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Riassunti storia dell'arte contemporanea 1, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunti dal Post-Impressionismo al Dada.

Tipologia: Sintesi del corso

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alessandra-sapienza 🇮🇹

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Scarica Riassunti storia dell'arte contemporanea 1 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! POST-IMPRESSIONISMO 1910, Grafton Galleries, Londra: il critico d’arte Roger Fry (1866-1934) denomina per la prima volta il gruppo di artisti invitati alla mastra Manet and the post impressionist, per l’appunto “post impressionisti”, a rimarcare la volontà di superamento delle istanze percettive ottiche di quella generazione ed il recupero dell’emozione estetica e del carattere simbolico propri dell’arte e non della natura. Egli stabilisce un nesso tra i cosiddetti “primitivi” italiani (Bellini, Masaccio, Signorelli tra tutti), Rembrandt e pittori come Renoir, Matisse e, soprattutto, Cézanne, recuperando alla pittura il concetto di forma. Il post impressionismo inizia a determinarsi nel 1886, data dell’ultima mostra impressionista, coincidente con l’arrivo a Parigi di Vincent van Gogh. Il nuovo orientamento ruota intorno ai nomi di Georges Seurat (1859-1891), Paul Gauguin, lo stesso Van Gogh, Paul Cézanne. Seurat e Paul Signac, che richiamano l’attenzione di pubblico e critica verso una differente logica compositiva meditata, geometrica, coerente, retta da una tecnica del tutto differente da quella degli Impressionisti: il pointillisme, magistralmente espressa da Un dimanche après-midi à l'Île de la Grande Jatte (1884- 86) di Seurat. La stesura piatta di una miriade di puntini di colore puro accostati a formare con più esattezza l’effetto della luce naturale. Le ricerche ottico-percettive di Seurat giungono ad una sintesi matematica estrema nelle opere immediatamente precedenti la sua morte prematura. In Le Chaut. In Blanc è riportato un grafico (p. 36) che rappresenta tre sagome di viso identiche, le quali mutano espressione (triste, neutra, allegra) al solo mutare della direzione data ai segmenti su di esse. L’allegria che suscita la visione di un can can e d’un’orchestra che lo suona è, per conseguenza in Seurat, retta dal continuo ripetersi di segni a V sui nastri delle scarpe delle ballerine, sulle code di frac, sui baffi all’in su, sulle labbra, sugli svolazzi. Tra il 1886 e il 1888 si intensifica l’interesse intorno all’opera di Seurat ed alla sua nuova tecnica pittorica, in un circolo di artisti, poeti e critici che va sotto titolo di “Petit-boulevard”. Essa ha come oggetto la vita metropolitana e moderna. Un esempio è l’opera Avenue de Clichy alle cinque del pomerigio. Per tale opera quest’ultimo conierà il termine “cloisonnisme”, rifacendosi alla modalità orafa e delle vetrate medievali, per un modus fatto di campiture piatte (à plat), bidimensionali, non modulate, circoscritte entro alveoli disegnativi rimarcati e netti. Paul Gauguin 1887 lascia Parigi alla volta del Centro America, è alla ricerca di una visione primitiva che la metropoli non può esprimere. Ritornerà quindi in Bretagna un fondamentale dipinto dello stesso anno: La visione del sermone. L’opera, che fece scalpore al punto d’essere rifiutata da ben due chiese; Il taglio netto della scena in due parti, distinte per il mezzo di un tronco d’albero, che determina una paratassi; La lotta tra Giacobbe e l’angelo, in cui il primo, a differenza di Genesi 32, 24-34 sembra soccombere. Il tutto su di un fondo rosso immaginifico ed innaturale. Nel 1888 Van Gogh voleva radunare un gruppo di artisti ad Arles, per farli allontanare dalla metropoli. (Atelier du Sud), soltanto Gauguin lo raggiunge. Gauguin ricerca una pittura basata sulla memoria, la visione e il simbolo, van Gogh pone a fondamento della sua opera la realtà. I due si separano. Van Gogh cerca comunque di creare un quadro con gli ideali dell’amico, Ricordo del giardino di Etten. Notte stellata del 1889, ancora van Gogh dipinge “a memoria”. Ma la grandezza super naturale di quella notte, la suprema e misteriosa animazione della volta stellata a contrasto con l’immobilità del minuscolo villaggio d’uomini sotto di essa, partono comunque da un dato oggettivo, concretamente visto ed esperito dall’artista. Il Gruppo “Nabis” (dall’ebraico Nabi/Nebim, oratore, annunciatore, profeta) si forma nel 1889 intorno alle suggestioni suscitate da un quadro di Paul Sérusier (1864-1927) intitolato Il bosco d’amore (altrimenti noto come Il talismano). Si tratta di un’opera suggerita al suo giovane allievo da Paul Gauguin, che gli raccomanda di concentrarsi, d’allora in avanti (1888), su stesure piatte e giustapposte di colori, trascurando la ricerca di un’immagine realistica della scena. Nel gruppo vi è chi si limita alla descrizione della vita metropolitana e moderna (Bonnard, Vuillard), chi si spinge invece in una direzione spirituale ed esoterica, in senso cattolico (Denis) o teosofico (Sérusier, Ranson). Nasce la Teosofia la quale tende ad una concezione della conoscenza divina riservata ad un ristretto gruppo di iniziati miranti alla diffusione gnostica ed esoterica della via di ritorno all’Uno primordiale. I Nabis ebbero grande influenza sulla società francese del tempo. Possiamo definire Nabis anche i compositori Erik Satie (1866-1925) e Claude Debussy (1862-1918), entrambi iscritti all’Ordine cabalistico della Rosacroce (dal 1891), entrambi impegnati in una profonda ricerca alle origini della musica mediterranea e dell’oriente antichi. Nello stesso anno in cui Sérusier elabora il suo talismano (1888), Satie inizia uno studio progressivo verso la musica greca antica e le sue modalità coreutiche. Nascono così le Gymnopédies, cui fecero seguito le Gnossiennes (1890) e la Mort de Socrate (1918). Nella prima opera la sua riflessione si concentra sulle antiche feste primaverili spartane. Nelle Gnossiennes Satie riflette invece sulla civiltà rodio cretese e micenea, e sul mito labirintico del Minotauro in particolare. La pratica dell’affiche sarà dunque una costante dagli anni novanta, contribuendo non poco alla qualificazione estetica dei sistemi pubblicitari di beni industriali d’uso e consumo, In tal senso i Nabis devono essere considerati tra i maggiori propulsori della pubblicistica a stampa di fine secolo. Le Symbolisme en peinture: Paul Gauguin. In reazione al naturalismo propugnato dagli Impressionisti, Auriel trova in cinque punti la natura idealista della pittura che fece loro seguito in Francia: 1. Ideista, poiché unico suo fine è l’espressione di un’iidea; 2. simbolista, perché esprime tale idea attraverso le forme; 3. sintetica, perché dipinge quelle forme in una maniera di comprensione generale; 4. soggettiva, poiché l’oggetto dipinto è sempre frutto di quell’idea individuale; 5. decorativa, come conseguenza. Gauguin parte per Tahiti ma ancora una volta il suo viaggio sarà deludente perché non trova la visione primitiva che stava cercando. Cèzanne cercerà per tutta la vita un punto di equilibrio tra realtà ed immaginazione, tanto nella pittura di paesaggio quanto nei soggetti da studio, di natura morta o umani che fossero. Di questi ultimi, velati da un profondo e contenuto erotismo (vedi la serie de le bagnanti), egli fece uno studio geometrico e volumetrico spasmodico. Natura morta con amorino di gesso (1895 ca.), il cui scorcio prospettico è di una complessità estrema. SIMBOLISMO Il Simbolismo è da considerare un punto di cardine tra Otto e Novecento, anche se non è possibile stabilire né il punto del suo inizio né, ad oggi, quello della sua fine. Sotto il profilo letterario esso ebbe una prima sistematizzazione con l’opera Le Symbolisme di Jean Moréas. Il testo di Moréas è riferito alla poesia, ma se ne avverte chiara la volontà di estensione al mondo dell’arte. teorico più autorevole del Simbolismo in pittura fu il pittore Émile Bernard in Le Symbolisme pictural. Un’arte che tende a dare forma plastica e figurativa all’invisibile delle idee e di ciò che in psicanalisi verrà detto inconscio: antinaturalista, antirazionale, spirituale, iniziatica. Fortemente intrisa di suggestioni esotiche e primitive, di significati nascosti, di visioni oniriche, fiabesche, mitopoietiche, al limite estremo tra poesia e follia. Maggiori esponenti sono Pierre Puvis de Chavannes e di Gustave Moreau. De Chavannes: il suo ruolo e la sua importanza nella formazione di un linguaggio simbolista sono stati a lungo misconosciuti o rifiutati del tutto. Quando se ne parlava, se ne parlava in una forma di ammirazione al negativo. Ma la verità sta nel fatto che il suo sguardo gettato sul classicismo è uno sguardo del tutto nuovo. Moreau: Malgrado il suo solido impianto classicista, negli anni sessanta e settanta la sua pittura s’intride di suggestioni misteriose. La sua pittura si fa dunque simbolica, spirituale, se non del tutto del divino. Uno dei temi maggiormente affrontati dai simbolisti europei è Salomè. In Moreau l’episodio biblico assume i caratteri di visione miracolosa e surreale, con una Salomè intrisa di suggestioni indiane che addita la testa del Battista in ascensione, avvolta nella sua aura di luce vincitrice. L’Apparizione di Moreau è di profondo interesse anche per il tratto incisorio che contraddistingue i piani prospettici, consentendo l’emersione delle figure e dei partiti architettonici dallo sfondo. Questa particolare attenzione per le tecniche incisorie è un secondo motivo che ritorna tra i simbolisti. Prova ne sia Odilon Redon (1840-1916), che si forma, tra gli altri, alla bottega di Rodolphe Bresdin. Redon ne deriva una passione per le tecniche litografiche, per le “ossessioni notturne” e melancoliche - tanto care, più avanti, ai Surrealisti – e per il valore simbolico del loro colore nero. La poetica dell’invisibile reso visibile è fortemente presente in Redon come in Moreau; e come in Moreau ritorna in lui il tema delle teste mozzate (Dans le rèvé, 1879). Redon dedica a poeti simbolisti parte delle proprie opere e la sua fu una “filosofia pessimista nel segno delle ombre”, da cui emergono temi angosciosi di natura intima, personale, ma anche sociale, come la follia e la violenza del potere. Maurice Denis (1870-1943) è più giovane, appartiene alla generazione dei Nabis e ne fa parte. Le sue forme simboliche sono depurate e declinate prevalentemente al femminile. Anche l’uso 2) Cézanne, Gauguin, Van Gogh; 3) i Nabis (con particolare riguardo a Denis, Sérusier e Bonnard); 4) la “via nordica” indicata da Ensor e Munch; 5) artisti più “isolati” come Moreau, che tanta parte ebbe nella formazione di Matisse, per sua stessa ammissione, e dei Fauves in generale. I due filoni principali dell’Espressionismo europeo d’inizio novecento sono dunque francese e tedesco, con alcune differenze. L’Espressionismo francese mantiene un legame con i suoi precedenti post impressionisti, tanto che è possibile stabilire nessi sodali tra Nabis e Fauves, ad esempio, come in una sorta di continuità storica e stilistica. L’Espressionismo tedesco ha alle spalle un forte retaggio estetico e teoretico, che tende a spingersi sino alle soglie del “brutto”, nonché alle valenze negative dei soggetti urbani. Eccezioni rimangono, in questo duopolio, le esperienze di autori come il russo Vasilij V. Kandinskij il quale, da teorico dell’arte, più di altri spingerà la ricerca dalle prime istanze di Blaue Reiter verso il successivo Espressionismo astratto. A Parigi, durante il Salon d’automne del 1905 un gruppo di artisti viene definito Fauves (belve) dal critico Louis Vauxcelles (1870-1943), riferito principalmente alla violenza dei colori ivi adottati. ( Matisse) A Dresda, un gruppo di studenti di Architettura fonda nello stesso 1905 la cosiddetta “comunità di artisti” Die Brücke. Nel 1911 il gruppo si trasferirà a Berlino, Infine si scioglierà nel 1913, lasciando dietro di sé una scia di polemiche tra i suoi componenti. A Monaco di Baviera, nel 1911 un gruppo di artisti tedeschi e russi fonda Der Blaue Reiter (Il Cavaliere azzurro). La pubblicazione accoglie una sezione dedicata alla musica, riconoscendo, nei fatti, un legame indissolubile tra le due arti giovani d’inizio XX secolo. L’esperienza Fauves è, innanzitutto, una storia di amicizia, di serrati confronti e di scambi fra tre dei suoi fondatori: Matisse, Vlaminck e Derain i quali fecero riferimento al poinillisme di Signac. Essi sono da considerare, pertanto, “la triade del fauvisme”: Matisse più classico, Vlaminck, autodidatta e passionale, Derain colto (al gruppo si unirà, brevemente, anche Georges Braque, 1906-1907). Caratteri fondamentali: - La pittura a partire da punti di colore puri che si dilatano sempre più fino a divenire macchie sempre più ampie, piatte e bidimensionali; - Il contorno del disegno determinato da pennellate scure; - la composizione di stesure cromatiche piane, di tonalità calda, su accordi di rosa e d’arancio in simbiosi con la natura e con la musica. La felicità di vivere di Matisse (1905-1906) riassume tutti quei caratteri e determina il passaggio dalle sperimentazioni preliminari del gruppo a una maniera più compiuta, consapevole e matura. L’opera è, peraltro, in stretta connessione con una composizione di Debussy, Prélude à l'après-midi d'un faune (Preludio al pomeriggio di un fauno, 1894). Il dipinto La Musique segna il definitivo viraggio dei Fauves dalle meditazioni intorno all’opera ed alla tecnica di Seurat e Signac, al simbolismo di Gauguin e Sérusier Matisse dichiara interesse per l’arte negra, d’un lato, e per le armonie compositive, dall’altro. Maurice de Vlaminck si ipirò alle dinamiche, curve, rotatorie, vertiginose di Van Gogh. Esempio: Paesaggio nei dintorni di Chatou (1906), che è tutto compreso in volumi atmosferici centripeti, marcati dalla stesura del colore senza pennello, direttamente dal tubetto. Una modalità che rispecchia il suo carattere acceso, totalizzante e ribelle, per sua stessa ammissione: «Che cos’è il fauvismo? Sono io.» La triade del fauvisme diede a Cézanne molta importanza, sotto il profilo compositivo (in Matisse) vedutistico (in de Vlaminck, soprattutto dopo il 1907) e luminstico (in André Derain). Le sperimentazioni delle correnti post impressioniste in Germania si faranno sentire poco più tardi. Ad esempio, sembrano assenti dal dibattito sulle arti le istanze neo impressioniste; la lezione di Cézanne è meno avvertita e più distante; quella cubista verrà assimilata in forme più spigolose, che guardano alla tradizione gotica nord europea; la cultura artistica francese di fin de siécle sembra arrivi agli espressionisti tedeschi per diverso tramite, principalmente di Van Gogh, di Munch e di Ensor. Il tutto in un quadro culturale che si conferma, come per l’esperienza simbolista, intriso di suggestioni filosofiche, estetiche ed esistenziali portate agli estremi della percezione e della psiche umane. Uno dei focolai si accende presso l’Accademia di Belle arti di Dresda, dove ancora ai primi del Novecento si imponeva una pittura impressionista “densa e pesante”, ma anche vi fiorisce una scuola di giovani. È qui che si fonda Die Brüke (Il Ponte), intorno a personalità di spicco come Ernst Ludwig Kirchner; è qui che l’espressionismo tedesco si consolida anche in un campo tecnico-esecutivo ben preciso, la xilografia, che caratterizzerà in prevalenza le iniziali prove del gruppo, radicandolo di più e maggiormente alla tradizione tardo-gotica e rinascimentale germanica, consentendogli una forma espressiva meditata, netta, angolosa, al confine con l’artigianalità del processo ideativo. I suoi dipinti sono forse tra quelli che maggiormente si attestano sul registro della incomunicabilità, tra l’artista e il mondo esterno, tra l’uomo e la natura, e dell’angoscia esistenziale che tale invisibile barriera gli provoca. Ma è anche il più vicino a Matisse nel suo anelito alla “gioia sensibile” per i fenomeni, da potere raggiungere, tuttavia, solo in forme simboliche. Altra personalità di spicco di Die Brüke è Erich Heckel, che condivide con Kirchner una medesima ansietà del vivere che si esprime in una serie di opere ritrattistiche, paesaggistiche o dell’adolescenza tutte enigmatiche ed ossute, al contempo accese di colori innaturali, psichici nella pittura, oppure scavate in segni di bulino netti e squadrati, con campiture di fondo unite, nella xilografia. Il carattere espressionistico si accentua ulteriormente in Karl Schmidt-Rottluff, il quale porta i soggetti dipinti ad una frantumazione e deformazione che potremmo dire di prospettiva instabile, sghemba, disordinata, scomposta in tutte le direzioni, al punto che la superficie del quadro sembra non contenere l’opera stessa. Malgrado la sua tavolozza sia dichiaratamente fauve, egli sembra tuttavia rigettare la ricerca di armonia e di equilibrio. Troviamo, accanto alla triade del Die Bruke, Max Pechstein. Egli era vicino ad una deriva esotica (dal 1913) verso le isole Palau (nell’Oceano Pacifico), che ripercorre le istanze di alterità e l’esperienza estetica e di viaggio di Gauguin. Del gruppo di Dresda, sarà il primo a trasferirsi a Berlino (1910), dove è socio fondatore e Presidente della Nuova Secessione. A Dresda, Emil Nolde è il meno propenso ad accogliere la spigolosità xilografica e gotica, tipica dei primi anni di Die Brüke. Una volta trasferitosi a Berlino (1911) e fino al suo scioglimento (1913), Die Brüke ingloberà le personalità di altri artisti, di diversa provenienza, compreso Oskar Kokoschka per impulso del suo amico architetto Adolf Loos (1870-1933). Il loro sodalizio non fu solo amicale ma di idee, entrambi contrari ad ogni forma di decorativismo e propugnatori di un formalismo asciutto. Loss verrà ricordato per la sua opera protorazionalista, Kokoschka fornirà il maggior contributo all’Espressionismo tedesco con una serie di dipinti e ritratti di un’iconografia, un’ambiguità spaziale ed una liquidità di colore del tutto inediti, in parte derivantigli dalla lezione di Gustav Klimt. Un secondo e più complesso ambiente e gruppo si forma in Baviera, a Monaco, dal 1911 fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale (1914), che ne determinò la fine sostanziale; in virtù della sua posizione geografica, al crocevia con la cultura secessionista viennese e con la frontiera orientale. Qui si forma Der Blaue Reiter (il Cavaliere azzurro), sotto l’egida di Vasilij Kandinskij e Franz Marc. Insieme organizzano la prima mostra. Complesso perché attratto ed assorbito da molteplici interessi cosmopoliti ed interdisciplinari come alle arti decorative ed applicate o per ogni forma di esotismo (oceanico, asiatico orientale, magrebino, precolumbiano). Parteciparono una molteplicità di artisti internazionali. Troviamo anche, come espressione completa, l’interesse per la musica e per la danza,come strumento complementare e necessario all’ arte per l’accostamento al divino. Un altro elemento di complessità sarà dato dall’interesse di Kandinskij e sua moglie Gabriele Münter per una spiritualità esoterica (accosta al mondo slavo come alle dottrine asiatiche) che sfocerà, come tra i Nabis, in aperta adesione alle Società teosofica ed antroposofica. Troviamo, infatti, il rapido e sistematico abbandono del figurativo in Kandinskij. Non c’è mai un’unica direzione in Der Bleau reiter, in costante bilico tra spiritualità, astrattismo, simbolismo e realismo pittorico ed esistenziale. Un punto su cui concordano tutti i componenti del gruppo, è l’importanza del colore e la scoperta del suo valore fortemente simbolico; il blu è il colore più spirituale, il giallo è il colore più terreno. La ricerca di Franz Marc in quel torno di anni (1910- 1913) è centrata su di una tavolozza fauves, segnata dai colori puri (blu, giallo, verde, rosso), mai improntati ad un simbolismo elementare. La questione simbolica si risolve in uno sguardo innocente gettato sulla natura e sugli animali che la animano (cavalli, cani, gatti, volpi, cerbiatti). Tra i componenti del “Cavaliere azzurro”, quello più estraneo ad indagini spiritualistiche e votato primariamente alla città, al suo modernismo, è August Macke, intimo amico di Paul Klee e convinto assertore della lezione parigina e Fauves in particolare. La sua indagine è, pertanto, più tecnicista, materialistica, rispetto agli altri. Paul Klee è tra i più grandi pittori del secolo, il suo amore per la natura è filtrato da un’assidua e purissima costruzione di forme geometriche non euclidee, tutte interiori, come attraversate nel sogno. Vi si ravvisa anche un’attitudine infantile al disegno. CUBISMO L’origine del termine Cubismo si rifà al 1908 e deriverebbe da alcuni giudizi che Henri Matisse diede di certe case dipinte da Jean Metzinger e Robert Delaunay. Nomi importanti sono Georges Braque, Pablo Picasso, Juan Gris e Fernand Léger. Abbiamo due fasi: la prima è, appunto, quella affermatasi dal 1907 in avanti; la seconda si definisce intorno al 1910, ed è quella dei cosiddetti “Cubisti di Montparnasse”. Le principali novità del Cubismo riguardano l’elaborazione dello spazio, della prospettiva e del tempo. Nelle forme del Cubismo propugnate da Picasso e Braque, tale elaborazione sembra essere autonoma, poetica ed esente da condizionamenti esterni. Il Cubismo di Montparnasse vuole dimostrare che la realtà delle cose non è mai così come ci si presenta all’apparenza immediata, ma distorta da fattori fisici, percettivi e psichici. (Albert Einstein, teoria della Relatività) La figura di Pablo Picasso è riconosciuta tra le più grandi ed autorevoli del Novecento. Ma il suo esordio parigino (1901-1904) è possibile definire con certezza “periodo blu”, egli immerge una galleria di uomini e donne notturni e metropolitani, ora tratti dalla cruda realtà. Nel bienni successivo (1904-1905) Picasso vira la sua pittura verso ciò che viene definito “periodo rosa”. Un mondo che egli ha sempre amato immerso in una tavolozza più calda, disegnando modelli della classicità greca. Georges Braque nel 1905-1906 faceva ancora parte dei Fauves. La radicalizzazione di alcune intuizioni già implicite in Cézanne lo porta tuttavia in una direzione differente a partire dal 1907. Egli comincia ad assediare i volumi in “una morsa plastica che inghiotte i particolari”. Colore, luce, atmosfera perdono tutti di significato nelle opere del 1907-1908; ora predomina il disegno, lo spazio si solidifica quasi come fosse scultura, la gamma cromatica viene limitata a pochi colori puri e terranei. Da questi presupposti nasce il Cubismo. Picasso sta meditando una differente via alla pittura. Ricordando le sue esperienze giovanili in un bordello egli inizia un incompiuto che, per l’appunto, chiamerà Le bordel philosophique, 1906-1907. S’ispira ad alcune opere viste al Museo del Trocadéro, e ad alcune immagini dell’Africa nera. Questa serie composita d’influssi, tra classicismo francese, arte popolare spagnola e arte negra, è all’origine de Les Demoiselles d’Avignone. FUTURISMO Il Futurismo rappresenta “il più complesso, ambizioso, articolato e innovativamente longevo” tra i movimenti avanguardistici del Novecento. E, soprattutto, la realtà culturale più importante tra le esperienze italiane del secolo. Questo perché le sue implicazioni sin dalle origini non sono limitate ad uno specifico campo dell’arte, ma hanno l’ambizione (in alcuni casi soddisfatta e raggiunta pienamente) di modificare radicalmente la società produttrice di quella medesima cultura, in tutti i suoi principali campi d’azione. Il movimento nasce ufficialmente dalle istanze letterarie di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) nel 1909, con due edizioni del primo Manifesto Futurista, una parigina («Le Figaro», 20 febbraio) e l’altra milanese («Poesia», febbraio-marzo). Si conclude ufficialmente nel 1944. con la morte del suo fondatore, ma la sua aura, è ben più estesa nello spazio e nel tempo. Gli anni in questione possono esser suddivisi in tre fasi principali: Primo Futurismo (1910 – seconda metà degli anni ‘10) Fase analitica: 1910-1911 / 1913-1914; Fase sintetica: 1914-1915 / 1919-1920; Secondo Futurismo (1919-1920 / 1944) Fase dell’Arte meccanica: larga parte degli anni ’20; Fase dell’Immaginazione aerea: anni ‘30 – 1944. Il Futurismo ha riallineato l’Italia al dibattito artistico internazionale, dibattito da cui essa mancava e ha dato concretezza alle istanze di progresso delle società e delle città con aspirazioni industriali. La prima fase del Primo Futurismo, cosiddetta “analitica” (1910-1911 /194-1915) è caratterizzata da un serrato dialogo con le coeve avanguardie francesi e con il Cubismo in particolare. Altra opera importante è libro di Umberto Boccioni, Pittura scultura futuriste (Dinamismo plastico), Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano 1914. Il processo di avvicinamento alla poetica Futurista in pittura, un poco per tutti i suoi aderenti transita attraverso l’esperienza divisionista. tecnico-espressivo il gruppo (Boccioni – Carrà – Russolo) espone all’Esposizione d’arte libera di Milano nel 1911; eppoi, di nuovo (Boccioni – Carrà – Russolo – Severini), alla mostra Les peintres futuristes italiens, a Parigi nel 1912. In quel frangente, i quattro hanno la possibilità di confrontarsi con le possibilità scompositive che i Cubisti sperimentavano a Montmartre e a Montparnasse; ne deriva una diversa fase, ancora “analitica”, che consente loro di introdurre nel quadro dei veri e propri nodi strutturali dinamici che danno vita a forme espansive di “linee forza”. la fase analitica del Primo Futurismo, vengono a raffinarsi i presupposti del “dinamismo plastico” poi teorizzato dallo stesso Umberto Boccioni nel 1914. Ovverosia, ci si instrada verso una percezione della vita colta nel suo infinito succedersi e verso una sua definizione quale “forma unica della continuità nello spazio”. Le soluzioni trovate da Balla sono condivise a Roma anche da Fortunato Depero, da Enrico Prampolini, da Gerardo Dottori, e rappresentano il definitivo trapasso dalla prima fase analitica alla seconda fase sintetica del Futurismo. Balla e Depero e si firmano “astrattisti futuristi”, si pongono come obiettivo la ricerca “degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo e si firmano “astrattisti futuristi”, si pongono come obiettivo la ricerca “degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo. L’atto di “Ricostruzione futurista dell’universo può essere distinto a sua volta in due tempi: Una prima fase sviluppata nel biennio 1915-1916, distinta dalla radicalizzazione delle forme, che sono ora “sintetiche astratte soggettive dinamiche; Una seconda fase, che si dispiega negli ultimi anni ‘10, caratterizzata da una maggiore duttilità narrativa, che si rende manifesta nella mostra personale di Giacomo Balla a Roma nel 1918 con, in catalogo, il suo Manifesto del colore.Il cosiddetto “Secondo Futurismo” si compose di personalità in larga parte nuove e di istanze anch’esse più attuali nel dibattito artistico sulle arti degli anni ‘20 e ‘30. Pur riconoscendo il ruolo indiscutibile di padri fondatori al gruppo costituente il Primo Futurismo, la differenza tra il prima e il dopo è notevole. Poiché qui non si rivendica una sfida contro un passato e presente stracco e privo di nerbo, quanto, piuttosto, lo stare al passo con i tempi, il dare risposte concrete al bisogno di modernità, lo stabilizzare la portata utopica dei primi anni, lo svilupparsi logico dei problemi plastici posti allora nel quadro di leggi d’ordine e d’equilibrio definite. Nel secondo futurismo grande interesse viene dimostrato nei confronti della nascente architettura razionalista, dell’industrial ed interior design. Si getta uno sguardo aereo sulla città, sul paesaggio industriale ed urbano, esaltando in tal modo le conquiste aereonautiche. Il Manifesto del 1915, come detto, rappresenta una decisa direzione dei primi Futuristi verso il “complesso plastico astratto”, ovverosia verso una costruzione formale pittorico plastica di tutto l’universo antropico ed antropizzato, mediante continue “analogie astratte” con gli elementi della realtà in una forma assolutamente libera ed immaginifica che dell’industria civile e militare italiana. Ne consegue un’applicazione sistematica del metodo ricostruttivo a tutti i possibili ambiti della vita urbana, a partire dalla metropoli stessa, poiché il luogo emblematico di tale processo analogico è la “città futurista”. Gli interventi plastici d’arte ambientale futurista furono invece molteplici e in larga parte attuati. il Futurismo in parte aderisce con un linguaggio maggiormente depurato e funzionale all’arredamento e l’oggettistica d’interni, in stretta collaborazione con l’alto artigianato artistico italiano. Un’ulteriore ambito d’intervento futurista è, come detto, il mondo della comunicazione e dello spettacolo (teatro, danza, fotografia, musica, cinema, radio), ancora, di nuovo, con una copiosa messe di contributi teorico-programmatici. dal Manifesto dei drammaturghi futuristi, a firma di Marinetti (1911), in avanti. Secondo Marinetti il teatro deve essere “dello stupore, del record, della fisicifollia”. La musica è un ulteriore campo sperimentale dei futuristi, quasi a dar voce alle loro istanze poetiche e artistiche. Gli “intonarumori” di Luigi Russolo sono, per l’appunto, il tentativo tecnologico e stilistico di dare corpo alle voci dell’industria, della città, della dimensione prometeica dell’uomo moderno. Ma il primo sperimentatore fu Francesco Balilla Pratella. La relazione tra Futurismo e fotografia si preannuncia sin da subito problematica. Tra il 1910 e il 1912 i giovanissimi Anton Giulio (1890-1960), Arturo (1893-1962) e Carlo Ludovico (1894-1998) Bragaglia sperimentano in una serie di scatti con tempo lento le dinamiche di alcuni movimenti e le raccolgono in un album di sedici fotografie che viene pubblicato nel 193 per i tipi romani di Nalato ed., sotto il titolo: Fotodinamismo futurista. La notizia di tali esperimenti provoca nei futuristi storici (primo fra tutti Boccioni), dalle pagine della rivista «Lacerba», le più accese polemiche. Viene chiesto espressamente a tutti i futuristi di rigettare le fotodinamiche dei Bragaglia come mere innovazioni nel campo della fotografia, non contribuenti allo sviluppo del “dinamismo plastico”. Fatto sta che il contributo della fotografia al Futurismo viene presto teorizzato e sviluppa una sua traiettoria lungo tutto il ventennio, con esiti di grande suggestione nel campo del fotomontaggio, ex. Wonda Wulz “Io + gatto”. L’interesse del Futurismo per il cinema sottostà a dinamiche simili alla fotografia, ma con il sovrappiù d’intuizione che i padri fondatori ebbero per uno strumento che già si annunciava, negli anni ‘10, come un importantissimo mezzo di comunicazione di massa. Dunque, non soltanto attenzione alla cinetica di movimento, ma anche e soprattutto alle enormi potenzialità che esso avrebbe dimostrato di li a poco non solo come forma d’espressione artistica, ma nella propaganda stessa dell’ideologia fascista e della sua legittimazione al potere. E, appunto, editoria e pubblicità. L’interesse futurista per questi due mezzi, a latere della ricerca letteraria, è precoce ed altissimo, anche in considerazione della diretta regia dei padri fondatori nella ricerca dei caratteri tipografici più idonei a rendere al meglio le loro “parole in libertà”, fino a renderli iconici nel contesto della scrittura. Ultimo ambito d’intervento futurista che si segnala è l’interesse per il servizio postale. ASTRATTISMI Le tendenze astratte della prima metà del secolo sono frutto di molteplici esperienze e di altrettanti esiti. Esse caratterizzeranno larga parte delle sperimentazioni avanguardistiche europee, cercando di dare risposte “concrete” al bisogno estetico, funzionale, politico, tecnologico, ma anche spirituale ed esistenziale, di una generazione alla continua ricerca di una differente posizione nel mondo. Tutte codeste tendenze però si assomigliarono in uno scopo: la volontà di rinuncia alla pratica artistica intesa come mimesi, come imitazione delle cose sensibili, vale a dire della realtà. Il cubismo fu una componente essenziale di tale deriva, ma né unica né necessaria. Nella forma astratta vi sarebbe dunque un nesso archetipo ed indissolubile con la natura che il solo contorno di una linea rende tangibile. Ed è proprio il termine “Empatia” ad avere avuto il maggior successo nel Novecento, per descrivere il processo di riconoscimento dell’opera d’arte in assenza di ogni riferimento formale e oggettivo. Un “intimo sentire in uno” (ted. Ineinsfühlen) che si declina in molte direzioni astratte: quella neoplastica, ad esempio, alla sua origine predilige le forme geometriche regolari (Theo Van Doesburg, Piet Mondrian), salvo poi contraddire tale assunto, generando un dissidio insanabile tra i due; oppure quella di Kandinskij, che centra la sua ricerca spirituale ed armonica su geometrie non euclidee; quella suprematista di Malevič, che si spinge a un radicalismo concettuale tale da ridurre ogni espressione alla misura aurea del quadrato, dei bianchi e dei neri assoluti; quella costruttivista di Rodchenko. Possiamo affermare che kandinskij, Malevič e Mondirian sono stati i padri fondatori delle diverse famiglie astrattiste del Novecento: - il primo secondo una lezione lirica e organicistica; - Il secondo con una visione radicale, concettuale, al limite con il nichilismo; - Il terzo in una visione metafisica ed anti tragica. Ma l’Astrattismo ha avuto conseguenze e sviluppi tali e tanti da esser considerato il filone di ricerca più complesso, ricco e produttivo dell’età contemporanea. Per comprenderne la portata, si pensi alle conseguenze di quel sistematico procedere in levare, scomporre,.decostruire, delocare nell’architettura e nell’urbanistica del Novecento. Da Walter Gropius a Ludwig Mies van der Rohe, fino alle architetture high tech degli anni ’70 ed oltre, ogni progetto è riconducibile – nelle planimetrie, negli alzati – ai dipinti e alle sculture degli Astrattismi. Nel 1912 Guillaume Apollinaire pubblicò un articolo sulla rivista letteraria da lui stesso fondata dal titolo Du sujet dans la Peinture moderne. Nell’occasione egli dà le coordinate di una "pittura pura", tracciata per via di sole linee, ovverosia "astratta", guardando per essa alle sperimentazioni cubiste di quegli stessi anni. Per Apollinaire dunque, la pittura astratta è l’espressione non figurativa delle arti visive; negando la diversa origine che l’Astrattismo, in Francia e oltre stava maturando a prescindere dal Cubismo, primo fra tutti in Kandinskij. Nel 1910 lo stesso Kandinskij sperimenta un’intima relazione tra pittura e musica. Egli sarà fortemente impressionato dal cromatismo di Richard Wagner e, come detto, dall’espressionismo musicale di Aleksandr N. Skrjabin. La relazione tra arte e musica è dunque per lui una “necessità interiore”. Kandinskij non sta gettando i presupposti per un Astrattismo tout court. Egli è maggiormente interessato a rendere Glie ne varrà una critica conseguente: che la sua pittura rimanesse comunque nel solco del Simbolismo come emanazione dello spirito in sé, piuttosto che come un preciso indirizzo di metodo visibile quella necessità interiore. Dovrà ricordare spesso che la sua non è una ricerca metodica, analitica e scientifica della non oggettività; ma l’espressione di intuizioni dell’animo umano che trovano corrispondenza in forme non oggettivabili. Un punto di riferimento certo in Mondrian è lo sguardo attento gettato sul fenomeno cubista e l’incontro con Theo van Doesburg nel 1915 renderà concreta la possibilità di un astrattismo chiave da cui fare emergere i principi primari della natura. La natura è il punto di partenza di Mondrian. Una natura piegata, tuttavia, alla visione teosofica. Esso solo in parte è riconducibile alla rivista «De Stijl», fondata da Theo van Doesburg nel 1917 ed attiva fino al 1931. Le vie di Mondrian e van Doesburg a un certo punto, intorno al 1924, si dividono. Il secondo introdurrà nella sua pittura un’inclinazione della struttura ortogonale di linee e campiture di colore piatto che fino ad allora entrambi avevano perseguito. Van Doesburg sembra voler rappresentare la “natura” della vita e dell’uomo moderni, mentre Mondrian rimane aderente allo statuto teosofico. Entrambi, avevano mostrato un precoce interesse per lo spazio abitativo ed urbanistico; cercarono di rompere il guscio della casa e di metterla in relazione fattuale con la strada, con la città. Un “dinamismo costruttivo” che era possibile estendere anche all’arredamento d’interni, come aveva già fatto Gerrit Rietveld già nel 1918, con la realizzazione della famosa Sedia rosso e blu, ove la griglia di parallelepipedi che determina, in sostanza, la “forma aperta” del mobile, è messa in crisi con l’innesto di due semplici piani inclinati. Le riflessioni di van Doesburg si avvalgono ora di molteplici contributi come per esempio il film Dyagonal symphonie, che si presenta come una sequenza ritmica di linee luminose ortogonali ma diagonali, ovvero di profilo curvo, circolare, sinuoso. Tale attitudine non era però piegata ad un volere o ad un’intenzionalità romantica e storicistica; andava nell’opposta direzione: della razionalità, della liberalità, del progresso; successivamente avremo una nuova sede a Dessau nel 1926. Nel 1924 la situazione a Weimar era diventata insostenibile. La scuola riceveva fortissime pressioni dalla municipalità e dagli ambienti bene della città Ragione per cui il Bauhaus si spostò nella cittadina industriale sassone di Dessau, che meglio avrebbe recepito le istanze di progettazione artistica per l’impresa di Gropius e dei suoi collaboratori. Alla fine del 1926 sarà pronta la nuova sede appositamente un articolato sistema di padiglioni compenetrati gli uni negli altri che incarnava appieno gli obiettivi didattici della scuola. A Dessau si sposteranno i vari professori e alcuni ex allievi diventarono maestri, come per esempio Bayer. La scuola fu rinominata “Hochschule für Gestaltung” la quale non ebba vita facile ma, gli anni di Dessau furono molto importanti per l’affinamento delle teorie e delle prassi razionaliste europee. Successivamente Max Bill (1908-1994), sarà fondatore e direttore della Hochschule für Gestaltung di Ulm (dal 1951), erede non solo nominale della Bauhaus. Il 14 febbraio 1928, apparentemente per tornare alla pratica di architetto, Walter Gropius lascia la direzione e l’insegnamento della Bauhaus. egli indica come suo successore Hannes Meyer: il più radicale ed estremo tra i suoi collaboratori, in stretto contatto con i movimenti produttivisti -costruttivisti sovietici. Meyer si professa apertamente comunista, e consente addirittura la formazione di una cellula del partito in seno all’istituto. Per lui Bauhaus non è più un fenomeno meramente artistico (lo era mai stato?) ma sociale; l’opera che vi si svolgeva doveva essere intesa come “un servizio diretto al popolo”. Meyer contrappone una visione sociologica che per la prima volta nella storia dell’industrial design realizza beni di consumo a basso costo, acquistabili dal popolo e dalle masse. È questo di certo il suo più importante lascito alla scuola. Ma il suo orizzonte politico risente della debole e convulsa struttura dottrinaria che la impronta. Il suo licenziamento nel 1930 corrisponde con il trasferimento suo e di alcuni suoi allievi a Mosca, a servizio di una URSS stalinista. Il suo posto verrà preso da Ludwig Mies van der Rohe (1886-1969), con Gropius e Le Corbusier maestro indiscusso del Razionalismo. Nel 1931 i Nazional-socialisti guadagneranno la maggioranza in seno al Consiglio comunale di Dessau, verrà chiesta addirittura la demolizione della sede, come espressione di “arte degenerata”. Nel 1932 la scuola verrà trasferita alla periferia di Berlino, nei locali di una ex fabbrica di telefoni. Malgrado ciò il nucleo storico di docenti che avevano fatto la sua fortuna non abbandona la Bauhaus. Ma la situazione è precipitata e nel luglio del 1933 van der Rohe riunisce il collegio e dichiara sciolta la scuola. METAFISICA Metafisica è da considerare, insieme al Futurismo, il maggior contributo internazionale dell’Italia alle avanguardie artistiche del primo Novecento. Essa promana dal fortunato e complesso incontro a Ferrara, nel 1917, tra Giorgio De Chirico, suo fratello Andrea (alias Alberto Savinio,), Carlo Carrà, Filippo Tibertelli De Pisis e Giorgio Morandi, nonché dalla conseguente edizione della rivista «Valori plastici» (1918-1922) sotto la direzione di Mario Broglio. Le prime due opere metafisiche di Giorgio de Chirico sono l’Enigma dell’oracolo (1910) e l’Enigma di un pomeriggio d’autunno (1910). Ci appaiono come l’esito di una lenta ma sistematica frequentazione con la lingua dei classici. A Monaco, ad esempio, rimane impressionato dal Classicismo romantico di Max Klinger e, soprattutto, di Arnold Böcklin; ivi si immerge nella lettura di Arthur Schopenhauer, di Otto Weininger e, soprattutto, di Friedrich Nietzsche, che De Chirico elegge a suo modello tanto da autoritrarsi in sua veste nel 1920. Con Nietzsche De Chirico scopre la Stimmung, ovverosia l’attitudine ed atmosfera morale, lirica, malinconica di certi pomeriggi enigmatici ed ombrosi. Dalla Nascita della tragedia e dalla “consolazione metafisica” di Schopenhauer egli trae ulteriormente il senso della solitudine e dell’enigma classico. De Chirico si ispira anche a Craig il quale, a partire dal testo teorico L’Attore e la supermarionetta (1908), dove è enunciata la trasformazione del performer in una forma-manichino, unitamente all’uso di forti luci ed ombre profonde sulla scena. I Fratelli de Chirico saranno a Parigi dal 1911 in avanti. O meglio, Alberto Savinio vi abitava già e componeva musica. Frequentano un’ampia cerchia di letterati ed artisti dell’avanguardia internazionale. L’opera di De Chirico è considerata sin da subito fondamentale per la comprensione della modernità; il suo fare enigmatico e melanconico sembra corrispondere in pieno ai dubbi che oramai attanagliano la generazione a ridosso della Prima guerra mondiale. Anche il latente bisogno di classicità che alberga nei suoi è manifestazione di un mistero. Tutto vi appare incerto, illusorio, carico di contraddizioni, talvolta perfino irrazionali. De Chirico è, per una sua via tutta originale, in stretto dialogo con i linguaggi “internazionali” del suo tempo. Con essi condivide il milieu ed anticipa le tematiche di un “Ritorno all’ordine”. I Fratelli De Chirico si trasferiranno a Ferrara nel 1915. La città diverrà subito il luogo più appropriato per le evoluzioni metafisiche. Conoscono Filippo De Pisis, ferrarese che, non ancora pittore, dedica loro un famoso libello metafisico: Mercoledì 14 novembre 1917. Altro omaggio di De Pisis a De Chirico è Il Filosofo e il poeta (1919), che riprende in forma letteraria l’omologo suo quadro. Importante incontro avviene nel marzo 1917, con Carlo Carrà; esso dà corso ad un breve ed intensissimo sodalizio. Entrambi ricoverati per “nevrastenia” nel locale nesocomio, Giorgio e Carlo avviano un’amicizia che appare ai più solidissima e fruttuosa sotto il profilo artistico, ma che si risolverà presto in incomprensioni, tradimenti e disconoscimenti. Carrà, che era stato futurista, non dimentica il suo ruolo politico e propagandistico. Malgrado le tensioni di quegli anni, i due si stimano indubitabilmente. Intorno alla rivista romana «Valori plastici», nei soli tre anni di sua vita (15 numeri, dal 1918 al 1921) si raddensano tutte le principali istanze di “originarietà” che già in Francia ed in Italia erano in incubazione, da Derain, a Picasso, a De Chirico-Savinio, a Carrà. Obiettivo della rivista è di proporre una “nuova” arte italiana che avesse come riferimento i Primitivi (da Giotto a Piero della Francesca, per intenderci) non come modelli da citare, ma come exempla di un mestiere, quello dell’artista, da recuperare nell’integrità tecnica ed espressiva del fare medievale. La sua propagazione a livello internazionale ed il suo serrato dialogo con tutte le più importanti nuove tendenze dell’epoca. Alla fine del 1918 alla rivista «Valori plastici» si aggrega anche Giorgio Morandi. Morandi “metafisico” è comunque distante da tutto. La sua è una “stagione morta”, fatta di cose inanimate, povere, quotidiane fino a che la tensione metafisica si allenta definitivamente (intorno al 1919) per dare spazio a semplicissime composizioni di oggetti della vita quotidiana, inaugurate da una Natura morta del 1920, oggi in Collezione Jesi a Brera. La produzione artistica di Metafisica, per il tramite di «Valori plastici», viene presentata a Berlino, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nel 1921, quindi ad Hannover e ad Amburgo. La rivista e le opere vengono lette con molta attenzione da un gruppo di artisti in parte provenienti dall’Espressionismo, in parte da Dada, dando corso ad un filone di ricerche che verrà detto Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), ovvero “Realismo magico”. Ciò che colpisce di più gli artisti tedeschi è il ruolo svolto dai manichini, qui reinterpretati in chiave politica come espressione della condizione di alienazione e svuotamento di identità del popolo in una società capitalistica. In Italia le conseguenze maggiori dell’esperienza metafisica si risentono in Novecento, movimento di “ritorno all’ordine” propugnato da Margherita Sarfatti. Quando nel 1922 a Milano, si riunisce il primo gruppo di pittori che vi aderirono come Anselmo Bucci e Gian Emilio pur non avendo mai aderito a Metafisica nel senso pieno del termine, guardano ad essa con profondo interesse come possibile via alla plasticità classica. Nel 1925 De Chirico ritorna a Parigi e vi rimarrà per quasi un decennio. Vi torna per l’interesse che la sua opera suscitava in Francia, ma nel farlo egli modifica l’assetto dei suoi quadri – quasi cerchi un dialogo più serrato con la nascente surrealtà – transitandoli verso una direzione misteriosa. Nell’opera troviamo veri oggetti posti nei luoghi più impossibili (Mobili in una valle). Alberto Savinio musicista, si fa pittore proprio in questo periodo. Egli guarda quasi con innocenza al suo mondo interiore ed infantile, lo intreccia indissolubilmente col paesaggio classico ma anche con altri orizzonti esotici e sognati, immersi in dimensioni apocalittiche. Deforma il corpo umano e animale come in metamorfosi o mutazioni genetiche, trasformando entrambi in animali mitologici. RITORNO ALL’ORDINE “Ritorno all’ordine” è un movimento artistico con epicentro in Francia e in Italia, ma con propaggini in Spagna, in Germania e altrove, che si manifestò all’indomani della Prima guerra mondiale (1918- 1919) ed esercitò la sua influenza almeno fino a tutto il 1925. Suoi promotori in Francia furono, primariamente, i cubisti di Montmartre e di Montparnasse. In Italia il movimento fu rappresentato dalla rivista «Valori plastici» a Roma e dal gruppo Novecento di Margherita Sarfatti a Milano. In Spagna vide protagonisti i giovani Joan Mirò e Salvador Dalì. In Germania lambì la “Nuova oggettività” (altrimenti detto “Realismo magico”) ed in particolare Christian Schad (1894-1982) e Georg Schrimpf (1889-1938). Questo movimento da una nuova attenzione ai mestieri dell’arte, alle antiche prassi pittoriche, scultoree, riconoscendo ad esse uno statuto modernissimo. Ritorno all’ordine non fu un arretramento, come spesso viene criticato. Fu il tentativo più coerente di ammissione della continuità storico- stilistica che lega quelle stesse avanguardie alla grande tradizione umanistica rinascimentale italiana. Il Classicismo che ne derivò è però da considerarsi anomalo, irregolare, enigmatico. Possiamo considerare classicisti in senso pieno solo quegli autori che mantennero uno statuto a sé, dichiarandosi o dimostrando d’essere apolitici, impolitici, avversi o quantomeno estranei alle lusinghe dei poteri dittatoriali. Il linguaggio che ne deriva è pertanto lontano dalle grandi certezze del passato; è un Classicismo anomalo e modernissimo perché non si ispira ad un solo periodo, ad un solo autore, ad una sola corrente, ma è mosso da una profonda ed assoluta libertà di riferimenti culturali e temporali all’antico. L’espressione “Ritorno all’ordine” viene formulata in Francia, nella cerchia del tardo Cubismo, dalla critica letteraria ed artistica. Dal 1913 al 1917 molta della produzione cubista va soggetta ad una revisione stilistica nella direzione del classicismo. Ad esempio, nel 1914 Picasso esegue Il Pittore e la modella, chiaramente ispirato ad Auguste D. Ingres. Ma la conclamazione del “Ritorno all’ordine” avverrà solo nel 1919, sotto l’impulso di almeno tre correnti già storicizzate. I Nabis, i Fauves e con i cubisti, con a capo Picasso, che ora viene considerato il padre del movimento neoclassico. In Italia si determinano tre precisi e differenti indirizzi di “Ritorno all’ordine”: “Valori plastici, Novecento e gli Italiens de Paris. “Novecento” di Margherita Sarfatti è un movimento d’ispirazione più segnatamente classicista, che sin dal suo esordio (Milano 1922) si dichiara aderente alla tradizione mediterranea “dalle sfingi d’Egitto ai quadri di Paul Cézanne”. Dal 1926 il raggruppamento si fa più eterogeneo e di portata nazionale, con dichiarate aderenze al Partito Nazionale Fascista. Il terzo gruppo di neoclassicisti italiani è rappresentato da una compagine “francese”. Les Italiens de Paris, per l’appunto. Si tratta di un linguaggio, di quest’ultimo, “internazionale” che echeggia il pre Cubismo ed il tardo Cobismo, soprattutto di Picasso, ma al contempo dialoga a ranghi serrati con la sua patria d’adozione. La spagna “retriva” ed attardata rispetto alle avanguardie storiche del primo Novecento, forse proprio per questo anticipa i tempi e già nel 1906, a Barcellona, enuncia per bocca di Eugeni d’Ors (1881- 1954) la necessità di un Neucentisme che si richiamasse alla grandezza mediterranea. Lo seguirono su quest’onda i giovanissimi Joan Miró (1893-1983) e Salvador Dalì. In entrambi non è esente, sin dalle prime prove, la lezione del maestro Pablo Picasso ma anche di Goya, Gauguin e Cézanne. In Germania saranno alcune frange della Nuova oggettività (alias Realismo magico) ad assumere il ruolo neoclassicista, soprattutto nella volontà di alcuni autori di riappropriarsi dell’antica téchne medievale e rinascimentale. Otto Dix, per esempio voleva dipingere come i maestri del Rinascimento, con particolare riguardo alla grande tradizione germanica.
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