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Riassunti Storia dell'estremo Oriente, Appunti di Storia dell'Asia

Riassunti dettagliati della storia di Cina, Giappone e Corea.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 18/01/2022

kanae95
kanae95 🇮🇹

4.6

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Scarica Riassunti Storia dell'estremo Oriente e più Appunti in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Le Cento Scuole. Nello Shiji di Sima Qian (I sec. a.C.), primo testo storico, si origina la classificazione in correnti filosofiche, chiamate jia 家 (il termine di «casa, famiglia» che qui si traduce con «scuole»). Esse sono 6: • Yin e Yang 阴阳 • Ru (i cosiddetti «classicisti») 儒家 • I Moisti (seguaci di Mozi) 墨家 • La scuola dei nomi (i dialettici) 名家 • La scuola della legge 法家 • La scuola daoista 道家 Kongfuzi, Confucio (551 – 479 a.C.). Non ci sono dati certi sulla persona di Confucio, e potrebbe anche essere la personificazione di una classe di letterati-scribi chiamati Ru 儒, che non erano necessariamente Confuciani. Le scarse notizie biografiche che possediamo ci sono fornite da opere a lui di molto successive. La testimonianza più viva che ci sia pervenuta è il libro intitolato I Dialoghi (Lunyu 论语), dove sono riferite, nella forma del discorso diretto, le parole del Maestro. Secondo le date tradizionali (551 – 479 a.C.), Confucio sarebbe vissuto fino all’ età di settantadue anni. Era originario del piccolo principato di Lu, vicino alla casa reale dei Zhou, il che spiega il profondo attaccamento alla dinastia e ai suoi valori. Egli è rappresentativo di un ceto in ascesa, intermedio fra nobiltà guerriera e il popolo dei contadini e degli artigiani. Si tratta del ceto degli shi 士 che, in virtù delle loro competenze in ambiti diversi, finiranno per formare la categoria dei letterati-funzionari della Cina imperiale. Confucio svolse diversi incarichi politici a Lu, ma non sentendosi ascoltato, inizia una peregrinazione attraverso i vari principati, offrendo i suoi servigi e i suoi consigli, ma senza successo. A più di sessant’anni fa quindi ritorno a Lu, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita a insegnare ai discepoli. È in tale periodo che, secondo la tradizione, avrebbe composto, o quanto meno rielaborato, i testi che gli sono attribuiti, ossia i Cinque scritti canonici: il Classico dei mutamenti (Yijing), un manuale della divinazione per mezzo dell’achillea millefoglie; il Classico dei documenti (Shujing), una raccolta di discorsi storici; il Classico delle odi (Shijing), un’antologia di circa trecento canti di corte e popolari; gli Annali delle primavere e degli autunni (Chunqiu), gli annali dello stato di Lu; e le Memorie sui riti (Liji), un ampio compendio di antiche istituzioni, cerimonie e regole della formazione della persona. Di fatto questi testi esistevano già all’epoca di Confucio, che se ne è servito nel suo insegnamento e, ciò facendo, li ha indubbiamente rimaneggiati e reinterpretati. La parola di Confucio è incentrata sull’uomo e sulla nozione di quanto è umano. Tre elementi emergono come pilastri dei suoi insegnamenti: l’apprendimento, la qualità peculiare dell’uomo e lo spirito rituale. La santità (che non ha nulla di divino) deriva dalla consapevolezza profonda di ciò che è giusto e può essere raggiunta tramite questi tre capisaldi e abbandonando ogni considerazione particolaristica. La religione tradizionale Shang e Zhou si arricchisce di questo apporto incentrato sull’uomo. Nei Dialoghi si tratta del modo di diventare integralmente un essere umano. A quindici anni decisi di apprendere. A trenta ero saldo sulla via. A quaranta non avevo più dubbi. A cinquanta compresi il decreto del Cielo. A sessanta il mio orecchio era perfettamente intonato. A settanta agivo seguendo il mio cuore, senza per questo trasgredire alcuna norma. Per lui innanzitutto c’è l’apprendimento, e il ruolo centrale che vi attribuisce corrisponde alla sua intima convinzione che ogni uomo è un essere capace di migliorare e di perfezionarsi all’infinito. Per perfezionarsi bisogna apprendere, e in questo caso l’apprendere trova in sé stesso la propria giustificazione. Si tratta infatti di apprendere non per gli altri, ma dagli altri. Qualsiasi circostanza ne può offrire l’occasione, poiché si apprende innanzitutto dallo scambio reciproco. La finalità pratica dell’educazione consiste nella formazione di un uomo capace di servire la comunità sul piano politico, e di diventare un uomo di valore sul piano morale. In un’epoca in cui l’educazione costituisce il privilegio di un’élite, Confucio afferma che tale privilegio dev’essere apprezzato in tutto il suo valore e accompagnato da un senso di responsabilità, governando gli altri per il loro maggior bene. Lungi dall’intento di sovvertire l’ordine gerarchico facendo dell’educazione una modalità di ascesa sociale. Infatti, la relazione di reciprocità non è per nulla egualitaria. Tale relazione non consiste nel porre la persona che ci sta di fronte e che ci è inferiore sul nostro stesso piano, ma conserva integralmente tutte le relazioni della gerarchia sociale così come sono. Un termine frequente nei Dialoghi è junzi 君子 (lett. figlio del principe), che generalmente designa, ogni membro dell’alta nobiltà, e che nel linguaggio di Confucio assume un seno nuovo, in quanto la qualità dell’uomo di valore non è più determinata dalla sua nascita, ma dipende soprattutto dal suo valore come essere umano. Il junzi è dunque «l’uomo di qualità» o «l’uomo di valore», in opposizione allo xiǎo rén 小人 (lett. l’uomo meschino, piccolo) «l’uomo dappoco». L’uomo di valore conosce ciò che è giusto, l’uomo dappoco non conosce che il proprio vantaggio. La meta è dunque diventare uomo di valore, apprendere è imparare a fare di sé un essere umano. Un altro termine usato di frequente è ren 仁 il cui carattere è composto dal radicale di persona e dal segno due: vi si può scorgere l’uomo che non diventa umano se non nella sua relazione con gli altri. L’io non può essere concepito come un’entità isolata dagli altri, ma piuttosto come un punto di convergenza di scambi personali. Ren che si potrebbe tradurre come «senso dell’umanità» è ciò che costituisce fin da principio l’uomo come essere morale nella rete delle sue relazioni con gli altri. Ren appare come un valore che Confucio colloca molto in alto, tanto da non riconoscerlo praticamente a nessuno (e soprattutto non a sé stesso) e se non alle mitiche figure dell’antichità, quale il duca Wu dei Zhao. Al tempo stesso egli lo dichiara assai prossimo: Ren è davvero inaccessibile? Desideralo con fervore ed eccolo in te. Ren non definisce un ideale rigido e stereotipato di perfezione cui si dovrebbe aspirare, ma è piuttosto una necessità interna. Benché parli costantemente di ren, Confucio si rifiuta di fornire una definizione esplicita, che risulterebbe limitativa. Per praticare ren, occorre cominciare da sé stessi: desiderare la sicurezza altrui quanto la propria, auspicare il successo altrui quanto il proprio. Attingi in te l’idea di ciò che puoi fare per gli altri. Questo ti porrà sulla via del ren. Tutto inizia da sé stessi: zhong 忠 la cui grafia ricorda il cuore sul suo asse centrale. Si trova in questa nozione la riflessione confuciana su ciò che costituisce la nostra umanità: la virtù del Mezzo giusto e costante, che altro non è che il bene supremo. Si tratta di un’esigenza di equilibrio che non cede mai alle inclinazioni eccessive che rovinano ogni possibilità di vita duratura e affidabile. Ren si manifesta in virtù delle relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. L’esempio per eccellenza del legame di reciprocità è la risposta naturale di un figlio all’amore che gli portano i suoi genitori. La relazione principale che lega gli uomini è quella tra padre e figlio, da qui la centralità di xiao 孝, la pietà filiale. Seguono sovrano- suddito, tra fratello maggiore e minore, tra marito e moglie e tra amici. Si delinea una struttura piramidale, in cui tutto è governato dalla gerarchia, sia nel microcosmo familiare che nello stato, ma sempre in base a considerazioni morali, non costrizioni. Queste cinque relazioni fondamentali si basano tutte sulla fiducia xin 信 la cui grafia rievoca l’uomo tutto intero nella sua parola, ossia la corrispondenza fra ciò che dice e ciò che fa. Per raggiungere le finalità proprie alla posizione ed agli obblighi sociali di ciascuno, sarà necessario che la conoscenza umana si fondi su qualcosa di fisso, di inequivocabile, che non lasci adito a dubbi e ciò potrà realizzarsi soltanto se ogni cosa, ogni fatto sarà conosciuto realmente per quello che è, se i nomi saranno corrispondenti all'oggetto cui si riferiscono. Si tratta della cosiddetta "rettificazione dei nomi" (zhengming 正 名), chiave di volta di tutto il pensiero confuciano. Essa garantirà la conservazione dell'ordine sociale, in accordo con le leggi della natura. Se i nomi non vengono rettificati, le parole non sono in accordo con la realtà delle cose; se le parole non sono in accordo con la realtà delle cose, gli affari non possono essere portati a compimento; se gli affari non sono portati a compimento, i riti e la musica non vengono coltivati; se i riti e la musica non vengono coltivati, le punizioni non vengono assegnate nel modo giusto; se le punizioni non vengono assegnate nel modo giusto, il popolo non sa come Vi sono dignità conferite dal Cielo, e dignità conferite dagli uomini. Senso di umanità e giustizia, lealtà e buona fede, gioia inesauribile procurata dal bene, sono altrettante dignità conferite dal Cielo. Duca, ministro e grande funzionario, siffatte sono le dignità conferite dagli uomini. Il conflitto appare irrisolvibile, perché, se è vero che spesso il sovrano si pone in posizione di rispetto e ascolto del saggio, nondimeno è innegabile che egli sia in qualche misura stipendiato dal sovrano stesso e quindi in quest’epoca compare il termine shi 仕 (impiego) in luogo del confuciano shi 士, che indicava gli scribi e i saggi in epoca Zhou. Lo shi è al contempo inferiore al sovrano, per il potere effettivo che quest’ultimo detiene, e a lui superiore per valore morale personale. Si trova quindi nella posizione di suddito secondo il codice politico, e nella posizione di maestro secondo il codice etico. L’ambiguità del rapporto fra sovrano e lo shi dipende dal fatto che ciascuno dei due ha bisogno dell’altro per legittimarsi: il potere politico ha bisogno di una legittimità morale, così come l’autorità morale cerca il proprio riconoscimento in uno statuto di superiorità. Nell’epoca in cui si affrontano «cento scuole», Mencio ha a che fare con una temibile concorrenza, e nel IV- III secolo, con tutti gli stati in guerra, sembrava impossibile che una condotta virtuosa e disinteressata, come quella confuciana, potesse trovare un terreno fertile. Mencio si attribuisce la missione di difendere l’insegnamento del Maestro contro tutto e tutti. Si percepisce infatti nel Mengzi 孟子 un tono marcatamente polemico e difensivo dove opera un discorso affinato e affilato come strumento dialettico. Il messaggio etico-politico che egli cerca di trasmettere ai sovrani da lui via via incontrati si riassume nei seguenti termini: il miglior modo di governare è rendere operante il senso dell’umanità, il ren. Egli afferma che questo è il solo modo di governare poiché si fonda sul consenso: fattore unificante e garanzia di coesione e di stabilità. In effetti, un sovrano che tratta i suoi sudditi con umanità, da «padre e madre del popolo», li attrarrebbe spontaneamente a sé. Mencio riprende qui l’opposizione, istituita nei Dialoghi, fra l’ideale politico ispirato all’umanità e il governo esercitato tramite la forza e la coercizione. I sovrani trovano nel popolo la loro legittimità, il popolo è in effetti l’espressione del mandato del Cielo, la sanzione morale che giustifica l’instaurazione di una dinastia. Il segno che un sovrano è gradito dal Cielo è dato dal popolo quando questo si volge spontaneamente a lui affidandogli l’impero, e rendendo in tal modo manifesta la volontà celeste di concedergli il mandato, e quando questo non si dimostra più degno, diviene legittimo per il popolo che lo sostiene rovesciarlo. Egli spinge addirittura questa logica fino a prendere in considerazione il dovere del regicidio, una concezione del potere in cui l’etica prevale sulla politica. Mencio non esce dallo schema tradizionale, autoritario e piramidale. Il governo tramite ren non implica una soppressione della gerarchia politica e sociale, al contrario il ren la giustifica moralmente. Poiché i superiori trattano con umanità i loro inferiori, questi ultimi, per reciprocità, ne riconosceranno spontaneamente la superiorità. Così viene ad esser giustificata, in termini morali, la ripartizione fra lavoro manuale – assegnato ai governati – e lavoro intellettuale – assegnato a coloro che li governano. Mencio sostiene inoltre la bontà della natura umana. La nostra natura (xing 性), intesa come ciò che ci è dato dal Cielo, ciò che è naturale, comprende anche il nostro senso morale. Questo senso morale tende al bene, ed egli lo dimostra con l’esempio del bambino che è sul punto di cadere in un pozzo. Qualsiasi spettatore, pur non conoscendo il bambino, e senza avere secondi fini quali il desiderio di avere una buona reputazione, sarà preso da un senso di spavento e di compassione: Da ciò si deduce che senza un cuore che compatisca gli altri non si è umani; senza un cuore che provi vergogna non si è umani; senza un cuore improntato a modestia e deferenza non si è umani; senza un cuore che distingua il vero dal falso, non si è umani. Un cuore che compatisce è il germe del senso dell’umanità; un cuore che prova la vergogna è il germe del senso di giustizia; un cuore improntato a modestia e deferenza è il germe del senso rituale; un cuore che distingue il vero dal falso è il germe del discernimento. L’uomo possiede in sé questi quattro germogli allo stesso modo in cui possiede quattro membra. Possedere questi quattro germogli e ritenersi incapaci [di svilupparli] è far torto a sé stessi. Per Mencio, vi è un’inclinazione naturale verso il lato morale, presente in ogni uomo allo stato germinale, per la semplice e sana ragione che esso è il più salutare. Insomma, far del bene fa bene. La natura umana è buona nel senso che è fondamentalmente sana, se non viene influenzata da fattori esterni. L’intento di Mencio è riconciliare e integrare le due dimensioni dell’uomo e del Cielo, in un’interazione dinamica fra xing 心 e ming. Xing è la natura propriamente umana, ma originariamente generata dal Cielo. Questo termine implica pure una dimensione prescrittiva, in quanto designa la natura dell’uomo non soltanto così com’è data, ma anche soprattutto nel suo farsi etica. La natura umana contiene quattro «germogli» di moralità: questa è la sua parte celeste (e la sua dimensione prescrittiva), ma è compito dell’uomo svilupparla. Quanto a ming, è ciò che è decretato dal Cielo, ma è anche ciò che spetta all’uomo conoscere mediante il proprio animo e adempiere tramite la propria natura. V’è dunque pure in ming la doppia dimensione prescrittiva (in quanto il contenuto del decreto Celeste è l’obbligo morale) e descrittiva (in quanto il decreto Celeste è ciò che è, e non necessariamente rappresenta la sanzione della condotta umana). I rapporti del Cielo e dell’uomo obbediscono così a una dialettica di xing e ming, di aspetto descrittivo e prescrittivo. Il cuore di ognuno è sede sia del pensiero razionale che dei sentimenti. Essendo il cuore buono, la santità è accessibile a tutti, in maniera molto più chiara di quanto non fosse nel pensiero originale di Confucio, nel quale i santi erano esseri irraggiungibili e l’apprendimento era infinito. Per raggiungere la santità, quindi, bisogna far sbocciare i quattro germogli che sono naturalmente dentro di noi, che sono: Umanità; Giustizia; Discernimento, saggezza; Senso del rituale, retto comportamento. Una volta che Mencio ha dimostrato che la natura umana è naturalmente predisposta al bene, resta da render conto ciò che in essa è malvagio. Secondo la sua tesi non è la natura primaria dell’uomo ad essere in causa, ma si tratta invece di un mancato sviluppo del suo fondo di bontà, o anche del fatto di non averne preso coscienza. E una volta che si è compiuto un atto malvagio, basta prenderne coscienza per tornare allo stato naturale dell’animo umano, e quindi al bene. Le caratteristiche intrinseche dell’uomo lo rendono capace di esser buono. È questo che intendo per sua bontà. Ma se egli prende ad esser malvagio, ciò non sarà certo da imputare al suo potenziale. Il male è dettato dall’egoismo che consiste nel negare la solidarietà delle esistenze con il vano proposito di vivere unicamente per sé. Tutta la nostra moralità poggia dunque su una semplice presa di coscienza relativa alla natura che ci appartiene, tutto dipende dalla determinazione di ciascuno di prendere in mano il proprio destino morale. Se l’uomo non amasse niente di più della vita, non farebbe di tutto per preservarla? Se non temesse nulla più della morte, non farebbe di tutto per evitarne il pericolo? Ma egli non fa sempre qualsiasi cosa per salvarsi la vita, né fa sempre qualsiasi cosa per evitare il pericolo. Il che dimostra che vi è qualcosa che l’uomo ama più della vita, e qualcosa che teme più della morte. Un animo siffatto non sono soltanto i saggi ad averlo; lo hanno tutti gli uomini, ma soltanto i saggi non lo perdono mai. Ciò che si impone con una tale evidenza da farci rinunciare alla nostra stessa vita non è nient’altro che l’umanità della nostra natura. Quando piacere e collera, tristezza e gioia non si sono manifestati si ha il Mezzo. Quando essi si manifestano senza oltrepassare la giusta misura, si ha l’armonia. Il Mezzo è il grande fondamento dell’universo, l’armonia ne è il Dao universale. Le emozioni umane non sono in sé negative ma devono essere mantenute entro certi limiti, come un sistema musicale. Xunzi 荀子 (340/305-238 a.C). Più ancora di Mencio, Xunzi si impone come polemista, poiché il suo pensiero si costruisce tramite ed entro la controversia. Si è spesso affermato che Mencio e Xunzi rappresentano due facce, diverse ma complementari, dell’eredità confuciana. Mentre il primo ne rappresenterebbe il versante idealistico, suffragandone la scommessa sull’uomo con la convinzione che la natura umana è buona, il secondo ne farebbe risaltare il versante realistico in tutto il suo rigore. Xunzi si distingue nettamente a partire dalla forma, dal Mengzi. Mentre quest’ultimo rappresenta delle conversazioni fra il Maestro e diversi interlocutori, nella maniera dei Dialoghi, il Xunzi è costituito di 32 capitoli, di cui ciascuno forma un trattato teorico su di un preciso argomento, e gli scambi di domande e risposte vi hanno luogo solamente in modo fittizio, fra un obiettore immaginario e l’autore presunto. La data di nascita di Xunzi è incerta, collocata fra il 340 e il 305 a.C., ossia all’epoca della maturità di Mencio. Nativo di Zhao, a nord della Cina degli stati Combattenti, egli si stabilì ben presto alla famosa accademia Jixia di Qi, uno degli stati centrali. Tale accademia era appena stata fondata per volontà di sovrani desiderosi di unire il prestigio culturale alla loro politica di egemonia, divenendo nel III secolo a.C. uno dei principali centri di attività culturale. La creazione dell’accademia Jixia segna l’apogeo del riconoscimento da parte del potere politico del prestigio morale e intellettuale degli shi. In questo periodo in cui si assiste al declino finale della dinastia Zhou, il Cielo, la divinità per eccellenza dei Zhou, muta aspetto. Xunzi dissocia nettamente l’ambito cosmologico del Cielo dall’ambito etico-politico dell’uomo, ma tale dissociazione non riveste un carattere d’esclusione. L’uomo, infatti, porterebbe a compimento l’opera cosmica del Cielo e della Terra, con i quali formerebbe una triade, in virtù della sua capacità di conferirvi ordine. Egli, infatti, non deve scoprire la struttura dell’universo in uno sforzo orientato alla conoscenza pura (e dunque inutile e vana) ma deve dargli ordine. Quindi da un lato vi è il Cielo con la sua attività generatrice, dall’altro l’Uomo che esercita il suo ruolo di ordinatore. In aperto contrasto con Mencio, Xunzi afferma che, considerate nell’insieme, le nostre pulsioni umane fondamentali (brama di guadagno, invidia, odio, desideri di soddisfare bisogni naturali come la fame e il sesso) non hanno nulla di etico, ed è in questo che la natura umana è fondamentalmente malvagia. La natura umana è cattiva, e ciò che vi è di buono è artificialmente acquisito. Mentre per Mencio la natura umana possiede germogli di moralità proprio perché procede dal Cielo, per Xunzi anche se la natura umana procede dal Cielo, si tratta di un Cielo amorale (come lo concepiscono i Taoisti e i Legisti). L’umanità dell’uomo non risiede quindi nella sua natura, ma dal tempo che esso investe per fare di sé stesso un essere umano. L’apprendimento di Confucio acquista dunque il valore di un sistema di forzare la natura per incanalarla verso il bene. Quando vediamo qualcuno che si comporta in modo corretto, siamo di fronte a una sorta di animale addomesticato, che ha saputo superare e i suoi istinti. Il zhi, che figura fra i «quattro germogli di moralità» di Mencio come capacità innata di discernimento morale, diviene in Xunzi una forma di intelligenza fatta di buon senso. Questo buon senso è opera del cuore/animo (xin) che giudica se un’azione intrapresa per soddisfare un desiderio sia moralmente ammissibile (ke 可) o solo materialmente possibile (neng 能). Mentre in Mencio il cuore/animo viene ad arricchire il potenziale morale della natura umana, in Xunzi è trattato in termini moisti, come capacità di scegliere valutando i pro e i contro. A differenza di Mencio, poi, egli vede la nostra umanità non già nella nostra natura, ma nella nostra cultura (wen 文), di qui l’importanza primaria che riveste in Xunzi l’apprendere. Ne risulta che l’umanità è tutta costruita, artificiale (wei 伪, fare, associato al radicale uomo, quasi in polemica con i taoisti). Il senso morale di cui parla è associato ai riti (liyi) ed egli si spinge al punto che esso è fabbricato dai santi, così come gli utensili sono forgiati dagli artigiani. Se dunque l’uomo è preda dei suoi desideri e bisogni, il senso morale ed i riti insieme costituiscono lo strumento ideato dagli antichi sovrani per garantire l’ordine attraverso la ripartizione (fen 分), ovvero il principio di divisione delle risorse e ciò che sta alla base della gerarchia sociale. Se restiamo separati senza reciproca dipendenza, viviamo nella povertà, ma, se viviamo in società senza principio di ripartizione ci battiamo fra noi per la nostra sopravvivenza. Che cosa fa sì che l’uomo sia uomo? È la sua capacità di nervi o tendini, né mai scalfisce le ossa. Un cuoco normale consuma un coltello al mese, un buon cuoco consuma un coltello all’anno: il coltello del vostro servo è stato usato per diciannove anni, ha squartato migliaia di buoi, ma la sua lama è come nuova. Detto questo, ogni volta che arrivo ad una articolazione complessa, prima osservo dove è la difficoltà e mi preparo con cura. Il mio sguardo si fissa, i miei gesti rallentano: si vede appena il movimento della lama e, d’un colpo solo, la giuntura è recisa. E io reso con il coltello in mano, mi guardo attorno soddisfatto, poi lo ripulisco e lo ripongo nella sua custodia. «Magnifico!» esclamò il principe «dopo avere udito le parole del cuoco Ding, so come nutrire il principio vitale». In questo celebre passo emerge un «saper fare» ben preciso, che è il frutto del gongfu. Questo termine designa il tempo e l’energia che si dedicano a una pratica allo scopo di raggiungere un dato livello, come se fosse un allenamento sportivo. Si tratta dunque dell’apprendimento di un sapere che non si trasmette per mezzo delle parole. Il termine ziran letteralmente significa «tale di per sé», e sta a indicare la spontaneità, che viene associata all’inevitabile, al percorso necessario seguito dal coltello del cuoco Ding. Questa spontaneità si raggiunge a costo di un’intensa concentrazione su di una situazione puntuale, che esige la massima lucidità, ottenuta oltrepassando l’abituale tendenza a giudicare e classificare. Un atto sarà dunque «tale di per sé» soltanto a condizione di aderire alla situazione così come si presenta e di rifletterla perfettamente, alla maniera di uno specchio che riflette le cose come sono. L’uomo perfetto fa del proprio cuore uno specchio. Non si attacca alle cose, né va loro incontro. Si limita a rispondervi senza cercare di trattenerle. È così che è in grado di dominare le cose senza venirne toccato. Nel famoso sogno di Zhuangzi-farfalla egli pone l’attenzione sul problema della realtà: Un giorno Zhuangzi sognò di essere una farfalla; era felice di essere una farfalla: quale piacere, quale libertà! Aveva dimenticato di essere Zhou. Improvvisamente si risvegliò, e si ritrovò con stupore nella parte di Zhou. Ora non sapeva più se era Zhou ad aver sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla ad aver sognato di essere Zhou. Ma fra Zhou e la farfalla doveva ben esserci una differenza: e ciò si chiama la metamorfosi degli esseri. Per Zhuangzi il problema è che non vi è alcun modo di sapere se colui che parla è in stato di veglia o di sogno, così come non vi è modo di sapere se ciò che si pensa sia conoscenza o ignoranza. Zhuangzi distingue tra ciò che dipende dal Cielo e ciò che dipende dall’uomo appellandosi nuovamente alla metafora dell’acqua. Ogni volta che la mia azione è volontaria, ogni volta che impongo il mio io, andando controcorrente rispetto al corso naturale delle cose, essa dipende dall’uomo, ossia dal wei 为, l’agire che forza la natura. Quando invece l’azione va nel senso delle cose, quando si lascia portare dalla corrente, essa dipende da ciò che è naturale (ossia dal Cielo e dal Dao), e si tratta del wuwei 无为, il non agire. Tutto ciò che rientra nel concetto di ego è periferico, mentre il centro risiede nel lasciarsi andare alla corrente del Cielo e del Dao. Il santo (zhenren 真 人) per Zhuangzi è colui che resta unito al Dao in modo tale che non vi sia distinzione tra lui e il Cielo. Non ha più desideri, incertezze, conflitti, mancanze, ma vive in totale pienezza cosmica. L’umanità nel senso confuciano è dunque un ostacolo al raggiungimento di questo livello superiore. La potenza che il santo attinge a quella del Dao è di natura spirituale e fisica. Il qi 气, l’energia ed essenza vitale, deve essere assottigliato ed allenato il più possibile per agevolare il processo di fusione con il Dao. Questo necessario affinamento concerne non soltanto il corpo fisico (da qui gli esercizi di respirazione e motori), ma anche la parte spirituale. Per Zhuangzi, la fusione con il Dao non è un’immersione beata nel Grande Tutto, ma essa si attinge soltanto a prezzo di una lunga e rigorosa pratica d’affinamento, il cui esito non consiste nell’abissarsi in una totalità indifferenziata, ma nel considerare le cose come farebbe uno specchio, non al fine di avere presa su di esse, ma al contrario per distaccarsene. L’esistenza del Laozi, come opera, non è attestata prima del 250 a.C., ma secondo la leggenda (che è chiaramente stata smentita) fu un contemporaneo di Confucio e suo maestro. Laozi significherebbe vecchio maestro, e non si sa nulla di lui, probabilmente era anch’esso originario di Chu, ma la sua bibliografia nelle Memorie (Shiji) di Sima Qian sono fin troppo precise e dettagliate per essere vere. Anche intorno alla sua morte ci sono vari dubbi, poiché, sempre secondo la leggenda, Laozi demoralizzato dal declino dei Zhou, sarebbe partito per Ovest. Quando giunse all’ultimo passo prima della steppa, il guardiano di quel luogo gli chiese: «Dato che state per ritirarvi dal mondo, vi prego di voler comporre un libro per me». Lassù Laozi scrisse Il Classico della Via e della Virtù, Daodejing 道德经 (nota anche con il titolo di Laozi), «poi se ne andò e nessuno seppe dove morì», il che rese possibile il suo recupero nel quadro del buddismo. La sua opera è diversa in quanto struttura, invece di un’esposizione didattica sotto forma di domande e risposte (Dialoghi o Mengzi) si ha qui una poesia ritmata e rimata, piuttosto criptica, che corrisponde alla ricerca forse di una forma che corrispondesse alla difficoltà dell’argomento da trattare. Il tema centrale del Laozi è il wuwei 无为, per il maestro Lao miglior modo di rimediare al saccheggio, alla tirannide, all’usurpazione e al massacro sarebbe appunto il non agire, spezzando il cerchio della violenza rendendo l’aggressione inutile. Non cercare di primeggiare con le armi - Perché primeggiare con le armi chiama risposta. - Colui che agisce distruggerà - Colui che prende perderà. - Il Santo, non agendo su nulla, nulla distrugge - Non impadronendosi di nulla, nulla ha da perdere. E poi ancora: Il Maestro disse: «Chi meglio di Shun seppe governare tramite il non-agire? Gli bastava, per far regnare la pace, star seduto in tutta la sua maestà col viso rivolto a mezzogiorno». Colui che governa tramite il suo potere morale (de) è come la stella polare, immobile nel suo asse, ma centro d’attrazione per ogni pianeta. Il non-agire non consiste quindi nel non far nulla nel senso di incrociare passivamente le braccia, ma nell’astenersi da ogni azione aggressiva, diretta, intenzionale, al fine di lasciar agire l’efficacia assoluta del Dao. Il non-agire è ciò che il Laozi chiama «l’agire senza traccia», in quanto «colui che sa camminare non lascia traccia». Il Santo è colui che «aiuta i diecimila esseri a vivere secondo la loro natura, guardandosi dall’intervenire». Anch’egli fa ricorso alla metafora dell’acqua, però mentre Mencio utilizzava questa metafora paragonando la tendenza dell’acqua a scorrere verso il basso alla predisposizione della natura umana ad agire nel bene, nel Laozi la metafora richiama i trattati di strategia, simile all’Arte della guerra secondo Sunzi. La disposizione delle truppe è a somiglianza dell’acqua. Come l’acqua tende ad evitare ogni altezza per scorrere verso il basso, così le truppe tenderanno ad evitare i punti forti del nemico per attaccarne i punti deboli; come l’acqua determina il suo corso in funzione del terreno, così le truppe determinano le loro strategie vittoriose in funzione del nemico. L’acqua rappresenta l’elemento in apparenza più insignificante che, pur senza opporre resistenza a nulla, riesce ad avere la meglio sui materiali ritenuti più solidi. L’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale, […] è alla Via assai vicina. Niente al mondo è più debole e cedevole dell’acqua ma per intaccare ciò che è duro e forte niente la supera. […] che la debolezza vince la forza e la mollezza vince la durezza, non v’è nessuno sotto il Cielo a non saperlo benché nessuno lo sappia mettere in pratica. Poiché scorre verso il basso, l’acqua è ciò verso cui tutto confluisce, ed evoca così l’immagine della Valle. Nella sua umiltà (ed umidità) è ciò che da vita a ogni cosa, simbolo in questo dell’elemento femminile, dello Yin che conquista Yang per attrazione piuttosto che per costrizione. Dall’immagine della femminilità si arriva a quella della madre. Il Laozi privilegia in modo del tutto nuovo e particolare il lato femminile, contrapponendosi al confucianesimo che è eminentemente Yang e centrato sulla figura del padre. Lo spirito della Valle non muore – Ha misterioso nome femminile – La porta del misterioso femminile – Ha nome radice del Cielo-Terra – Un filo sottile che si esiste appena – E tuttavia, per quanto usato, mai si usura. L’acqua e le metafore che vi sono associate valgono ad esemplificare questo paradosso: il debole riesce a trionfare sul forte, ciò che è flessibile su ciò che è rigido, ciò che è molle su ciò che è duro. Egli preferisce dunque il debole al forte, il femminile al maschile, il vuoto (wu) al qualcosa (you), senza però escludere la controparte, creando comunque un paradosso. Questo paradosso si fonda però su di una constatazione naturale: tutto ciò che è forte, duro e superiore, un tempo è stato debole, molle e inferiore, ed è destinato a ridiventarlo secondo uno schema ciclico. È quindi nel debole e nel passivo che il forte ha origine. Quest’illuminazione è alla base della tolleranza taoista (ci), se il Santo taoista, ponendosi più in basso degli altri fa in modo che questi finiscano per andare nel suo stesso senso. Ciò si chiama «agire tramite il non-agire». Applicando questo concetto al regno, se il popolo avrà vita semplice, il sovrano non dovrà intervenire, poiché tutto seguirà il proprio corso. Lascia perdere la promozione dei più capaci, e il popolo cesserà di contendere, non dar valore alle cose rare, e il popolo cesserà di rubare, non mostrargli ciò che induce alla cupidigia, e il popolo avrà il cuore in pace. Così si esprime il governo del Santo: svuotare i cuori e riempire i ventri, indebolire la volontà e rafforzare le ossa, precludere sempre al popolo sapere e desiderio, fare in modo che gli scaltri non osino far nulla, agire tramite il non-agire, e tutto sarà nell’ordine. Mentre Zhuangzi nega esplicitamente l’opportunità per il saggio di dedicarsi alla vita sociale e politica, Laozi invece sottolinea come il non-agire sia ottimamente applicabile anche al governo del paese, stabilendo un’identità tra il «governare sé stessi» e «governare il Paese» (zhishen zhiguo 治身治 国). Un’azione è dunque efficace soltanto se va nel senso della naturalezza delle cose, ritornando alla natura originaria. Per meglio esplicare questo concetto del ritorno all’origine, Laozi si serve della metafora del neonato, che rappresenta l’energia vitale allo stato puro, derivante dalla potenza stessa del Dao. Il non agire si configura come una modalità per tornare al nostro stato di natura, qual era la nostra nascita. Il ritorno all’infanzia evoca dunque l’origine perduta, che si avverte quando si è a contatto con i bambini: benché consapevoli di esserci passati noi stessi per tale condizione, abbiamo la sensazione che tutto ciò sia cancellato. Sul piano collettivo, si tratta di tornare alla nascita dell’umanità, in uno stato primitivo dove l’uomo segue il corso naturale delle cose, in cui l’assenza di morale, di leggi, di punizioni, non induce l’individuo ad essere a loro volta aggressivi, divisi in comunità abbastanza vicine da sentire il cane o il gallo del vicino, ma abbastanza lontane da non entrare in conflitto. Il ritorno all’Origine è inteso come un ritorno al Dao. Il Dao non può essere nominato, non può essere descritto, non può essere trasmesso, ma può essere intimamente compreso solo enormi fatiche e risultati, poiché le terre e le risorse sono rimaste le stesse del passato, dunque si scatenano conflitti. Questa costatazione è fatta in modo oggettivo, non vi è alcun giudizio o considerazione morale. I legisti si configureranno come autentici affossatori di tutto l’ordine confuciano, sostituendo allo spirito rituale la legge. Il termine fa, che si traduce con «legge» e dà il nome al «legismo», si trova nei testi antichi con il significato generale di «modello cui conformarsi», ed è spesso associato agli strumenti di misurazione. I legisti, si serviranno spesso di questi strumenti nei loro discorsi, infatti con uno strumento come la bilancia non c’è bisogno di un intervento soggettivo e morale da parte di colui che la utilizza. Contrariamente a Mencio e a Xunzi, per i quali la legge non può bastare da sola e deve avere per fondamento un’etica dell’umanità e della benevolenza, i legisti ritengono che la forza della legge basti a sé stessa, poiché è più efficace anche dei legami di sangue. Dal momento in cui la legge era pubblicata, nessuno poteva ignorarla, e con ciò si instaurava l’uguaglianza di tutti. Essa va però intesa in senso penale, in quanto ha la funzione di fissare ricompense e castighi. Un sistema di questo tipo è, secondo i legisti, il solo incitamento capace d’esercitare una qualche influenza sulla natura umana, visto che le motivazioni d’ordine morale non hanno più posto. «I riti non scendono fino alla gente comune, i castighi non raggiungono i grandi dignitari» (Liji): i legisti affermano invece la necessità di colpire chiunque meriti una punizione, anche i ministri. La legge è applicata duramente, senza sconti neppure in considerazione di meriti precedenti o altro. I magistrati che non applichino la legge integralmente sono condannati a morte, per tre generazioni. Shang Yang devia la metafora di Mencio, valendosene per esemplificare una tesi opposta: È nella natura degli uomini inseguire il profitto così come l’acqua segue la linea di maggior pendenza. Sono gli interessi egoistici a muovere gli uomini. E il sovrano detiene la fonte di ogni ricchezza. L’acqua che scorre verso il basso di Mencio non simboleggia la bontà della natura umana, ma l’interesse egoistico del profitto che accomuna gli uomini. Il potere non è più associato al valore personale del sovrano, alla sua virtù (de), ma alla «posizione di forza» (shi), ossia all’efficacia delle istituzioni che fanno rispettare la legge (la capacità di imporsi). Un’altra storia di Han Feizi ne spiega meglio il concetto: Un uomo che faceva commercio di lance e scudi vantava i suoi scudi, tanto solidi che niente poteva trapassarli e proseguiva il discorso vantando le sue lance: «Sono così acuminate, che non v’è nulla che non possano perforare». Qualcuno gli obiettò: «E se provassi a trapassare un tuo scudo con una delle tue lance?». Egli allora si trovò in grande imbarazzo, non sapendo proprio cosa rispondere. Porre al contempo uno scudo infrangibile e una lancia irresistibile è una contraddizione in termini. Dire che il dao del valore morale non può essere escluso, e d’altra parte che è il dao della posizione di forza ad escludere qualsiasi cosa, è cadere nella contraddizione della lancia e dello scudo. Risulta dunque chiaro che valore morale e posizione di forza non possono coesistere. La tattica (shu 术) è l’altro strumento da associare alla legge, di cui dispone il sovrano per governare. Consiste nel saper utilizzare tutti i mezzi possibili per realizzare i propri disegni, traendo vantaggio dalle debolezze dei sudditi e dei funzionari, verificando che le «forme e i nomi», ossia la competenza nominale (la carica) e quella reale corrispondano, e distribuire ricompense o castighi di conseguenza. Storiografia. Gli storici cinesi, influenzati dalla dottrina confuciana dei fondamenti etici del governo, hanno sempre messo in evidenza i fattori personali nella spiegazione del ciclo dinastico; così, fondatori di dinastie che sostennero con successo di aver ricevuto il Mandato del Cielo, non sono presentati soltanto come uomini eccezionali, mentre gli ultimi sovrani, quelli che perdettero il Mandato sono descritti come uomini malvagi e corrotti. In effetti, le famiglie imperiali finivano inevitabilmente per degenerare: il fondatore di una dinastia doveva naturalmente essere un uomo di grande abilità e forza, e lo slancio che egli inizialmente imprimeva all’organismo sociale durava per alcune generazioni. I successivi sovrani, educati in una corte dominata dal fasto e dagli intrighi, erano invece presumibilmente di carattere assai debole; di solito una dinastia produceva tra i suoi ultimi rappresentanti un uomo energico, il quale, o dava all’impero una seconda giovinezza o lo mandava in rovina. Il ciclo dinastico sembra essere principalmente un ciclo economico- amministrativo, anziché una questione di caratteri personali o ereditari. Tutte le grandi dinastie hanno conosciuto un periodo iniziale di prosperità: il gruppo che si impadronisce del trono è di solito relativamente piccolo e molto compatto; le guerre che lo hanno portato al potere hanno anche eliminato la maggior parte dei rivali, e la ricchezza della nazione si riserva quindi nelle casse dello stato. La ricchezza del governo centrale permette la costruzione di grandi palazzi, di strade, di canali, di mura; la nobiltà e la grande burocrazia aumentano di numero e si vanno abituando ad un genere di vita sempre più fastoso. I successi militari estendono smisuratamente le linee difensive dell’impero, che diventano di conseguenza sempre più costose; territori via via più estesi vengono sfruttati, insieme ai contadini che li coltivano, per l'utilità personale delle classi dominanti, mentre il numero di coloro che pagano le tasse al governo centrale diminuisce sempre più. A causa del costante aumento delle spese, che spesso si accompagna ad una relativa diminuzione delle entrate, ogni dinastia viene a trovarsi, in meno di un secolo dalla sua fondazione, in serie difficoltà finanziarie; si intraprendono quindi riforme economiche e amministrative, che a volte riescono ad arrestare per un momento la decadenza finanziaria, ma alla fine la spirale discendente riprende il suo movimento. Le difficoltà economiche e amministrative si accumulano; aumentano l’egoismo e l corruzione dei funzionari, mentre diminuisce l’efficienza dell’amministrazione e si intensificano a corte le lotte di fazione: i rivali potenziali della famiglia imperiale diventano politicamente ed economicamente più indipendenti dal governo centrale, che ora possono sfidare impunemente. Per colmare il disavanzo l’onere fiscale che grava sui contadini viene aumentato fino al punto di rottura; proprio per le difficoltà finanziarie del governo, i canali e gli argini sono lasciati andare in rovina, e ciò rende più grave il pericolo di inondazioni e di siccità. I sistemi difensivi di frontiera, non adeguatamente presidiati, diventano inefficienti; i funzionari provinciali e i loro eserciti cessano di obbedire al governo il cui potere comincia a sgretolarsi, vengono allora le guerre che liquidano il vecio regime e aprono la strada alla fondazione di una nuova dinastia. Sima Qian (145 a.C. circa – 86 a.C. circa). Sima Qian nacque e crebbe a Longmen, nei pressi della moderna Hancheng, in una famiglia di astrologi. Suo padre Sima Tan serviva come Prefetto dei Grandi Scribi dell'imperatore Wudi di Han. La sua maggiore responsabilità era di amministrare la libreria imperiale e di mantenere e riformare il calendario. Viaggiò a lungo sia per conto suo che come Custode di Palazzo, i cui compiti erano quelli di ispezionare le varie parti del paese con l'imperatore Wudi. Nel 110 a.C., suo padre si ammalò e, pensando di essere prossimo alla morte, richiamò suo figlio a casa per affidargli il compito di completare la ricerca storica che aveva iniziato: Sima Tan voleva proseguire gli annali del Periodo delle primavere e degli autunni. Spinto dall'ispirazione di suo padre, Sima Qian cominciò la compilazione dello Shiji nel 109 a.C. Tre anni dopo la morte di suo padre, Sima Qian divenne Grande Storico di corte. Nel 99 a.C., Sima Qian fu coinvolto nella vicenda Li Ling: il generale Li Ling, comandante di una grande spedizione militare contro la tribù degli Xiongnu a nord, fu sconfitto e costretto a ritirarsi. La grave sconfitta ebbe una grande risonanza in tutta la Cina e l'imperatore avviò un processo pubblico per punirlo. Al termine del processo l'imperatore condannò a morte Li Ling con tutti i suoi collaboratori, e Sima fu l'unico funzionario di corte a difenderlo, venendo condannato a sua volta. A quei tempi la condanna a morte poteva essere riscattata o con una pesante multa o con la castrazione. Non avendo Sima abbastanza denaro per riscattare la sua vita dovette scegliere la seconda. Fu così castrato e rinchiuso in carcere, dove rimase tre anni. Nel 96 a.C., alla sua liberazione dalla prigione, Sima scelse di vivere a corte come eunuco in modo da terminare le sue storie, piuttosto che suicidarsi come prescriveva l'etichetta per un funzionario di corte caduto in disgrazia. Nello scrivere lo Shiji, Sima introdusse un nuovo stile di presentazione della storia, non è solo annalistico come il Chunqiu, ma è diviso in cinque sezioni: 1. Annali cronologici dall’imperatore Giallo a Wudi. Dati certi: dall’841 a.C. 2. Tavole: genealogie delle famiglie reali e aristocratiche Zhou e Han 3. Trattati monografici: riti, musica, astrologia, economia 4. Casati: storia delle famiglie aristocratiche (e Confucio) 5. Biografie: personaggi eminenti e popoli “barbari” Rispetto alle Primavere e Autunni di Confucio presenta una visione multipla, ovvero ogni personaggio è visto da varie angolazioni al fine di mostrarne le sfaccettature e la complessità del giudizio, è la sistematizzazione di tutta la storia; è la teorizzazione e il riscontro di tutta l’ideologia Han. Ha uno stile quasi romanzesco. Ban Gu (32 – 92 d.C.). Durante il regno di Wudi, divenne consuetudine calcolare il tempo secondo periodi annui arbitrariamente definiti e prevalentemente indicati in base al loro valore magico, un metodo strettamente associato all’interesse che gli Han avevano per i simboli e i prodigi. Il periodo annuo poteva durare a lungo se la situazione era stabile o essere considerato chiuso dopo pochi mesi per il verificarsi di qualche sciagura o di qualche presagio particolarmente favorevole; ne risultò un caotico metodo di calcolo del tempo che rese i cinesi sempre più propensi a considerare le dinastie come elemento determinante della periodizzazione storica. La seconda grande opera della nuova scuola storiografica fu redatta da un’intera famiglia di studiosi: iniziata da Ban Biao, essa fu in gran parte scritta dal figlio, Ban Gu, e completata dalla sorella di quest’ultimo, Ban Zhao. I Pan, che scrivevano nei primi anni della dinastia Han posteriore, limitarono la loro trattazione alla dinastia precedente, esaminando quindi il periodo considerato dalle Memorie storiche per la sola parte relativa al primo secolo del dominio Han. La Storia degli Han è una vasta opera di 100 capitoli che segue da vicino il modello di Sima Qian; ben presto venne introdotto il principio secondo il quale ogni nuova dinastia aveva il dovere di continuare le memorie del passato redigendo un resoconto ufficiale della dinastia precedente. Se il lavoro fosse risultato soddisfacente veniva approvato da un’ordinanza dell’imperatore che lo collocava tra le storie modello; se una storia modello ufficialmente riconosciuta veniva in seguito considerata poco attendibile, una seconda o nuova storia doveva essere redatta sotto gli auspici della dinastia regnante. Il Buddhismo. Il buddhismo ha inizio in India, dove Gautama Sākyamuni (560 – 480 a.C., contemporaneo di Confucio), principe ereditario di un piccolo regno ai piedi dell’Himalaya, allevato nel lusso, rinuncia a tal genere di esistenza per intraprendere la via religiosa, dopo aver avuto la rivelazione che «tutto è illusione». A trentacinque anni, raggiunta l’illuminazione sotto l’albero del risveglio, diviene noto come Buddha, «il Risvegliato». Passa quindi il resto della sua vita ad insegnare e muore in paranirvāna all’età di ottant’anni. La legge del karma fa sì che gli esseri, rinascendo secondo la natura e la qualità dei loro atti passati, ne siano gli «eredi». La parola karma significa «atto», «fatto», e ogni atto produce un risultato buono o cattivo. L’atto dunque non è neutro, ma è portatore delle sue conseguenze. In un ciclo di rinascite, dove l’esistenza non è considerata limitata da un inizio e da una fine, me è piuttosto concepita come una concatenazione infinita di esistenze sotto forme diverse, il karma determina ciò che l’essere diverrà nelle sue esistenze future, poiché ci si reincarnerà in base alla sua eredità. L’apporto del buddhismo alla teoria del karma consiste nell’aver messo l’accento non sull’atto stesso, bensì sull’intenzionalità di cui l’atto è la manifestazione. È l’intenzione, l’impulso psicologico ad essere generatore di karma, innescando una concatenazione di cause che ha come esito il risultato. Ecco perché il buddhismo mira, in primo luogo, a sradicare l’intenzionalità, ossia il duhkha, il desiderio. Questo termine designa lo stato d’insoddisfazione e di malessere permanenti che caratterizzano la condizione di ogni essere asservito alla ruota del samsāra (che significa «scorrere» ed evoca la «perpetua erranza»). L’intuizione centrale del buddhismo è che la nostra più grande illusione è la convinzione che abbiamo di costruire ciascuno un «io» permanente. Secondo la teoria del «non-io», l’essere umano si riduce a cinque aggregati di meri fenomeni (corpo materiale; sentimenti; percezioni; formazioni mentali; atti di coscienza) che costituiscono l’individualità. L’illusione consiste nel sovrapporre a questi aggregati di fenomeni la nozione di un «io» che vi conferisca sembianze di unità e permanenza, ma che altro non fa che incatenarci alla ruota dell’esistenza, al samsāra. che si nutriva verso una religione straniera. Dal canto loro, i sacerdoti taoisti, che si trovarono sempre più spesso a dover competere con i buddhisti nella ricerca del favore imperiale o dell’appoggio popolare, contribuirono talvolta ad accendere il furore antibuddhista. Ma le ragioni più importanti delle persecuzioni furono finanziarie: periodicamente si faceva strada nei circoli governativi l’idea che le eccedenze di terra (e di monaci) dei monasteri dovessero essere riscritte sui registri fiscali e le loro grandi ricchezze confiscate. Le persecuzioni religiose che colpirono il buddhismo in Cina furono dirette unicamente contro il clero e il patrimonio della chiesa mentre i singoli credenti solo di rado vennero seriamente minacciati. Il Neoconfucianesimo, Lixue. A partire dall’epoca Song, comincia a diffondersi questa corrente filosofica che noi occidentali definiamo “Neoconfucianesimo”, termine che nella tradizione cinese non esiste. Infatti, questa scuola di pensiero è conosciuta in patria con il nome di Lixue, che possiamo tradurre come “la scuola del principio”. Tiene conto del pensiero di Confucio e di Mencio, ma viene poi arricchito dalle nuove tendenze filosofiche e religiose, buddhiste e taoiste, è una rilettura del classicismo. Si chiama Lixue poiché cerca di trovare un principio universale, un modello di spiegazione dell’universo. I neoconfuciani sono inizialmente gruppi di studiosi che si riuniscono per studiare i classici e per restaurare l’antica via dei sovrani mitici. La loro esigenza è di contribuire alla stabilizzazione dell’ordine sociale e politico e alla ridefinizione dell’identità culturale cinese, in contrapposizione alle popolazioni barbariche del nord. Un elemento che lega il confucianesimo al Lixue è sicuramente l’importanza della morale e del comportamento individuale, il neoconfucianesimo non vuole solo capire quale sia il modello base dell’universo, ma anche come noi, con il nostro comportamento, possiamo conformarci ad esso. Tuttavia, mentre il primo, nato durante gli stati combattenti, dà vita a un modello di comportamento morale che prevede la partecipazione attiva alla vita politica, il secondo è più rivolto alla spiritualità interiore. Questo però non significa che i neoconfuciani rifuggano dalla società, al contrario cercano di educarla, ma più semplicemente non si oppongono alla dinastia stabile che è al governo. Chiaramente questo tipo di pensiero favoriva i sovrani. A garantire la diffusione della nuova corrente di pensiero vi è sicuramente la stampa e la maggior diffusione dei libri, e anche il rinnovato sistema degli esami. I termini al centro del Neoconfucianesimo sono: il li, il principio; e il qi, l’energia (elemento materiale). Possiamo dire che il li è il concetto di albero, il codice, per dirlo in termini informatici, e il qi è il materiale che fa sì che il codice diventi tangibile. Va sottolineato che i due elementi non sono separati come nel buddhismo, ma fanno entrambi parte della realtà. I primi esponenti della scuola neoconfuciana sono i cosmologi che guardano all’universo con occhi scientifici e cercano di utilizzare modelli matematici per spiegare l’universo e per prevedere il futuro. Si sviluppa questo atteggiamento di osservazione della natura per cercare di cogliere il principio dell’universo che si cela dietro. Secondo i cosmologi abbiamo tre strumenti per svelare il principio delle cose: la conoscenza sensoriale, usando i nostri sensi abbiamo una prima conoscenza della natura; spiritualità e l’intuito, date da forme di pensiero che vanno al di là dei nostri sensi; e la fusione di questi due approcci. I principali esponenti del neoconfucianesimo sono: Zhou Dunyi (1017-1073) si concentra su come raggiungere la santità, che consiste nella perfetta sintonia con l’universo, sentendoci tutt’uno con esso e al contempo essere sé stessi (lasciando che il li si esprima pienamente). Questo ci spiega perché i neoconfuciani si rifanno a Mencio, poiché se la mia natura è data dall’universo, ne consegue che essa sia buona. Quando l’uomo devia dall’equilibrio cosmico inciampa nel male. Secondo la concezione cristiana il male è un’entità che agisce nel mondo terreno, in cui viviamo, e che ce ne possiamo liberare solo ascendendo al mondo divino, che è separato da questo, per mezzo della fede. Nel neoconfucianesimo la visione del male è frammentata, vi sono tanti mali di cui dobbiamo capire la causa, e se il Tianli è per sua natura ciò che produce ordine e armonia, ne deriva che il male non è dovuto al li, ma è proprio del qi. Dato che il qi è ciò che costituisce fisicamente ogni cosa, la qualità del qi influenzerà quelli che sono anche i nostri atteggiamenti e può produrre il male. Per fare un esempio più concreto, il male può essere un momento in cui io percepisco una sofferenza. Questa sofferenza è il mio qi che è in condizioni di turbamento e non è armonico con l’universo. La soluzione è quella di riportare il mio qi a uno stato armonico. Quindi il lavoro per sfuggire al male è un lavoro su sé stessi sotto ogni aspetto, sia fisico che mentale. Qualunque cosa io faccia per alimentare il mio qi va bene, e può essere lo studio, una sana alimentazione, fare sport, meditare, in modo tale che una volta affinato, possa ben comprendere i segnali del Tianli. Un qi inquinato non è infatti in grado di interpretare questi segnali, e i propri desideri ( prodotti dall’attrazione del mio qi a quello di qualcos’altro, e l’eccesso di questa interazione che porta al male) e i propri sentimenti (si noti la differenza tra la cultura romantica, dove l’eccesso di sentimento è concepito come il più alto valore, e, ad esempio struggersi per amore è una qualità positiva anche se dolorosa, al contrario per i neoconfuciani è visto come un atteggiamento assolutamente da evitare) sono quelli che ci fanno sperimentare il male, poiché se non tenuti sotto controllo, vanno a inquinare il nostro qi. Questa è una chiara influenza buddhista. L’uomo ideale è colui che sa moderare le proprie passioni e i propri sentimenti, raggiungendo uno stato di moderazione e mettendosi sulla stessa frequenza del Tianli. A differenza del cristianesimo non vi è quindi una lotta cosmologica tra bene e male. È da tener conto che al momento della nostra nascita, il nostro qi ha già una specie di suo carattere, e quindi ci sono individui che devono faticare più di altri per essere in armonia con il proprio li. Zhang Zai (1020-1077) è il pensatore che guarda di più al qi, e da una parte lo definisce come elemento fortemente egualitario, che più ci rende simili al resto del cosmo poiché presente in ogni cosa, e dall’altra sottolinea come le diversità nel qi spieghino le diversità fra gli individui. I desideri umani quando non sono eccessivi creano una sana armonia tra i qi, da cui ne consegue un’armonia con il li. Per Zhang Zai è molto importante migliorare il proprio qi costantemente, e fa l’esempio della marionetta: Se colui che apprende si ferma un solo istante diventa come una marionetta che si muove solo quando se ne tirano i fili, e che si ferma quando la si lascia andare. […] Se colui che apprende si ferma un solo istante, è come se morisse, perché ciò rappresenta la morte dello spirito, anche se il corpo resta in vita… I fratelli Cheng erano nipoti di Zhang Zai, ma guardano un po’ di più al li, dove secondo loro risiede il “codice” del nostro carattere, stabilendo come noi ci dobbiamo comportare. affermano che la nascita di ogni essere dipende dalla combinazione di li e qi, ed è secondo la purezza o la torbidezza del qi di ognuno che si differenziano tra loro. Zhu Xi (1130-1200) è il vero padre del neoconfucianesimo poiché riorganizza tutto il pensiero dei suoi predecessori, e da un corpus di testi a cui fare riferimento, che sono i 5 classici e i 4 libri. Dà attenzione al li, stabilendo che se io mi adeguo all’ordine stabilito dal Tianli sono una persona morale, se mi oppongo mi sto comportando male. Non è esclusa ogni attività di critica politica, ma è più complicato da fare poiché di fatto non mi devo opporre solo al sovrano, ma all’intero sistema I 4 semi di Mencio (umanità, giustizia, vergogna/coscienza morale e senso del rituale/retto comportamento) sono per Zhu le manifestazioni del li, le 7 emozioni (amore, odio, gioia, ira, tristezza, desiderio, paura) sono invece le manifestazioni del qi. I 4 semi, in quanto emanazioni del principio, sono sempre buoni, mentre le 7 emozioni possono essere buone solo se si manifestano moderatamente e al momento opportuno. L’individualismo è anch’esso considerato non armonico e immorale, poiché lo sviluppo della nostra personalità è sempre misurato attraverso la nostra interazione sociale, non possiamo giudicare il nostro grado di sviluppo individualmente, poiché si manifesta nel modo di porci agli altri.
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