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RIASSUNTI STORIA DEL DIRITTO DEL LAVORO, Appunti di Diritto del Lavoro

LIBRO "APPUNTI DAL CORSO DI DIRITTO DEL LAVORO" di L.Gaeta

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 13/10/2022

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Scarica RIASSUNTI STORIA DEL DIRITTO DEL LAVORO e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! PREISTORIA DEL DIRITTO DEL LAVORO. Lavoro → equivaleva a pena, fatica fisica. Cosa può intendersi per diritto del lavoro? Una nozione ampia vi può ricomprendere ogni regola giuridica che disciplini il mondo del lavoro. Se è così, allora si potrebbe dire che esiste dal Paleolitico. ES il codice che Hammurabi, sovrano babilonese, detta nel 18 sec a.c. regola diverse ipotesi di lavoro salariato; un papiro conservato al Museo Egizio di Torino testimonia di un lungo sciopero dei lavoratori incaricati della costruzione delle tombe della Valle dei Re. Senonchè, ogni epoca, così come ha avuto la sua concezione del lavoro, ha avuto anche il suo diritto del lavoro , di volta in volta diverso. È perciò vero che il diritto cambia continuamente in relazione alla storia che lo attraversa. Il diritto del lavoro attuale è, perciò, uno dei tanti diritti della lavoro che si sono succeduti nei secoli e nelle varie realtà locali, e la fondamentale differenza rispetto a quelli che lo hanno preceduto sta nel fatto che per la prima volta il suo elemento centrale non è il lavoro ma il lavoratore: è il diritto del lavoro industriale. DISVALORE DEL LAVORO NEL MONDO ANTICO. Nell'antichità il lavoro non è considerato un valore, il mondo greco ne è esempio; a cominciare dalla mitologia, dove il lavoro è uno spirito, fratello di miseria, paura, dolore, tenebre, vecchiaia, morte. Al di là di miti e leggende, è la realtà sociale a emarginare il lavoro dalle democrazie elleniche. La perfetta Polis greca, afferma Aristotele, deve rifiutare la qualifica di cittadino a chiunque abbia bisogno di lavorare per vivere: i lavori retribuiti, infatti, impediscono allo spirito ogni elevatezza. Diritto romano. Nell'antica Roma è dominante il lavoro servile degli schiavi, sui quali il padrone vanta un vero e proprio diritto reale. Il lavoro degli uomini liberi ha una rilevanza minima nel diritto romano, ed è comunque circondato dallo stesso senso di profondo disvalore radicato nel mondo greco. Giuridicamente, solo alcune tipologie di prestazioni sono previste e regolamentate → sono essenzialmente riconducibili alla locatio operarum, con cui un soggetto si obbliga a porre le proprie energie lavorative a disposizione di un altro, in cambio di un corrispettivo. Accanto ad esso si trova la locatio operis, con cui il soggetto assume l'obbligo di assicurare un risultato compiendo una specifica attività. Le 2 forme di locazione rappresentano i capostipiti della Moderna coppia del lavoro subordinato e autonomo. IL MEDIOEVO. Il medioevo è epoca di grandi innovazioni tecnologiche e mentali; vi domina il sistema economico corporativo. Fulcro del sistema è la bottega artigiana; lo statuto corporativo regola le relazioni gerarchiche tra maestro e allievo, e disciplina il rapporto di concorrenza tra artigiani. Il lavoro è visto come materia prima di cui è consentito un utilizzo conforme all'equilibrio sociale prefissato. Questa protoindustria si sviluppa in alcuni settori, come il tessile, che vede le prime rivolte sociali e rivendicazioni salariali. Nel mondo feudale, il lavoro agricolo si consolida come vincolo perenne che lega il contadino alla terra. Tale vincolo si evolve dalla servitù della gleba dell'alto medioevo alla mezzadria della stagione comunale. L'ETA' MODERNA. Con l'età moderna il corporativismo cambia in parte natura e funzione: a partire dal 16° sec, esso, da un lato, si formalizza sempre più in chiave pubblicistica, perdendo i tratti dell'originaria autonomia; dall'altro, è costretto a fare i conti con le prime norme statali, che iniziano a intervenire sulla regolazione del lavoro. Questo corporativismo corretto continua a costituire lo schema ordinante in materia, pur senza ricomprendere tutte le forme lavorative del tempo: alla sua regolazione sfuggono ad es. le prestazioni di servizio svolte per una famiglia, sia all'interno della dimora signorile che nella bottega artigiana. Il lavoro artigianale viene poi sempre più spesso supportato da un mercante, che presta i capitali in cambio di una partecipazione agli utili della bottega: c.d. Verlag, antenato diretto del rapporto di lavoro, perché di lì a poco il mercante si trasformerà in datore di lavoro. Il fattore religioso muta radicalmente la percezione sociale del lavoro, ribaltandola rispetto allo sfavore dell'antichità: per i cattolici, esso è dignitoso completamento della creazione divina; per i protestanti il lavoro è segno della grazia divina. Nell'ancien règime il lavoro è caratterizzato da un equilibrio tra situazioni di fatto e norme pubblicistiche, il cui intreccio ci restituisce ancora l'immagine di un lavoro non libero, o perché imprigionato nella dimensione corporativa o perché legato a relazioni ataviche di sottomissione. Il nuovo movimento illuministico, che a metà 700 si impone all'attenzione generale, definisce il lavoro come occupazione quotidiana alla quale l'uomo è condannato per le sue necessità, e lavorare come fare o eseguire qualcosa che richiede pena. Per cercare di liberare questo lavoro ci vorrà una rivoluzione. LA RIVOLUZIONE FRANCESE. La Rivoluzione, scoppiata in Francia nel 1789, porta nella sfera del diritto valori spiazzanti rispetto a quelli di un mondo che improvvisamente appare antico. A dettarli è la borghesia, la classe che ha nelle mani le redini dell'economia. Riguardo al lavoro, essi possono riassumersi in 2 principi fondamentali, entrambi corollario del pensiero illuministico. Il primo è quello della libertà individuale: se gli uomini sono tutti liberi e uguali (come sancito nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 e prima nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776), allora non sono ammissibili vincoli di sorta, sia che derivino dagli ordinamenti delle corporazioni sia che si fondino sulla dipendenza servile; perciò, chi lavora non lo fa più in virtù dell'appartenenza a uno status, ma solo laddove decida di instaurare un rapporto giuridico tra soggetti liberi ed eguali, che regolano a loro piacimento le rispettive relazioni mediante un contratto. Si è passati dallo status al contratto → ora si fa il lavoratore, non lo si è. Il secondo principio è quello del divieto di entità intermedie tra l'individuo e lo Stato, che, secondo gli illuministi, impedirebbero al singolo la formazione libera e indipendente della propria volontà. Il dito è puntato contro le corporazioni: ad abolirle ci pensa Luigi 16° con un editto del suo ministro delle finanze Turgot nel 1776, che incontra però resistenze tali da favorire la destituzione del ministro e il suo allontanamento dalla vita politica. Per la verità, la prima attuazione normativa in assoluto è italiana, e risale a un "motuproprio" di Pietro Leopoldo del 1° febbraio 1770, che scioglie le corporazioni toscane; ma il provvedimento non ha grande risonanza fuori dal Granducato. Infatti, uno dei più famosi atti della Rivoluzione francese è la legge Le Chapelier del 1791, che proibisce le corporazioni e ogni coalizione tra lavoratori. Senonché, il divieto delle corporazioni si risolve nella criminalizzazione delle coalizioni di lavoratori che non si sentono protagonisti di uno scambio tra eguali in un libero mercato. In questo nuovo mondo, nel quale lo Stato, nel nome dell'assoluta libertà di produzione e di lavoro, colpisce qualsiasi tentativo di modificare il tranquillo svolgimento dei fatti economici, i lavoratori non sono più protetti dalle regole delle vecchie corporazioni e sono incapaci di reagire alle prepotenze e agli egoismi dei padroni. I principi di cui si è detto ricevono un importante riconoscimento normativo nel CC. che Napoleone emana nel 1804 e che, fortemente influenzato dalle idee di Pothier, è un inno alla proprietà privata. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. L'Italia diventa uno stato unitario nel 1861. Gli anni che seguono non sono particolarmente felici. La politica è borghese e liberale, dominata dalla Destra storica, in un sistema nel quale vota meno del 2% dei cittadini, cioè i maschi ricchi. Comincia a emergere un forte disagio sociale: vasti strati della popolazione vivono in condizioni di indigenza e, per abrogano quei vincoli che limitano lo strapotere dei produttori e dei mercanti e che fissano salari minimi. Nel nostro paese, forse perché meno industrializzato, non ci sono interventi normativi di alcun tipo, ma qualcuno comincia a studiare la legislazione degli altri paesi. Il primo diritto del lavoro dell'Italia liberale mostra perciò il volto di un diritto selvaggio, che risulta inadeguato a regolare i nuovi rapporti di lavoro. LA QUESTIONE SOCIALE A FINE 800. Gli anni a cavallo tra 8 e 900 sono detti la belle époque, che è tale, però solo per pochi ; la gran parte di chi lavora lo fa in condizioni di grande povertà. Parte il massiccio sfruttamento coloniale da parte delle grandi potenze europee, cui non si sottrae neanche l'Italia, scossa da scandali politico-finanziari e dall'assassinio del re. È un periodo di ingenua fiducia nel progresso scientifico, che si auspica possa migliorare anche il mondo del lavoro: l'elettricità, la comunicazione senza fili, l'automobile, l'aereo, in combinazione con il passaggio a un nuovo secolo, scatenano un'euforia da età dell'oro. A fine 800, anche l'Italia si affaccia alla ribalta mondiale come paese industrializzato, benché il lavoro contadino resti ancora quello largamente prevalente. Le fabbriche sono una realtà acquisita, anche se dislocate in prevalenza nella parte nord occidentale del paese. Ma un'altra "questione", più generale di quella meridionale, agita questi tempi: la questione sociale; da più parti si prende atto dell'ormai assoluta insostenibilità di una situazione di ricatto nei confronti del lavoratore di fabbrica, sostituibile in ogni momento come un qualunque pezzo di una macchina. E contemporaneamente si cerca di mettere in luce la situazione di povertà e di disagio di tanta parte dei lavoratori della terra. Da più parti, perciò, si chiede l'intervento della legge. Si colloca qui la reale data di nascita del moderno diritto del lavoro: un diritto al quale si vuole affidare il compito di fare da modello intorno al quale costruire un nuovo tipo di società. L'intervento del legislatore è richiesto da uno schieramento eterogeneo: infatti, tra i suoi patrocinatori figurano sia i socialisti che la Chiesa cattolica, all'epoca nemici giurati. I socialisti si sono costituiti in partito nel 1892 a Genova; grazie a una riforma elettorale che estende leggermente il diritto di voto , i primi deputati di questo schieramento, Turati in testa, entrano in un Parlamento fino a quel momento borghese, portando anche nelle sedi istituzionali le istanze di riscatto della classe lavoratrice . In un paese cattolico come l'Italia, il ruolo della Chiesa risulta da subito centrale → nel 1891 Leone 13 emana l'enciclica Rerum novarum, nella quale lancia un grido di dolore per lo sfruttamento eccessivo dei lavoratori in un mondo produttivo scosso da "cose nuove", invitando nel contempo gli imprenditori a venire incontro alle esigenze dei propri dipendenti, e questi ad astenersi da comportamenti animosi verso le classi più ricche. Si rinvigorisce, così, la dottrina sociale della Chiesa, i cui capisaldi sono, e saranno, l'accordo e l'armonia tra le parti. La dottrina sociale cattolica incide inoltre su un altro punto, la sussidiarietà, ovvero il principio per cui l'istanza di grado superiore (lo Stato, il soggetto pubblico) interviene solo quando l'istanza di grado inferiore (il privato) non sia in grado di farlo efficacemente. Il tema dell'assistenza sociale vi viene fatto ricadere in pieno: per la Chiesa, essa va rimessa in primo luogo alla famiglia e all'associazionismo cattolico, solo in estrema ipotesi allo Stato. LE LEGGI SOCIALI. In questo complesso contesto negli anni di governo della "Sinistra storica" (1876-1896), dominata dalla figura di Crispi, si inizia a emanare la prima legislazione sociale. Si tratta, in realtà, di poche leggi, aventi quasi una prevalente funzione di tutela dell'ordine pubblico; le proposte avanzate dai socialisti non trovano seguito e i provvedimenti adottati finiscono col predisporre soltanto elementari garanzie di base. Riguardano la tutela del lavoro dei fanciulli, il riconoscimento del riposo settimanale e festivo, la tutela contro gli infortuni sul lavoro, vi erano infatti numerosi casi di infortunio o addirittura di morte di lavoratori alle prese con macchine nuove e incontrollabili → il tema viene risolto obbligando l'imprenditore ad assicurarsi contro il rischio di infortuni sul lavoro. Quasi tutta la legislazione sociale presenta, tuttavia, una caratteristica peculiare: invece di fondare regole universali, essa è indirizzata a un destinatario ben determinato, ritenuto meritevole di tutela. Questo interlocutore privilegiato viene individuato in una categoria non ancora esistente nel diritto, cioè l'operaio della fabbrica di dimensioni medio-grandi: una realtà peraltro minoritaria a cavallo tra 19° e 20° sec (es. Fiat fondata nel 1899, ma le aziende di dimensione medio-grande sono pochissime). Sarà un caso, ma quasi negli stessi giorni di un frenetico 1898 si susseguono l'emanazione della legge sugli infortuni e la feroce repressione dei tumulti per l'aumento del prezzo del pane: a Milano cadono più di 100 persone. Appare chiara fin dall'inizio la ratio compromissoria del diritto del lavoro, la sua matrice politica ambivalente, che contiene al suo interno il duplice e contraddittorio obiettivo di dare voce al lavoro ma anche di non fargliela alzare troppo. Con la legislazione sociale nasce anche un altro carattere fondamentale del diritto del lavoro, senza il quale esso non avrebbe ragione di esistere: l'inderogabilità della norma di tutela, che si afferma come caratteristica imperativa, per il momento solo nell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale; è, cioè, vietato alle parti contrattuali predisporre un assetto individuale dei loro rapporti che in qualche modo devii dalle regole di legge in senso peggiorativo per il lavoratore, parte debole del rapporto. A questa disciplina viene per lo più dato il riduttivo nome di diritto sociale altri, invece, preferiscono puntare sul destinatario privilegiato delle tutele normative, coniando il termine diritto operaio, definizione ancora più riduttiva, perché centrata su una sola figura del variegato mondo lavorativo. Nessuno parla ancora di diritto del lavoro. IL SINDACATO ALLA RICERCA DI UNA DIMENSIONE GIURIDICA. La nascente materia non può dirsi costituita dalle sole leggi sociali. Si apre, infatti, in parallelo, il capitolo del diritto del lavoro collettivo, riguardante il lavoratore non come singolo ma come soggetto organizzato. In Europa sono ormai caduti i vincoli contro le coalizioni. Da noi, il nuovo codice penale del 1889, che porta la firma del guardasigilli Zanardelli, non sanziona più la costituzione di associazioni. Nel 1889 delegati italiani partecipano alla costituzione della seconda internazionale: essa proclama il 1° maggio festa internazionale dei lavoratori e decide l'autonomia dei sindacati nei confronti dei partiti. Nel 1891 iniziano a costituirsi le Camere del lavoro. Il ruolo delle associazioni consiste ormai, oltre che nel promuovere a livello politico la legislazione di tutela, nello svolgere attività sindacale di resistenza; ciò si realizza, da un lato, intavolando trattative con la controparte imprenditoriale per la stesura di contratti collettivi (che allora si chiamano perlopiù concordati di tariffa, perché volti a regolare i salari); dall'altro lato, organizzando azioni di autotutela collettiva, cioè gli scioperi. Anche in questo caso il diritto, terribile fino ad allora nel reprimere coalizioni e azioni collettive, diventa più mite → il codice penale del 1889 rende libera sia la stipula di contratti collettivi che l'astensione collettiva dal lavoro. Però, lo sciopero integra comunque un inadempimento contrattuale, dando luogo a un danno civile col conseguente obbligo di risarcimento dei danni alla controparte; esso, inoltre, continua ad essere vietato, anche con sanzioni detentive, quando è effettuato con violenza o minaccia. La libertà di organizzarsi collettivamente, poi, incontra spesso ostacoli da parte di interpreti che vi vedono un attacco all'ordine pubblico. Complessivamente, quindi, a fronte di un diritto collettivo del lavoro formalmente improntato a principi di libertà, dal punto di vista sostanziale si profila una situazione ben descritta da uno studioso dell'epoca: il sindacato è libero così come è libero un fuorilegge. Eppure, nel nuovo sec, l'aggregazione operaia si trasforma definitivamente in sindacato. Nascono le federazioni, che raggruppano a livello nazionale tutte le associazioni e leghe cui aderiscono i lavoratori dello stesso settore produttivo (la prima è nel 1901 la Fiom, degli operai metallurgici). Nasce, poi, nel 1906, la Confederazione generale del lavoro (Cgdl), che riunisce tutte le federazioni di mestiere e le Camere del lavoro, e che si assume il compito di organizzare e disciplinare la lotta della classe lavoratrice contro il regime capitalistico della produzione e del lavoro e la direzione generale del movimento proletario. Negli Stessi anni, ricevono nuovo impulso anche i primi organismi rappresentativi degli operai a livello di singola azienda, operativi già da fine 800: le commissioni interne, che si riservano funzioni di controllo e di composizione dei conflitti all'interno del luogo di lavoro. E sempre agli inizi del 900 prendono forma le prime associazioni di matrice cattolica (sindacati bianchi), che, rifiutando l'ideologia della lotta di classe e promuovendo la collaborazione tra le parti, vogliono tenersi distinte dall'associazionismo rosso di matrice marxista. Le associazioni degli imprenditori nascono con mere funzioni di resistenza e di risposta all'associazionismo operaio. Le leghe locali e singoli imprenditori confluiscono in un organismo unitario nazionale, fondato a Torino nel 1910: la Confederazione italiana dell'industria (Confindustria). I GIUDICI E IL LAVORO. I giudici appartengono al ceto borghese (come gli imprenditori) e sono in gran parte custodi della tradizione giuridica più liberale e conservatrice: è raro, perciò, incontrare sentenze che valorizzino le istanze e i bisogni dei lavoratori. Una grossa novità è invece costituita dall'istituzione, nel 1893, di una magistratura speciale, competente a risolvere le controversie di lavoro nelle industrie: i collegi dei probiviri, composti pariteticamente da rappresentanti di imprenditori e lavoratori, con un esperto neutrale alla presidenza. Questi giudici non togati (in alcuni settori, anche donne, che entreranno in magistratura solo 70 anni dopo) affrontano problemi concreti servendosi dell'equità e della consuetudine, e forniscono soluzioni creative. La legge del 1893 è importante, poi, anche perché si tratta del primo testo normativo a parlare esplicitamente di contratto di lavoro. LA CONCETTUALIZZAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO. Alla fine dell'800 la dottrina giuridica inizia a interessarsi del mondo del lavoro. I primi giuslavoristi sono alcuni studiosi animati dai buoni sentimenti allora interpretati dal libro Cuore di Edmondo De Amicis, che narra commoventi storie di bambini, operai, borghesi caritatevoli, che passano alla Storia col nome di socialisti della cattedra. Il termine non allude a una loro appartenenza politica ma a un loro interesse per i problemi sociali. Le loro teorizzazioni, pervase dal nobile intento di tendere una mano ai lavoratori sofferenti, si rivelano spesso tecnicamente deboli e inconsistenti. Questa corrente teorica si spegne in poco tempo ma lascia qualcosa in eredità → la materia passa nelle mani di studiosi con più solide radici tecniche. Nel primo anno del nuovo secolo viene pubblicata la prima vera trattazione organica del rapporto di lavoro, un libro di quasi mille pagine di Barassi, che per questo motivo sarà poi celebrato come il padre del diritto del lavoro italiano. Barassi è un privatista convinto e rigetta ogni contaminazione del diritto del lavoro da parte di considerazioni di tipo economico o sociologico; del rapporto di lavoro fornisce perciò una nozione ampia, centrata sul contratto individuale, inquadrato nel tipo della locazione. L'aspetto più significativo di questa fondamentale opera è la costruzione della categoria giuridica della subordinazione, quale situazione soggettiva del lavoratore derivante automaticamente dal contratto di lavoro, sulla quale si impernierà tutto il diritto del lavoro. Barassi, riprendendo una distinzione romanistica, distingue tra una locazione dell'opera (locatio operis), nella quale il soggetto si impegna a fornire un risultato, cioè un prodotto finito, e una locazione delle opere Ancora nel 1919, il poeta-soldato D'Annunzio occupa con un gruppo di legionari la città di Fiume, che i trattati di pace negano all'Italia, dandovi poi vita a uno Stato libertario, non privo di interessanti esperimenti normativi riguardanti il lavoro: la sua Costituzione, infatti, denominata Carta del Carnaro traccia le linee ideali di una democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo, riconosce ai lavoratori un salario minimo, l'assistenza in caso di malattia o disoccupazione involontaria e la pensione di vecchiaia, edifica il nuovo Stato sulle corporazioni: tutti elementi presenti nell'ideologia del primo fascismo. A livello globale, l'internazionalismo operaio si è disgregato al momento dello scoppio della guerra, sopraffatto dai nazionalismi più esasperati. La terza internazionale, cui si dà vita a Mosca nel 1919, riunisce ormai solo i movimenti fedeli alla linea marxista-leninista. La nuova solidarietà tra nazioni produce, nel 1919, l'istituzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro, un organismo deputato a proporre regole di condotta generalmente accettate. La Germania, invece, la guerra l'ha persa; dalle ceneri dell'impero guglielmino nasce nel 1919 la Repubblica di Weimar, nella quale gli studi lavoristici vivono una vivace fioritura. Una delle voci più originali è quella di un allievo di Lotmar, Sinzheimer, che imprime al diritto del lavoro una svolta radicale, liberandolo dagli schemi del diritto privato, e aprendolo in direzione del diritto sociale. FASCISMO E CORPORATIVISMO. Nel 1922 l'Italia piomba in un lungo periodo dittatoriale. Dopo la marcia su Roma, re Vittorio Emanuele 3° consegna il governo al Duce e l'Italia si assoggetta al regime fascista. Il vero protagonista del ventennio in camicia nera è una middle class da mille lire al mese. Gli anni 20 non sono solo un momento di spensieratezza dopo una guerra così devastante, ma anche un momento di forte innovazione tecnologica e sviluppo industriale. Gli anni 30 portano invece la grande depressione: disoccupazione, fame, miseria. Gli Stati Uniti emergono come nuova superpotenza: vi lavorano ormai milioni di emigrati italiani. In Italia, la dittatura fascista si instaura nel 1925 e si consolida l'anno dopo, con un complesso di leggi, definite fascistissime, che aboliscono ogni libertà politica e di espressione contraria al potere → tali leggi, nel campo del lavoro, segnano l'inizio del corporativismo. Secondo tale teoria, nei rapporti tra le parti del mondo del lavoro non deve più emergere un interesse del capitale separato e contrapposto all'interesse dei lavoratori, ma tutto deve essere ricomposto a unità, in considerazione della sussistenza di un interesse superiore: quello di uno Stato che deve imporsi e condurre al superamento di ogni conflitto causato dai contrapposti interessi di classe. Si tratta di una teorizzazione destinata a restare sulla carta e a non modificare i reali rapporti tra classi all'interno del mondo del lavoro. Negli anni 20 e 30, i processi industriali si sono andati sempre più raffinando: le grandi fabbriche italiane adottano il modello fordista della catena di montaggio, nel quale ormai il lavoratore è solo un ingranaggio di una produzione. L'Italia presenta diverse realtà di avanguardia di questo tipo, nel generale contesto, però, di paese agricolo. Nel 1936 per la prima volta gli occupati in agricoltura scendono sotto la metà della popolazione attiva, mentre l'industria e il terziario ne rappresentano i 27,3% e il 23,3%. IL RAPPORTO INDIVIDUALE RIAGGIUSTATO. Per quanto attiene al rapporto individuale di lavoro, cambia poco rispetto al periodo liberale. La normativa di tutela è sempre incentrata sul prototipo del lavoratore nell'industria di dimensioni medio-grandi, occupato sulla base di un contratto non nominato dal codice civile, ma riconducibile alle costruzioni del rapporto di lavoro tracciate dalla dottrina liberale di inizio secolo. Alcune tutele del lavoro vengono rafforzate e raffinate con interventi legislativi che spesso denotano un intento paternalistico: c'è poco di fascista nelle nuove norme, che sono quasi sempre in linea con quello che contemporaneamente si fa nei paesi democratici (con le debite eccezioni: es. quando si rende obbligatoria per l'accesso al lavoro pubblico l'iscrizione al partito). Nel 1923, con una legge destinata a durare 30anni, si regolamenta l'orario di lavoro portandolo a 8H giornaliere. La legge sull'impiego privato farà da base per la futura codificazione generale, prevedendo norme che in larga misura saranno riprese da CC del 1942 ed estese a tutti i lavoratori subordinati. Tra le 2 categorie degli impiegati e degli operai esiste in quegli anni una differenza marcata: gli impiegati svolgono lavoro intellettuale (definiti colletti bianchi, perché indossano il camice) e fanno parte della piccola o media borghesia, la quale tende a distinguersi dal proletariato, da cui provengono gli operai, le tute blu, che svolgono lavoro manuale. Nel 1927 il fascismo emana la Carta del lavoro, una sorta di dichiarazione programmatica dei principi corporativi in materia di lavoro, che resta una mera enunciazione propagandistica, anche perché essa viene ritenuta fonte normativa solo nel 1941. In questo quadro, una pagina vergognosa è scritta con la brutale espulsione di tutti i lavoratori ebrei, realizzata con la legislazione razziale del 1938. Per non parlare del trattamento che le leggi riservano ai lavoratori indigeni delle colonie. LA POLITICA SOCIALE. Negli anni 30 il regime si dedica a sviluppare la politica sociale, emanando provvedimenti di tipo assistenziale, legati dai confluenti obiettivi, da un lato, di favorire le strategie espansionistiche della dittatura e incidere sulle coscienze creando consenso intorno al regime; dall'altro, di agire contro la durissima crisi economica che, dopo il 1929, da Wall Street dilaga in tutto il mondo, colpendo violentemente il sistema industriale: in Italia, in 4 anni, i disoccupati passano dai 300K del 1929 al 1,3 MLN del 1933. In quegli anni la materia previdenziale viene riorganizzata, rivedendo il sistema delle assicurazioni per gli infortuni sul lavoro, l'invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione, e istituendo per la prima volta un'assicurazione contro le malattie professionali. A tale sistema fanno da supporto grandi enti pubblici, in primo luogo l'Infps e l'Infail (ancora oggi operanti, con la caduta della F di fascista). Si interviene a tutela della donna lavoratrice, in primo luogo della lavoratrice madre, con provvedimenti funzionali anche alla politica demografica, che il regime cerca di promuovere in quel periodo. Ma la normativa garantista in materia di lavoro femminile, nella misura in cui ne aumenta il costo a carico delle imprese, finisce col favorire l'espulsione dal lavoro della donna, la cui occupazione risulta sempre meno conveniente. La grave crisi economica di quegli anni viene fronteggiata con espulsioni massicce dal lavoro, maschilizzando il mercato: dal 1921 al 1931 la quota di manodopera femminile scende dal 28% al 18%, fino a giungersi nel 1938 a limitare al 10% il personale femminile in ogni settore. LA PUBBLICIZZAZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO COLLETTIVO. Il fascismo incide, poi, profondamente sul diritto del lavoro collettivo, operandone una trasformazione autoritaria. Il sindacato fascista nel 1925 stipula con la Confindustria il patto di palazzo Vidoni, col quale i due organismi si legittimano reciprocamente come unici rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. Sulla scorta di questo accordo, la legislazione del 1926 abolisce definitivamente la libertà sindacale, vieta penalmente lo sciopero e la serrata; i sindacati antinazionali vengono sciolti, è istituito di fatto il sindacato unico fascista, ente pubblico nelle mani del partito, che rappresenta obbligatoriamente tutti i lavoratori della categoria, a prescindere da una loro adesione volontaria. Questo soggetto è legittimato perciò a stipulare contratti collettivi corporativi validi per tutti i lavoratori della categoria. Il contratto corporativo, concluso da soggetti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico, è qualcosa che somiglia molto più a una legge che a un contratto e l'assoluta inderogabilità in peggio delle sue disposizioni da parte del contratto individuale ne diviene l'ovvia conseguenza. GIUDICI E STUDIOSI. INTERPRETI DI REGIME? I giuristi che si occupano di lavoro nel periodo fascista non sono necessariamente di regime. Per molti, in quegli anni, rifugiarsi nel tecnicismo serve a non prendere una posizione netta contro la dittatura (quando, nel 1931, si chiede a tutti i professori universitari di prestare giuramento di fedeltà al regime, pena la perdita del posto, su oltre 1200 docenti solo 12 si rifiutano). Piuttosto, poiché la materia si è trasformata, con interventi sempre più massicci che l'hanno fatta virare verso il diritto pubblico, di diritto del lavoro non si occupano più tanto i privatisti, quanto piuttosto i pubblicisti, in particolare gli amministrativisti. Anzi, durante il fascismo non si parla neanche più di diritto del lavoro, ma di diritto corporativo: con questo nome la materia fa il suo ingresso nei corsi universitari e nel 1929 viene messa a concorso la prima cattedra (nel 1934 c'è la prima donna chiamata a insegnare la materia). Va poi ricordata la nascita, nel 1927, della prima rivista interamente dedicata alla materia, Il diritto del lavoro, fondata da Bottai. Viene creata, peraltro, la magistratura del lavoro, giudice speciale della materia, le cui sentenze, caso unico in un sistema di civil law qual è sempre stato il nostro, sono considerate fonte del diritto; esse però sono pochissime. Il diritto del lavoro del periodo fascista ha, quindi, un ruolo fondamentale nel perseguimento di una politica di consenso al regime e agisce da New Deal nostrano nell'affrontare la crisi economica. Esso svolge però anche una funzione non secondaria nello sviluppo della gran de industria italiana, e serve a rafforzare i poteri economici. IL CODICE CIVILE DEL 1942. Gli anni dal 1940 al 1945 sono i più tragici della nostra storia recente. Nel 1942, in piena guerra, entra in vigore il nuovo CC; con esso si porta a compimento il processo di incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto privato. Il libro 5 del codice è intitolato Del lavoro; ciononostante, in ossequio all'ideologia corporativa, ci sono dentro, insieme, norme che disciplinano il rapporto di lavoro e norme sull'imprenditore e le società; senonché, le prime, cioè il diritto del lavoro, hanno un peso marginale rispetto alle seconde, il diritto commerciale. La definizione di lavoratore subordinato è calata solo formalmente all'interno di una struttura apparentemente organicistico-collaborativa, fortemente gerarchizzata; nella sostanza, prevalgono, invece, gli indizi favorevoli alla ricostruzione contrattualistica piuttosto che a quella acontrattualistica a conferma che l'idea della funzionalizzazione organicistica dell'impresa può avere solo un fascino teorico, mentre a livello fattuale i rapporti di produzione restano sempre basati sul profitto e sulla contrapposizione degli interessi. Esso, alla fine, è assai poco mussoliniano: infatti, pur facendo qualche scontata concessione formale, come l'inclusione delle norme corporative tra le fonti del diritto, resta imperniato sulle strutture giuridiche dell'individualismo contrattuale. Nel codice, invece, c'è pochissimo diritto sindacale, e le norme ad esso riconducibili quasi tutte dedicate al contratto collettivo, che viene confermato come fonte del diritto, sia pure di rango inferiore rispetto alla legge, e, quindi, dichiarato derogabile da parte del contratto individuale solo in senso più favorevole al lavoratore. Per quanto riguarda la composizione del mondo del lavoro italiano, negli anni di guerra, la situazione di predominante presenza maschile, caparbiamente realizzata negli anni 30, si inverte, fino a quando si vieta l'impiego di personale maschile in determinate attività. DUE ITALIE E DUE DIRITTI DEL LAVORO: IL REGNO DEL SUD. Travolto dal cattivo esito della guerra, il fascismo crolla nel 1943. Dopo l'armistizio dell'8 settembre, l'Italia si spacca in due. In quello che viene battezzato Regno del sud, liberato dagli anglo-americani, vengono presto eliminate le istituzioni del corporativismo; le organizzazioni sindacali di diritto pubblico dei lavoratori e degli imprenditori vengono affidate a 2 commissari, i quali stipulano il primo contratto collettivo libero dopo tanti anni, l'accordo Buozzi-Mazzini, che ripristina le I DIFFICILI ANNI 50. I 50 sono anni difficili. La ricostruzione vive nel clima della guerra fredda tra gli Stati Uniti e il blocco comunista. Agli inizi degli anni 50, siamo ancor un paese rurale. Ma proprio in quel decennio l'industria si sviluppa in maniera impetuosa, sorpassando per la prima volta l'agricoltura. Gran parte di essa è concentrata nel triangolo industriale, Milano- Torino-Genova, e dall'emigrazione interna, dalle regioni meridionali verso di esso, tocca l'apice. E molti di questi lavoratori, inurbati nelle grandi fabbriche, finiscono col lavorare in nero. Politicamente, l'Italia è governata per tutto il decennio da coalizioni centriste, dominate dalla Democrazia cristiana; l'epurazione del fascismo è praticamente inesistente → i posti di potere continuano ad essere occupati dalle stesse persone che c'erano prima. LA RIPRIVATIZZAZIONE DEL NUOVO DIRITTO DEL LAVORO. Il diritto del lavoro dell'Italia repubblicana comincia dunque la sua marcia, illuminato dai principi della Costituzione. Esso è diventato materia obbligatoria per gli studi giuridici; senonché, manca chi lo insegni: dopo la Liberazione, in tutto il paese ci sono solo 4 professori che fanno i giuslavoristi → considerata materia di scarsa importanza. Perciò, già subito dopo la Costituzione si apre una sorta di battaglia per la conquista di uno spazio improvvisamente diventato aperto. Si fronteggiano 2 opzioni ricostruttive: una pubblicistica, che ha il suo capofila in Mortati e che intende risistemare la materia alla luce della Costituzione appena approvata, l'altra più privatistica, patrocinata da Santoro-Passarelli. Si impone di gran lunga la seconda ricostruzione, e il diritto del lavoro ridiventa il regno dei privatisti. Oltre a ricostituire il diritto previdenziale, Santoro-Passarelli riporta anche il diritto sindacale alla comune ragione privatistica, si rispolverando la categoria del contratto collettivo di diritto comune (cioè di diritto privato) sia soprattutto elaborando la teoria dell'autonomia privata collettiva, nella quale l'interesse collettivo si impone come sintesi e superamento degli interessi individuali. Il ritorno al diritto privato, però, comporta che talvolta spesso prevalgano soluzioni tradizionaliste e non al passo con le nuove garanzie che la Costituzione attribuisce al lavoro dipendente. Sono davvero pochi, e quasi tutti raccolti intorno alla Rivista giuridica del lavoro, fondata nel 1949 sotto l'egida della Cgil, i giuslavoristi che valorizzano le norme costituzionali come fondamento di un nuovo diritto del lavoro. LA GUERRA DOTTRINALE TRA ISTITUZIONALISTI E CONTRATTUALISTI. L'altra grande battaglia tra i giuslavoristi si svolge negli anni 50 su un piano raffinatamente teorico, ma con forti ricadute politiche e accademiche, e riguarda la ricostruzione della natura del rapporto di lavoro. Si assiste a una ripresa delle teorie istituzionistiche e organicistiche che hanno spadroneggiato durante il fascismo, dapprima ad opera di studiosi formatisi all'interno dell'accademia corporativa, ma dopo anche da parte di giuristi vicini alle posizioni politiche socialcomuniste, impegnati a valorizzare la Costituzione democratica, che quindi leggono l'impresa-istituzione come una delle formazioni sociali tutelate dall'art. 2 e di conseguenza ricostruiscono il rapporto di lavoro come rapporto associativo, superando le logiche scambiste del contratto privatistico. Dall'altro lato, però, si forma una cospicua corrente contrattualista; e sono proprio le teorie contrattualistiche e antiorganicistiche del rapporto di lavoro ad affermarsi definitivamente. IL DELUDENTE SVILUPPO NORMATIVO. Dal punto di vista normativo, l'ossatura della materia, nella parte relativa alla disciplina dei rapporti individuali di lavoro, continua a essere quella degli anni del fascismo, depurata dei non molti elementi più intimamente legati all'ideologia corporativa. Poco alla volta, peraltro, anche il legislatore repubblicano si impegna in interventi di tutela del lavoro che gradualmente costruiscono una discreta rete di protezione. Sono da notare: una legge del 1949, che accentra in strutture pubbliche il collocamento dei lavoratori, disattendendo però in questo modo le aspettative del sindacato, che voleva riservarsene la gestione; una legge del 1950 sulla tutela delle lavoratrici madri; un testo unico in materia antinfortunistica. In campo sindacale c'è un importante intervento nel 1959: una legge delega, nota come legge Vigorelli, che autorizza il governo a ricopiare il testo dei contratti collettivi in altrettanti decreti legislativi, attribuendo così loro l'agognata efficacia generale, come soluzione alternativa alla praticamente impossibile attuazione della seconda parte dell'art. 39. LE SPERANZE DISATTESE. IL COSTO DEL MIRACOLO ECONOMICO. Il diritto del lavoro italiano vive negli anni 50 una vita difficile: il contesto giuridico è dominato da una Costituzione molto avanzata, ma la situazione reale contraddice sensibilmente questo quadro. I rapporti individuali di lavoro continuano, infatti, ad essere improntati a un forte autoritarismo. Il principio dell'assoluta libertà, per il datore di lavoro, di licenziare il proprio dipendente è del tutto incontestato, nonostante la presenza dell'art. 4. C'è da notare come fin troppo spesso certa dottrina releghi molte norme costituzionali al rango di semplici disposizioni programmatiche, non immediatamente efficaci. In questo contesto, anche il sindacato più forte, la Cgil del carismatico leader Di Vittorio può poco. Il sistema di contrattazione collettiva è incentrato su grandi accordi nazionali, ma essi, hanno efficacia solo per gli iscritti, risultando formalmente contratti privatistici. La situazione è poi, politicamente molto polarizzata: sindacati e partiti di sinistra sono visti come nemici dell'ordine costituito, e accade che qualche manifestazione venga repressa con estrema violenza. L'episodio tristemente più noto è la strage del 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra. La libertà sindacale, quindi, resta solo un'utopia. La libertà di manifestazione del pensiero, diritto costituzionale fondamentale per ogni cittadino (art. 21), non viene in sostanza riconosciuta quando il cittadino è un lavoratore che intende manifestare la sua opinione all'interno del luogo di lavoro . i diritti fondamentali, si sostiene, operano solo nei rapporti tra singolo e poteri pubblici e non si estendono all'ambito dei rapporti tra privati. La Costituzione, insomma, non è in grado di varcare i cancelli delle fabbriche; si vive, per riprendere un'espressione di Calamandrei, il decennio della Costituzione di carta. I giudici che interpretano il nuovo diritto del lavoro danno una mano a questa interpretazione minimalista della Costituzione, che viene praticamente anestetizzata. Innanzitutto, il previsto garante delle sue norme non esiste per lungo tempo, poiché la Corte costituzionale viene istituita solo nel 1956. Poi, la magistratura è composta sostanzialmente dalle stesse persone che appena qualche anno prima hanno avallato il fascismo (ES. Azzariti, che nel 1938 è presidente del tribunale della razza e dal 1957 al 1961 è presidente della Corte Cost). Questo diritto del lavoro così poco garantista, dimentico della Costituzione e incentrato ancora sull'esaltazione contrattuale dei poteri del datore di lavoro, svolge per tutti gli anni 50 una funzione di supporto nello sforzo di spingere il paese dalle macerie, attraverso la ricostruzione, fino al miracolo economico realizzato agli inizi del decennio successivo. L'inizio del nuovo decennio vede l'Italia simbolicamente al centro del mondo, con le Olimpiadi di Roma del 1960. Il paese comincia ad attraversare una fase di euforia, e respira un senso di diffuso benessere: la lira ottiene il premio per la moneta più stabile. É il boom" economico. Presso la Fiat e le altre grandi imprese del nord si forma e si rafforza un popolo di lavoratori subordinati che cominciano a maturare, insieme con il benessere economico, con il miglioramento delle condizioni di vita e salute e con una crescente istruzione, la consapevolezza di sé e del proprio ruolo di produttori nella società industriale. Ma proprio nel 1960 ci sono anche moti di protesta contro un governo democristiano sostenuto dai neofascisti, e a Reggio emilia 5 operai vengono uccisi dalla polizia. Inizia la contestazione globale al sistema; si scende in piazza a protestare; si impone il femminismo; si mette in discussione ogni autorità. Anche l'atteggiamento della Chiesa in materia di lavoro si fa sempre più deciso, come dimostrano encicliche papali: la Pacem in terris di Giovanni 23° (1959) chiede un forte cambiamento dell'atteggiamento culturale della politica nei confronti dei problemi del mondo del lavoro ; ancora più decisa nel condannare la progressiva divisione del mondo tra ricchi e poveri e lo sfruttamento dei lavoratori è poi la Populorum progressio di Paolo 6° (1967) , che giunge addirittura a legittimare l'insurrezione rivoluzionaria contro un governo che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese. Tutto culmina nel c.d. 68, un moto generale di protesta e ribellione che, partendo dalle università di Berkeley e della Sorbona, dilaga dappertutto, aprendo tempi nuovi. La spinta ideologica si traduce in una inedita alleanza tra studenti e lavoratori. Il clima di contestazione generale coinvolge anche il mondo del lavoro, culminando nelle lotte operaie per i rinnovi dei maggiori contratti collettivi . LE POLITICHE LEGISLATIVE DEGLI ANNI 60. Già da qualche tempo, in Italia si sono fatte strada opinioni favorevoli a una maggior tutela della classe lavoratrice, che hanno indotto il legislatore, tra il 1960 e il 1963, a emanare importanti provvedimenti, come la legge sugli appalti di manodopera, volta a reprimere le intermediazioni fraudolente nell'assunzione dei dipendenti e il caporalato che imperversa nelle campagne meridionali, la legge che circoscrive a casi tassativi il ricorso ai contratti a tempo determinato; la legge che vieta il licenziamento della lavoratrice a causa del suo matrimonio. Dal 1963, con l'ingresso al governo del partito socialista di Nenni nel primo centrosinistra della storia italiana, tale politica si sviluppa maggiormente, fino a giungere nel 1966 alla fondamentale legge sui licenziamenti individuali → essa, oltre a ritenere nulli i licenziamenti intimati per rappresaglia politica o sindacale, finalmente impone al datore di lavoro di addurre almeno un giustificato motivo, che, in combinato con la giusta causa codicistica, compone un sistema nel quale è impedito il licenziamento ad nutum, cioè senza motivo. In realtà, questo provvedimento vale solo nelle aziende con più di 35 dipendenti che costituiscono una sparuta minoranza; la fondamentale garanzia dell'impossibilità di essere licenziato senza alcuna giustificazione opera, quindi, soltanto per i lavoratori della media e grande industria. Altro importante tema affrontato in quel periodo è la tutela del lavoro minorile, attuata nel 1967. MAGISTRATURA → L'accesso alla magistratura si è aperto anche a classi sociali medio-basse, fino ad allora escluse dagli studi universitari; l'ingresso di tanti giovani, finalmente anche donne, nei primi gradi di giurisdizione porta quasi inerzialmente a sentenze maggiormente orientate verso i bisogni e le aspettative delle classi lavoratrici. NUOVI INDIRIZZI DELLA DOTTRINA GIUSLAVORISTICA. Una rivoluzione ancora più profonda si ha in dottrina, poiché emergono nuovi indirizzi destinati a indicare percorsi alternativi rispetto alle più classiche letture privatistiche. E' merito soprattutto di Mancini e di Giugni. Mancini imposta in modo del tutto nuovo i rapporti tra diritto privato e diritto del lavoro, coniugando originalmente l'esame rigoroso delle categorie giuridiche civilistiche con la politica del diritto e la valorizzazione del contesto costituzionale. Giugni, a sua volta, elabora la teoria dell'ordinamento intersindacale imperniata sul riconoscimento dell'esistenza di un ordinamento originario, costituito da tutte le regole che governano le relazioni tra le parti sociali. La teoria dell'ordinamento intersindacale non rimane sul mero piano dell'elaborazione dottrinale, ma trova terreno fertile nel particolare sviluppo delle relazioni industriali degli anni 60, segnato dalla progressiva creazione di un diritto sindacale di fatto, nel quale hanno largo spazio la giurisprudenza, le costruzioni dottrinali, le prassi, ma pochissimo le leggi: il ruolo dello Stato la sola possibilità di una deroga in senso peggiorativo. Dopo anni in cui dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto l'applicabilità anche ai contratti collettivi di diritto comune del principio di derogabilità solo migliorativa sancito dall'articolo 2077 cc per i contratti diritto corporativo, si afferma, ora, un sistema di contrattazione collettiva vincolata, nel quale i contratti di livello inferiore non possono più liberamente disciplinare determinate materie, il primo luogo quella salariale, e si introducono circostanze nelle quali opera ancora una volta l'inderogabilità assoluta, col divieto di migliorare la previsione contrattuale. La posizione del sindacato, soprattutto di quello unitario, è particolarmente difficile in un momento di crisi economica. Esso è costretto infatti ad abbandonare presto là velleità rivendicative che hanno calamitato i lavoratori negli anni d'oro della conflittualità permanente e a ripiegare su una strategia difensiva, cercando di parare i colpi e di conservare quel poco che è ancora possibile. Ma probabilmente il punto di svolta simbolico è segnato, nel 1980, dalla marcia dei 40.000: una marea di impiegati e quadri della Fiat si riversa per le strade di Torino, protestando contro un picchettaggio sindacale che impedisce loro di entrare in azienda. Dopo quel momento, il sindacato riserva maggiore attenzione, nelle proprie politiche contrattuali, alle nuove figure di lavoratori, e decide di offrire la sua collaborazione nella gestione della crisi: molti degli interventi di flessibilità sono dovuti alla mediazione della Confederazione Unitaria sia col Governo che con la controparte imprenditoriale. Tuttavia, l'abbandono delle strategie rivendicative del passato, da un lato, e l'attenzione adesso riservata anche alle nuove professionalità dall'altro, inducono una progressiva disaffezione dei lavoratori nei confronti dei sindacati confederali, i quali registrano da allora una brusca caduta di consensi, e non saranno mai più in grado di esercitare la stessa influenza sulla società e sulla politica Nazionale, impiegata fino ad allora. Si cominciano così a fare strada, soprattutto in alcuni settori, i sindacati autonomi, spesso rappresentanti un'unica categoria e proprio perciò liberi da strategie di compromesso e da gravosi compiti di cogestione della crisi. IL TERRORISMO E IL MONDO DEL LAVORO. I 70 sono anche gli anni di piombo, perché, in un'atmosfera grigia e triste, fatta di paure e di violenze, si afferma, in Italia e altrove, il terrorismo, che diventa una presenza quotidiana e angosciante, facendo sentire la sua voce anche nel mondo del lavoro. In Italia tutto comincia a dicembre 1969, quando la bomba di Piazza Fontana a Milano apre la stagione delle stragi di stato. Dall'altro lato, il terrorismo rosso opera invece in maniera mirata; in particolare, le Brigate Rosse cercano spazio all'interno delle grandi fabbriche, dove maggiori sono i sentimenti per le conseguenze della crisi economica. Cominciano con sequestri dimostrativi di dirigenti d'azienda; e passano poi alla costituzione del partito armato, che da subito vede nel mondo del lavoro l'obiettivo della sua strategia; vengono uccisi dirigenti e capi reparto, poi anche sindacalisti. Le Brigate Rosse fanno il salto di qualità che le porta nel 1978 a rapire e assassinare Aldo Moro. La funzione del diritto del lavoro dell'emergenza è, evidentemente, quella di superare una fase critica, ritenuta temporanea. GLI ANNI 80 E LA CONCERTAZIONE SOCIALE. Quanto gli anni 70 sono stati cupi e angosciosi, tanto gli 80 sono gli anni del riflusso, del trionfo dell'apparire sull'essere, dell'arricchimento facile. Nel nostro mondo del lavoro, sul piano dei rapporti collettivi si sviluppano nuove pratiche relazionali, che cambiano profondamente i rapporti tra stato e organizzazione degli interessi, aprendo la strada a una regolazione incentrata su un intervento statale negoziato preventivamente con le parti sociali, e dunque sul superamento della prassi astensionistica che ha connotato sino ad allora il sistema di relazioni sindacali italiano. Questo nuovo modello di gestione delle politiche del lavoro e delle relazioni industriali che si sperimenta in quegli anni, la concertazione, incontra subito molto successo. Per la prima volta si siedono intorno a un tavolo i sindacati rappresentativi, le organizzazioni imprenditoriali e il governo, che però non interviene in qualità di mediatore super partes, come avvenuto altre volte in passato, ma come vera parte di un negoziato triangolare e, quindi, come contraente di un accordo trilaterale nel quale ognuna delle parti, siglato il patto, risulta soggetto attivo e passivo di precisi impegni. Si supera il modello del contratto collettivo interconfederale, firmato ai massimi livelli dalle parti sociali, per dar vita a un nuovo sistema, nel quale le parti si accordano sulle grandi linee delle politiche del lavoro da attuare in un determinato lasso di tempo, per poi trasfonderle , a cura del governo, che all'accordo ha preso parte direttamente, in provvedimenti normativi, vincolanti per tutti e non solo per gli iscritti ai sindacati. È quello che in Italia e in Europa viene chiamato modello neocorporativo, proprio perché i rappresentanti di imprenditori e lavoratori, accantonati i propri interessi di parte, collaborano di comune accordo nell'interesse del paese. Il primo accordo di questo tipo, siglato il 22 gennaio 1983,ha ad oggetto le dinamiche salariali e contrattuali ed è noto come protocollo Scotti, dal nome del ministro del lavoro. Esso resta un modello cui anche in epoca successiva si farà riferimento per analoghe operazioni. IL SINDACATO E LO SCAMBIO POLITICO. I tre grandi sindacati confederali CGIL CISL UIL non escono indenni da questa operazione: da più parti, infatti, viene loro rimproverato di aver tradito il ruolo tradizionale di forze antagoniste al potere imprenditoriale e, anche al potere politico; di essersi fatti coinvolgere nella gestione della politica industriale, accettando di entrare sempre più massicciamente nelle istituzioni. In realtà, il meccanismo della concertazione è pervaso da una logica di scambio politico, per cui il sindacato riceve una sorta di riconoscimento ufficiale, un aumento dei diritti di informazione e consultazione su punti strategici della vita aziendale e l'estensione del frutto dell'accordo al di là della cerchia dei propri iscritti, in cambio di una parziale rinuncia a strategie rivendicative oltranziste. Il fenomeno terroristico cambia strategia, abbandonando l'attacco al cuore dello Stato e colpendo elementi che costituiscono l'anello di congiunzione tra lo Stato e il mondo economico; in questo caso gli artefici teorici della concertazione: è emblematico, proprio nel corso di quel 1983 che segna l'avvio del nuovo sistema, l'attentato a Gino Giugni, ispiratore dell'accordo, il quale sfugge alla morte solo per l'imperizia della brigatista che gli spara. LE LEGGI CONTRATTATE. I provvedimenti di questo periodo, non più dettati da contingenze emergenziali, sono un classico esempio di legislazione contrattata tra governo e parti sociali, frutto degli accordi di concertazione. Con tali norme si rafforza e si stabilizza la tecnica della legificazione, cioè dell'armonizzazione tra le 2 fonti principali, la legge e il contratto collettivo, il quale, a fronte dei rinvii legislativi, aspira ormai ad assumere la funzione di regola generale applicabile a tutti i lavoratori. Il contratto collettivo, però, passa in questo modo da una logica di integrazione addizionale ad una di progressiva riduzione e flessibilizzazione delle tutele. La legislazione contrattata assume poi contenuti sempre più politici, giacchè, accanto alla tradizionale regolazione dei rapporti di lavoro, una sua parte cospicua è dedicata allo sviluppo delle politiche economiche e industriali. I punti centrali su cui la legge interviene sono, in primo luogo, ancora la flessibilità dell'occupazione e delle condizioni di lavoro, a più riprese si allargano i casi nei quali l'impresa può far ricorso al lavoro a tempo determinato e si introducono il lavoro a tempo parziale, i contratti di formazione e lavoro, i contratti di solidarietà interna ed esterna, cioè accordi sindacali che fissano il principio della lavorare meno per lavorare tutti. A normativa invariata, invece, si interpretano più elasticamente limiti legali sull'orario di lavoro. Un altro tema caldo di quegli anni è la c.d. politica dei redditi, cioè l'intervento sui salari per contenere l'alto tasso di inflazione, secondo una logica che ha come primario punto di riferimento il protocollo Scotti del 1983. Ed è proprio rispetto a questa materia che si verifica uno storico strappo, destinato a rimanere nel DNA dei sindacati confederali. Il 14 febbraio 1984 viene stipulato un nuovo patto trilaterale noto come accordo di San Valentino, che legittima il governo a ridurre gli scatti di indicizzazione del salario all'aumento del costo della vita. La CGIL si oppone a questo accordo e non lo firma con la conseguenza di mettere fine al patto federativo che durava dal 1972. Essa patrocina, poi, un referendum contro il decreto Craxi cioè la legge che ha dato attuazione all'accordo, che però si conclude con il suo mantenimento in vigore e, quindi, con il sostanziale successo del governo e del sistema di concertazione, nonché delle confederazioni che l'hanno appoggiato. L'IMPATTO DELLE TECNOLOGIE ELETTRONICHE. In quegli anni, il modello di produzione Taylorista fordista , che connota gli sviluppi dagli inizi del 900, comincia ad essere accantonato in numerose imprese, nelle quali, su gli echi delle esperienze nordamericane e sopratutto giapponesi, si diffondono modelli più avanzati di organizzazione del lavoro, che comportano maggiore responsabilizzazione e autonomia decisionale del singolo e del gruppo con cui lavora. Ma la vera rivoluzione è data dall'applicazione diffusa di nuove tecnologie nel settore industriale e in quello dei servizi, che produce un'esplosione di efficienza produttiva. La nuova protagonista è l'elettronica, che trasforma letteralmente molti modi di produrre. L'utilizzo dei personal computer e in generale di strumenti informatici sempre più potenti consente scelte produttive, e organizzative, impensabili fino a qualche anno prima, tant'è che si comincia a parlare di una nuova rivoluzione industriale. L'elettronica favorisce anzitutto in molti tipi di produzione, un'organizzazione del lavoro meno centralizzata e più frazionata, perché diverse prestazioni non necessitano più di essere concentrate in un'unica struttura unitaria come la fabbrica; le tecnologie dell'informazione e della comunicazione consentono finanche di lavorare da casa, collegati con un computer all'azienda. Con la finalità precipua di ridurre il costo del lavoro, si accelera esponenzialmente un fenomeno già iniziato negli anni 70, il decentramento produttivo: ora sempre più attività possono essere spostate all'esterno dell'impresa e dunque affidate ad altre imprese oppure a singoli o a piccoli gruppi di lavoratori disseminati sul territorio. Inizia un processo che continuerà aenza interruzione fino ai giorni nostri: molti settori vengono profondamente ristrutturati e molti posti di lavoro vanno perduti. Oltre a ciò, le nuove tecnologie modificano in profondità le prestazioni di lavoro, provocando un accrescimento del ruolo centrale assunto dalle nuove competenze tecniche nell'ambito dei processi produttivi, nonché una maggiore autonomizzazione delle prestazioni di lavoro subordinato. Tali modelli organizzativi finiscono con l'accentuare la crisi di rappresentanza del sindacato. IL LAVORO E I LAVORI. Questi nuovi scenari lasciano piuttosto spiazzato il diritto, abituato a muoversi molto più lentamente delle trasformazioni sociali ed economiche. Anche il diritto del lavoro viene a trovarsi abbastanza impreparato a fronteggiare le nuove modalità di organizzazione, dimostrando l'inadeguatezza delle sue tradizionali categorie, in particolare quella centrale della subordinazione, pensata chiaramente per un contesto di lavoro industriale. Il prototipo del lavoratore a tempo pieno e indeterminato della medio-grande fabbrica, si sgretola sotto la spina di diversi fattori: tra questi, la diffusione di nuovi lavori indotti Un altro intervento è il decreto che nel 1994 riforma completamente la tematica della sicurezza sul lavoro, fino ad allora rispondente in prevalenza a una logica di tipo risarcitorio e ora imperniata su politiche di prevenzione e di controllo. Altri importanti provvedimenti sociali riguardano l'inserimento al lavoro dei disabili, la tutela lavorativa dei minori e il lavoro degli extracomunitari in presenza di fenomeni ormai massicci di immigrazione spesso clandestina. LA PRIMA LIBERALIZZAZIONE ORGANICA DEL MERCATO DEL LAVORO. Gli interventi più incisivi sono quelli relativi al mercato del lavoro, profondamente modificato dalla normativa conosciuta col nome di pacchetto Treu (giuslavorista che nel 1997 è ministro del lavoro). Esso, oltre a ritoccare istituti come i tirocini e l'apprendistato, introduce per la prima volta nel nostro paese il lavoro interinale (cioè quello intermediato da un soggetto terzo), che, fino a quel momento, era severamente vietato (l'istituto, nel 2003, sarà ridefinito "somministrazione" e sottoposto a nuova regolazione). Nel contempo, si diffonde nella prassi il lavoro PARASUBORDINATO, legittimato da alcune previsioni legislative che lo contemplano dal punto di vista previdenziale e della sicurezza del lavoro. Si tratta di un tipo di rapporto di lavoro nel quale si stemperano le rigidità dell'alternativa autonomia subordinazione, e che, in breve, viene identificato con la sigla co.co.co., acronimo dell'espressione collaborazione coordinata e continuativa, utilizzata dal legislatore per designare una fattispecie di lavoro autonomo, meritevole però di alcune tutele tipiche del lavoro subordinato. Questo rapporto di lavoro comincia a diffondersi a macchia d'olio, soprattutto grazie al suo minor costo rispetto al lavoro subordinato e alla sua natura temporanea. A fine secolo i rapporti di lavoro "stabili" diminuiscono davvero in maniera sensibile. Nel 2000, poi, in attuazione di una direttiva comunitaria, si opera una riforma del lavoro a tempo parziale. Infine, la RIFORMA FEDERALISTA DELLA COSTITUZIONE, realizzata nel 2001, con riferimento alla nostra materia solleva un problema di competenze, a causa della non felice tecnica legislativa utilizzata. Il nuovo art. 117 co. 3 attribuisce, infatti, alla competenza legislativa concorrente Stato-regioni la tutela e sicurezza del lavoro. La Corte costituzionale, comunque, esclude immediatamente un'interpretazione della norma nel senso della possibilità per ognuna delle regioni di legiferare in materia di rapporti di lavoro: ipotesi che avrebbe potuto compromettere la tutela lavoristica statale unitaria, frammentando la materia in tanti piccoli diritti regionali, con palesi incongruenze in termini di eguaglianza tra i lavoratori, confermando la riconducibilità delle regole del contratto e del rapporto di lavoro all'ambito della competenza esclusiva statuale. IL SINDACATO, LA RAPPRESENTANZA E UN EVENTO INATTESO. Sul versante collettivo, si fanno sentire gli effetti dei protocolli trilaterali. Nel 1994 si cominciano a votare in tutte le aziende le RAPPRESENTANZE SINDACALI UNITARIE, le quali incarnano un rapporto più democratico tra lavoratori e sindacato ufficiale. Il sindacato confederale, tuttavia, è percorso da tensioni interne, in larga misura effetto del prevalere delle pratiche concertative rispetto a quelle rivendicative: la crisi di adesioni prosegue senza soste, insieme a un certo distacco dalla società civile. La sinistra radicale nel 1995 propone addirittura un referendum sull'art. 19 dello statuto dei lavoratori per estendere a tutte le organizzazioni dei lavoratori, il diritto di costituire rappresentanze aziendali. La norma che emerge dall'esito parzialmente abrogativo della consultazione finisce però per valorizzare la capacità negoziale di un sindacato anche di livello meramente aziendale. Nel 2000, infine, si fa una sorta di tagliando alla legge sullo sciopero nei servizi essenziali, ritoccandone alcuni punti. Il diritto del lavoro dell'ultimo scorcio del 20° sec, ai tempi della sinistra è completamente calato in uno scenario che in tante discipline viene definito POSTMODERNO; espressione che, in parole più povere, sta ad indicare un estrema frammentazione, destrutturazione e complessità. Nel nostro campo ciò è vero in maniera particolare, poiché crollano certezze fino ad allora apparse tetragone; il diritto del lavoro appare in crisi d'identità e tanti ne intravedono la fine. Lo stesso statuto epistemologico della materia rischia di perdere ogni coerenza immerso peraltro in un contesto nel quale il liberismo economico, proposto in giro per il mondo e l'esaltazione del pensiero unico d'impresa sta poco alla volta affermandosi come dato quasi scontato, sembrando dare ragione a chi parla addirittura di fine della storia, nel senso che l'affermazione dell'economia di mercato in tutto il mondo costituirebbe una sorta di stadio finale di un'evoluzione, e con essa dell'idea di progresso. In questo quadro così complesso, un evento improvviso e tragico, un colpo di coda del terrorismo, segna gli ultimi anni del secolo. Nel 1999, le Nuove brigate rosse uccidono D'ANTONA, giuslavorista, individuando in lui il simbolo della mediazione, della concertazione, del dialogo tra capitale e lavoro. L'ALBA DEL TERZO MILLENNIO. IL CONTESTO EUROPEO. Ogni inizio di secolo porta quasi automaticamente nuove speranze e fiducia nel futuro; il 2001, che non è più data da film di fantascienza, coincide, poi, addirittura, con l'inizio di un millennio e le profezie new age su una nuova era di pace si sprecano. Il brusco risveglio avviene l'11 settembre di quell'anno, con l'attacco alle torri gemelle di New York: il mondo ripiomba in un'atmosfera di paura e di panico contro un avversario invisibile, che non è soltanto l'integralismo islamico. Tutti sono ormai connessi in rete e vivono molto più virtualmente che realmente. L'occupazione dei nuovi miti è praticamente completata: l'ideale è apparire, cercare successo, fama e soldi facili; tra le voci ormai poco trendy, insieme a impegno, critica, etica, c'è anche lavoro. Il lavoro di inizio secolo è profondamente diverso rispetto al passato: quella che evocativamente viene chiamata TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE. Fondata sulle ICT e sulle energie rinnovabili, si sta ormai assestando. In Italia, il settore terziario è in forte espansione,mentre l'agricoltura è sempre più marginale e in molti casi arretrata e assoggettata a ricatti malavitosi; dal canto suo, si fa strada un'industria di punta, ipertecnologica, dove la fabbrica è ormai un luogo asettico in cui operai in camice bianco lavorano su sofisticati apparati elettronici; mentre l'innovazione tecnologica spinta moltiplica le imprese di medio piccole dimensioni, che devono rispondere con rapidità all'evoluzione delle tecnologie e alle richieste del mercato, che perciò nascono e spariscono altrettanto rapidamente,con ovvie conseguenze di precarietà per chi ci lavora. I lavori pesanti esistono sempre, nell'industria,nell'agricoltura e nei servizi: ma li svolgono sempre meno gli italiani. Il contesto generale nel quale si trova a operare il nostro paese è segnato dallo sviluppo veloce dei processi di globalizzazione ed europeizzazione iniziati negli anni precedenti, in cui le istituzioni sovranazionali e quelle dell'economia globale svolgono un ruolo sempre più importante. In particolare, l'UE si allarga fino a comprendere 28 paesi, anche dell'ex blocco comunista, con conseguenti problemi di adeguamento e omogeneizzazione delle regole di tutela in materia di lavoro. Una Costituzione europea viene firmata solennemente a Roma nel 2004, ma viene bocciata l'anno dopo da due referendum in Francia e in Olanda. Il trattato di Lisbona del 2007 cerca di rimediare alla situazione, richiamandola nella sostanza, ma escludendo formalmente ogni riferimento alla parola Costituzione. Il trattato opera anche importanti modifiche del trattato costitutivo originario, che ne arricchiscono i principi e gli obiettivi sociali. In particolare, viene conferito valore vincolante alla Carta dei diritti fondamentali; tra questi, spiccano importanti diritti riguardanti il lavoro. Per contro, la presenza dell'euro, dal 2002 solida moneta unica di molti paesi assegna alla Banca centrale europea il compito di ricoprire un ruolo di controllo delle economie nazionali, e alle istituzioni dell'Unione, in particolare al suo organo di governo, la Commissione europea, quello di CONTROLLO DELLE POLITICHE LEGISLATIVE, quindi anche le politiche del lavoro, degli stati membri. Si producono dunque pressioni,che normalmente vanno al di la di un mero intervento di soft law, cioè di semplice indirizzo normativo, in quanto si traducono in condizionamenti reali delle scelte governative: un fenomeno che crescendo produrrà qualche malcontento nell'opinione pubblica e in alcuni movimenti politici. IL DIRITTO DEL LAVORO DELL'ALTERNANZA PIU' FORMALE CHE REALE. Dopo anni di centrosinistra, dal 2001, e per tutto il primo decennio del 21° secolo, l'italia è governata dal centrodestra guidato da Berlusconi. A fronte di questo succedersi di governi di segno opposto, si parla di diritto del lavoro dell'alternanza in quanto le normative che si susseguono in quegli anni mostrano segni di opposte concezioni di politica del diritto, se non di vere proprie contrapposizioni ideologiche. Senonché, alla fine, il prodotto risulta più omogeneo di quel che si potrebbe pensare, forse anche per la mancanza di particolari fantasie strategiche circa gli strumenti da utilizzare. In un clima di forte contrapposizione politica e ideologica, il governo di centrodestra si pone immediatamente l'obiettivo di LIBERALIZZARE E DEREGOLAMENTARE IL MERCATO DEL LAVORO, a tal fine spesso modificando alcuni provvedimenti in precedenza approvati dall'opposto schieramento. Nel 2001, si interviene sul contratto a termine, nel senso di flessibilizzarne l'utilizzo. Nel 2002 si rivede in senso restrittivo la normativa sul lavoro degli extracomunitari, mentre l'anno successivo si affronta il tema dell'orario di lavoro,anche qui in una logica di grande elasticità nella gestione datoriale dei tempi di lavoro. Verso la fine del decennio, altri interventi legislativi riformano ampiamente la materia lavoristica. In primo luogo, trova attuazione la raccolta in codice delle norme sulle PARI OPPORTUNITÀ tra uomo e donna. Grandissima importanza hanno poi gli interventi sulla tutela della SALUTE E SICUREZZA sui luoghi di lavoro. Tra il 2008 e 2009 si susseguono infatti due leggi, le quali provvedono a riordinare il sistema, incentrandolo sulla prevenzione e sul controllo, temi basilari in un paese che conta ancora un numero impressionante di infortuni sul lavoro. Il secondo intervento modifica il primo in alcuni punti di rilievo non marginale, alleggerendo in parte alcuni compiti e responsabilità a carico delle imprese previsti dal primo. Nell'ultimo periodo del decennio ha luogo, poi, un'importante riforma del lavoro pubblico. La riforma Brunetta (dal nome del ministro per la funzione pubblica) depotenzia il ruolo centrale assunto negli ultimi anni dalla contrattazione collettiva, valorizza i poteri decisionali della dirigenza e rafforza le regole del sistema disciplinare del lavoro pubblico. Nel 2010 viene, infine, approvato il collegato lavoro (chiamato così perché collegato alla legge finanziaria di fine anno). IL DIRITTO DEL LAVORO INSAGUINATO E LA LEGGE BIAGI. Ma il provvedimento simbolicamente più importante di questa fase storica è senza dubbio la LEGGE BIAGI del 2003, così chiamata in memoria di Marco Biagi, il giuslavorista, collaboratore del governo di centrodestra, ucciso nel 2002 dalle Nuove brigate rosse, le cui rivendicazioni fanno intendere che anche questa volta si siano voluti colpire la mediazione e il dialogo tra capitale e lavoro: il terrorismo non fa distinzioni di scenario politico. La legge è preceduta, e ispirata, da un importante LIBRO BIANCO del 2001 sul mercato del lavoro, nonché da un accordo triangolare, il PATTO PER L'ITALIA del 2002, concluso tra governo e sindacati confederali. La nuova legge, improntata a una grande liberalizzazione dell'uso della forza lavoro, ha ad oggetto una revisione complessiva del mercato del lavoro, che viene segmentato e individualizzata attraverso la previsione di una molteplicità di tipologie contrattuali, tutte contrassegnate da temporaneità e da un generale affievolimento delle garanzie, mentre vengono favoriti i processi di esternalizzazione della prestazione e la contrattazione collettiva viene nel complesso resa sempre più derogabile. La normativa sul part- time viene liberalizzata. Le collaborazioni coordinate e continuative, utilizzate ormai nel nostro paese: il rosso della sinistra comunista e socialista, il bianco della pretesa liliale purezza cattolica e quindi democristiana, il nero minaccioso dei fascisti. Si prosegue, ora, con gli opportuni aggiornamenti: il partito democratico si trova a ereditare il rosso dei suoi predecessori, i berlusconiani scelgono l'azzurro delle nazionali sportive, la Lega il verde, il nuovo Movimento 5 stelle il giallo. Gli anni Dieci vedono un continuo rimescolamento di questi colori nelle compagini governative, anche se spesso le politiche del lavoro che ne derivano non sono cromaticamente tanto distinguibili. Nel 2011, il governo di centrodestra, ritenuto dai mercati non più affidabile né in grado di fronteggiare gli effetti nazionali della crisi economico-finanziaria in atto, viene sostituito da un GOVERNO TECNICO, non a caso presieduto da un ex commissario europeo, Monti. Si tratta di una scelta di fatto suggerita dalla necessità di dare assicurazioni ai mercati e a un'UE sempre più attenta agli interessi economico-finanziari e produttivi del capitale piuttosto che a quelli economico-sociali delle classi lavoratrici. Sparita ormai dall'agenda ogni prassi concertativa, si pone mano a un ulteriore ampia revisione della normativa sul mercato del lavoro, realizzata con la RIFORMA FORNERO (dal nome della ministra del lavoro). Essa rivede tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, sfronda e risistema le tipologie flessibili di rapporto di lavoro, ma soprattutto interviene sul delicato tema dei licenziamenti riscrivendo da cima a fondo l'ART.18 statuto dei lavoratori, che garantiva la reintegrazione in caso di licenziamenti illegittimi effettuati da imprese medio-grandi. La norma è considerata dal governo solo un feticcio difeso per mere ragioni ideologiche e ritenuto un ostacolo alla crescita e all'occupazione oltre che un dissuasore degli investimenti stranieri: il licenziamento illegittimo è ora quasi completamente monetizzato, diventando un costo ordinario dell'impresa. Dopo il sostanziale pareggio delle elezioni del 2013, si susseguono 3 governi di COALIZIONE TRA CENTRODESTRA E CENTROSINISTRA. Di importante in questi anni c'è un testo unico del 2014 che riscrive le regole della rappresentanza nei luoghi di lavoro; una legge che, con l'obiettivo di arginare il caporalato, introduce il reato di sfruttamento del lavoratore approfittando del suo stato di bisogno, e soprattutto una riforma normativa complessiva, esterofilamente chiamata JOBS ACT, e da qualcuno poi distinta in atto I e atto II: le deleghe risistemano ancora una volta il tema degli ammortizzatori sociali e dei servizi ispettivi, flessibilizzano alcuni contenuti del rapporto di lavoro, liberalizzano ancora di più la licenza di licenziare dell'imprenditore, rendono la norma lavoristica sempre più derogabile e rinviano continuamente alla contrattazione collettiva, ormai solo allo scopo di ridurre le tutele. Sono tanti quelli che leggono la norma come un peggioramento della condizione dei lavoratori, messo in atto peraltro da un governo che afferma di essere a guida di sinistra. IL LAVORO POVERO AGLI INIZI DEGLI ANNI 20. Lo scenario che si presenta agli inizi degli ANNI 20 pare proiettare prospettive ancora più inquietanti per il mondo del lavoro, inserito in un contesto che va sempre più individualizzandosi, sia a livello di un comune sentire man mano più egoistico sia a livello di politiche sovraniste degli Stati nazionali: singoli e Stati sono ora pronti più ad alzare muri nei confronti degli altri che a percorrere le strade dell'integrazione e della solidarietà, pervasi da un populismo quasi senza precedenti. L'Europa non è più sentita come casa comune ma come gabbia dalle cui regole burocraticamente oppressive si cerca di evadere nel modo migliore (come Regno Unito con la Brexit). La digitalizzazione del mondo è praticamente completa, e di sicuro non erige muri. Il mondo del lavoro però, si dibatte tra settori assoluta avanguardia e ad altissimo sviluppo tecnologico, nella loro ennesima versione, che convivono tranquillamente con sacche di lavoro nero quasi preindustriale, spesso abbandonato alle mafie. È un mondo, quello di oggi, nel quale i ricchi lo sono sempre di più e il dislivello coi poveri si incrementa esponenzialmente. Eppure il conflitto di classe, in un contesto nel quale peraltro le ideologie contano sempre meno pare del tutto non percepito o al più ammorbidito, a meno che non lo si voglia intendere alla rovescia, nel senso che è da qualche tempo iniziata la lotta di classe dei ricchi contro i poveri, e i primi la stanno vincendo alla grande, riducendo i livelli di welfare, dequalificando la formazione, divaricando la forbice tra le retribuzioni dei vertici e quelle della base. Il lavoro di questi anni è, quindi, POVERO e ancora più PRECARIO, difficile da trovare e difficile da conservare. Come sempre, poi, per le donne la situazione è ancora peggiore, perché all'abituale aggravamento costituito dal lavoro domestico e di cura si aggiunge la sottorappresentazione del lavoro femminile, la cui manifestazione più evidente è costituita dai dislivelli salariali a parità di mansioni svolte. Quindi, il lavoro di questi anni somiglia ormai molto poco alla sua visione novecentesca. Oltre ad essere precario, è fin troppo spesso POCO DIGNITOSO: in una parola, è POVERO, sia in termini di retribuzione che di contenuti professionali. Lavorare non significa più, come prima, possedere garanzie, sicurezza e dignità. IL MUTAMENTO DELLA FUNZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO. In un contesto del genere, quasi naturalmente, si assiste a un fondamentale MUTAMENTO DI FUNZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO, nel quale l'asse di protezione si sta spostando, da un lato, dal generale al particolare e, dall'altro lato, dall'interno all'esterno del rapporto di lavoro; con la conseguenza che le regole di tutela del lavoratore si trasformano in modo significativo. Da quelle classiche, espansive delle protezioni del lavoro, fissate nel dopoguerra dalla legge e dall'autonomia collettiva grazie alla crescente spinta politica e sindacale dei lavoratori, si passa a quelle contemporanee del riflusso e regresso protettivo, rispondenti ai soli fragili rapporti di forza dell'autonomia collettiva aziendalizzata e dell'autonomia individuale. Da quelle centrate sul lavoratore della grande impresa industriale taylorista-fordista, subordinato sì, ma forte e orgoglioso del suo lavoro stabile e duraturo, certo della continuità retributiva da questo assicuratagli, a quelle centrate sul lavoratore dell'azienda post-fordista dei servizi, precario e insicuro nel suo lavoro instabile, impoverito dalla discontinuità retributiva e sempre confidante in quelle regole provvidenziali che lo Stato sociale è in grado di assicurare (es. reddito di cittadinanza che parte nel 2019). Per non parlare di chi lavora in nero, che un contratto di lavoro non ce l'ha affatto, o di chi lavoricchia da qualche parte, anche grazie alle infinite possibilità offerte dalla rete, magari con un contratto che non viene neanche più definito di lavoro. È questo, appunto, il DIRITTO DEL LAVORO NUOVO, che va perdendo l'originario spirito di tutela imperativa ed inderogabile della parte più debole del rapporto, per diventare quasi un diritto di TUTELA DELLA PARTE FORTE. Naturalmente, solo il volgere del tempo ci farà capire, con il fondamentale contributo dell'attività dei giudici, quali nuove forme assumerà il diritto del lavoro italiano, che del resto nel corso degli anni non è mai stato uguale a sé stesso. E d'altronde, la sua vicinanza all'economia e alla politica, ormai non più solo nazionali, ma europee e mondiali, ha fatto si che fino ad oggi le sue mutazioni siano state fatte dipendere da quelle, incerte e spesso imprevedibili che hanno interessato le scelte economiche e politiche assunte anche altrove. È questo, peraltro, l'effetto dell'attribuzione al diritto del lavoro di una sorta di dipendenza naturale da quello scelte dimenticandosi quanto questo ramo del diritto sia strettamente connesso alla tutela di valori, principi e diritti che innervano il lavoratore non solo in quanto contraente debole e cittadino sotto protetto ma anche in quanto persona. Il problema appare, allora, quello di comprendere quale ruolo si intende assegnare al lavoro come fattore costitutivo delle moderne società postindustriali e di come collocarlo all'interno di un possibile cambiamento strutturale dei modelli economici di riferimento, che appare ormai agli occhi di tanti necessario. Al momento, l'art. 1 della Costituzione assegna al lavoro il ruolo determinante del patto fondativo della nostra Repubblica, come fattore di emancipazione verso l'eguaglianza sostanziale dei cittadini. L'attuale situazione ci dice che di certo, nell'ultimo trentennio, a questa indiscussa primazia non sono corrisposte adeguate politiche legislative. E il diritto del lavoro odierno finisce per somigliare a quello selvaggio dal quale questo percorso è partito.
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