi di proprietà temporanea: es proprietà superficiaria a termine, proprietà oggetto di un legato sottoposto a termine iniziale ESPROPRIAZIONE E INDENNIZZO. L'art. 42, comma 3, Cost. dispone che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La norma tende a ricercare un punto di equilibrio fra l'interesse del l'esecuzione di opere prive di permesso di costruire e sanziona con la nullità i relativi contratti, ove la richiesta dell'utente non sia corredata dall'indicazione degli estremi di detto permesso; d) impone a chi abbia violato disposizioni che regolamentano l'attività edilizia l'obbligo di risarcire i danni che terzi (es vicini) ne abbiano eventualmente sofferto; e consente ai vicini di chiedere la c.d. riduzione in pristino (cioè, l'eliminazione delle opere abusive). PROPRIETA' FONDIARIA. In linea verticale, la proprietà fondiaria (per tale intendendosi la proprietà della terra o dei fondi) si estenderebbe, secondo un brocardo medievale, usque ad sidera, usque ad inferos: cioè, all'infinito sia nel sottosuolo che nello spazio aereo soprastante. Peraltro l'art. 840, comma 2, c.c. dispone che il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle. Da ciò si deduce che la proprietà del suolo si estende a quella sola parte del sottosuolo suscettibile di utilizzazione secondo un criterio di normalità. Analogo principio si ritiene valga anche per il soprassuolo; con la precisazione che la sussistenza dell'interesse del proprietario del suolo ad escludere l'attività di terzi, che si svolga nello spazio sovrastante, deve essere valutata con riferimento non solo alla situazione ed alla destinazione attuali del suolo, ma anche alle sue possibili, future, utilizzazioni. La giurisprudenza ritiene legittima la separata alienazione del soprasuolo dal sottosuolo come entità reali giuridicamente autonome. Una limitazione all'estensione della proprietà al di sopra o al di sotto del suolo si ha quando venga costituito un diritto di superficie. In senso orizzontale, ciascuna proprietà fondiaria si estende nell'ambito dei propri confini. Il proprietario nell'esercizio del proprio potere di godere del bene in modo esclusivo ha la facoltà di cintare in qualsiasi momento il proprio fondo e di impedirne l'accesso a chiunque RAPPORTI DI VICINATO. Le singole proprietà immobiliari sono necessariamente destinate a convivere fianco a fianco. L'eventuale riconoscimento, in capo a ciascuno dei titolari, di un potere di godere del proprio fondo in modo pieno darebbe luogo a conflitti tra i contrapposti interessi (es tra l'interesse del proprietario di un immobile ad esercitare in esso un'attività produttiva ed il contrapposto interesse del proprietario del fondo contiguo a non subire immissioni di fumi o rumori derivanti dall'esercizio di detta attività). Proprio al fine di contemperare i contrapposti interessi dei proprietari di fondi contigui , disciplinando i c.d. rapporti di vicinato il codice detta una serie di regole in materia di: a) atti emulativi (art. 833); b) immissioni (art. 844); c) distanze (artt. 873, 878 ss.); d) muri (artt. 874 ss.); e) luci e vedute (artt. 900 ss.); f) acque (artt. 908 ss.). ATTI EMULATIVI. Al proprietario sono preclusi gli atti di emulazione, per tali intendendosi quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri (art. 833 c.c.). Secondo l'opinione prevalente, il divieto costituirebbe espressione del principio di carattere generale che vieta l'abuso del diritto. Perché l'atto di godimento di un bene sia vietato, debbono concorrere due presupposti: a) uno oggettivo, ossia l'assenza di utilità per chi lo compie; b) l'altro soggettivo, ossia l'intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri (c.d. animus nocendi), che peraltro si può presumere allorquando l'atto risulti non giustificato da alcun interesse del proprietario e lesivo di interessi del vicino (es è stato ritenuto emulativo e, quindi, vietato il piantare alberi senza apprezzabile utilità per il proprietario, al solo evidente scopo di togliere la veduta panoramica ad una villa confinante). Si ritiene non incorra nel divieto di atti emulativi un comportamento omissivo del proprietario, quand'anche finalizzato a nuocere al vicino (es è stata reputata non illegittima la condotta di chi abbia lasciato crescere sul proprio fondo degli arbusti spontanei con l'intento di precludere al proprietario del fondo finitimo il godimento di una visuale). LE IMMISSIONI. Il diritto di godere del bene in modo esclusivo, riconosciuto al proprietario dall'art. 832 c.c., importa che lo stesso è legittimato ad opporsi a qualsiasi attività materiale di terzi che abbia a svolgersi sul suo fondo (es scarico di rifiuti): immissioni materiali. Egli non può invece opporsi ad attività che si svolgano lecitamente sul fondo del vicino. È peraltro frequente che tali ultime attività importino la produzione di fumi, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili, destinati a propagarsi nelle proprietà circostanti (es rumore che, in estate, proviene dai locali pubblici all'aperto): immissioni immateriali. In questo caso, occorre distinguere: a) se le immissioni rimangono al di sotto della soglia della normale tollerabilità (ad es le immissioni sonore provenienti dal'appartamento del vicino che non superano il c.d. rumore di fondo della zona), chi le subisce deve sopportare: non ha né il diritto di far cessare, né quello di vedersi riconosciuto un ristoro per il disagio eventualmente sofferto; b) se le immissioni superano, invece, la soglia della normale tollerabilità, ma sono giustificate da esigenze della produzione (es immissioni sonore provenienti dagli impianti industriali del vicino che superano in maniera significativa il rumore di fondo della zona, ma l'interesse collettivo, in termini di produzione e di occupazione, impone il mantenimento dell'attività), chi le subisce non ha diritto di farle cessare, ma può ottenere un indennizzo in danaro per il pregiudizio eventualmente sofferto; c) se le immissioni superano la soglia della normale tollerabilità senza peraltro essere giustificate da esigenze della produzione (es immissioni sonore provenienti da appartamen del vicino che superano in maniera significativa il rumore di fondo della zona nelle ore in cui lo stesso si dedica a suonare la chitarra), chi le subisce ha diritto che, per il futuro, ne cessi la prosecuzione (o, quanto meno, che vengano adottate misure per far rientrare dette immissioni nei limiti della normale tollerabilità e, per il passato, che gli sia riconosciuto l'integrale risarcimento del danno, sia patrimoniale che non. L'azione che per questo si dice reale rivolta all’accertamento dell'illegittimità delle immissioni e la condanna alla loro cessazione deve essere proposta nei confronti del proprietario del fondo dal quale esse provengono. L'azione risarcitoria, che per questo si dice personale, va invece esercitata contro chi ha concretamente provocato il danno di cui viene richiesta la riparazione ; mentre il proprietario ne risponde solo quando, nel momento in cui ha concesso ad altri l'uso dell'immobile, avrebbe potuto prefigurare, impiegando l'ordinaria diligenza, che l'utilizzatore avrebbe certamente recato danno a terzi. La soglia della normale tollerabilità di un'immissione non coincide con i limiti variamente previsti da leggi e regolamenti a tutela di interessi di carattere generale(es salute, ambiente ,quiete pubblica). La tollerabilità o meno di un'immissione va piuttosto valutata, caso per caso, dal punto di vista del fondo che la subisce, tenendo conto della condizione dei luoghi: cioè, della loro concreta destinazione naturalistica ed urbanistica, delle attività normalmente svolte nella zona. Non rilevano, invece, né le condizioni soggettive di chi utilizza il fondo, né l'attività da quest'ultimo svolta (es guardia notturna che riposa durante le ore diurne). Peraltro, sul punto, è di recente intervenuto il legislatore per statuire che, nell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, a decorrere dal 1° gennaio 2019 si applicano i criteri di accettabilità del livello di rumore indicati nella « legge quadro sull'inquinamento acustico »: il che ha sollevato in molti il timore che, se rispettose dei limiti imposti da tale legge, le immissioni acustiche debbano considerarsi senz'altro rispettose del limite della normale tollerabilità; senza che al giudice sia più concesso adottare, con riferimento al singolo caso concreto, parametri più restrittivi. Se l'immissione che supera la soglia della normale tollerabilità proviene dall'espletamento di attività produttive, occorre bilanciare le esigenze industria con ragioni della proprietà. Essa sarà dunque consentita salvo un indennizzo a favore proprietà danneggiate solo se: a) non sia eliminabile (o riducibile) attraverso l'adozione di accorgimenti tecnici non particolarmente onerosi; b) la cessazione dell'attività produttiva causerebbe alla collettività un danno più grave del sacrificio inflitto ai proprietari dei fondi vicini. DISTANZE LEGALI. Al fine di impedire che, fra immobili che si fronteggiano da fondi appartenenti a proprietari diversi, possano crearsi intercapedini, l'art. 873 c.c. dispone che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di 3 metri tra loro; ciò a prescindere dalla circostanza che, in concreto, la costruzione sia o meno idonea a creare intercapedini atte ad arrecare pregiudizio all'igiene ed alla salubrità dell'ambiente. Poiché volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antiigieniche e pericolose, le norme codicistiche in tema di distanze regali sono derogabili mediante convenzioni tra privati; non così le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici locali, in quanto dettate a tutela dell'interesse generale ad un prefigurato modello urbanistico. Nessuna parte della costruzione con esclusione dei soli sporti (es canali di gronda) deve, dunque, trovarsi a distanza inferiore rispetto a quella prescritta. Se l'immobile risulta a distanza inferiore, il vicino può agire per la rimozione dell'opera abusivamente realizzata, nonché per il risarcimento del danno sofferto. Anche quella volta al rispetto delle distanze legali costituisce un'azione reale, che conseguentemente, va proposta nei confronti dell'attuale proprietario della costruzione illegittima e non nei confronti del suo autore materiale: infatti, solo il primo può essere destinatario dell'ordine di demolizione, che tale azione tende a conseguire. L'art. 873 c.c. fa salva l'ipotesi in cui gli strumenti urbanistici locali richiedano una distanza superiore ai 3 metri previsti dal codice civile. In quest'ultimo caso: a) se la previsione degli strumenti urbanistici risulta destinata a disciplinare proprio le distanze tra costruzioni nei rapporti inter soggettivi di vicinato, la sua violazione legittima il vicino ad agire per la rimozione dell'opera abusivamente realizzata e per il risarcimento del danno sofferto; b) se la previsione degli strumenti urbanistici risulta invece dettata esclusivamente per la tutela di interessi generali la sua violazione legittima il vicino ad agire solo per il Il suolo è sempre considerato cosa principale, quand'anche le cose incorporate dovessero avere un valore di mercato maggiore. Siffatta regola, derogabile per volontà delle parti mediante costituzione di un diritto di superficie, importa la necessità di contemperare i contrapposti interessi del proprietario del suolo con quelli del proprietario di questi ultimi, se diverso. La regola secondo cui superficies solo cedit viene peraltro derogata anzi, ribaltata (nel senso che è il suolo a cedere a quanto in esso impiantato)= in ipotesi di accessione invertita, che si configura allorquando, nel realizzare una costruzione, il proprietario finitimo sconfina sul fondo altrui, sicché l'edificio viene ad insistere a cavallo tra due fondi. Ora (1) se la parte realizzata sul terreno altrui non ha una propria autonomia funzionale; (2) se l'autore dello sconfinamento opera nel ragionevole convincimento di edificare sul proprio suolo (buona fede); (3) se il proprietario del fondo occupato non fa opposizione entro 3 mesi dal giorno in cui la costruzione sul suo fondo ha avuto inizio, il proprietario sconfinante può chiedere che il giudice gli trasferisca la proprietà del suolo occupato a fronte del pagamento, a favore del confinante, di una somma pari al doppio del valore della superficie occupata. b) L'accessione di immobile ad immobile si articola nelle seguenti figure: —l’alluvione, che consiste nell'accrescimento dei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti per l'azione naturale dell'acqua corrente: siffatti terreni alluvionali appartengono al proprietario del fondo incrementato; —l'avulsione, che consiste nell'unione al fondo rivierasco di porzioni di terreno, considerevoli e riconoscibili, staccatesi da altro fondo per forza istantanea dell'acqua corrente: dette porzioni di terreno appartengono al proprietario del fondo incrementato, che è peraltro tenuto a pagare all'altro proprietario un'indennità nei limiti del maggior valore recato al suo fondo di avulsione. c) L'accessione di mobile a mobile dà luogo alle seguenti figure: —l'unione (o commistione), che consiste nella congiunzione di beni mobili appartenenti a proprietari diversi che vengono a formare un tutto inseparabile senza dar luogo ad una cosa nuova: la proprietà diventa comune. Se, però, una delle due cose si può considerare principale o è molto superiore per valore, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto; salvo l'obbligo di corrispondere all'altro una somma di denaro; —la specificazione, che consiste nella creazione di cosa del tutto nuova con beni mobili appartenenti ad altri : qui si ha trasformazione della materia mediante l'opera umana. Il codice ha dato conseguentemente importanza all'elemento lavoro: infatti, se è superiore il valore della manodopera, la proprietà spetta allo specificatore (salvo l'obbligo di pagare al proprietario il prezzo della materia); altrimenti prevale il diritto del proprietario materia. PERDITA DELLA PROPRIETA'. La proprietà si perde, innanzitutto, in forza di un atto di disposizione (es vendita) posto in essere dal suo titolare, che ne determini il trasferimento a favore di terzi, che la acquisiscono a titolo derivativo. Si perde altresì in conseguenza dell'acquisto che altri ne faccia per usucapione. Si tende ad ammettere che la proprietà possa estinguersi per rinuncia da parte del suo titolare. Nel caso in cui la proprietà abbia ad oggetto un bene mobile, la rinuncia può avvenire anche per facta concludentia (es abbandononando il bene in discarica); nell'ipotesi in cui abbia invece ad oggetto un bene immobile, l'atto di rinuncia deve rivestire la forma scritta ed essere trascritto nei pubblici registri immobiliari . In seguito alla rinuncia, nel primo caso, il bene diviene res derelicta, suscettibile di acquisto per occupazione ; nel secondo, viene acquisito ex lege al patrimonio dello Stato. AZIONI A DIFESA DELLA PROPRIETA'. A difesa proprietà esperibili le c.d. azioni petitorie (che hanno natura reale, in quanto volte a far valere un diritto reale); e cioè: a) l'azione di rivendicazione (art. 948 c.c.); b) l'azione di mero accertamento della proprietà; c) l'azione negatoria (art. 949 c.c.); d) l'azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.); e) l'azione per apposizione di termini (art. 951 c.c.). A) L’azione di rivendicazione (c.d. reivindicatio) (art. 948 c.c.) è concessa a chi si afferma proprietario di un bene, ma non ne ha il possesso, al fine di ottenere l'accertamento del suo diritto di proprietà sul bene stesso e la condanna di chi lo possiede o detiene alla sua restituzione. Legittimato attivamente è chi sostiene di essere proprietario del bene, senza trovarsi nel possesso della cosa. Legittimato passivamente è colui che, avendo il possesso o la detenzione della cosa, ha la c.d. facultas restituendi. Il detentore, peraltro, ove sia convenuto con la rei vindicatio, può chiedere di essere estromesso dal giudizio, indicando il soggetto in nome del quale egli detiene la cosa, in modo che l'attore possa proseguire l'azione contro quest'ultimo. È sufficiente che il convenuto possieda o detenga la cosa al momento della domanda giudiziale: se successivamente abbia cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa, l'azione può essere legittimamente proseguita nei suoi confronti, anche se non potrà più avere l'effetto restitutorio del possesso che le è proprio. Il convenuto sarà obbligato a recuperare la cosa per l’attore a proprie spese,o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a dovergli in ogni caso risarcire il danno. Causa petendi->Poiché chi agisce in rivendica fa valere il suo diritto di proprietà, ai fini della domanda, irrilevante è il titolo dallo stesso eventualmente indicato come fonte di esso. La proprietà, come gli altri diritti reali godimento, appartiene infatti, alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, individuati cioè in base alla sola indicazione del loro contenuto, e non anche in base al titolo che ne costituisce la fonte. Per quel che riguarda la prova, l'attore ha l'onere di dimostrare il suo diritto di proprietà. All'uopo, se l'acquisto è a titolo originario, gli sarà sufficiente fornire la prova di tale titolo (es l'intervenuta usucapione, l'accessione). Se, invece, l'acquisto è a titolo derivativo (es compravendita), non basterà la produzione in giudizio del suo titolo di acquisto, in quanto l'alienante potrebbe non essere stato il proprietario del bene e, quindi, legittimato a trasferirne la titolarità all'acquirente; sicché l'attore dovrà dare la prova, oltre che del suo titolo di acquisto, anche del titolo di acquisto dei precedenti titolari, fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario: la prova potrebbe rivelarsi, se non addirittura impossibile, estremamente difficile (c.d. probatio diabolica). In proposito, soccorrono, però, 2 istituti: –rispetto ai beni mobili sarà sufficiente che l'attore provi che quand'anche avesse acquistato la cosa da chi non ne era il legittimo proprietario (cquisto a non domino) ne avrebbe comunque acquisito la proprietà per effetto della regola possesso vale titolo, avendo a suo tempo ricevuto, in buona fede ed in base ad un titolo idoneo al trasferimento della proprietà, il possesso del bene di cui ora lamenta di non avere il godimento; –rispetto ai beni immobili ed ai beni mobili relativamente ai quali non possa dimostrarsi l'operatività della regola possesso vale titolo, occorrerà invece che l'attore provi che, quand'anche avesse acquistato a non domino, avrebbe comunque acquisito la proprietà della cosa per usucapione, avendone avuto il possesso continuato per il tempo necessario al maturarsi dell'usucapione stessa. Il convenuto si trova in una posizione molto più comoda rispetto a quella dell'attore: egli può limitarsi a dire possideo quia possideo ed attendere che l'attore provi il suo diritto. L'azione di rivendicazione è imprescrittibile, perché anche il non uso è una manifestazione dell'ampiezza di poteri che spettano al proprietario. Essa dev'essere però rigettata, se il convenuto dimostra di avere acquistato la proprietà della cosa per usucapione. B) L'azione di mero accertamento della proprietà è riconosciuta a chi, abbia o non il possesso della cosa, ha interesse ad una pronuncia giudiziale che affermi, con l'efficacia del giudicato, il suo diritto di proprietà su un determinato bene: l'azione è rivolta non già come invece la reivindicatio a recuperare la cosa (che, magari, è già nel possesso dell'attore), ma semplicemente a rimuovere la situazione di incertezza venutasi a creare in ordine alla proprietà di essa. L'attore ha l'onere di offrire la prova rigorosa della sua proprietà, non diversamente da quanto richiesto per azione rivendicazione, salvo che si trovi nel legittimo possesso del bene;nell'ultimo caso deve allegare e provare solo il proprio titolo di acquisto. C) L'azione negatoria (art. 949 c.c.) è concessa al proprietario di un bene al fine di ottenere l'accertamento dell'inesistenza di diritti reali vantati da terzi sul bene stesso, oltre che, nell' ipotesi in cui le relative pretese si siano tradotte nella realizzazione di opere e/o nel compimento di atti corrispondenti all'esercizio di detti diritti, la condanna alla rimozione di dette opere ed alla cessazione delle molestie e turbative poste in essere, nonché al risarcimento del danno. Per quel che riguarda la prova l'attore non deve fornire la prova rigorosa della proprietà sul bene stesso, come accade invece in caso di rivendicazione. È sufficiente che dimostri un valido titolo di acquisto; sarà il convenuto a dover, se vuole ottenere il rigetto dell'azione, dimostrare l'esistenza del diritto che vanta. Anche l'azione negatoria essendo posta a tutela del diritto di proprietà - è imprescrittibile. D) L'azione di regolamento di confini presuppone l'incertezza del confine tra due fondi: i rispettivi titoli di proprietà delle parti non sono contestati; incerta è solo l'estensione delle proprietà contigue (quindi l'esatta allocazione della linea di confine). Si ha dunque un conflitto tra fondi, non un conflitto di titoli. L'azione che spetta al proprietario nei confronti del confinante è volta ad accertare giudizialmente l'esatta collocazione del confine tra due fondi contigui ed, eventualmente, ad ottenere la condanna alla restituzione della striscia di terreno che dovesse risultare posseduta dal non proprietario. La prova dell’ubicazione del confine può essere fornita con ogni mezzo; in mancanza di altri elementi, il giudice si atterrà al confine delineato dalle mappe catastali. E' imprescrittibile. E) L'azione per apposizione di termini(art. 951 c.c.). A differenza della precedente presuppone la certezza del confine e serve a far apporre o a ristabilire i segni lapidei, simboli del confine tra due fondi, che manchino o siano divenuti irriconoscibili. Le azioni fin qui esaminate si chiamano azioni petitorie. DIRITTI REALI DI GODIMENTO. I diritti reali su cosa altrui non costituiscono una parte o frazione del diritto di proprietà, ma su una limitazione del diritto medesimo. I diritti reali su cosa altrui si distinguono in diritti reali di godimento (che comprimono il potere di godimento che spetta al proprietario) e diritti reali di garanzia (che comprimono il potere di disposizione che spetta al proprietario). dell'usufruttuario precedente. L'usufrutto successivo è vietato e, quindi, valido solo a favore del primo beneficiario se costituito per testamento o in forza di donazione. Valido si ritiene il c.d. usufrutto successivo improprio, per tale intendendosi quello in cui l'alienante a titolo oneroso di un bene se ne riserva l'usufrutto, con la previsione che, alla sua morte, lo stesso competerà ad un terzo. L'oggetto dell'usufrutto. Il quasi usufrutto. Oggetto di usufrutto può essere qualunque specie di bene, mobile o immobile, con esclusione dei soli beni consumabili. Questi ultimi non potrebbero, infatti, essere restituiti al proprietario alla cessione dell'usufrutto. Se il godimento di beni consumabili viene attribuito a soggetto diverso dal proprietario, si avrà una situazione che non coincide con quella dell'usufrutto; ma che, per la sua somiglianza a quest'ultimo, si suole definire quasi usufrutto: in tal caso, la proprietà dei beni passa al quasi-usufruttuario, quindi, il quasi usufrutto non è un diritto reale su cosa altrui, salvo l'obbligo di quest'ultimo di restituire non già gli stessi beni ricevuti (cosa che sarebbe impossibile), bensì il loro valore, o altrettanti beni dello stesso genere. Oggetto di usufrutto possono, invece, essere anche beni deteriorabili (vestito, autovettura): in tal caso, l'usufruttuario ha diritto di servirsene secondo l'uso al quale sono destinati. Perciò, se si tratta di cavalli da corsa, non possono essere impiegati come cavalli da tiro. Modi di acquisto dell'usufrutto.Possono essere: a) la legge, per quel che riguarda l'usufrutto legale dei genitori sui beni del figlio minore; b) il provvedimento del giudice che può costituire, a favore di uno dei coniugi, l'usufrutto su parte dei beni spettanti all'altro coniuge a seguito della divisione dei cespiti già in comunione legale; c) la volontà dell'uomo: contratto, testamento, donazione obnuziale; con l'avvertenza che gli atti inter vivos che costituiscono il diritto di usufrutto su beni immobili richiedono la forma scritta ad substantiam e sono soggetti a trascrizione; d) l'usucapione e, sui beni mobili non registrati, l'acquisto del possesso in buona fede. Fino a tempi recenti, il modo d'acquisto dell'usufrutto più diffuso è stato l'attribuzione di tale diritto ex lege al coniuge superstite in sede di successione mortis causa al coniuge defunto : c.d. usufrutto uxorio. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha, peraltro, eliminato siffatto istituto, contemplando, a favore del coniuge superstite, non più il diritto di usufrutto su una quota dei beni relitti, bensì la proprietà piena su una quota degli stessi. Conseguentemente l'importanza dell'istituto appare, oggi, di gran lunga ridimensionata, poiché tutti i residui modi di acquisto dell'usufrutto risultano, nella pratica, meno diffusi. Diritti dell'usufruttuario. All'usufruttuario competono: A) il potere di godimento sul bene, che implica: 1) la facoltà di trarre dalla cosa tutte le utilità che la stessa può dare, fermo solo l'obbligo di rispettarne la destinazione economica; 2) il possesso della cosa. Per conseguire il possesso, se questo è esercitato da altri, l'usufruttuario può esperire l'actio confessoria, azione analoga alla rei vindicatio, tanto che si chiama anche vindicatio ususfructus. Quest'azione è diretta ad accertare l'esistenza del diritto d'usufrutto e ad ottenere la condanna del terzo al rilascio del possesso ; 3) l'acquisto dei frutti naturali e civili della cosa . La legge distingue, in generale, tra frutti civili e frutti naturali: la proprietà dei frutti naturali si acquista con la separazione, i frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto. Questa regola generale si applica anche all'usufruttuario: a quest'ultimo spettano i frutti naturali separati durante l'usufrutto ed i frutti civili maturati giorno per giorno fino al termine dell'usufrutto. Tuttavia, il principio dell'acquisto dei frutti naturali per effetto della separazione è attenuato dal legislatore rispetto alla categoria più importante di frutti naturali, cioè quelli prodotti da un fondo rustico: la ripartizione tra proprietario ed usufruttuario ha luogo, in questo caso, in proporzione della durata del rispettivo diritto nell'anno agrario. Così, se l'anno agrario ha avuto inizio il 1° novembre e l'usufrutto ha termine il 28 febbraio dell'anno successivo (l'usufrutto è, perciò, durato 4 mesi:1/3di anno), i frutti dell'annata agraria spettano per un terzo all'usufruttuario e per due terzi al proprietario; B) il potere di disposizione del diritto di usufrutto . L'usufruttuario può cedere ad altri, contro un corrispettivo o gratuitamente, non il diritto di proprietà sul bene, che non gli compete, ma il proprio diritto d'usufrutto; e può anche concedere ipoteca sull'usufrutto stesso. In ogni caso, la cessione non può danneggiare il nudo proprietario, prolungando la compressione del suo diritto:perciò l'usufrutto si estinguerà egualmente nel termine stabilito nell'atto di costituzione e, in mancanza, con la morte non già dell'acquirente, bensì dell'originario primo usufruttuario C) il potere di disposizione del godimento del bene: es l'usufruttuario può concedere in locazione la cosa che forma oggetto del suo diritto e concederla in godimento a terzi (es., in comodato); D) la facoltà di apportare miglioramenti alla cosa e di eseguire addizioni. Obblighi dell'usufruttuario.Gli obblighi usufruttuario si ricollegano al dovere fondamentale di restituire la cosa al termine del suo diritto. Da ciò deriva che egli è tenuto a: a) usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento della cosa ; b) non modificarne la destinazione ; c) fare l'inventario e prestare garanzia, a presidio dell'osservanza degli obblighi di conservazione e restituzione dei beni assoggettati ad usufrutto. La Suprema Corte ritiene che costituiscano vere e proprie obbligazioni dell'usufruttuario nei confronti del nudo proprietario; e che, in ipotesi di loro inadempimento, quest'ultimo ben possa richiedere al primo il risarcimento del danno eventualmente sofferto. La ripartizione delle spese inerenti alla produttività della cosa->l'usufruttuario è tenuto alle spese e agli oneri relativi alla custodia, all'amministrazione, alla manutenzione della cosa, alle riparazioni ordinarie, alle imposte, ai canoni. Sono, invece, a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie: cioè quelle che superano i limiti conservazione della cosa e delle sue utilità per la durata della vita umana . Estinzione dell'usufrutto. L'estinzione dell'usufrutto si verifica (art. 1014 c.c.): a) per scadenza del termine o morte dell'usufruttuario; b) per prescrizione estintiva ventennale; c) per consolidazione, ossia per riunione dell'usufrutto e della nuda proprietà in capo alla stessa persona; d) per perimento totale della cosa; e) per abuso che l'usufruttuario faccia del suo diritto, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni; f) per rinunzia, che, se l'usufrutto ha ad oggetto beni immobili, deve essere fatta per iscritto ed essere trascritta nei pubblici registri immobiliari. Per effetto del principio dell'elasticità del dominio, l'estinzione dell'usufrutto importa l'automatica riespansione della nuda proprietà in proprietà piena. USO ED ABITAZIONE. L'uso e l'abitazione non sono che tipi limitati di usufrutto: A) l'USO consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se fruttifero, di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia; B) l'ABITAZIONE consiste nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia. A differenza del titolare del diritto d'uso, che potrebbe impiegare l'unità immobiliare che ne costituisse l'oggetto anche per finalità diverse da quella abitativa, l'habitator non può che destinare la casa oggetto del suo diritto che all'abitazione diretta propria e dei propri familiari, con conseguente divieto di utilizzarla in altro modo. I diritti d'uso e di abitazione possono sorgere, oltre che per volontà dell'uomo e per usucapione, anche ex lege: in caso di morte del coniuge convivente, all'altro sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la arredano, se di proprietà del defunto o comuni. Dato il loro carattere personale, i diritti d'uso e di abitazione, a differenza dell'usufrutto, non si possono cedere, né il bene può essere concesso in locazione o in godimento a terzi . Ove non diversamente previsto, all'uso ed all'abitazione trovano applicazione le disposizioni dettate in tema di usufrutto. ES i diritti di uso e di abitazione non possono eccedere la durata della vita del titolare; che si estinguano con la morte del titolare; che non possano formare oggetto di disposizione testamentaria. LE SERVITÙ. La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo (c.d. fondo servente) per l'utilità di un altro fondo (c.d. fondo dominante), appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). Essenziale, pertanto, è questa relazione (c.d. rapporto di servizio) tra i due fondi, per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente (es servitù di passaggio, mentre costringe il proprietario del fondo servente a tollerare che il proprietario del fondo dominante passi sul suo terreno, agevola l'accesso al fondo dominante). L'utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Si può costituire es una servitus altius non tollendi per impedire di realizzare o di elevare una costruzione sul fondo vicino al fine di assicurare l'amenità di un parco o di un giardino, o la vista del mare. Da ciò discende che il contenuto del diritto di servitù può essere il più vario: accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è regolamentato dal codice, sono altresì ammesse le c.d. servitù atipiche, che possono essere liberamente costituite, purché finalizzate all'utilità del fondo dominante. La legge consente anche le servitù industriali: quelle strumentali a quegli utilizzi produttivi in del fondo dominante che ineriscano strutturalmente al fondo stesso (es servitù di passaggio per trasportare merci) . Non costituiscono servitù prediali ma sono servitù irregolari le servitù aziendali: quelle strumentali all'azienda come tale, indipendentemente dal fondo sul quale la stessa viene esercitata. Nulla vieta che le servitù possano essere reciproche: poste simultaneamente a favore ed a carico di due (o più) fondi, a reciproco vantaggio. Sicché ciascun fondo si troverà ad essere contemporaneamente dominante e servente. La ragione per cui non sono ammesse servitù se non a favore di fondi consiste nel fatto che i diritti coattiva di passaggio, non solo per esigenze dell'agricoltura e dell'industria, ma anche per esigenze di accessibilità al fondo dominante da parte di qualsiasi portatore di handicap o persona con ridotta capacità motoria. Esercizio della servitù. L'esercizio delle servitù è regolato dal titolo (contratto, testamento) e, in difetto, dalla legge: c.d. graduazione delle fonti regolatrici dell'estensione e dell' esercizio delle servitù. Il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne : c.d. adminicula servitutis, cioè facoltà accessorie, ma indispensabili per l'esercizio servitù. Si chiama modo d'esercizio della servitù il come la servitù può essere esercitata (ES modi della servitù di passaggio possono essere: a piedi, con mezzi a trazione meccanica). Si discute se possa usucapirsi il modo di una servitù: ad es., se è stato stabilito nel titolo il passaggio a piedi, posso usucapire il diritto di passare con mezzi a trazione meccanica? Se la servitù non è apparente, è come non si può usucapire la servitù, così non si può usucapire il modo. Se la servitù è apparente, la dottrina distingue: se il mondo è determinato nel titolo, non si può usucapire un modo diverso, perché solo il diritto è usucapibile; se il modo non è determinato, l'usucapione è ammissibile. L'eventuale dubbio circa l'estensione e le modalità di esercizio deve risolversi in base alla regola secondo cui le servitù debbono essere esercitate civiliter, soddisfacendo il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente: principio del minimo mezzo. Corollario di siffatto principio è il divieto per il proprietario del fondo dominante di aggravare, e per quello del fondo servente ,di diminuire l'esercizio della servitù. Le servitù si estinguono: a) per rinuncia da parte del titolare, fatta per iscritto: se la rinuncia ha luogo contro un corrispettivo occorre un atto bilaterale, cioè un contratto; se, viceversa, la rinuncia ha luogo per decisione del titolare senza alcuna contropartita, è sufficiente un atto unilaterale; b) per scadenza del termine, se la servitù è a tempo; c) per confusione, quando il proprietario del fondo dominante acquista la proprietà del fondo servente o viceversa; d) per prescrizione estintiva ventennale (c.d. «non uso »). In quest'ultimo caso, da quale momento comincia a decorrere il termine per la prescrizione estintiva dipende dalla natura delle servitù. Queste si distinguono in: a) negative, quando attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di vietare al proprietario del fondo servente di fare qualche cosa, di svolgere un'attività sul proprio fondo; a tale potere corrisponde un obbligo di non facere in capo al proprietario del fondo servente (ad es., nella servitus altius non tollendi); b) affermative (o attive), quando attribuiscono al proprietario a del fondo dominante il potere di fare qualche cosa, di svolgere un’attività nel fondo servente (es passare, far pascolare il gregge); a tale potere corrisponde un obbligo di pati in capo al proprietario del fondo servente. Le servitù affermative si distinguono a loro volta in: 1) continue, quando l'attività dell'uomo è antecedente all'esercizio della servitù: per l'esercizio di siffatte servitù non occorre l'attività dell'uomo (ES servitù di acquedotto); 2) discontinue, quando invece il fatto dell'uomo deve essere concomitante con l'esercizio della servitù(ES servitù di passaggio) —se la servitù è negativa, il proprietario del fondo dominante nulla deve fare per esercitare la servitù (posto il divieto, altro non gli rimane che controllare che l'altro lo rispetti): la prescrizione, quindi, non comincia a decorrere se non quando il proprietario del fondo servente abbia violato il divieto; —se la servitù è (affermativa) continua, si riproduce la stessa situazione (costruito l'acquedotto, il proprietario del fondo dominante non deve far nulla per ritrarre dalla servitù l'utilità voluta): perciò, anche in questo caso, la prescrizione non comincia a decorrere se non quando si sia verificato un fatto contrario all'esercizio della servitù ; —se la servitù è (affermativa) discontinua, la prescrizione estintiva comincia a decorrere dall'ultimo atto di esercizio. L'impossibilità di fatto di usare la servitù (es è crollato l'edificio da cui esercitare la servitù di veduta), così come la cessazione della sua utilità (es si inaridisce la sorgente nella servitù di attingere acqua) non fanno estinguere la servitù, perché lo stato dei luoghi potrebbe nuovamente mutare e la servitù divenire ancora utile. Si ha, in questo caso, sospensione (o quiescenza) della servitù: l'estinzione non si verifica se non quando sia decorso il termine per la prescrizione. Imprescrittibilità del modo. ES->se ho una servitù di veduta da cinque finestre e ne chiudo quattro, posso esercitare la servitù, anche decorso il ventennio, da tutte e cinque le finestre, riaprendo anche le quattro che avevo chiuso, oppure devo limitarmi ad esercitarla dalla sola finestra rimasta aperta? Il problema è risolto dall'art. 1075 c.c.: la servitù conserva per intero, ciò perché per non uso si può estinguere solo il diritto, non il modo, che non ha un valore autonomo. Tutela della servitù. A tutela delle servitù è preordinata l'azione confessoria, in forza della quale di fronte ad una contestazione dell'esistenza o consistenza della servitù chi se ne afferma titolare chiede una pronuncia giudiziale di accertamento del suo diritto e, nell' ipotesi in cui la lamentata contestazione si sia tradotta in impedimenti o turbative all' esercizio della servitù stessa, anche una pronuncia di condanna alla loro cessazione ed alla rimessione delle cose in pristino, oltre che al risarcimento del danno. Legittimato attivamente è colui che si afferma titolare della servitù; legittimato passivamente è il soggetto che, avendo un rapporto attuale con il fondo servente, contesta l'esercizio della servitù o che, comunque, ne turba o impedisce l'esercizio. Come l'attore in rivendicazione deve fornire la dimostrazione rigorosa del suo diritto di proprietà, così l'attore in confessoria servitutis deve fornire la prova rigorosa dell'esistenza della servitù. Infatti, l'azione confessoria ha carattere petitorio e il suo accoglimento presuppone l'accertamento del diritto alla servitù. LA COMUNIONE. Un diritto soggettivo può appartenere a più persone, le quali sono tutte contitolari del medesimo (unico) diritto. Il fenomeno della contitolarità, allorquando ha ad oggetto un diritto reale, prende il nome di comunione pro indiviso (o comproprietà, se trattasi di contitolarità del diritto dominicale; usufrutto, se trattasi di contitolarità del diritto di usufrutto). Il diritto di ciascuno dei contitolari investe l'intero bene, seppure il relativo esercizio trovi necessariamente limite nell'esistenza dell'egual diritto degli altri compartecipi. A ciascuno dei contitolari spetta, dunque, una quota ideale sull’intero bene :detta quota è disponibile e segna la misura di facoltà, diritti ed obblighi dei rispettivi titolari. Nell'ipotesi in cui non sia diversamente previsto, le quote si presumono uguali. Comunione e società. La comunione si distingue dalla società per il fatto che mentre i compartecipi alla comunione si limitano ad esercitare in comune il godimento di un determinato bene, i compartecipi alla società, almeno di norma, esercitano invece in comune, di norma, un'attività economica. La distinzione diviene più labile allorquando si tratti di bene produttivo (ES azienda). In tal caso, si rimane nell'ambito della comunione se i compartecipi non utilizzano il bene, o lo concedono in godimento a terzi , o ancora si limitano a raccoglierne i frutti naturali, senza che la loro attività possa qualificarsi come d'impresa. Si scivola invece nell'ambito della società se i compartecipi attraverso lo strumento costituito dal bene produttivo, esercitano un'attività d'impresa. ES se il padre, che gestiva un'impresa sul fondo di sua proprietà, morendo, lascia la propria azienda ai tre figli, fra questi ultimi verrà a costituirsi una comunione sull'azienda paterna; se, poi, due dei tre figli dovessero continuare l'attività del padre, si costituirà tra questi ultimi una società. Costituzione. Quanto ai modi di costituzione, la comunione per quote si distingue in: a) volontaria, quando scaturisce dall'accordo dei futuri contitolari; b) incidentale, quando scaturisce senza un atto dei futuri contiiolari diretto alla sua costituzione; c) forzosa, quando scaturisce dall'esercizio di un diritto potestativo da parte di uno dei futuri contitolari. Disciplina. Si è soliti distinguere fra: a) comunione ordinaria, artt. 1100-1116 c.c.; b) comunioni speciali, che sono quelle figure previste e regolate dalla legge (es condominio negli edifici),cui norme su comunione ordinaria trovano applicaz solo laddove compatibili. I poteri di godimento e di disposizione. La disciplina legale della comunione ordinaria risponde alla logica secondo cui il diritto di ciascuno dei contitolari incontra un limite nel diritto degli altri compartecipi. Per quel che riguarda il potere di godimento: A) ciascuno dei contitolari può servirsi della cosa comune a condizione che: non ne alterino la destinazione; non impedisca agli altri contitolari di parimenti utilizzarla. Rispettati detti limiti, l’utilizzo che il singolo fa della cosa comune non deve essere necessariamente proporzionato alla quota a ciascuno spettante: se gli altri contitolari non lo utilizzano anche chi possiede una quota minima può fruire del bene in tutta la sua estensione. Le parti possono derogare alla regola legale dell’uso promiscuo, concordando una divisione del godimento del bene comune nello spazio e/o nel tempo; così come possono concordarne l’uso indiretto. Al fine di un suo miglior godimento, al singolo contitolare è consentito apportare alla cosa comune le modificazioni che ritiene necessarie, nei limiti in cui ciò non importi alterazione della destinazione del bene o impedimento del diritto degli altri partecipanti a parimenti goderne, purché se ne accolli le relative spese; B) ciascuno dei contitolari ha diritto di percepire i frutti della cosa in proporzione della rispettiva quota, pur dovendo partecipare in analoga proporzione a spese per la gestione. Potere di disposizione->ciascun comproprietario può disporre della propria quota, ad es. alienandola, costituendola in usufrutto: non può disporre né della quota altrui, né dell'intero, che non gli competono. L'amministrazione della cosa comune->ciascuno dei compartecipi ha diritto di concorrervi (es ha diritto di essere previamente informato delle decisioni da assumere). Non è però richiesto, per l'adozione delle relative deliberazioni, il consenso di tutti: spesso, specie quando la comunione è fra molte persone, queste non riuscirebbero a mettersi d'accordo, All'assemblea hanno diritto di intervenire anche a mezzo di rappresentante munito di delega scritta, tutti i condòmini. Di competenza dell'assemblea sono: l'adozione del regolamento condominiale la nomina dell'amministratore, l'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e la relativa ripartizione tra i condomini, l'approvazione del rendiconto annuale e l'impiego del residuo attivo di gestione, la decisione in ordine alle opere di manutenzione straordinaria ed alle innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle parti comuni, sempre che non arrechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni inservibili all'uso ed al godimento anche di un solo condòmino. L'assemblea, convocata dall'amministratore con avviso contenente l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione, nonché dell’ordine del giorno, e comunicato a tutti i condòmini almeno 5gg prima della data fissata per l'adunanza, è validamente costituita con l'intervento di tanti condòmini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio (c.d. quorum costitutivo). Se non può deliberare per mancato raggiungimento del quorum costitutivo, l'assemblea può essere nuovamente convocata in un giorno successivo, ma non oltre 10 gg, per deliberare sul medesimo ordine del giorno: in questo caso, l'assemblea è validamente costituita con l'intervento di tanti condòmini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio ed un terzo dei partecipanti al condominio. Le deliberazioni assembleari sono assunte, in prima convocazione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio; in seconda convocazione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno un terzo del valore dell'edificio. Nelle deliberazioni relative alle spese ed alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, il diritto di voto nell'assemblea di condominio compete, anziché al proprietario dell'appartamento concesso in locazione, al conduttore di esso : è infatti su quest'ultimo che sono destinati a gravare i relativi oneri. Delle deliberazioni assembleari si deve redigere processo verbale, da trascrivere nel relativo registro tenuto dall'amministratore : dal verbale debbono risultare i partecipanti all'assemblea, i nomi dei condòmini assenzienti, dissenzienti e astenuti. La mancanza di dette indicazioni importa l'annullabilità delle deliberazioni assunte dall'assemblea. Le deliberazioni assunte dall'assemblea sono vincolanti per tutti i partecipanti al condominio. I condòmini assenti all'assemblea o dissenzienti od astenuti rispetto ad una deliberazione possono impugnarla davanti all'autorità giudiziaria, se contraria alla legge o al regolamento condominiale: deliberazione annullabile. Il ricorso deve essere proposto, a pena di decadenza, entro 30gg decorrenti, per i condòmini dissenzienti od astenuti, dalla data della deliberazione e, per i condomini assenti, dalla data in cui è stato loro comunicato il verbale dell'assemblea. Dalle deliberazioni semplicemente annullabili, perché contrarie alla legge o al regolamento di condominio o perché assunte da un'assemblea non regolarmente convocata, occorre tener distinte le deliberazioni nulle: tali debbono qualificarsi le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito, le delibere con oggetto che non rientra nelle competenze assembleari, le delibere che incidano sui diritti individuali dei condòmini. L'azione di nullità può essere esperita da chiunque vi abbia interesse dissenzienti e non è soggetta a termini di prescrizione o decadenza. All'amministratore, che, nominato dall'assemblea dura in carica un anno , ma può essere revocato in ogni tempo dall'assemblea, compete di eseguire le deliberazioni dell' assemblea, convocarla annualmente per l'approvazione del rendiconto condominiale, curare l'osservanza del regolamento, disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune, riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni, eseguire gli adempimenti fiscali, curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale (contenente, in primis, le generalità dei singoli condòmini), del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell'amministratore e del registro di conta bilità , redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione. L'incarico di amministratore del condominio può essere conferito non solo ad una persona fisica, ma anche ad una società lucrativa, non importa se di persone o di capitali. I provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri sono obbligatori per i condòmini . Contro detti provvedimenti è peraltro ammesso ricorso all'assemblea. L'amministratore ha la rappresentanza del condominio; e può agire e resistere in giudizio sia contro i condòmini, sia contro i terzi talora autonomamente , talora previa autorizzazione assembleare. Per l'adempimento delle obbligazioni assunte dall'amministratore nell'interesse del condominio, i creditori possono agire nei confronti sia del condominio che dei singoli condòmini; i creditori non possono però agire nei confronti dei condòmini in regola con i pagamenti dovuti al condominio, se non dopo l'escussione degli altri condòmini: c.d. beneficium excussionis . La soggettività del condominio impone all'amministratore di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio da quella del patrimonio suo personale e del patrimonio di altri condomini; impone la costituzione obbligatoria di un fondo speciale da destinare ai lavori di manutenzione straordinaria ed alle innovazioni che l'assemblea abbia a deliberare. Il regolamento condominiale. L'assemblea, obbligatoriamente nell'ipotesi in cui i condomini siano più di dieci, approva, con le maggioranze richieste per le deliberazioni in prima convocazione, un regolamento che contenga le norme circa l'uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell'edificio, l'amministrazione del condominio. Per le infrazioni al regolamento può essere dal medesimo previsto, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad € 200,00 e, in caso di recidiva, fino ad € 800,00: somme destinate alle spese ordinarie di gestione condominiale. Se non prevista nel titolo, al regolamento deve essere allegata la c.d. tabella millesimale, la quale, ai fini della ripartizione delle spese e del computo dei quorum costitutivi e deliberativi assembleari, indica il rapporto proporzionale fra il valore della singola unità immobiliare di proprietà esclusiva e quello dell'intero edificio. Per la modifica delle tabelle millesimali è sufficiente la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 2, c.c.: (i) quando risulta che i valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nelle tabelle sono conseguenza di un errore; (ii) quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, risulti alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di uno solo dei condómini. Negli altri casi è invece richiesto il consenso unanime di tutti i condómini. Posto che la loro competenza è circoscritta all'uso delle parti comuni ed ai rapporti condominiali, né l'assemblea né il regolamento approvato dall'assemblea possono imporre limitazioni ai diritti dei singoli condòmini sulle unità immobiliari di rispettiva proprietà esclusiva , ma solo obblighi intesi a garantire il reciproco rispetto delle comuni esigenze (es possono prevedere l'obbligo di non far rumore in determinate ore della giornata). Naturalmente, nulla impedisce che i condòmini concordino all'unanimità limitazioni a carico delle rispettive proprietà esclusive, venendo così a costituire servitù reciproche. In ogni caso, le clausole dei regolamenti approvati all'unanimità e dei regolamenti apprestati dall'unico originario proprietario hanno natura contrattuale solo nella parte in cui limitino i diritti dei condòmini sulle proprietà esclusive o comuni, o siano attributive ad alcuni condòmini di diritti maggiori o minori rispetto a quelli che spetterebbero loro exlege. Da ciò consegue che,mentre tali ultime previsioni possono essere modificate solo con il consenso unanime di tutti i condòmini,quelle che, pur approvate con il consenso totalitario dei partecipanti, si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, possono essere invece modificate con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 2, c.c. Né il regolamento contrattuale nè quello assembleare possono vietare di tenere animali domestici all'interno delle unità immobiliari di proprietà esclusiva. In ogni caso, per la formazione del regolamento di condominio, così come per la sua modifica è richiesta la forma scritta ad substantiam. Supercondominio. Nell'ipotesi in cui una pluralità di edifici, costituiti in distinti condomini, siano legati tra loro dall'esistenza di talune cose e/o impianti e/o servizi comuni in rapporto di accessorietà rispetto a ciascuno di detti condomini, si ha quello che viene comunemente denominato supercondominio. Ai singoli proprietari delle unità immobiliari facenti parte di ciascun condominio spetta pro quota la proprietà sulle parti comuni, così come sugli stessi gravano i relativi oneri. Al supercondominio sono applicabili: a) le norme dal codice dettate in tema di condominio, per quanto riguarda le parti ed i servizi necessari o oggettivamente e stabilmente destinati all'uso ed al godimento di tutti gli edifici, costituiti in altrettanti condomìni (c.d. rapporto di accessorietà necessaria); b) le norme dal codice dettate in tema di comunione, per quanto riguarda altre eventuali strutture che siano invece dotate di una propria autonoma utilità: che cioè costituiscano parti o servizi non necessari per l'utilizzo delle unità abitative di proprietà esclusiva e ben possano essere oggetto di utilizzazione autonoma. LA MULTIPROPRIETÀ. Il termine multiproprietà indica un'operazione economica volta ad assicurare al c.d. multiproprietario un potere di godimento su di un'unità immobiliare ma solo per un determinato e normalmente invariabile periodo di ogni anno ; mentre analogo potere, per i restanti periodi, compete agli altri multiproprietari. Siffatta operazione ha conosciuto particolare fortuna nel segmento di mercato della seconda casa destinata alle vacanze, in quanto consente l'acquisizione della disponibilità, per il tempo delle ferie, di un'unità immobiliare in località turisticamente attrezzate, a fronte di un esborso iniziale relativamente contenuto ed oneri di gestione accessibili: ciò, grazie al fatto che i relativi costi vengono ripartiti fra un elevatissimo numero di multiproprietari che, nell'arco dell'anno, si succedono nel godimento del medesimo immobile. Invero, ciò che rileva ai fini della distinzione fra possesso e detenzione è non già lo stato psicologico che il soggetto nutre nel momento in cui acquisisce la materiale disponibilità del bene, bensì lo stato psicologico (animus) che, in quel momento, il soggetto manifesta all’esterno, o dalle modalità con cui detta acquisizione si realizza (es., nel momento stesso in cui ruba la mia autovettura, il ladro fa mostra di non voler rispettare il mio diritto di proprietà sul veicolo). Il mutamento della detenzione in possesso c.d. interversio possessionis, interversione del possesso, può avvenire solo se la modificazione dello stato psicologico del detentore venga manifestata all'esterno. Le qualificazioni del possesso e della detenzione. Il possesso si distingue, a sua volta, in: a) possesso legittimo, che si ha allorquando il potere di godere e disporre del bene è esercitato dall'effettivo titolare del diritto di le proprietà: in tal caso la situazione di fatto coincide esattamente con la situazione di diritto ; b) possesso illegittimo, che si ha allorquando il potere di godere e disporre del bene è esercitato, di fatto, da persona diversa dall'effettivo titolare del diritto di proprietà: in tal caso la situazione di fatto non coincide con la situazione di diritto; si articola a sua volta in: i) possesso (illegittimo) di buona fede che si ha allorquando il possessore ha acquisito la materiale disponibilità del bene, ignorando di ledere l'altrui diritto, sempreché detta ignoranza non dipenda da sua colpa grave(es., porto a casa un quadro, acquistato presso una nota casa d'aste, senza aver ragione per sospettarne la provenienza furtiva). Nel caso di errore inescusabile, il possessore non è considerato in buona fede, la qualifica di possessore di buona fede dipende dalle circostanze nelle quali avviene acquisto possesso. ii) possesso (illegittimo) di mala fede, che si ha allorquando il possessore ha acquisito la materiale disponibilità del bene, conoscendo il difetto del proprio titolo di acquisto (ad es., occupo abusivamente un appezzamento di terreno,che mi è noto appartenere ad un terzo); iii) possesso (illegittimo) vizioso, che si ha allorquando il possessore ha acquisito la disponibilità del bene non solo in mala fede, ma addirittura con violenza o clandestinità. La buona fede, in materia di possesso, si presume . Peraltro, si tratta di presunzione iuris tantum: grava su chi contesta la buona fede possessore l'onere di provare la sua mala fede. Per qualificare il possesso come di buona fede, non occorre che la buona fede perduri per tutta la durata del possesso; è sufficiente che vi sia stata al momento del suo acquisto: mala fides superveniens non nocet. La detenzione si distingue, a sua volta, in: a) detenzione qualificata, che si ha allorquando il detentore ha acquisito la materiale disponibilità del bene nell'interesse proprio (ad es., l'inquilino, l'affittuario di un fondo rustico), o nell'interesse del possessore: nel primo caso si parla di detenzione (qualificata) autonoma ; nel secondo, di detenzione (qualificata) non autonoma; b) detenzione non qualificata, che si ha allorquando il detentore ha acquistato la materiale disponibilità del bene per ragioni di ospitalità (es amico che accolgo nel mio appartamento) o di servizio (es autista cui affido mia autovettura perché la guidi) o di lavoro (meccanico). Il possesso di diritti reali minori. Sin qui si è parlato di situazioni di fatto che corrispondono all'esercizio del diritto di proprieta: c.d. possesso uti dominus. Vi possono anche essere situazioni di fatto che corrispondono all'esercizio di diritti reali c.d. minori: es., se sopra un fondo viene fatto passare un acquedotto, si ha possesso della servitù ; se sopra un fondo esercito i poteri tipici dell'usufruttuario, si avrà possesso dell'usufrutto. Sul medesimo bene ,così come possono gravare più diritti reali, possono coesistere più possessi di diverso tipo. Chi ha il possesso corrispondente all'esercizio di un diritto reale minore può modificare il titolo del proprio possesso solo attraverso uno dei mezzi idonei a consentire la trasformazione della detenzione in possesso (interversione del possesso); cioè, attraverso: a) l'opposizione fatta dal possessore a titolo di diritto reale minore nei confronti del possessore a titolo di proprietà; b) la causa proveniente da un terzo. Nell'ipotesi in cui la proprietà di un bene spetti in comunione pro indiviso a più soggetti , il partecipante, per acquisirne il possesso esclusivo, non ha necessità di compiere atti di interversio possessionis, essendo sufficiente che goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziarne l'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. L'acquisto e la perdita del possesso. L'acquisto del possesso può avvenire: a) in modo originario, con l'apprensione della cosa contro o senza la volontà di un eventuale precedente possessore (c.d. impossessamento) ed il conseguente esercizio sulla cosa stessa di poteri di fatto corrispondenti a quelli spettanti al titolare di un diritto reale (es., occupo una casa abbandonata). Non si ha acquisto del possesso se l'apprensione del bene ed il relativo esercizio di fatto del diritto reale si verificano per mera tolleranza del possessore : ossia, quando chi potrebbe impedire l'acquisto del corpus se ne astiene per spirito di amicizia, di cortesia, di buon vicinato,ecc. b) in modo derivativo, con la consegna (c.d. traditio) materiale (es consegna plico nelle mani del destinatario) o simbolica (es consegna appartamento mediante consegna chiavi) del bene da parte del precedente al nuovo possessore. Non è necessaria, perché si abbia consegna, la materiale apprensione del bene da parte dell'accipiens, essendo sufficiente che quest'ultimo consegua la possibilità di agire liberamente su di esso. Peraltro, l'esperienza conosce due figure di traditio ficta, in cui non si ha alcun mutamento nella relazione di fatto con la cosa (che resta sempre nelle mani della stessa persona); ciò che muta è solo l'animus: (A) la traditio brevi manu, che si ha allorquando il detentore acquista il possesso del bene (es., se il proprietario vende la casa all'inquilino che già la deteneva); (B) il costituto possessorio, che si ha allorquando il possessore, perdendo il possesso, acquista però la detenzione del bene (es. se chi acquista un immobile contemporaneament lo concede in locazione al venditore). Poiché il possesso è una situazione di fatto, la giurisprudenza ritiene inammissibile un contratto avente ad oggetto il solo trasferimento del possesso, disgiunto dal diritto reale di cui costituisca l'esercizio. Per il trasferimento del possesso occorrerebbero dunque contratto e la traditio. La perdita del possesso si verifica per il venir meno di uno o di entrambi gli elementi del possesso: cioè, del corpus e/o dell'animus possidendi (se abbandono il bene, se lo trasferisco ad altri, vengono meno e l'uno e l'altro; se qualcuno si impossessa del bene senza o contro la mia volontà, viene meno il solo corpus; se cedo il possesso del bene, conservandone però la detenzione, viene meno il solo animus). Per la perdita del corpus, non è sufficiente una semplice dimenticanza momentanea del bene né un occasionale distacco fisico dalla cosa, che non precluda però al soggetto di ripristinare il rapporto materiale con la stessa occorrendo invece la sua definitiva irreperibilità od irrecuperabilità da parte del possessore. Successione nel possesso ed accessione del possesso. Il possesso, alla morte del possessore, continua in capo al suo successore a titolo universale (erede) ipso iure cioè, anche in mancanza di una materiale apprensione del bene da parte dell'erede e perfino se questi ignora l'esistenza del bene e con quei medesimi caratteri che aveva rispetto al defunto (così, se il defunto era in buona fede, si considera in buona fede anche l'erede): si parla, in tal caso, di « successione nel possesso ». Ben diversa dalla successione nel possesso (applicabile solo ai successori a titolo universale, cioè agli eredi) è l'accessione del possesso applicabile solo a chi acquista il possesso in forza di un titolo (es vendita, legato) astrattamente idoneo a trasferire a titolo particolare la proprietà sul bene e sempre che acquisti egli stesso il possesso. L'acquirente a titolo particolare acquista un possesso nuovo, diverso da quello del suo dante causa. Pertanto può essere in buona fede, benché il suo dante causa fosse in mala fede, e viceversa. Le qualifiche del possesso vanno, cioè, valutate nei confronti dell'acquirente, senza dare rilievo alla situazione in cui si trovava l'alienante. Orbene, il successore a titolo particolare può sommare al periodo in cui ha posseduto, anche il periodo durante il quale hanno posseduto i suoi danti causa: questa sommatoria dei due o più periodi può, infatti, risultare utile ai fini dell'usucapione, dell'azione di rivendicazione, dell'azione di manutenzione, ossia ogni volta che assuma rilievo la durata del possesso (es se compro un bene mobile da chi non è proprietario e sono in buona fede, non avrò alcuna convenienza ad invocare, ai fini dell'acquisto della proprietà del bene, l' accessio possessionis, in quanto all'uopo basterà far ricorso alla regola possesso vale titolo) Effetti del possesso. Il possesso rileva: a) quale titolo per l'acquisto dei frutti del bene posseduto e per il rimborso delle spese sullo stesso effettuate; b) quale possibile presupposto per l'acquisto della proprietà del bene posseduto; c) quale oggetto di tutela contro le altrui aggressioni . L'acquisto dei frutti ed il rimborso delle spese. Il possessore (illegittimo) è tenuto a restituire al titolare del diritto non solo il bene, e se non lo fa spontaneamente, può esservi costretto attraverso l'esperimento dell'azione di rivendicazione, ma anche i frutti prodotti dal bene a partire dal momento in cui ha avuto inizio il suo possesso. La regola, peraltro, trova eccezione in caso di possesso (illegittimo) di buona fede : in tale ipotesi il possessore ha diritto di tenere per sé tutti i frutti percepiti anteriormente alla proposizione, da parte del titolare del diritto, della relativa domanda giudiziale. Solo i frutti percepiti durante la lite spettano al proprietario. Anzi dal giorno della domanda e fino alla restituzione della cosa, il possessore stesso risponde verso il rivendicante non solo dei frutti percepiti durante la lite, ma anche di quelli (c.d. frutti percipiendi) che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del bonus pater familias. SPESE: a) spese ordinarie, di cui il possessore ha diritto al rimborso limitatamente al tempo per il quale è tenuto alla restituzione dei frutti: non sarebbe giusto che chi deve restituire i frutti non abbia diritto al rimborso delle spese effettuate per la loro produzione; viene tutelato non già chi per primo acquista il possesso in buona fede, bensì chi per primo provvede alla trascrizione del suo titolo. L'acquisto della proprietà in forza del possesso: b) l'usucapione. Il possesso protratto per un certo lasso di tempo fa acquisire al possessore, attraverso l'istituto dell'usucapione, la titolarità del diritto reale corrispondente alla situazione di fatto esercitata (art. 1158 c.c.): usucapione costituisce un modo di acquisto a titolo originario della proprietà e dei diritti reali minori. La ratio dell'usucapione va ricercata nell'opportunità, dal punto di vista sociale, di favorire chi, nel tempo, utilizza e rende produttivo il bene a scapito del proprietario che lo trascura. L'usucapione agevola altresì la prova del diritto di proprietà: se non soccorresse l'usucapione, chi si afferma proprietario dovrebbe dare la prova difficile, se non impossibile di aver acquistato il suo diritto da un soggetto che era effettivamente proprietario del bene per averlo, a sua volta, acquistato dal precedente proprietario, che era effettivamente tale per averlo acquistato da quello precedente, e così via (c.d. probatio diabolica). L'usucapione si distingue dalla prescrizione estintiva: (i) in entrambi gli istituti hanno importanza il fattore tempo e l'inerzia del titolare del diritto: ma nella prescrizione questi elementi danno luogo all'estinzione, nell'usucapione all'acquisto di un diritto; (ii) la prescrizione ha una portata generale, in quanto si riferisce a tutti i diritti, salvo eccezioni (proprietà); l'usucapione riguarda invece solo la proprietà ed i diritti reali minori. Per usucapione possono acquistare solo la proprietà dei diritti reali di godimento, ad eccezione delle servitù non apparenti e, secondo taluni, del diritto di superficie, nella sua forma della concessione ad aedificandum, con esclusione,quindi, dei diritti reali di garanzia. I diritti usucapibili possono avere ad oggetto tutti i beni corporali anche se ancora in corso di costruzione ad esclusione dei beni demaniali e dei beni del patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali. Perché si verifichi l'usucapione, debbono concorrere i seguenti presupposti: A) il possesso, sia di buona fede che di mala fede, del bene; irrilevante, ai fini dell' usucapione, è invece la detenzione ; inutile, ai fini dell'acquisizione del diritto, è il possesso legittimo (cioè, il possesso di chi già è titolare del diritto). Peraltro, se il possesso (illegittimo, di mala fede) viene acquistato con violenza o clandestinità, possesso vizioso, il possesso utile per l'usucapione decorre solo dal momento in cui sono cessate la violenza e la clandestinità: è da tale momento, infatti, che il precedente possessore, vittima dell'atto violento o clandestino, potrebbe agire in giudizio per ottenere il recupero del bene; se omette di farlo, deve subire le conseguenze negative della propria colpevole inerzia; B) la continuità del possesso per un certo lasso di tempo: peraltro, al fine di dimostrare la continuità del suo possesso, il soggetto de interessato non ha l'onere di fornire la prova difficile di aver posseduto il bene in giorno per giorno, minuto per minuto, per tutto l'arco di tempo richiesto. La legge, infatti, lo agevola con la presunzione di possesso intermedio, in forza della quale basta che il possessore dimostri di possedere ora e di aver posseduto in un tempo più remoto; spetterà a chi eventualmente sostenga il contrario di dimostrare il suo assunto. Invece, il solo possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore, salvo che il possessore possa invocare un titolo a fondamento del proprio possesso. C) la non interruzione del possesso, che si ha allorquando, nel lasso di tempo richiesto dalla legge, non intervenga: 1) né una causa di interruzione naturale dell'usucapione, che si verifica allorquando il soggetto perda il possesso del bene; con la precisazione che, in ipotesi di perdita del possesso in conseguenza del fatto del terzo che se ne appropri, l'interruzione si considera verificata solo se chi si è visto privato del possesso non abbia proposto l'azione diretta a recuperare il perduto possesso entro il termine di un anno dall'avvenuto spoglio; 2) né una causa di interruzione civile dell'usucapione, che si verifica allorquando: —contro il possessore, che pure conserva materialmente il possesso del bene, venga proposta una domanda giudiziale volta a privarlo di esso (es azione di rivendicazione); non essendo sufficiente, al riguardo, un atto stragiudiziale ; —il possessore abbia effettuato un riconoscimento del diritto del titolare , per tale intendendosi un atto o un fatto che non si limiti ad evidenziare la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto dallo stesso esercitato come proprio, ma esprima altresì la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare. D) il decorso di un certo lasso di tempo fissato in 20 anni (c.d. usucapione ordinaria). Ai fini del computo del tempo utile ai fini dell'usucapione, chi ha acquisito il possesso a titolo particolare può sommare al tempo del proprio possesso anche il tempo del possesso dei propri danti causa: c.d. accessione del possesso ; mentre chi ha acquisito il possesso a titolo universale si giova del possesso del suo autore: c.d. successione nel possesso. La legge prevede, relativamente a talune ipotesi, termini di usucapione più brevi (c.d. usucapione abbreviata): a) di 10 anni per i beni immobili e di 3 anni per i beni mobili registrati, allorquando oltre a quelli fin qui indicati, concorrano cumulativamente i seguenti presupposti: (i) che il possessore possa vantare a proprio favore un titolo idoneo a trasferire proprietà: si tratta di un'ipotesi di acquisto a non domino; (ii) che l'acquirente abbia acquistato il possesso del bene in buona fede; (iii) che sia stata effettuata la trascrizione del titolo: il termine utile per l'usucapione decorre proprio dalla data della trascrizione; b) di 10 anni per le universalità di mobili, allorquando concorrono i seguenti presupposti: (i) che il possessore possa vantare a proprio favore un titolo idoneo all'acquisto del diritto; (ii) che l'acquirente abbia acquistato il possesso del bene in buona fede; c) di 10 anni per i beni mobili non registrati , allorquando l'acquirente abbia acquistato il possesso in buona fede; d) di 15 anni per i fondi rustici situati in comuni che per legge sono classificati -montani- ai sensi di legge, o per i fondi rustici, anche se non situati in comuni « montani ». Il possessore può rinunciare all’usucapione già ne maturata a proprio favore. La tutela delle situazioni possessorie. Contro l'altrui condotta volta a privarmi del mio possesso o ad arrecarvi turbativa posso oppormi, in via di autodifesa, finché l'altrui azione illecita è in atto (es rapina in atto). Se invece l'azione, che si è risolta nella privazione o nella turbativa del possesso, si è esaurita, al possessore non resta che rivolgersi al giudice attraverso una delle azioni che si dicono « possessorie ». La categoria delle azioni possessorie si contrappone alla categoria delle azioni petitorie: queste ultime possono essere fatte valere solo da chi si affermi titolare del diritto di proprietà o di un diritto reale di godimento, a prescindere dal fatto che abbia altresì il possesso del bene. Chi riveste contestualmente sia la qualità di possessore che la qualità di titolare del correlativo diritto reale potrà esperire,quale possessore, le azioni possessorie, o ,quale titolare del diritto, le azioni petitorie. Le azioni possessorie si giovano di un procedimento giudiziale più agile rispetto a quello ordinario, applicabile invece alle azioni petitorie; e fanno gravare su chi agisce un onere probatorio meno disagevole di quello che grava su chi agisce in via petitoria. Le azioni possessorie assicurano una tutela di carattere soltanto provvisorio, nel senso che chi soccombe nel giudizio possessorio può successivamente esperire un giudizio petitorio. Il convenuto in un giudizio possessorio non può proporre il giudizio petitorio, finché il primo non si sia definito e la decisione non sia stata eseguita : c.d. divieto del cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio. ES se vengo evocato in giudizio con un'azione possessoria da colui cui ho sottratto il possesso del bene, non posso per giustificare la mia condotta proporre, nell'ambito del medesimo giudizio, un'azione volta all'accertamento che il bene è, in realtà, di mia proprietà e, conseguentemente, che lo ius possidendi compete a me; debbo, invece, attendere la definizione del giudizio possessorio ed eseguire la sentenza che, in esito allo stesso, dovesse condannarmi alla restituzione del bene; solo allora potrò avviare l'azione petitoria. La regola legale del divieto del cumulo del giudizio petitorio con quello possessorio soffre deroga nell'ipotesi in cui vi sia il rischio che dalla sua applicazione possa derivare, per il convenuto, un pregiudizio irreparabile. La lesione di situazioni possessorie obbliga il suo autore a risarcire il danno che ne sia derivato al possessore o al detentore. L'azione di reintegrazione (o spoglio)-> risponde all'esigenza di garantire a chi possiede un bene una sollecita tutela giudiziaria, indipendentemente dalla prova che sullo stesso gli spetti un diritto; ed è volta a reintegrare nel possesso del bene chi sia rimasto vittima di uno spoglio violento o clandestino. Per spoglio si intende qualsiasi azione che si risolva nella duratura privazione del possesso o in una modifica della situazione oggettiva preesistente che comprometta in modo apprezzabile l'esercizio del possesso. Lo spoglio può essere totale (es occupo integralmente il fondo del vicino;) od anche solo parziale (es occupo una parte del fondo del vicino). Uno spoglio si dice « violento » o « clandestino », allorquando è posto in essere contro la volontà espressa o presunta del possessore o detentore. Si ritiene che l'azione di reintegrazione sia esperibile solo di quando lo spoglio risulti accompagnato dal c.d. animus spoliandi, cioè dalla coscienza e volontà del suo autore (c.d. spoliator) di compiere l'atto materiale nel quale si sostanzia lo spoglio stesso, nella consapevolezza di ledere, con ciò, la posizione del possessore o del detentore. La legittimazione attiva ad esercitare l'azione spetta a qualsiasi possessore : sia esso legittimo o illegittimo, di buona o di male fede; addirittura al possessore che tale sia divenuto con violenza o clandestinità. L'azione di reintegrazione è dal possessore esperibile anche nei confronti del detentore che abbia mutato la propria detenzione in possesso. Legittimato all'azione di spoglio è altresì il detentore, con esclusione del solo detentore non qualificato: cioè, di chi sia tale per ragioni di servizio o di ospitalità. Il detentore (qualificato) può esperire l'azione di spoglio non solo nei confronti dei terzi, ma anche nei confronti del possessore, sempre che la sua detenzione sia autonoma. ES inquilino al quale il proprietario od un terzo abbia sottratto la disponibilità di appartamento locatogli. Il detentore (qualificato) non autonomo può invece esperire azione di spoglio nei confronti dei terzi, ma non del possessore. la L.1 dicembre 1970, n. 898, veniva introdotto il divorzio; il matrimonio non era più indissolubile. 5 anni dopo veniva approvata la L. 19 maggio 1975, n.151 Riforma del diritto di famiglia. I valori ordinanti fondamentali della riforma del 1975 si trovano enunciati negli artt.29 e 30 COST: eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; dovere e diritto di entrambi di mantenere, istruire ed educare la prole; tutela dei figli nati fuori del matrimonio->superamento dell' assetto gerarchico e autoritario della famiglia delineato dal codice e rimozione delle diseguaglianze che la vecchia disciplina conteneva. La riforma non ha dettato parole definitive. L'assetto giuridico dei rapporti familiari è, anzi, costantemente sollecitato a rinnovarsi, sotto la spinta dell'evoluzione del costume e del sentimento sociale. Gli interventi normativi, successivamente al 1975, sono stati numerosi e rilevanti; nel 1987 è stata riformata la legge sul divorzio ; la disciplina dell'adozione è stata più volte modificata ; sono state introdotte norme volte ad accrescere la tutela dei soggetti deboli: contro la violenza all'interno della famiglia ; sono poi state emanate leggi sulla procreazione medicalmente assistita e sull'affidamento condiviso dei figli di coppie separate. Particolare attenzione merita la profonda revisione della disciplina della filiazione, che ha rimosso ogni residua differenza di trattamento giuridico tra i figli nati da persone tra loro coniugate e quelli nati al di fuori del matrimonio. Recentissima, infine, l'emanazione di una specifica disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, attraverso la L. 20 maggio 2016, n. 76. Non si può poi ignorare la spinta esercitata dagli atti dell'UE. Pur essendo evidente che sussistano limiti di competenza dell'Unione nell'ambito del diritto sostanziale della famiglia, occorre rammentare come con il Trattato di Lisbona si sia avuta una prima base normativa alla configurazione di un diritto europeo della famiglia, collegato con i diritti fondamentali della persona, nell'ambito dei quali ha assunto un ruolo primario il diritto a rispetto della vita privata e familiare. FAMIGLIA LEGITTIMA E FAMIGLIA DI FATTO. La famiglia legittima è quella fondata sul matrimonio. Essa si costituisce per effetto del compimento di uno specifico atto regolato dalla legge produttivo di una serie di effetti legali. Per famiglia di fatto si intende quella costituita da persone che, pur non essendo legate tra loro dal vincolo matrimoniale, convivono come se fossero coniugati (more uxorio), insieme agli eventuali figli nati dalla loro unione. La L. 20 maggio 2016, n. 76, ha introdotto una regolamentazione unitaria in tema di convivenze di fatto, ma non ha del tutto superato le criticità connesse al carattere non formale del rapporto rapporto tra i conviventi. Già prima dell'intervento normativo del 2016, la stabile convivenza tra coppie non coniugate aveva acquistato spazi di rilevanza giuridica (che sul piano costituzionale trovano copertura nella tutela concessa dall'art. 2 Cost. alle formazioni sociali nelle quali l'individuo esplica la propria personalità). Tali risultati sono in parte stati ottenuti in via interpretativa. Per esempio, al convivente more uxorio è stato riconosciuto il diritto alla tutela possessoria della casa nella quale si svolge la convivenza; nonché il diritto al risarcimento del danno nei confronti di chi abbia causato una lesione alla salute o la morte del convivente. Inoltre le erogazioni di mezzi economici compiute da uno dei conviventi a beneficio dell'altro sono considerate adempimento di un'obbligazione naturale, quindi giustificate da un dovere morale o sociale. La riforma della filiazione introdotta dalla L.10 dicembre 2012, n. 291, detta un regime unitario dei rapporti tra genitori e figli e dei conseguenti doveri e diritti, indipendentemente dalla circostanza che la filiazione sia avvenuta nell'ambito o al di fuori matrimonio, avvicinando il modello della famiglia di fatto a quella fondata sul matrimonio. Vista la natura asistematica del complessivo trattamento delle convivenze cc.dd. more uxorio, il legislatore è intervenuto con la L. 20 maggio 2016, n. 76, anche sulla regolamen- tazione delle convivenze di fatto, approntando un regime di norme più organico per le coppie che intendano sottoporvisi. Si esclude,peraltro, una generale applicabilità analogica, alle coppie conviventi, delle norme specificamente dettate per le famiglie legittime. MATRIMONIO: LA FORMAZIONE DEL VINCOLO. IL MATRIMONIO CIVILE. Il matrimonio è un istituto che per secolare tradizione assume rilievo sia dal punto di vista religioso (per la Chiesa cattolica il matrimonio è un sacramento), sia dal punto di vista dell'ordinamento giuridico Stato (matrimonio civile). Il matrimonio come istituto regolato dal diritto dello Stato, in modo del tutto indipendente dalla dimensione religiosa, venne introdotto nella tradizione giuridica italiana dal codice civile del Regno d'Italia, del 1865. In diritto italiano il termine matrimonio è adoperato tanto per indicare l'atto (le nozze) mediante il quale viene fondata la società coniugale, quanto il rapporto giuridico che ne deriva in capo agli sposi. La legge disciplina analiticamente il matrimonio, sia sotto il profilo del regime dell'atto, sia quanto all'insieme di effetti che ne derivano, ma non ne offre una definizione. Il fine essenziale del matrimonio civile sembra identificabile nella costituzione di una comunione di vita spirituale e materiale tra i coniugi, come si ricava indirettamente, dalla legge sul divorzio, che collega lo scioglimento del vincolo all'accertamento della cessazione di una tale comunione. Il vincolo matrimoniale ha cessato fin dal 1970 di essere indissolubile, a seguito della introduzione del divorzio; esso rimane esclusivo (monogamico), indisponibile, essendo preclusa una regolamentazione convenzionale, in deroga aggiunta al regime legale , e di durata indeterminata, non essendo consentito pattuire un matrimonio ad tempus. LA PROMESSA DI MATRIMONIO. Il matrimonio è di solito preceduto da quello che socialmente viene definito fidanzamento. Questo periodo viene preso in considerazione dal diritto ai fini della disciplina della promessa di contrarre matrimonio. Il principio fondamentale in materia matrimoniale è la libertà delle parti fino al momento della celebrazione delle nozze. Perciò, la promessa non obbliga a contrarre il matrimonio né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di mancato adempimento, es pagare una penale o un indennizzo all'altra parte (incoercibilità della promessa di matrimonio). Tuttavia la legge non ha trascurato l'ipotesi in cui una delle parti, fondandosi sulla serietà della promessa, abbia affrontato spese o contratto debiti per costituire la nuova famiglia. Perciò, se la promessa è fatta per iscritto (atto pubblico o scrittura privata), da una persona maggiore di età o da un minore ammesso a contrarre matrimonio a norma dell'art. 84 c.c., o se risulta dalle pubblicazioni, il promittente, qualora senza giusto motivo ricusi successivamente di contrarre le nozze o dia con la propria colpa giusto motivo al rifiuto dell'altro, è tenuto al risarcimento dei danni. Questi sono limitati alle spese fatte e alle obbligazioni contratte a causa di quella pro messa (ES acquisto mobili). Non si ammette la risarcibilità né dei danni non patrimoniali né di danni economici ulteriori: si vuole evitare che il timore di essere esposto al pagamento di una somma esorbitante agisca sull'animo del promittente, determinandolo, controvoglia, ad un legame che è invece fondato sulla spontaneità. In ogni caso in cui il matrimonio non viene contratto può essere chiesta la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio. Tali sono i c.d. regali d'uso tra fidanzati, determinati dalla promessa di matrimonio. Dette donazioni non richiedono la forma dell'atto pubblico e si perfezionano con la semplice consegna. La restituzione può essere chiesta a prescindere dai motivi della rottura degli sponsali (e anche nel caso di morte di uno dei nubendi); la ragione della norma sta nella tutela di una presupposizione: il dono s'intendeva fatto sul presupposto che seguissero le nozze. Estranee alla delineata disciplina sono invece le donazioni fatte esplicitamente in riguardo di un determinato futuro matrimonio, che richiedono l'atto pubblico e non producono effetto finché il matrimonio non sia celebrato. L'azione per il risarcimento dei danni è quella per la restituzione dei doni sono soggette ad un breve termine di decadenza: un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio o, per la restituzione dei doni, da quello della morte di uno dei promittenti . CAPACITA' E IMPEDIMENTI. Per contrarre matrimonio occorre che ciascuno dei nubendi abbia la piena capacità di sposarsi e che non sussistano ostacoli relativi alla coppia, riguardanti l'idoneità dei due nubendi a contrarre le nozze tra loro. Sotto il primo profilo sono necessari, per ciascuno degli sposi: a) LIBERTA' DI STATO (art. 86 c.c.): non può contrarre (nuovo) matrimonio chi è legato dal vincolo di nozze precedenti, a meno che queste siano state annullate o siano nulle o il rapporto si sia sciolto; b) ETA' MINIMA: dopo la riforma del 1975 l'età minima per contrarre il matrimonio civile si raggiunge con la maggiore età. L'art. 84 c.c. prevede la possibilità che l'autorità giudiziaria ammetta al matrimonio, se ricorrono gravi motivi, un minorenne, purché abbia compiuto al meno i sedici anni e venga accertata dal tribunale la maturità psicofisica; c) la capacità legale di agire e la capacità di intendere e di volere: non può contrarre validamente matrimonio l'interdetto per infermità di mente o la persona che sia incapace di intendere o di volere; d) l'assenza di rischio di commixtio sanguinis: il requisito riguarda esclusivamente la donna che sia già stata sposata, la quale non può contrarre nuove nozze se non dopo che siano trascorsi trecento giorni dallo scioglimento, dalla cessazione degli effetti civili o dall'annullamento del matrimonio precedente, eccetto il caso in cui il matrimonio sia stato dichiarato nullo per impotenza di uno dei coniugi. L'inosservanza del divieto non dà luogo ad invalidità del matrimonio, ma ad una sanzione amministrativa per i coniugi e per l'ufficiale dello stato civile . Sotto il secondo profilo (impedimenti), non possono contrarre a matrimonio (art. 87 c.c.): 1) gli ascendenti e i discendenti in linea retta; 2) i fratelli e le sorelle; 3) lo zio e la nipote, la zia e il nipote; 4) gli affini in linea retta (suocero e nuora, genero e suocera): 5) gli affini in linea collaterale in secondo grado (cognati); 6) l'adottante, l'adottato e i suoi discendenti; impugnativa del nuovo matrimonio viene eccepita l'invalidità del vincolo precedente, occorre decidere preventivamente la questione relativa alla validità del primo matrimonio: qualora questo sia dichiarato invalido, il secondo matrimonio è considerato legittimo. Non sarebbe invece sufficiente una sentenza divorzio: le nuove nozze, ove siano state contratte prima dello scioglimento del vincolo precedente, rimangono affette da nullità insanabile. Particolare considerazione merita l'ipotesi dell'assenza: poiché è incerto se l'assente sia ancora in vita e quindi se il matrimonio da lui contratto sia ancora esistente, le nuove nozze che il coniuge sia riuscito eventualmente a contrarre non possono essere impugnate finché dura l'assenza. Se viene dichiarata la morte presunta di uno dei coniugi, l'altro può contrarre nuovo matrimonio, ma qualora la persona di cui sia stata dichiarata la morte presunta ritorni o ne sia accertata la sopravvivenza, le seconde nozze del coniuge sono colpite da invalidità assoluta e imprescrittibile; 2) impedimentum criminis: l'invalidità è assoluta e insanabile; 3) interdizione giudiziale di uno dei coniugi: il matrimonio può essere impugnato dal tutore dell'interdetto, dal pubblico ministero e da chiunque vi abbia un legittimo interesse, tanto nel caso che al tempo del matrimonio fosse già passata in giudicato la sentenza di interdizione, quanto nel caso che la interdizione sia stata pronunciata posteriormente, se si dimostra che l'infermità esisteva già al momento del matrimonio. Se l'interdizione viene revocata, la persona che era interdetta può anch'essa impugnare il matrimonio, ma il vizio resta sanato qualora, revocata l'interdizione, vi sia stata coabitazione per un anno. 4) incapacità naturale di uno dei coniugi: il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, sebbene non interdetto, abbia contratto le nozze in un momento in cui era incapace di intendere o di volere. L'azione non può più essere proposta se vi è stata coabitazione x 1 anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato pienezza facoltà mentali; 5) difetto di età: il matrimonio contratto in violazione dell'art. 84 da persona minorenne che non sia stata autorizzata dall'autorità giudiziaria può essere impugnato dai coniugi, da ciascuno dei genitori del minorenne e dal PM. L'azione proposta da un genitore o dal pubblico ministero deve essere respinta qualora, anche in pendenza del giudizio, il minore raggiunga la maggiore età o vi sia stato concepimento o procreazione e sia accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale. Lo stesso minore non può più impugnare le nozze qualora sia trascorso un anno dal momento in cui ha compiuto la maggiore età; 6) vincolo di parentela, affinità o adozione: l'invalidità non può più essere fatta valere dopo un anno dalla celebrazione, nei casi in cui sia possibile ottenere l'autorizzazione giudiziaria alle nozze; in ogni altro caso il vizio è insanabile e l'impugnativa può essere proposta da chiunque vi abbia interesse; 7) vizi del consenso. Materia su cui la riforma ha particolarmente inciso, nel tentativo di dare maggior rilievo alla effettiva volontà dei coniugi. Si è rimasti, peraltro, lontani dalla disciplina canonistica, imperniata sull'esigenza di non attribuire valore di sacramento ad un matrimonio nel quale il consenso delle parti non sia stato libero, incondizionato e pienamente cosciente, laddove nel matrimonio civile tendono a prevalere preoccupazioni relative alla certezza e stabilità di un rapporto di fondamentale importanza sociale. I casi nei quali è ammissibile un'impugnativa del matrimonio per vizio del consenso, sono: a) violenza, ossia quando il consenso di uno dei coniugi sia stato estorto con minacce, che è da ritenere siano rilevanti quando presentino i caratteri degli artt.1434-1438 c.c. per l'annullabilità dei contratti. L'azione non può più essere proposta se vi sia stata coabitazione per un anno dopo che sia cessata la violenza; b) timore di eccezionale gravità, derivante da cause esterne allo sposo: si tratta dei casi in cui uno dei coniugi risultati costretto alla celebrazione da elementi perturbatori della volontà obiettivi e seri, ma diversi dalla minaccia proveniente da un terzo, nel qual caso ricorrerebbe l'ipotesi della violenza. Gli esempi che tradizionalmente si portano sono forse socialmente superati: caso di chi teme che il partner, in caso di rifiuto alle nozze, attenti alla propria vita; più attuale l'ipotesi della persona che si induca a contrarre matrimonio con un cittadino straniero quale mezzo per procurarsi la possibilità di espatriare da un paese in guerra. Questa causa di invalidità, introdotta dalla riforma, è anch'essa sanabile quando la coabitazione sia continuata per un anno dopo la cessazione delle cause che hanno determinato il timore; c) errore: il matrimonio può essere impugnato innanzitutto per errore sull'identità della persona dell'altro coniuge. Accanto a questa ipotesi, meramente teorica, la riforma ha aggiunto la possibilità di chiedere l'annullamento del matrimonio anche per un errore su qualità personali dell'altro coniuge. Ciò però soltanto se uno dei coniugi, dopo le nozze, scopra una delle seguenti tassative circostanze relative al partner, da lui ignorate in precedenza: -una malattia fisica o psichica o un'anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale; -una sentenza di condanna alla reclusione non inferiore a 5 anni per delitto non colposo; -la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale; -una sentenza di condanna a pena non inferiore a due anni per delitti concernenti la prostituzione; -uno stato di gravidanza causato da terzi; in tal caso, se la gravidanza è stata portata a termine, occorre anche che il marito abbia disconosciuto la paternità del figlio. Anche dopo la riforma il matrimonio non risulta invalido per il fatto solo che vi siano stati raggiri (dolo) di un coniuge ai danni dell'altro (es farsi credere ricco). Anche l'impugnativa per errore non può più essere proposta se vi sia stata coabitazione per un anno dopo la scoperta dell'errore. Il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi per simulazione, che ricorre quando questi abbiano contratto le nozze con l'accordo di non adempiere gli obblighi e di non esercitare i diritti che ne derivano. L'ipotesi è stata introdotta dalla riforma per consentire l'annullamento del vincolo nei casi in cui per gli sposi non intendevano costituire effettivamente tra loro un rapporto coniugale, ma soltanto beneficiare di qualche conseguenza ricollegata allo status di coniuge (es straniero, per acquistare la cittadinanza italiana, sposa persona anziana ricoverata in un ospizio). L'impugnativa non può più essere proposta dopo che sia decorso un anno da celebrazione matrimonio o dopo che i coniugi abbiano convissuto come tali (more uxorio), sia pure per breve tempo, dopo le nozze. L'azione di impugnazione del matrimonio è sottoposta a particolari regole comuni a tutte le ipotesi di invalidità. Essa è personale e intrasmissibile agli eredi, che non sono legittimati a proporla; possono però continuare il giudizio che il loro dante causa avesse eventualmente intrapreso. In pendenza del giudizio di impugnazione può essere disposta la separazione dei coniugi. Questa separazione in pendenza in del giudizio di nullità o di annullamento si distingue dall'istituto della separazione personale. Quest'ultima presuppone che la prosecuzione della convivenza sia diventata intollerabile o tale da recare grave pregiudizio all'educazione della prole. Invece la separazione in pendenza del giudizio di nullità o di annullamento serve ad ovviare al disagio della coabitazione tra i coniugi mentre è in corso il giudizio di annullamento o di nullità. IL MATRIMONIO PUTATIVO. La rigorosa conseguenza dell'applicazione al matrimonio inva lido dei principi generali in tema di dichiarazione di nullità e di annullamento di un negozio dovrebbe essere questa: in virtù dell'efficacia dichiarativa dell'accertamento della nullità e dell'efficacia retroattiva della pronuncia di annullamento i coniugi dovrebbero considerarsi come se non fossero mai stati uniti da vincolo coniugale ed i figli come nati fuori del matrimonio (illegittimi). La legge, invece, tempera il rigore dei principi, concedendo in taluni casi efficacia al matrimonio invalido. In primo luogo, se i coniugi sono in buona fede (ossia ignoravano il vizio che inficiava le loro nozze), il matrimonio si considera pienamente produttivo di effetti tra i coniugi fino alla pronuncia della sentenza, la quale, dunque, opera ex nunc (quasi fosse una causa di scioglimento del vincolo), anziché ex tunc (perciò si parla di matrimonio putativo, da putare, ossia credere: matrimonio, cioè, che i coniugi credevano valido). Il regime degli effetti del matrimonio invalido nei confronti dei figli è stato modificato con l'attuazione della riforma della filiazione, che prevede il superamento di ogni pregressa distinzione tra figli legittimi e naturali; stabilendosi ora che il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli. Se in buona fede è uno solo dei coniugi, gli effetti del matrimonio putativo si verificano soltanto in favore suo e dei figli. Se entrambi i coniugi sono in mala fede, gli effetti del matrimonio si producono comunque nei confronti dei figli, a meno che la nullità dipenda da incesto, nel qual caso si applica l'art. 251 c.c., ossia il figlio può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice se ciò sia conforme agli interessi del figlio. La legge estende le regole sull'efficacia del matrimonio putativo alle ipotesi di invalidità derivante da violenza e timore, in cui non si potrebbe parlare di buona fede, perché il coniuge che contrae le nozze sotto l'influsso della minaccia o del timore non ignora il vizio che inficia il suo consenso. Senonché l'estensione è giustificata dalla considerazione che la volontà del coniuge non è stata libera. Non può ricorrere la figura del matrimonio putativo nel caso in cui il matrimonio sia addirittura inesistente (es mancanza celebrazione). Il coniuge che abbia dato causa all'invalidità matrimonio deve corrispondere all'altro, in buona fede, una congrua indennità, in misura non inferiore al mantenimento per 3 anni. IL MATRIMONIO CONCORDATARIO E IL MATRIMONIO CELEBRATO DAVANTI A MINISTRI DI ALTRI CULTI. Mentre la disciplina del matrimonio come rapporto, ossia quanto agli effetti giuridici che ne derivano in capo ai coniugi, è unica, comunque siano state celebrate le nozze, il matrimonio in quanto atto contempla una varietà di forme. In particolare è ammesso che il matrimonio possa essere celebrato dinnanzi a ministri del culto. Una figura di rilievo è il matrimonio concordatario, ossia quello religioso (canonico) che, in base accordi tra Stato e Chiesa Cattolica, produce effetti non solo religiosi, ma anche civili. Si tratta, non di una semplice forma del l'atto di celebrazione diversa da quella prevista in via ordinaria innanzi all'ufficiale dello stato civile (art. 107 c.c.), ma di un matrimonio quella sentenza è stata pronunciata, le quali ben possono essere diverse da quelle del nostro ordinamento. Occorre, però, che le regole applicate e gli effetti cui conduce la sentenza straniera (ecclesiastica, nella specie) non contrastino con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Una divergenza di fondo, ad es, si registra sotto il profilo della rilevanza dei perturbamenti del consenso: mentre l'ordinamento canonico attribuisce largamente importanza all'errore nella formazione della volontà dei nubendi, l'ordinament civile è improntato al criterio per cui l'errore è deducibile come causa di invalidità solo se si traduce in una falsa rappresentazione della realtà incidente su caratteristiche stabilmente connotanti la personalità dell'altro coniuge. Analogamente costituisce principio di ordine pubblico l'affidamento del coniuge sulla serietà della volontà manifestata dall'altro e sull'efficacia del vincolo. Per tale ragione è stata ritenuta insuscettibile di acquistare efficacia nel nostro ordinamento una sentenza canonica che abbia dichiarato l'invalidità di un matrimonio in base ad una unilaterale intenzione di uno solo dei coniugi, non manifestata all'altro, di escludere il bonum sacramenti o il bonum prolis. Invece non si ritiene che costituiscano regole di ordine pubblico i termini decadenziali previsti dalla legge civile per l'impugnazione del matrimonio. Pertanto è suscettibile di acquistare efficacia nel l'ordinamento italiano una sentenza ecclesiastica che dichiari nullo per simulazione un matrimonio pur dopo il decorso dei termini di cui all'art. 123 c.c. Infine, ogni questione relativa alla validità della trascrizione di un matrimonio canonico giudiziaria italiana è senz'altro di competenza dell'autorità giudiziaria italiana. Tutte le disposizioni relative al matrimonio putativo si applicano anche al caso in cui sia annullata la trascrizione di un matrimonio canonico o venga resa esecutiva in Italia una sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio religioso. Anche rispetto ai matrimoni concordatari rimane ferma la giurisdizione del giudice italiano per tutti i provvedimenti relativi alla separazione tra coniugi o alla cessazione degli effetti civili (divorzio) prodotti dal matrimonio canonico trascritto. È evidente peraltro che nessun provvedimento del giudice italiano, neppure la sentenza che dispone la cessazione degli effetti civili del matrimonio, comporta conseguenza alcuna nell'ordinamento canonico, in particolare per quanto riguarda la persistenza del vincolo matrimoniale, che, dal punto di vista religioso, rimane indissolubile. Pertanto, nel caso in cui, nella pendenza di un giudizio di separazione o di divorzio, venga resa esecutiva nell'ordinamento italiano (con pronuncia passata in giudicato) una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, poiché ciò determina il venir meno del vincolo coniugale, il procedimento di separazione o di divorzio non possono proseguire e i provvedimenti emessi vengono travolti; se però, prima che la sentenza ecclesiastica venga resa esecutiva, passa in giudicato una sentenza (italiana) di scioglimento del matrimonio, allora gli effetti di tale giudicato sono intangibili dalla successiva delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità. Il matrimonio celebrato davanti a ministro di un culto acattolico. Al fine di evitare, o almeno attenuare, la disparità di trattamento tra cattolici e acattolici, la L. 24 giugno 1929, n. 1159, ammise che anche il matrimonio celebrato davanti ad un ministro di un culto diverso da quello cattolico produca gli stessi effetti civili del matrimonio celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile. Questo matrimonio, a differenza di quello celebrato davanti ad un ministro del culto cattolico, è integralmente regolato dal codice civile, anche per quanto riguarda i requisiti di validità: l’unica sua particolarità consiste nella forma della celebrazione, che avviene davanti ad un ministro del culto cui appartengono i nubendi. Anche tale matrimonio deve essere trascritto nei registri dello stato civile italiano, perché produca effetti civili. Peraltro negli ultimi anni numerose confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno stipulato intese con lo Stato italiano (ES Unione delle comunità ebraiche). Per gli appartenenti alle confessioni che non hanno stipulato intese con lo Stato italiano, permane il regime patrimoniale così come articolato nel 1929; per gli appartenenti alle confessioni che hanno stipulato le nuove intese vige la disciplina sancita in tali leggi,che, riconoscono efficacia civile al matrimonio celebrato secondo le norme religiose, a condizione che l'atto sia trascritto nei registri dello stato civile. IL MATRIMONIO: IL REGIME DEL VINCOLO.Diritti e doveri personali dei coniugi. Per l'art. 29 Cost. il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Al contrario il testo originario del codice civile del 1865, era improntato alla supremazia del marito, identificato come il capo della famiglia. Benché la giurisprudenza avesse compiuto una significativa opera di erosione delle prerogative maritali, si avvertiva la necessità di un intervento normativo, che ponesse fine alla discriminazione tra la posizione del marito e quella della moglie. La riforma del 1975 ha perciò sostituito integralmente gli artt. 143-148 c.c., dedicati ora ai diritti e doveri che nascono dal matrimonio, ed ha affermato come primo e fondamentale principio regolatore dei rapporti coniugali quello per cui con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Gli artt. 143-145 c.c. pongono i principi fondamentali riguardanti i rapporti tra i coniugi, mentre gli artt. 147 e 148 c.c. tratteggiano i loro doveri nei confronti della prole. Le nuove norme in tema di filiazione introdotte con la L. 10 dicembre 2012, n. 219 hanno delineato una disciplina unitaria dei rapporti tra genitori e figli, indipendentemente dal fatto che si tratti di figli nati nel matrimonio o al di fuori di esso. Pertanto le disposizioni contenute nell'ambito della disciplina del matrimonio sono state in parte svuotate, in quanto, se l'art. 147 c.c. ancora dispone che il matrimonio impone ad entrambi i genitori l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, la concreta disciplina di tali doveri è poi quella contenuta nell'art. 315-bis c.c., valida per qualsiasi relazione genitoriale. In armonia con il principio di eguaglianza, l'attuale disciplina impegna i coniugi a concordare tra loro l'indirizzo della vita familiare e la residenza della famiglia, che va fissata non più ad arbitrio del marito, ma secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. Costituisce eccezione alla regola dell'eguaglianza tra i coniugi, ritenuta giustificata dalla norma cost (art. 29 c.c.), che legittima limiti al principio della parità se necessari per garantire l'unità familiare, la norma che, in ossequio ad un'antica tradizione e per salvaguardare l'identificazione unitaria della famiglia, prevede l'aggiunta del cognome maritale a quello della moglie (art. 143-bis c.c.). La L. 11 gennaio 2018 n.4 ha previsto che i figli della vittima di un omicidio possano chiedere la modificazione del proprio cognome, ove questo coincida con quello del genitore che sia stato condannato per detto reato. Trasmissibilità ai figli del cognome materno->ma non è consentito attribuire al figlio il solo nome materno. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza, alla collaborazione e alla coabitazione. La fedeltà coniugale non è più oggetto di considerazione da parte del diritto penale, essendo state travolte da pronunce di incostituzionalità tutte le disposizioni che punivano come ipotesi di infedeltà (adulterio e concubinato). L'adulterio non è neppure più causa autonoma di separazione per colpa. È da ritenere, tuttavia, che la fedeltà costituisca contenuto di un vero e proprio obbligo giuridico, pur se sfornito di apposita specifica sanzione, e conservi un suo rilievo non soltanto quale presupposto per l'eventuale applicazione del nuovo capoverso dell'art. 151 c.c. (l'imputazione ad un coniuge della responsabilità della separazione), ma prima ancora quale elemento caratterizzante il modello di matrimonio che il legislatore propone ai cittadini, in cui la comunione di vita coniugale implica una relazione personale tra gli sposi a carattere esclusivo. Anche la violazione del dovere di assistenza può essere causa di addebito della separazione. Nuovo è, invece, l'obbligo della collaborazione nell'interesse della famiglia, che tende a sottolineare che il governo del del gruppo familiare deve essere il risultato di una consultazione e di un dialogo continuo tra i coniugi e che questi devono essere pronti a sacrificare eventuali interessi meramente individuali per privilegiare le esigenze obiettive della famiglia. Peraltro la riforma del 1975, modificando l'art. 45 c.c., ha consentito che i coniugi abbiano un diverso domicilio, qualora si trovi in luoghi diversi il centro principale dei rispettivi affari e interessi. L'abbandono ingiustificato della residenza familiare può invece dar luogo a sanzioni a carico del coniuge allontanatosi. Tutti gli obblighi sono di carattere personale ed insuscettibili di coercizione: tuttavia il giudice, nel pronunciare la separazione, può dichiarare, ove gli sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio, dichiarazione di responsabilità che comporta conseguenze sfavorevoli per il coniuge che ne sia colpito. Si fa strada, peraltro in dottrina l'idea per cui l'inadempimento di tali doveri possa rilevare anche quale fondamento di una responsabilità risarcitoria in capo al coniuge responsabile della violazione quando leda interessi costituzionalmente protetti come quello alla dignità personale e alla salute. Di recente il legislatore ha avvertito la necessità di introdurre specifiche misure preventive e sanzionatorie contro la violenza nelle relazioni familiari. La nuova disciplina prevede sia sanzioni penali, sia strumenti civilistici a carico di chi si renda responsabile di violenze ai danni del coniuge o del convivente. Quanto agli strumenti di rilievo civilistico gli artt. 342-bis e 342-ter c.c. regolano gli ordini di protezione che il giudice può adottare quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale o alla libertà dell'altro coniuge; tali provvedimenti consistono nell'ordine di cessazione della condotta pregiudizievole e di allontanamento dalla casa familiare del coniuge o convivente responsabile della violenza. Il giudice può altresì prescrivere al destinatario dell'ordine il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima della violenza, o può disporre l'intervento dei servizi sociali o di altre istituzioni che possano fornire sostegno alla vittima della violenza, e ancora può imporre l'obbligo di pagare un assegno periodico a favore dei familiari, qualora questi ultimi, per effetto del provvedimento di allontanamento, rimangano senza mezzi adeguati. di 10gg, essi sono tenuti a trasmettere all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell'accordo raggiunto. L'accordo produce stessi effetti di provvedimento giurisdizionale di separazione personale. L'altra modalità è costituita dagli accordi conclusi innanzi al Sindaco nella veste di Ufficiale dello stato civile, con l'assistenza soltanto facoltativa degli avvocati. Il possibile oggetto di tali accordi coincide con quello della modalità precedente: separazione, divorzio, modifica delle precedenti condizioni di separazione o di divorzio; tuttavia, con questa modalità non si possono convenire patti di trasferimenti patrimoniali. La modalità in esame è preclusa in presenza di figli minori o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti. Competente a ricevere l'accordo è l'Ufficiale di Stato Civile del Comune di iscrizione dell'atto di matrimonio civile. Sottoscritto l'accordo innanzi all'Ufficiale di Stato Civile, questi deciderà con i coniugi una data per un nuovo appuntamento (da fissare oltre i 30 gg dalla firma dell'accordo). La conferma dell'accordo alla data prestabilita farà decorrere gli effetti della separazione o divorzio dalla data della sua prima sottoscrizione. La mancata comparizione equivarrà a mancata conferma dell'accordo. Le nuove modalità di applicazione procedimentali appena descritte sono applicabili non solo per venire alla separazione personale, ma anche per modificare le condizioni di una preesistente separazione e per conseguire il divorzio. Con la separazione personale (giudiziale o consensuale) cessano per entrambi i coniugi l'obbligo di convivenza e di assistenza; l'obbligo di fedeltà risulta attenuato, nel senso che non è ritenuto di per sé illecito il comportamento del coniuge separato che intrecci nuove relazioni sentimentali, mentre è incompatibile con i residui doveri derivanti dal vincolo matrimoniale (che continua ad esistere) una condotta tale da risultare addirittura lesiva della reputazione dell'altro coniuge. Non cessa l'obbligo della collaborazione, specie con riguardo ai figli. Si scioglie la comunione legale dei beni. Gli effetti della separazione cessano in caso di riconciliazione dei coniugi. In caso di riconciliazione la separazione può essere nuovamente pronunciata soltanto per fatti posteriori alla riconciliazione stessa. La riconciliazione comporta la ricostituzione, con effetti ex nunc, della comunione legale eventualmente esistente tra coniugi prima della separazione. SCIOGLIMENTO MATRIMONIO. DIVORZIO. Secondo il codice del 1942 il matrimonio non poteva sciogliersi che con la morte di uno dei coniugi, era in vigore il principio della indissolubilità del matrimonio. Il nostro sistema è stato modificato dalla L. 1° dicembre 1970, n. 898, con la quale è stato introdotto anche in Italia l'istituto del divorzio. In realtà, l'art. 1 L. n. 898/1970 parla, da un lato, di scioglimento del matrimonio civile (quello celebrato ai sensi degli artt. 106 ss. c.c.) e dall'altro di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario (che continua a produrre i propri effetti nell'ordinamento canonico, sicché i coniugi divorziati rimangono, di fronte alla Chiesa, sposati). La L. 1 dicembre 1970, n. 898, fu dapprima in parte modificata ed integrata dalla L. 1 agosto 1978, n. 436, e poi ampiamente riformata e novellata con la L. 6 marzo 1987, n. 74. Da ultimo è intervenuta la L. 6 maggio 2015, n. 55, sul divorzio breve. La condizione di vedovo non è equiparabile in tutto e per tutto a quella di non coniugato, in quanto il matrimonio, sebbene sciolto, continua a produrre taluni effetti: basta pensare ai diritti successori spettanti al coniuge superstite, al diritto alla pensione di reversibilità, al divieto di nuove nozze durante il c.d. lutto vedovile (art. 89 c.c.), alla conservazione, da parte della vedova, del diritto all'uso del nome del marito. Alla morte è equiparata la dichiarazione di morte presunta, che consente al coniuge superstite di contrarre legittimamente nuove nozze. Tuttavia qualora la persona, della quale fu dichiarata la morte presunta, ritorni o ne sia accertata l'esistenza, il nuovo matrimonio è invalido. Il divorzio si atteggia nell'ordinamento italiano quale rimedio al fallimento coniugale, ed è quindi ammissibile solamente quando la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita. L'accertamento di tale dissoluzione dell'unione coniugale con i conseguenti effetti giuridici, del vincolo matrimoniale, è però ammissibile esclusivamente quando ricorra una delle cause indicate dall'art. 3 della legge. Tra queste cause quella più importante è costituita dalla separazione. Prima dell'ultima novella sul c.d. divorzio breve, la separazione personale dei coniugi (giudiziale o consensuale omologata), doveva essersi protratta ininterrottamente per almeno tre anni. Il citato provvedimento ha significativamente ridotto il termine di durata della separazione, che oggi deve essersi protratta per 12 mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale contenziosa e per sei mesi nel caso di separazione consensuale. La separazione deve essere ininterrotta. Sei coniugi si riconciliano, gli effetti della pregressa separazione vengono del tutto elisi; pertanto il divorzio potrà essere pronunciato soltanto a seguito di una nuova separazione. Le altre cause che rendono ammissibile il divorzio, enumerate dall'art. 3, sono: una condanna penale, passata in giudicato, di particolare gravità; una condanna penale per reati in danno del coniuge o di un figlio; l'assoluzione per vizio totale di mente da uno dei delitti per i quali la condanna comporterebbe causa sufficiente a giustificare la domanda di divorzio; l'annullamento del matrimonio o il divorzio ottenuti all'estero dal coniuge straniero; la mancata consumazione del matrimonio. Oggi la L. n. 76/2016, nel disciplinare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dispone che alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non farne cessare gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione del l'unione civile tra persone dello stesso sesso. Ricorrendo una delle fattispecie sopra elencate, uno dei coniugi, o entrambi congiuntamen, possono chiedere al giudice di pronunciare lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile, o nel caso di matrimonio concordatario, la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio (il divorzio, pertanto, in Italia non può essere che giudiziale: nessuna autorità amministrativa potrebbe deciderlo). In tutti i casi il giudice deve esperire pregiudizialmente un tentativo di conciliazione. Se la conciliazione non riesce, il giudice deve accertare che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per una delle cause previste dall'art. 3. Con l'introduzione del divorzio nel nostro ordinamento sono diventate suscettibili di delibazione (acquistare efficacia in Italia) pure le sentenze straniere di divorzio. Con la sentenza di divorzio il Tribunale può disporre l'obbligo per un coniuge di corrispondere all'altro un assegno periodico (di regola mensile), purché quest'ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive. La misura dell'assegno è determinata discrezionalmente, tenendo conto di numerosi fattori: le condizioni economiche e sociali dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno di essi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello di ciascuno di essi, il reddito di entrambi, anche in rapporto alla durata del matrimonio. Con una sentenza del 2017 la Corte di cassazione ha affermato che l'assegno, avente natura assistenziale, spetta esclusivamente all'ex coniuge che sia privo di mezzi economici adeguati ad assicurargli una condizione di autosufficienza economica e che non possa procurarseli per ragioni oggettive, escludendosi un diritto alla conservazione del tenore di vita goduto durante il matrimonio. I due orientamenti interpretativi hanno trovato una sintesi nella recente decisione della Corte di cassazione a sezioni unite secondo la quale, ai fini della determinazione dell' assegno, occorre tener conto non solo del tenore di vita dei coniugi precedente lo scioglimento del matrimonio, ma di un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico patrimoniali, dia rilievo al contributo fornito dall'ex coniuge richiedente l'assegno alla formazione del patrimonio comune e personale dell'altro coniuge, alla durata del matrimonio, nonché alle potenzialità reddituali future ed all'età dell'avente diritto. Pertanto l'assegno di divorzio avrà, al contempo, natura assistenziale, compensativa e perequativa. La sentenza di divorzio deve anche stabilire un criterio di adeguamento automatico periodico dell'assegno, con riferimento agli indici di rivalutazione monetaria. Inoltre la misura dell'assegno è sempre rivedibile, in caso di mutamento delle circostanze. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un'unica soluzione, purché l'attribuzione sia ritenuta equa dal tribunale: in tal caso, però, non può essere in seguito proposta alcuna domanda di contenuto economico; pertanto l'avente diritto all'assegno, che pattuisca un'attribuzione in unica soluzione (somma denaro, proprietà immobile), non può reclamare altre provvidenze, neppure in caso di sopravvenute sue ulteriori esigenze economiche. L'obbligo di corresponsione dell'assegno, peraltro, cessa se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze (perché in tal caso acquista diritto all'assistenza economica nei confronti del nuovo coniuge). La giurisprudenza più recente si è orientata a ritenere che anche l'instaurazione di una nuova convivenza, determinando la costituzione di una nuova famiglia, ancorché di fatto, da parte del divorziato, ha l'effetto di estinguere ogni rapporto post-matrimoniale, conseguente al disciolto matrimonio, e dunque comporta la cessazione del diritto all'assegno. Pertanto l'ex coniuge che venisse nuovamente a trovarsi in stato di bisogno non potrebbe domandare il ripristino del trattamento economico a suo favore. I provvedimenti riguardo ai figli nella crisi della coppia. L'affidamento condiviso. La L. 8 febbraio 2006, n. 54, ha ridisegnato l'assetto dei provvedimenti relativi ai figli di coppie separate novellando il codice civile, in particolare modificando l'art. 155 c.c. e introducendo i di one nuovi artt. 155-bis-155-sexies c.c. Le nuove norme si applicano a tutti i casi di dissoluzione della coppia genitoriale, e dunque anche in caso di divorzio e di invalidità del matrimonio, nonché nei procedimenti relativi ai figli dei genitori non coniugati. Il capo I del Titolo IX (artt. 315 e ss.) contiene la disciplina responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri dei figli; il capo II è rubricato dell'Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio. Si tratta di una disciplina unitaria dei rapporti tra genitori e figli in tutti i casi in cui i genitori cessino di convivere. Secondo il regime vigente fino alla riforma del 2006 il giudice, nel pronunciare la coppia durante il matrimonio. In tal modo si mirava ad attuare un principio di solidarietà economica tra i coniugi.Peraltro la riforma ha lasciato i coniugi liberi di accordarsi per adottare un regime di separazione dei beni, il quale implica che ciascuno dei coniugi conservi la titolarità esclusiva di tutti i beni da lui acquistati successivamente al matrimonio. Anche per le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono stati previsti un regime patrimoniale e obblighi di contribuzione modellati sulle norme codicistiche in tema di regime patrimoniale e obblighi tra coniugi. Il 29 gennaio 2019 è entrato in vigore il Regolamento UE 2016/1103 emanato in tema di cooperazione rafforzata nel settore della competenza in tema regime patrimoniale coniugi. L'obbligo di contribuzione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Il matrimonio impone ad entrambi i coniugi, indipendentemente dal regime patrimoniale da essi prescelto (comunione o separazione), l'obbligo di contribuire, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, ai bisogni della famiglia: ultimo comma art. 143 c.c. Allo stesso modo i genitori devono adempiere l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Probabilmente il legislatore ha voluto dire due cose diverse con una unica proposizione: e cioè da un lato che entrambi i coniugi hanno il dovere di attivarsi per porre a frutto la loro capacità di lavoro, prospettandosi l'eventuale loro inerzia come inadempimento agli obblighi che derivano dal matrimonio; dall'altro che pure un'attività casalinga, sebbene non produttiva di reddito, costituisce un modo per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Inoltre il riferimento alle sostanze consente di affermare che non si deve tenere conto soltanto dei redditi, ma anche appunto delle sostanze, ossia dei cespiti patrimoniali di cui ciascun coniuge è titolare, e che è tenuto a mettere a disposizione delle esigenze familiari. Ma gli artt. 143 e 316-bis c.c. si preoccupano di regolare il concorso di ciascun coniuge alle esigenze economiche della famiglia, ma non precisano il punto pregiudiziale del discorso: vale a dire non chiariscono quale sia il tutto cui ciascun coniuge deve contribuire, ossia non chiariscono l'entità complessiva dei mezzi che i coniugi devono destinare alla famiglia. In proposito sono possibili due tesi. Secondo la prima, i bisogni della famiglia costituiscono un dato obiettivo determinabile a priori, al cui soddisfacimento i coniugi,devono provvedere, liberi poi di conservare a proprio esclusivo favore ogni eventuale eccedenza: con la conseguenza che le risorse eccedenti la soddisfazione dei bisogni della famiglia, resterebbero nella discrezionale disponibilità di colui che le ha conseguite. Invece per la seconda tesi, più consona alla volontà di modellare il rapporto tra i coniugi nel senso di una autentica comunione di vita e più aderente sia all'obbligo di collaborazione affermato dall'art. 143, comma 2, c.c., i bisogni della famiglia sono tutti quelli che i redditi e i beni della coppia possono comunque soddisfare, cosicché i coniugi avrebbero il dovere di porre a disposizione del ménage familiare tutti i loro redditi e beni, dovendosi poi concordare tra i coniugi il relativo impiego. Senonché dottrina e giurisprudenza accolgono la prima soluzione e ritengono, pertanto, che ciascun coniuge, quando abbia correttamente adempiuto all'obbligo di concorrere in modo adeguato a sostenere gli oneri familiari, sia libero di destinare come preferisce l'eventuale eccedenza che abbia guadagnato. Per l'ipotesi in cui la coppia non abbia mezzi sufficienti a egli provvedere al mantenimento dei figli, la legge impone ai loro ascendenti di fornire i mezzi necessari affinché possano essere adempiuti i doveri nei confronti della prole. Qualora uno dei genitori non contribuisca adeguatamente al soddisfacimento dei bisogni familiari, il tribunale può imporre che una quota dei redditi del genitore inadempiente sia versata direttamente all'altro coniuge o a chi provvede al mantenimento dei figli. Regime patrimoniale legale. Le convenzioni matrimoniali. Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell'art. 162, è costituito dalla comunione dei beni, quale risulta regolata dagli artt. 177 ss. c.c. La nuova disciplina ha trovato applicazione automatica soltanto per le coppie sposatesi dopo l'entrata in vigore della legge di riforma (1975). Per le coppie già unite in matrimonio a quella data una norma transitoria ha previsto un periodo di pendenza di due anni a partire dall'entrata in vigore della riforma: se durante questo periodo uno qualsiasi dei coniugi ha dichiarato di non volere il regime di comunione legale, la coppia è rimasta assoggettata, come prima, al regime di separazione dei beni. Qualora, invece, nessuno dei due coniugi abbia preso l'iniziativa di un simile atto, la coppia è stata automaticamente assoggettata al regime di comunione legale. Per le coppie unite in matrimonio successivamente all'entrata in vigore della riforma la scelta del regime di separazione dei beni deve essere convenuta mediante un accordo stipulato per atto pubblico o risultante dall'atto di celebrazione del matrimonio. Mediante atto pubblico i coniugi possono anche accordarsi per la costituzione del fondo patrimoniale o per dar luogo ad de una comunione convenzionale. Nessun'altra convenzione è consentita: divieto di stipulare accordi che tendano alla costituzione di beni in dote; è altresì vietato ogni accordo inteso a derogare ai diritti e ai doveri concernenti la contribuzione ad sustinenda onera matrimonii (art. 160 c.c.). Le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate anche dopo la celebrazione del matrimonio. Sono opponibili ai terzi solo se annotate a margine dell'atto di matrimonio. Il minore ammesso a contrarre matrimonio è pure capace di partecipare ad ogni relativa convenzione matrimoniale, purché sia assistito dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale su di lui o da un curatore speciale. Analoga è la situazione dell'inabilitato. LA COMUNIONE LEGALE. Il regime patrimoniale legale dei coniugi, in mancanza di di versa convenzione, è costituito dalla comunione dei beni. La comunione legale, peraltro, non è una comunione universale, cioè di tutto quanto appartiene a ciascuno dei coniugi: anzitutto è una comunione che ha per oggetto gli acquisti compiuti in costanza di matrimonio, e neppure tutti: occorre pertanto chiarire quali siano gli acquisti che cadono in comunione e quali rimangano personali, di pertinenza esclusiva di ciascun coniuge. Nell'ambito del regime di comunione possiamo distinguere tre categorie di beni: —i beni che divengono oggetto di comunione (contitolarità) dei coniugi fin dal loro acquisto (comunione immediata); —i beni che cadono in comunione soltanto al momento dello scioglimento della comunione stessa (comunione de residuo); —i beni che rimangono in ogni caso di titolarità esclusiva del singolo coniuge (beni personali). In base al codice civile riformato cadono automaticamente in comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali. Fanno parte della comunione, perciò, i mobili di casa, acquistati dai coniugi insieme o separatamente, l'auto, l'eventuale appartamento, ecc. La legge delinea, nel caso di acquisto compiuto separatamente, una figura di coacquisto ex lege, per effetto del quale, in deroga al principio di relatività degli effetti del contratto, di cui all'art. 1372 c.c., l'atto di acquisto compiuto da un solo coniuge estende i propri effetti al patrimonio dell'altro. Non fanno parte della comunione i redditi personali; b) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. È discusso se si tratti di una forma sui generis di impresa collettiva, o di un fenomeno di tipo societario. Né è chiaro quali siano i presupposti dell'applicazione della norma. c) gli utili e gli incrementi di aziende gestite da entrambi i coniugi, ma appartenenti ad uno solo di essi anteriormente al matrimonio. È immediato cogliere la difficoltà di distinguere tra l'azienda, che rimane nella titolarità esclusiva di un coniuge, e gli utili e gli incrementi riconducibili alla gestione di entrambi, che cadrebbero in comunione. I redditi personali dei coniugi non cadono automaticamente in comunione. Ma non sono neppure considerati dalla legge tra i beni personali, che sono quelli elencati nell'art. 179 c.c. L'art. 177 c.c. precisa che detti beni si considerano oggetto della comunione, ai soli fini della sua divisione, qualora non siano stati consumati al momento dello scioglimento della comunione stessa. Siccome i redditi personali o sono consumati per l'acquisto di beni di consumo e di servizi, o sono investiti o comunque impiegati per acquisti di beni durevoli (ed in tal caso gli acquisti diventano automaticamente comuni o personali, a seconda della loro natura), o sono accantonati, è chiaro che le norme citate riguardano essenzialmente i risparmi, disponendo che, al di là del diritto generico del coniuge di conoscere l'entità e di controllarne l'impiego, i risparmi, anche quelli formalmente appartenenti solo al marito o alla moglie, devono essere anch'essi divisi tra entrambi i coniugi al momento in cui la comunione si scioglie per qualsiasi causa. Sono invece esclusi dalla comunione e rimangono beni personali di ciascun coniuge: a) beni di cui il coniuge era già titolare prima del matrimonio; b) beni da lui acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione in suo favore, salvo che siano espressamente attribuiti alla comunione; c) beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge; d) beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione; e) beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa; f) beni acquisiti con il prezzo del trasferimento di altri beni personali o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto. L'acquisto di un bene immobile o di un bene mobile registrato è escluso dalla comunione quando a tale esclusione consenta l'altro coniuge partecipando all'atto di acquisto e confermando che si rientra in una delle ipotesi di cui alle lettere c), d) ed f). A lungo si è discusso se i coniugi possano di comune accordo decidere di impedire che un certo bene, acquistato da uno dei due, entri a far parte della comunione. La giurisprudenza ha precisato che è necessario che i presupposti della qualità personale del bene, ai sensi dell'art. 179, comma 1, lettere c), d) ed f) esistano obiettivamente pertanto il fatto che il coniuge dell'acquirente, che abbia preso parte all'atto attestando che
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