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Riassunti Storia dell'estremo Oriente, Appunti di Storia dell'Asia

Riassunti dettagliati della storia di Cina, Giappone e Corea.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 18/01/2022

kanae95
kanae95 🇮🇹

4.6

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Scarica Riassunti Storia dell'estremo Oriente e più Appunti in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! Storia del Giappone Introduzione. Data la sua posizione geografica, il Giappone mantenne sempre una propria cultura indipendente, e le influenze cinesi furono davvero limitate. La sua popolazione attuale ammonta a più di centoventi milioni di persone. La maggior parte del paese è ricoperta da montagne, e solo un quinto del territorio è coltivabile. Tuttavia, grazie al clima è possibile la coltivazione intensiva. Le precipitazioni sono abbondanti tutto l’anno, fatta eccezione del periodo che va dalla fine dell’autunno all’inizio dell’inverno. La risorsa più importante è la pesca, poiché il suolo è povero di materie prime, metalli e minerali. I fiumi sono bassi e non navigabili, di conseguenza, nel passato, le comunicazioni tra le varie parti del Giappone risultarono piuttosto complicate. Solo nella parte meridionale vi sono zone relativamente estese di terreni agricoli, tra le quali le comunicazioni sono abbastanza facili, ed è proprio qui, nel Kyūshū, dove oggi sorgono le città di Ōsaka, Kyōto e Kōbe, che sorse l’antica civiltà giapponese. Le fonti storiche. Le prime testimonianze cinesi ci forniscono notizie interessanti sull’organizzazione sociale e politica dell’antico Giappone, la più importante tra queste è il «Wei zih», la parte che tratta della dinastia Wei negli ufficiali Annali dei tre Regni (297); e ci dice della cultura yayoi e quella delle tombe. L’opera descrive un popolo osservante delle leggi e amante delle bevande alcoliche, che praticava l’agricoltura, abile nella filatura e nella tessitura, esperto nella pesca; un popolo che viveva in una società caratterizzata da rigide distinzioni sociali, che venivano indicate dai tatuaggi o da altri segni del corpo e sul viso (quest’ultima notizia è confermata dai segni presenti su alcune delle figure haniwa). Pare inoltre che le società primitive giapponesi abbiano avuto una fase di transizione dal matriarcato al patriarcato: sembra che i paesi del Giappone occidentale siano stati sotto la signoria di una regina nubile di nome Himiko che governava nello Yamatai, mentre i paesi più lontani erano indipendenti; Yamatai sembra essere una versione di Yamato, il distretto della antica capitale degli imperatori giapponesi, e Himiko probabilmente significa “Principessa del sole”, nome appropriato a un membro di una stirpe di sovrani che pretendevano di essere i discendenti di una Dea del Sole. I più importanti documenti sulle origini del Giappone e sulla formazione dello stato giapponese sono comunque le più antiche testimonianze indigene, anche se non si tratta di opere molto precise: il Kojiki (memoriale degli avvenimenti dell'antichità) fu compilato soltanto nel 712 e il Nihon shoki (storia del Giappone o Nihongi) nel 720. Le informazioni sulla storia antica offerteci dal Kojiki e dal Nihon shoki sono intessute di una gran varietà di miti, leggende, genealogie e idee prese a prestito dalla filosofia e dalla storia cinesi; dalle scoperte archeologiche non si può desumere ad esempio che Izumo fosse un importante centro culturale, e il suo Grande Santuario, il secondo per importanza tra tutti i templi giapponesi, potrebbe essere ciò che rimane però di un grande centro politico. La discendenza del Sole venne fondata da Ninigi, nipote della Dea del Sole, che, disceso dal cielo, portò sulla terra le 3 insegne che ancora oggi costituiscono i simboli dell’Autorità dell’imperatore, ossia uno specchio di bronzo, la spada di ferro e un gioiello ricurvo (magatama). Il titolo attribuito al leggendario fondatore della dinastia imperiale è quello di Jimmu (divino guerriero): la genealogia imperiale, che risale senza interruzioni fino a Jimmu, ha forse una certa validità storica, poichè le tradizioni orali di molti popoli hanno conservato accurate genealogie delle case regnanti, le date relative ai primi sovrani, però, non sono attendibili. 1. Dalle origini alla fondazione dello Stato su modello cinese Il periodo Jōmon o del «disegno a corda» (10000 – 300 a.C.) I primi popoli primitivi è assai probabile che si stanziarono in Giappone quando questo era ancora unito al continente, poiché il giapponese apparterrebbe, insieme al coreano, al mongolo e al turco, al ceppo delle lingue altaiche. Durante il Paleolitico, queste popolazioni utilizzavano rozzi utensili di pietra e osso. I primi oggetti in ceramica risalgono al periodo Jōmon o del «disegno a corda» (10000 – 300 a.C.) che prende il nome dai segni di corda o stuoie che decoravano la superficie di queste ceramiche. I più antichi manufatti di terracotta (dogū in giapponese) riproducono, in modo piuttosto astratto e semplice, figure a cavallo o dai seni e gli addomi sporgenti, che probabilmente invocavano la fertilità e l’abbondanza. Alcuni di questi dogū sono stati rinvenuti nei mucchi di conchiglie dove si ammassava il cibo, quindi sarebbe da escludere l’uso votivo. La loro funzione era forse quella di una sorta di amuleti su cui trasferire le malattie e le calamità degli individui, e probabilmente lo stesso rischio di morte legato al parto. La popolazione Jōmon viveva in gruppi di piccole capanne semi interrate. Verso la metà del IV millennio a.C., si registra uno spostamento di questa cultura dalle fasce costiere alle zone più interne, forse in seguito all’abbassamento del livello del mare e alla conseguente riduzione delle risorse che esso offriva. A ciò dovette contribuire pure il miglioramento dei metodi per sfruttare le risorse della terra. Lo studio della ceramica prodotta nel Kyūshū e nello Honshū occidentale verso la fine del periodo Jōmon indicherebbe la presenza di contatti tra queste regioni e la penisola coreana, attraverso cui sarebbe stata introdotta la tecnica di coltivazione del riso mediante l’irrigazione. L’arrivo della risicoltura diede avvio alla transizione verso una nuova era chiamata Yayoi, ma lo stile di vita caratteristico dell’epoca Jōmon sopravvisse ancora in alcune zone, specie quelle nord-orientali. Il periodo Yayoi (300 a.C. – 250-300 d.C.) Il periodo Yayoi prende il nome dalla zona di di Tōkyō che restituì i primi esemplari di un nuovo tipo di ceramica. Pur se decorata in modo meno elaborato, la ceramica Yayoi, lavorata al tornio, risulta essere di una qualità superiore rispetto a quella Jōmon, con la quale presenta comunque aspetti di continuità, infatti la coltura Yayoi rappresenta una sintesi tra l’apporto esterno, continentale, e gli elementi preesistenti. Oltre alla tecnica della risicultura e dell’irrigazione ad essa necessaria, sarebbero giunti dal continente anche oggetti e prodotti nuovi come armi e specchi di bronzo o attrezzi agricoli in legno, pietra e ferro. Grazie alla diffusione della risicultura, gruppi di famiglie si stanziarono nelle zone più facilmente irrigabili, vivendo in capanne dal pavimento di terra, pilastri e travi di legno e tetti in paglia, costruite l’una accanto all’altra e raggruppate in villaggi. L’accresciuta capacità di controllare i corsi d’acqua e di costruire attrezzi agricoli con l’impiego del ferro contribuì a rendere più proficua la coltivazione dei campi. Il benessere di queste comunità dipendeva dunque dalla terra, dall’acqua e dal sole, ciascuno indispensabile per assicurare un buon raccolto, e i riti erano finalizzati a propiziarsi il favore della natura, così come a scandire il tempo delle fasi della coltivazione. Il compito di garantirsi un ambiente naturale benevolo attraverso l’ottenimento della protezione delle divinità locali, i kami, assunse pertanto un ruolo centrale nella vita comune, e sarà il capo della comunità ad assumere il potere spirituale, accanto a quello politico. È questo il culto dello Shintō (via degli dèi) primitivo, caratterizzato da credenze animistiche e pratiche magiche, del tutto privo di dottrine morali. Infatti, poco incline alla speculazione dei misteri più alti, esso era piuttosto orientato a regolare la vita terrena e quotidiana attraverso la ritualità. Esso non concepiva l’idea del peccato come una trasgressione interna all’individuo; il male (tsumi o «cosa sgradita agli dèi») era piuttosto il risultato di un’azione esterna, una condizione che poteva essere trasformata con il ricorso al rito, tanto è che persino i kami più violenti, come i tifoni, i fulmini o il fuoco, potevano essere propiziati con appositi riti e resi in tal modo benevoli. È probabile che, in origine, gli scarsi contatti tra le singole comunità abbiano portato all’affermazione di culti e di divinità locali differenziate. rappresentati in forma umana, vengono generalmente simbolizzati da oggetti, e gli stessi imperatori vennero venerati come kami. Nonostante la sua ricca mitologia, lo shinto non aveva una filosofia sistematica né un preciso codice morale, metteva l’accento più sulla purezza rituale che sulle virtù etiche; l’impurità rituale, determinata per esempio dalla sporcizia fisica, dai rapporti sessuali, dalle mestruazioni, dalle ferite, dalle nascite o dalle morti, doveva essere sanata con gli esorcismi e le cerimonie purificatrici. Lo shinto è una religione prevalentemente gioiosa e ottimistica, che non conosce il senso della colpa e del peccato, contrariamente ai coreani, attratti dagli aspetti più minacciosi della natura, i giapponesi ne mettevano in evidenza la bellezza e la generosità. I principali templi sono spesso situati in luoghi di grande bellezza naturale o si trovano in foreste di alberi imponenti. Di fronte a tutti i templi si innalzano i “torii”, una specie di porta formata soltanto da 2 colonne verticali e da 1 o 2 colonne trasversali. Nei templi shinto il culto è sempre stato caratterizzato da una grande semplicità: i giapponesi si limitavano a battere le mani, a genuflettersi e a fare piccole offerte di cibi, sake, abiti, strisce di carta o in epoche più moderne danaro. Sul piano economico assistiamo allo sviluppo attorno alla regione di Yamato di centri dediti alla produzione di determinate merci, come la ceramica, il sale, collane di pietra e specchi di bronzo, e parallelamente si stabilì una serie di scambi con le altre regioni. Si trattava di attività alle quali sovrintendeva il clan egemone Yamato, che andava assumendo sempre più le sembianze di un vero e proprio sovrano, anche se l’istituzionalizzazione del suo potere avrebbe ricevuto un decisivo apporto dalle concezioni cinesi. La Cina avrebbe infatti fornito un modello di governo efficiente e centralizzato dove l’autorità e il potere dell’Imperatore erano basati sull’attività di una burocrazia centrale e su una serie di norme che regolavano il sistema amministrativo e fiscale. Anche il ruolo qui assunto dal Buddhismo mostrava come tale dottrina potesse essere posta al servizio dello Stato e utilizzata per rafforzare l’idea e il prestigio del sovrano assoluto. Si accolse quindi il Buddhismo come religione ufficiale dello Stato giapponese. L’introduzione del Buddhismo. Nato verso la fine del VI secolo a.C. in India, il Buddhismo individua le cause della sofferenza umana nelle passioni, da cui era possibile liberarsi attraverso il progressivo annullamento della propria individualità con una serie di reincarnazioni, sino al raggiungimento del nirvana, uno stato di completo annullamento dell’Io, che interrompe il ciclo delle reincarnazioni e segna il passaggio alla felicità e alla salvezza eterna. In Cina esso giunse verso il I secolo d.C., suscitando controversie tra i confuciani, in un periodo in cui il Paese assisteva ad un deterioramento dinastico, accompagnato da guerre, carestie e miseria. Questa dottrina, compatibile con le filosofie preesistenti, non solo divenne ben presto la religione più professata in Cina, ma rappresentò anche una forza ideologica capace di sostenere la riunificazione politica avvenuta nel 589 sotto la dinastia Sui. Dalla Cina, esso era transitato nella penisola coreana nel IV secolo, nel periodo dei Tre Regni, fornendo la giustificazione ideologica della monarchia assoluta affermatasi con l’unificazione del Paese sotto la guida di Silla, nel 668. Quando nella prima metà del VI secolo il Buddhismo comincia ad entrare nell’arcipelago giapponese, esso aveva ormai stabilito un solido legame con la sfera politica. L’introduzione della nuova religione è posta in relazione a un episodio che secondo il Nihon shoki, risalirebbe al 552, mentre molti studiosi lo collocherebbero attorno al 538 (occorre ricordare che tra gli immigrati cinesi e coreani giunti nel periodo precedente a questo episodio, molti dovevano essere buddhisti). Si narra che il sovrano di Paekche inviò a Kinmei, capo della confederazione Yamato, una statua e alcune scritture buddhiste, assieme a un messaggio dove il Re coreano spiegava i vantaggi derivati da questa dottrina. Il 538 è la data convenzionalmente assunta per segnare l’ingresso del Buddhismo, che inizialmente non riguardò le masse popolari, ma solo le élite. Dopo aver ricevuto questi doni, Kinmei consultò altri importanti capi uji, tra i quali emersero pareri contrastanti. In quel periodo, il clan Yamato aveva consolidato una posizione suprema all’interno di una confederazione di uji, con ciascuno dei quali aveva stabilito vincoli di parentela attraverso una politica matrimoniale. Il sistema di titoli onorifici, detti kabane, assegnati ai singoli clan, serviva a stabilire una sorta di graduatoria di potere. Il titolo riservato ai clan con i legami di parentela più alla lontana era quello di omi, mentre il titolo più elevato era quello di muraji. Tuttavia, non sempre le alleanze, i legami parentali o il conferimento dei titoli onorifici riuscivano a preservare l’autorità dell’uji di Yamato dalle ambizioni dei capi locali. La contrapposizione tra i fautori e gli avversari dell’introduzione del Buddhismo fu uno scontro tra clan che cercavano di tutelare i loro interessi. Infatti, a favore della nuova dottrina si schierarono i Soga, immigrati dalla Corea, occupavano un ruolo di mediazione tra le due zone, e pertanto erano favorevoli al proseguimento degli scambi con il continente. A sfavore della nuova dottrina si schierarono i Mononobe, che si occupavano di mantenere il corpo di guerrieri professionisti, e i Nakatomi, che fornivano i sacerdoti addetti ai riti ufficiali shintoisti, sostenendo che con l’ingresso di una nuova dottrina, i kami locali avrebbero potuto adirarsi. Solo a seguito di uno scontro militare, dal quale i Soga uscirono vittoriosi nel 587, si riuscì a trovare un accordo. Grazie alla vittoria i Soga proseguirono la loro politica favorevole all’apertura verso il continente, da cui, d’ora in avanti, giungeranno numerose innovazioni. L’introduzione del Buddhismo stimolò una trasformazione dei costumi, dell’architettura e dei riti funebri, tra cui il superamento della sepoltura Kofun, che fu vietata nel 646, a favore della cremazione. Ciò portò chiaramente alla fine del periodo Kofun. Alcuni studiosi individuano la data conclusiva di questo periodo con la vittoria del clan Soga nel 587, evento che determinò l’adozione della dottrina buddhista tra le élite dominanti, altri (soprattutto archeologi) sono concordi nel porre la fine del periodo con lo stabilimento della capitale imperiale a Nara, nel 710. In questo caso, più che di periodo Kofun sarebbe più opportuno parlare di periodo Yamato, ponendo così in evidenza la continuità del processo che si sviluppò a partire dal III secolo d.C. e che vide una graduale affermazione del potere del clan egemone nell’omonima regione sino all’istituzione dello stato imperiale. Occorre poi considerare come a partire dalla metà circa del VI secolo, oltre al superamento di questi monumenti funerari, si registrano altre importanti novità, che riguardano in primo luogo l’accresciuta disponibilità di fonti scritte. L’introduzione del sistema di scrittura cinese (che avvenne sotto forma di testi religiosi e filosofici buddhisti e confuciani) non diede avvio immediato alla stesura di opere e di cronologie ufficiali, di conseguenza ben pochi documenti di questo periodo sono giunti sino a noi. Tuttavia, il Kojiki e il Nihon shoki pur riferendosi al periodo Kofun, contengono notizie attendibili sul piano storiografico anche in relazione al periodo successivo al VI secolo. A partire dalla metà di questo secolo è possibile ricostruire l’evoluzione politica economica e sociale a partire dai testi scritti, e vi è quindi il passaggio dal periodo protostorico a quello propriamente storico. Il processo di creazione dello Stato imperiale Nella penisola coreana, il controllo di Mimana fu perduto con la riunificazione della Cina sotto la dinastia Sui nel 589 e, quindi, con l’unificazione della Corea avvenuta nel 668, quando Silla, appoggiata dalle truppe cinesi, riuscì ad annientare Koguryŏ e Paekche. Ciò dimostra come il capo Yamato esercitasse un potere solo formale, che non gli consentiva di disporre delle risorse necessarie né per proseguire l’attività militare d’oltremare, né per difendersi dalla minaccia che sembrava provenire dal continente, dove la Cina si era alleata con Sill. Così, la Cina venne a rappresentare una potenza da temere, ma anche un modello da cui trarre ispirazione per creare uno Stato unificato e forte. La vittoria dei Soga, il cui merito spettò innanzi tutto al capo del clan, Soga no Umako, aprì le porte all’arrivo di monaci, reliquie, artigiani e costruttori di templi, che in gran parte provenivano dalla penisola coreana e che diedero un apporto determinante alla diffusione del Buddhismo tra le classi dominanti. Lo Asukadera, fatto edificare dai Soga e ultimato nel 596, si ritiene sia stato il primo vero tempio buddhista costruito in Giappone. Anche altri uji fecero edificare templi, che divennero i nuovi simboli della loro potenza, mostrando di avere un alto grado di indipendenza dal clan Yamato. Il successo militare dei Soga garantì loro una posizione predominante, rafforzata anche dall’uso politico della nuova religione, di cui furono i maggiori sostenitori e mecenati. Da questa posizione privilegiata fu possibile persino tentare di usurpare l’autorità del sovrano. Infatti, dopo aver sconfitto i propri avversari, Soga no Umako si impegnò per consolidare il proprio potere a Corte, facendo uccidere l’Imperatore in carica che, pur essendo suo nipote, contrastava le ambizioni del capo Soga. Nel 592 salì così al trono l’Imperatrice Suiko, legata ai Soga da parte materna, che regnò sino al 628 e che fu la prima donna ad accedere a questa carica. Allo stesso tempo, un principe sposato a una donna del clan Soga fu nominato reggente (sesshō) dell’Imperatrice in carica, assumendo di fatto le redini del governo. Fu questo Principe, noto con il nome postumo di Shōtoku Taishi (574-622), a dominare per alcuni decenni la scena politica e a farsi promotore di importanti riforme che avrebbero gettato le basi dello Stato imperiale. La figura di Shōtoku Taishi occupa una posizione di rilievo nella storia ufficiale giapponese; le cronache più antiche gli riservano un trattamento privilegiato come fervente buddhista che svolse un ruolo essenziale nella diffusione della nuova religione, così come nell’adozione delle idee, la cultura e le istituzioni cinesi. In realtà, egli mirava al consolidamento dell’autorità dei Soga che ormai si erano infiltrati nell’ambiente di Corte; ciò implicava il ridimensionamento del potere di tutti gli altri grandi capi locali. Shōtoku, convinto della validità delle istituzioni dell’Impero cinese, avviò contatti diretti con la Corte dei Sui inviando una missione ufficiale nel 600, e introdusse importanti riforme ispirate al modello cinese. Nel 603, infatti, fu istituito un sistema di dodici ranghi di Corte, la cui assegnazione spettava al sovrano sulla base delle priorità che egli riteneva più consone. A Shōtoku è attribuita la stesura della cosiddetta «Costituzione dei diciassette articoli», scritta in cinese ed emanata nel 604. Più che di un codice di «leggi» nel senso corrente del termine, essa contiene un elenco di precetti e regole morali ispirati a valori confuciani, buddhisti e taoisti. Lo scopo di questo documento è quello di affermare il diritto sovrano e di eliminare il potere autonomo degli uji sostituendolo con una sorta di «burocrazia», composta di ministri e funzionari che devono servire lo Stato con responsabilità e impegno, rispettando il proprio rango e garantendo l’ordine e la giustizia. L’autorità da loro esercitata a livello locale deve rispecchiare il potere centrale, e mai sostituirsi a esso. L’Imperatore rappresenta il legame tra il Cielo e la Terra, cioè tra la divinità celeste e i sudditi, e costituisce pertanto la guida per tutto il popolo, che deve rispettare i suoi ordini. Nel Paese deve prevalere l’armonia (concepita in termini confuciani), che deve essere garantita attraverso il superamento dell’interesse del singolo, a favore dell’interesse comune. Infine, la priorità dell’attività agricola appare evidente laddove si raccomanda di non sottrarre lavoro nelle campagne dalla primavera all’autunno, cioè nei periodi propizi alla coltivazione e alla bachicoltura. In questo periodo, fu coniato il termine tennō, composto da due caratteri cinesi che significano «cielo» (ten, in cinese tien) e «sovrano» (nō, in cinese huang). Il termine, dunque, indicava un sovrano che regnava non per «mandato del Cielo» così come postulava la filosofia politica cinese, quanto piuttosto in qualità di diretto discendente del Cielo che deteneva in perpetuo il potere sacerdotale e politico. L’influsso della Cina non si limitò a interessare il pensiero politico, la filosofia, la religione o l’etica, ma investì anche altri ambiti, dalla poesia e dalla storiografia sino all’arte e all’architettura. Ciò, tuttavia, non implicò una passiva accettazione della cultura cinese, la quale piuttosto fu elaborata sulla base delle esigenze interne e in sintonia con gli aspetti della tradizione indigena, dando vita a soluzioni proprie. Ciò è palese specie nel consolidamento della figura imperiale, che non smise di fondarsi sulle credenze shintoiste né rinunciò al potere spirituale che da esse derivava. La morte di Shōtoku Taishi, avvenuta nel 622, interruppe solo momentaneamente il processo di riforme, che sarebbe stato ripreso una volta eliminata l’egemonia dei Soga, il cui capo cadde vittima di una congiura ordita nel 645 sotto la guida di un Principe imperiale, Naka no Ōe, e di un membro del clan Nakatomi, Nakatomi no Kamatari; quest’ultimo fu ricompensato del servigio reso con importanti cariche e con un nuovo prestigioso cognome, quello di Fujiwara. Il colpo di Stato che spazzò via il potere dei Soga avvenne nel primo anno dell’era Taika (Grande cambiamento) e fu seguito da una serie di riforme che da essa prendono nome. L’anno successivo, l’Imperatore promulgò un editto di riforma, che segnò un ulteriore, importante passaggio verso la centralizzazione del potere della Corte imperiale. Si trattava di norme in materia politica e amministrativa, che intendevano gettare le basi per uno Stato imperiale centralizzato la cui ricchezza doveva fondarsi sugli introiti provenienti da tutte le zone del Paese. L’editto, infatti, provvedeva in primo luogo ad abolire tutti i titoli che garantivano i privilegi locali, ovvero i possessi privati delle risaie e i gruppi occupazionali alle dipendenze degli uji, assegnando il pieno controllo delle terre e dei suoi abitanti al sovrano, al quale spettava quindi il diritto sulle risorse agricole del Paese. In secondo luogo, donne, in genere reputate come una categoria inferiore a quella maschile. La vicenda di Shōtoku spinse la Corte ad assumere un più equilibrato rapporto con il Buddhismo e a guardare con maggiore interesse a una filosofia laica, il Confucianesimo. Le forme di sostegno alle istituzioni religiose furono drasticamente ridotte e si cercò di adottare una più rigorosa politica economica, in considerazione anche di altri eventi che si andavano verificando nelle province. Infatti, buona parte del mecenatismo che aveva sostenuto il Buddhismo si era fondata sulla pressione fiscale esercitata sugli agricoltori, tra i quali la situazione divenne grave al punto da imporre una riduzione delle tasse per arginare il fenomeno dell’allontanamento dei contadini dalle terre. Due provvedimenti (adottati nel 723 e nel 743) introdussero la possibilità di assumere il controllo privato delle terre bonificate per una o tre generazioni e perfino in perpetuo. La grande nobiltà e le istituzioni religiose poterono quindi acquisire il possesso privato di terre, che vennero esentate dal pagamento delle tasse al governo centrale e che richiesero la manodopera di quei contadini allontanatisi dalle risaie. Queste profonde contraddizioni del sistema fondiario generarono una crisi nel governo centrale, dando vita a una violenta ribellione. In questo clima, l’Imperatore Kanmu, che regnò dal 781 all’806, decise di allontanare la Corte dai grandi templi che, in gran numero, erano stati edificati nel perimetro di Nara e, nel 784, diede ordine di trasferire la capitale a Nagaoka. Una serie di sciagure, interpretate come funesti presagi, indusse a spostare nuovamente la sede del governo imperiale in un’altra area. Nel 794, la Corte e il governo si mossero nella residenza imperiale edificata nella città cui Kanmu diede il nome di Heiankyō (la «capitale della pace e della tranquillità»), che per quasi undici secoli sarebbe rimasta la capitale imperiale e che fu poi ribattezzata Kyōto. Qui Kanmu, oltre a vietare la costruzione di templi buddhisti all’interno del perimetro della capitale, rese più solida l’amministrazione centrale creando nuovi organi di governo di cui si servì per esercitare un potere più efficace, e migliorando l’amministrazione locale e la riscossione delle tasse. Fu abolito l’obbligo del servizio di leva e introdotto un sistema di milizie locali (dette kondei) arruolate tra la piccola nobiltà provinciale. L’esempio di Kanmu fu seguito anche dai suoi tre successori, che come lui cercarono di tenere in vita i princìpi enunciati nel Codice Ritsuryō, ma ben presto una serie di fattori generò un allontanamento da queste concezioni, con immediate ripercussioni sull’esercizio del potere effettivo del sovrano. 2. L’allontanamento dalle istituzioni dello Stato antico e la transizione alla prima età feudale Il periodo Heian (794-1185) Le riforme attuate nel corso del periodo Nara avevano lo scopo di rendere centrale il potere del governo, tuttavia, il sistema politico giapponese continuò a essere condizionato dalla figura degli uji, sui quali il governo imperiale non riuscì mai a stabilire una totale ed efficace autorità. I capi di provincia divennero sempre più autonomi ed esenti dalle tasse; fu solo l’origine divina del tennō a garantire la sopravvivenza e il prestigio dell’istituto imperiale, e l’Imperatore, pertanto, mantenne un ruolo cerimoniale e religioso. I Fujiwara, discendenti di Nakatomi no Kamatari, avevano raggiunto un’autorevole posizione, facendo conferire importanti cariche della burocrazia statale a numerosi loro membri, e a rafforzare il legame con la dinastia regnante grazie al fatto che alcune donne della famiglia erano diventate consorti imperiali. Nell’857, Fujiwara Yoshifusa (804-872) ottenne dal sovrano la carica di dajō daijin, che gli assegnava le funzioni di Primo ministro e di capo del Consiglio di Stato, e che sino ad allora era stata riservata (con un’unica eccezione rappresentata dal monaco Dōkyō) ai prìncipi imperiali. L’anno successivo salì al trono l’Imperatore Seiwa, che aveva nove anni ed è il primo Imperatore bambino di cui la cronologia ufficiale faccia menzione. Artefice della successione era stato lo stesso Yoshifusa, che era il nonno materno del giovane sovrano e che nell’866 assunse la più alta carica conseguibile a Corte, quella di reggente imperiale (sesshō), anch’essa sino ad allora riservata ai prìncipi di sangue imperiale. Yoshifusa mantenne la reggenza imperiale pure dopo il conseguimento della maggiore età da parte del sovrano, secondo una pratica assolutamente inconsueta e irregolare. I suoi successori seguirono il suo esempio e, nell’887, l’anziano Imperatore Kōkō, come segno di ringraziamento verso Fujiwara Mototsune (836-891) che aveva contribuito alla sua successione al trono, creò per lui il titolo di kanpaku, che da allora in poi avrebbe designato il reggente di un Imperatore adulto e avrebbe rappresentato la più alta carica della Corte imperiale. I Fujiwara riuscirono ad instituire in tal modo un monopolio sul potere politico. Per alcuni decenni, la casa imperiale tentò di contrastare l’interferenza dei Fujiwara e alcuni Imperatori regnarono privi della tutela di un reggente, ma essa non riuscì ad arrestare la continua erosione del sistema di controllo statale sulle risorse agricole del Paese e l’allargamento di tenute di privati, con pesanti conseguenze sul mantenimento del proprio potere e della propria autorità. A partire dal 967, i Fujiwara ripristinarono il monopolio sulle cariche di sesshō e di kanpaku, inaugurando il periodo noto appunto come sekkan seiji, o «governo dei reggenti». Il «governo dei reggenti» ricevette un primo colpo quando, nel 1068, salì al trono l’Imperatore Go Sanjō che, per la prima volta dopo un secolo, non era figlio di una Fujiwara, e successivamente, nel 1086, l’Imperatore Shirakawa abdicò e assunse la carica di Imperatore in ritiro, svincolandosi in tal modo dal controllo esercitato sul trono dai Fujiwara. L’istituzione del governo degli Imperatori in ritiro (insei) ebbe l’effetto di ridimensionare il potere che i Fujiwara avevano detenuto monopolizzando le cariche di reggenti imperiali; inoltre, dalla nuova posizione assunta, Shirakawa fu in grado di decidere la successione al trono e di liberarsi da interferenze esterne. Dopo secoli di intensi e proficui rapporti con il continente, il Giappone ridusse i contatti con l’esterno e la cultura giapponese ad assunse una dimensione ‘nazionale’. In questo periodo fu inventato il sillabario fonetico (kana), che testimonia il processo di emancipazione dal predominio che la scrittura in cinese (kanbun) aveva sino ad allora mantenuto. L’evoluzione del Buddhismo aveva continuato a trarre stimoli dal continente, da cui giunsero nuove scuole di pensiero, come il buddhismo della terra pura, ma la sua diffusione beneficiò pure dalla sua capacità di assimilare i culti shintoisti, attraverso l’idea che i kami fossero una manifestazione delle divinità buddhiste; così, ad esempio, si ritenne che la divinità solare Amaterasu fosse in realtà il Buddha Dainichi. Come si è visto, nel periodo Nara erano stati adottati alcuni provvedimenti che contraddicevano in modo palese i princìpi fondamentali stabiliti dalla riforma Taika. Infatti, allo scopo di aumentare il volume delle entrate provenienti dalla tassazione delle terre era stata consentita la possibilità di mantenere il controllo delle aree a coloro che avevano provveduto a bonificarle. Gli onerosi obblighi fiscali avevano generato una povertà diffusa in molte aree, spingendo un numero crescente di contadini ad allontanarsi dalle terre kubunden. Il governo centrale intervenne con un progetto finalizzato a rendere coltivabili ampie zone delle regioni nord-orientali, senza però riuscire a reclutare la mano d’opera necessaria alla sua realizzazione. Di conseguenza, l’anno successivo era stato deciso di affidare il compito di bonificare i terreni a singole famiglie o a istituzioni, in cambio della concessione del loro possesso da una a tre generazioni; una misura, questa, che due decenni dopo era stata trasformata nella garanzia del possesso perpetuo. Di questa possibilità avevano approfittato i nobili di Corte e le istituzioni religiose, entrambi dotati di maggiori risorse da impiegare per la messa a coltura di terre vergini; pertanto, l’estensione delle zone agricole aveva procurato benefici più alle grandi famiglie di Corte e ai monasteri buddhisti che non al governo imperiale. Verso questi possedimenti privati (noti come shōen), che gradualmente si allontanarono dal controllo centrale e dall’obbligo di pagare le tasse, si diressero gruppi di contadini i quali, oberati dall’onere fiscale, abbandonavano le terre statali. Nei primi decenni del periodo Heian, furono attuati alcuni tentativi finalizzati a riaffermare il primato politico dell’Imperatore e il controllo statale sulle terre agricole, ma con l’indebolimento del governo centralizzato, la nobiltà di origine uji e le grandi istituzioni religiose poterono estendere il controllo su ampie tenute agricole e sul lavoro dei contadini necessari alla coltivazione, ricorrendo a varie misure: si servirono della loro posizione politica e del loro potere economico per acquistare e mantenere i diritti di possesso sulle terre, occupare i terreni abbandonati dai contadini o estendere le loro tenute inglobando i campi degli agricoltori che gliele affidavano in cambio di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle cui sottostavano. Un’ulteriore misura che trasformò queste tenute in veri e propri possedimenti privati fu quella di escludere i dipendenti del governo centrale (ispettori catastali e funzionari di polizia dell’amministrazione locale) dalla possibilità di accedervi al fine di svolgere i compiti amministrativi e di tutela dell’ordine. Pertanto, il beneficiario dei privilegi (dal possesso perpetuo all’esenzione fiscale) deteneva tutti i compiti di governo e i diritti amministrativi. Questa figura, che poteva far parte di una famiglia aristocratica, di un tempio o di un santuario, era nota come ryōshu, una sorta di «proprietario» dello shōen, e spesso un singolo «proprietario» controllava molteplici possedimenti. Nel caso in cui risiedesse nella zona della capitale oppure in una delle proprie tenute agricole, egli delegava i compiti amministrativi a funzionari locali, detti shōkan. Affinché i privilegi ottenuti potessero continuare a essere garantiti, in genere, i ryōshu esterni alla Corte ricorrevano all’appoggio di potenti e autorevoli figure appartenenti all’ambiente di Corte. Questi erano una sorta di «garanti» o «protettori» (detti honke), e ottenevano in cambio di una quota dei prodotti agricoli forniti dal possedimento stesso. Con il venire meno della capacità del governo imperiale di mantenere il controllo e l’ordine nel Paese, venne chiesto ai ryōshu di armarsi per difendere le proprie terre. L’organizzazione interna dello shōen vedeva al vertice la figura del ryōshu (il «proprietario»), quindi lo honke (il «garante» dei privilegi), gli shōkan (deputati all’amministrazione), i contadini «proprietari» (myōshu) e, infine, quelli dipendenti. La ripartizione dei prodotti delle terre shōen avveniva sulla base del ruolo svolto dalle figure sopra elencate. Da questi doveri derivavano diritti o benefici (shiki) e quota della produzione agricola. Lo shiki costituiva un beneficio individuale che poteva essere ereditato, suddiviso e venduto. La diffusione dello shōen ebbe importanti riflessi non solo sul sistema di comunicazione, che fu migliorato per consentire il trasporto dei prodotti locali verso le zone in cui risiedevano i «proprietari», ma pure sul livello culturale ed economico delle campagne, dove i contatti con la cultura superiore prodotta dal centro si intensificarono e sorsero numerosi centri artigianali e commerciali. All’epoca delle grandi riforme, la creazione di un esercito nazionale era stata legata alla necessità di indebolire il potere militare dei clan locali, oltre al timore che il consolidamento della Cina sotto le dinastie Sui e Tang potesse minacciare l’incolumità del Giappone; tuttavia, come si è visto, l’introduzione di un sistema di reclutamento obbligatorio non aveva avuto un grande successo. Infatti, i maschi di età compresa tra i venti e i sessanta anni, a rotazione, dovevano prestare servizio militare nelle varie unità. Si trattava di un obbligo che per molti era risultato assai oneroso, sia perché erano gli stessi soldati a dover provvedere all’armamentario e ai viveri, sia perché esso privava la famiglia di forza lavoro da impiegare nei campi. Ne era risultato un esercito assai meno efficace e potente delle milizie private. Il sistema di arruolamento obbligatorio era stato superato con l’istituzione, nel 792, di un sistema di milizie locali (chiamate kondei), il quale prevedeva l’arruolamento di uomini selezionati tra le famiglie aristocratiche. L’introduzione del sistema kondei contribuì a creare una base di potere militare locale sempre più autonomo dal centro e il governo centrale delegò alcuni poteri militari e di polizia ai governatori provinciali o ad altri funzionari locali, assegnando loro incarichi che dapprima furono temporanei, ma che divennero poi permanenti ed ereditari. All’interno degli stessi shōen si rese necessaria l’organizzazione di corpi combattenti per scopi difensivi o punitivi. Tutto ciò concorse alla nascita e allo sviluppo di eminenti figure di guerrieri professionisti appartenenti all’élite locale, dediti all’addestramento alle arti militari (come il tiro con l’arco o la scherma) e dotati di armature e cavalli, i quali avrebbero via via forgiato un’identità comune come classe distinta. Fu tra il IX e il X secolo che la forza e il talento militare presero a essere esercitati in modo sempre più esclusivo da gruppi di professionisti, appellati con varie designazioni, tra cui bushi (uomini d’armi) o saburai (militari al servizio della nobiltà o dei governatori), da cui sarebbe derivato il termine samurai. Si trattava dunque di abili guerrieri incaricati dalle élites dominanti a svolgere compiti militari e civili, come assicurare protezione o raccogliere gli introiti negli shōen. Con il passare del tempo, essi andarono assumendo il controllo sulle terre agricole grazie al fatto che la forza militare che detenevano li rendeva competitivi rispetto persino alle grandi famiglie dell’aristocrazia civile. Così, l’ascesa di questi gruppi di guerrieri fu accompagnata dal declino dell’aristocrazia civile e dal progressivo superamento della struttura di potere imperiale. Dal momento in cui in Giappone fu istituito il primo governo militare a Kamakura, nel esperienza della lunga e sanguinosa guerra civile, cui presero parte le casate militari delle province e che fu combattuta in varie regioni del Paese, sembrò rappresentare il primo vero debutto della classe bushi, segnando la fine del periodo Heian che, pur restando la sede della capitale imperiale, perse il suo ruolo centrale nella vita politica, economica e sociale del Paese. Yoritomo posò le basi del suo governo in una località situata nelle province del Kantō che, all’epoca, rappresentavano una zona remota dalla capitale imperiale e prossima alle frontiere nord-orientali. Egli, infatti, decise di restare nella sua residenza a Kamakura (poco distante dall’attuale Tōkyō). A differenza del suo antico rivale Kiyomori, che si era limitato a occupare spazi di potere beneficiando del sistema aristocratico esistente a Heian, Yoritomo preferì creare un centro di potere militare ex novo. Si tratta del bakufu (o «governo della tenda»), termine che indica il governo militare a carattere nazionale presieduto da capi guerrieri, detti shōgun. In passato, la carica di seii tai shōgun era conferita dal governo imperiale ai capi degli eserciti inviati alle frontiere nord-orientali per combattere le popolazioni ribelli; un fatto, questo, che peraltro contribuisce a chiarire la ragione per cui proprio nelle province orientali si ebbe un rapido e marcato sviluppo della classe samurai, la quale poté stabilire il controllo sulle terre di una estesa e fertile regione pianeggiante, il Kantō, lontana dal raggio d’azione della capitale. Tuttavia, a partire dal 1192, anno in cui l’Imperatore Go Toba la assegnò a Yoritomo, tale carica assunse un significato inedito nella misura in cui essa implicò non più solo il conferimento di poteri militari, ma anche la delega di potere politico, che sino ad allora era stato esercitato in modo esclusivo dalla dinastia regnante e dalle famiglie kuge (come nel caso dei Fujiwara), e comunque nell’ambito del sistema aristocratico (com’era accaduto agli stessi Taira). In tal senso, il bakufu divenne il luogo verso cui il controllo amministrativo e militare del Paese sarebbe andato progressivamente accentrandosi, divenendo il garante dell’ordine e della pace interna e l’arbitro nelle dispute per il controllo dei terreni agricoli. Il ruolo del bakufu crebbe proporzionalmente alla riduzione della capacità del governo imperiale di svolgere i propri compiti e alla conseguente delega dei poteri fatta al governo militare. Nel corso del periodo Kamakura tale processo si verificò solo in parte, generando una sorta di «governo duale» in cui, per circa due secoli, il bakufu operò in equilibrio con la Corte di Heian, e solo in seguito il governo imperiale, spogliato del controllo sulle terre, sarebbe stato costretto a cedere ogni effettivo potere alla classe bushi, che divenne la reale detentrice del dominio sul Paese. Nel 1185, dopo avere eliminato il fratello Yoshitsune, al quale spettava il merito di aver contribuito in modo determinante alla sconfitta dei Taira, Yoritomo emerse come il più potente capo militare del Giappone alla guida di un’estesa coalizione formata da guerrieri provinciali. Come già accennato, infatti, delle casate militari facevano parte anche uomini d’arme detti gokenin, cioè «membri della casata», che spesso avevano origini umili e che comunque vi appartenevano per legami di sangue, per relazioni di parentela acquisita tramite matrimoni o adozioni, o per vincoli fondati su un personale rapporto di assoluta fedeltà. Su questa stessa base Yoritomo aveva organizzato attorno a sé i propri seguaci, assegnando loro il titolo di gokenin e confermando o estendendo il loro potere (grazie anche alla distribuzione delle terre confiscate ai nemici sconfitti e al conferimento di incarichi direttivi), in cambio di una fedeltà incondizionata e personale; in tal modo, egli stabilì una rete di rapporti tipicamente feudali fondati sul vincolo signore-vassallo, ovvero su un legame che era allo stesso tempo personale e politico. Ciò determinò anche una trasformazione della natura dello shiki dato che furono i vassalli inviati dal bakufu ad assumere l’amministrazione degli shōen, dapprima riducendo e quindi eliminando del tutto l’autorità che il governo imperiale aveva delegato ai governatori civili, i kokushi. Yoritomo si apprestò a dichiarare il suo completo sostegno alla Corte e si impegnò a rispettare la tradizione imperiale, senza comunque rinunciare a intavolare negoziati con Kyōto in merito alla spartizione del potere. Infatti, fu dalla Corte che, sempre nel 1185, egli ottenne il titolo di sōtsuibushi (capo della polizia militare), il quale gli conferiva il diritto di inviare in tutte le province un suo dipendente deputato a svolgere compiti di sorveglianza e a sedare i focolai di resistenza militare, ma di fatto attivo anche in altri ambiti dell’amministrazione provinciale. Questi personaggi, in seguito detti shugo (letteralmente «protettori», ma in genere noti come «governatori militari»), reclutavano i propri dipendenti in loco per assistere i governatori civili inviati dal governo imperiale (i kokushi) al fine di garantire il pagamento delle tasse, oltre che l’amministrazione della giustizia e il mantenimento dell’ordine pubblico. La pratica di delegare simili funzioni ai capi militari provinciali era stata adottata anche in passato, ma fu solo a partire dal 1185 che essa venne affermata in modo sistematico, acquisendo una base permanente grazie anche al fatto che la carica di shugo sarebbe in seguito divenuta ereditaria. Nel corso dei secoli successivi, queste figure avrebbero consolidato il proprio potere a livello locale e sarebbero giunti a sostituire del tutto l’autorità dei kokushi, contribuendo così a eliminare i residui dell’autorità imperiale nelle province e a gettare le basi per l’ascesa di veri e propri feudatari. I poteri di Yoritomo furono ulteriormente estesi quando, nel 1190, egli ricevette le nomine di sōshugo (capo dei governatori militari) e sōjitō (capo degli intendenti terrieri militari), grazie alle quali egli assumeva il diritto di inviare gli shugo e i jitō anche nelle province esterne al Kantō. Il titolo di jitō esisteva anche in passato, designando l’amministratore delle tenute di alti funzionari della Corte incaricato di raccogliere le imposte. Parallelamente all’invio di governatori militari (shugo) alla guida delle varie province, Yoritomo aveva provveduto a nominare tra i suoi seguaci un intendente (jitō) in ogni tenuta che collaborasse con i funzionari dello shōen per garantire un’equa ripartizione del prodotto agricolo tra quanti ne avevano diritto, in base al proprio shiki. L’intendente deteneva a sua volta uno shiki, grazie al quale beneficiava di una quota del reddito dello shōen, ed era incaricato di garantire la pace e l’ordine nella tenuta, di dirimere le contese interne e, anche, di riscuotere una tassa d’emergenza nota come hyōrōmai (o «riso per le vettovaglie militari») che, pur essendo piuttosto esigua, veniva esatta anche nelle terre pubbliche esterne al sistema shōen e, pertanto, costituiva una sorta di riconoscimento ufficiale dell’autorità acquisita da Yoritomo. In tal modo, la figura del jitō, la cui posizione divenne ereditaria, assunse un ruolo rilevante all’interno degli shōen, offuscando il ruolo degli amministratori preposti dai «proprietari» e, quindi, la stessa autorità di questi ultimi. Pur traendo un sostentamento economico autonomo, i jitō erano al servizio di Yoritomo che, attraverso loro, guidava l’amministrazione militare e civile locale con un’organizzazione rigorosa, almeno per quanto riguarda il territorio compreso tra la regione del Kantō e quella della capitale. Yoritomo poté così stabilire una rete di controllo sugli affari interni degli shōen di tutto il Giappone. L’effettiva legittimazione giunse nel 1192, quando Yoritomo ottenne la più alta carica militare, quella di shōgun inviato contro i «barbari», che in effetti egli riuscì a sottomettere estendendo la frontiera del Giappone sino all’estremità settentrionale dello Honshū. L’apparato amministrativo del bakufu di Kamakura si fondava su tre organismi principali: l’Ufficio degli affari militari, o Samurai dokoro cui spettava il compito di controllare i suoi vassalli e sovrintendere agli affari militari e di polizia; il Kumonjo (Ufficio dei documenti pubblici) che confluì nel Mandokoro, ovvero l’Ufficio amministrativo, nel quale erano conservati i documenti pubblici e che si occupava delle questioni amministrative e politiche; il Monchūjo, o Ufficio investigativo, con il compito di fungere da Corte d’appello presso cui accogliere i reclami e dirimere le contese di natura legale, di far rispettare le norme penali e di conservare la documentazione giudiziaria e catastale. Si trattava di organismi privati del clan Minamoto, creati da Yoritomo nel corso della guerra i quali, nelle regioni controllate a quel tempo dai Minamoto, avevano funzionato in sostituzione del governo prima ancora che il conflitto avesse fine, e che, dopo il 1185, estesero la loro giurisdizione anche nelle regioni occidentali (dalla zona della capitale sino al Kyūshū). Ciascuno di questi tre uffici era guidato da un capo, selezionato personalmente da Yoritomo. All’interno della classe militare, esisteva una rigida gerarchia, al cui apice stava un numero ristretto di vassalli gokenin, di comprovata fedeltà, comprendendo molte casate che da diverse generazioni avevano sostenuto i Minamoto; a essi Yoritomo garantì una posizione privilegiata, elargendo benefici di natura economica e funzioni pubbliche. Al di sotto dei kenin trovavano posto i samurai, che disponevano di cavalli e di un gruppo di seguaci, mentre al gradino più basso erano collocati i fanti (zusa), privi di cavalli e di elaborate armature. A tutti i livelli della classe militare era imposta l’osservanza del vincolo di obbedienza assoluta verso il superiore, e ciascuno doveva conformarsi alle virtù della lealtà, dell’onore, del coraggio, della disciplina e della frugalità che, nel loro insieme, avrebbero contribuito a creare il culto di una «via» esclusiva riservata al guerriero, noto come bushidō. Alla morte di Yoritomo, nel 1199, i suoi due giovani figli non si mostrarono in grado di gestire l’eredità paterna, quindi la moglie Masako fu posta con la nomina di Yoriie a shōgun per un breve periodo (1202- 1203), e suo padre, Hōjō Tokimasa (1138-1215), assunse la carica di shikken, grazie alla quale riuscì a ottenere la funzione di reggente dello shōgun. Da allora, sino alla fine del periodo Kamakura, la famiglia Hōjō gestì il potere a Kamakura attraverso il monopolio sulla carica di shikken. Sotto la guida di questa famiglia, il governo di Kamakura assicurò un periodo di pace e di stabilità interna. Questo clima ebbe un positivo effetto sulla vita nelle campagne, dove si assistette all’incremento della produttività agricola che generò un generale miglioramento delle condizioni economiche del Paese. Inizialmente, Kamakura non riuscì a stabilire un completo controllo sugli shōen, molti dei quali restarono nelle mani della nobiltà di Kyōto, della famiglia imperiale o delle istituzioni religiose situate nella regione della capitale, mentre ben poche terre pubbliche continuavano a versare le imposte al governo centrale. Una svolta si ebbe nel 1221, quando l’Imperatore in ritiro Go Toba fallì nel suo tentativo di guidare una coalizione per attaccare il bakufu. Quest’ultimo reagì punendo gli autori della «ribellione»: Go Toba e altri due ex Imperatori furono esiliati, il sovrano in carica venne deposto e sostituito con uno più gradito a Kamakura. Il governo degli Hōjō colse anche l’occasione per spingersi oltre: confiscò le terre dei kuge ribelli, le quali furono trasferite ai vassalli della famiglia; ottenne il diritto di interferire nelle questioni della Corte imperiale inviando nella residenza di Rokuhara, a Kyōto, due rappresentanti dello shōgun, detti tandai, incaricati di vegliare sul trono e di approvarne ogni iniziativa; infine, estese il sistema jitō sulle tenute dell’intero Paese. Il consolidamento del governo di Kamakura proseguì attraverso la creazione di nuovi organismi, come il Consiglio di Stato, istituito nel 1226. Ma la più significativa innovazione introdotta dagli Hōjō è rappresentata dal cosiddetto Codice Jōei, emanato nel 1232, che sostituì le vecchie norme stabilite dalla Corte imperiale e dettò i princìpi per la legislazione della classe militare. Redatto in cinquantuno articoli, esso enunciava i diritti e le norme di comportamento dei bushi e definiva i compiti dei funzionari dipendenti da Kamakura, suggerendo di attenersi al buon senso, più che alla rigida. Nel periodo Kamakura si ebbe un grande fervore religioso e il Buddhismo si affermò anche presso gli strati meno elevati della società. A ciò corrispose una marcata diffusione di concezioni fruibili anche dalle persone più umili, come quelle associate al culto di Amida o alla scuola della Terra. Figura di rilievo nel panorama religioso del periodo è quella di Nichiren (1222-1282), che creò la Setta del Loto. Personaggio assai controverso egli accusò il governo di Kamakura, che proteggendo le altre sette, era causa di calamità naturali che si abbattevano sul Paese e, anche, delle invasioni mongole, che egli profetizzò. Ma l’aristocrazia guerriera trovò un sostegno culturale in un’altra scuola buddhista, quella Zen, sviluppatasi in Cina attorno a una pratica meditativa finalizzata a controllare il corpo e la mente In questo stesso periodo, nel continente i capi mongoli avevano fondato in Cina la dinastia Yuan (1271- 1368) e stavano consolidando un’espansione che li avrebbe portati a creare il più esteso impero nella storia mondiale. Nel 1266, Qubilay Qan inviò al Giappone la richiesta di sottomettersi alla sua autorità. Di fronte al rifiuto opposto dagli Hōjō, i mongoli reagirono inviando una spedizione navale che raggiunse le coste del Kyūshū nel 1274. Tuttavia, dopo un solo giorno di battaglia, un «provvidenziale» tifone provocò ingenti danni alla flotta nemica costringendola a ritirarsi. Gran parte delle energie del Paese fu così impiegata per edificare una difesa di fronte a un successivo attacco, che giunse nel 1281 con un numero di uomini di quasi quattro volte maggiore rispetto a quelli impiegati sette anni prima. Dopo due mesi di aspri scontri, fu di nuovo l’arrivo di un tifone a indurre gli invasori a ritirarsi, lasciando comunque il Paese nel timore di una futura minaccia. Le attività di difesa costiera proseguirono almeno sino alla fine del secolo, impegnando gran parte delle finanze del bakufu e delle energie umane del Paese. Se, infatti, la minaccia sventata grazie a quello che venne reputato un «vento divino» (kamikaze o shinpū) mandato dal Cielo per proteggere la terra creata dai kami suscitò un orgoglio nazionale e sembrò persino conferire prestigio agli Hōjō, ma gli effetti delle invasioni mongole furono infine fatali al bakufu di Kamakura. L’impresa era costata molte energie e vite umane, mentre il successo riportato contro i mongoli non aveva fruttato alcun bottino di il superamento del sistema dei kokushi e, con esso, lo smantellamento delle istituzioni imperiali deputate al controllo locale. Gli shugo, pertanto, avevano potuto consolidare una posizione assoluta nelle province, trasformandosi in veri e propri capi regionali i quali disponevano del potere militare (che detenevano in qualità di governatori militari), del potere civile (ereditato con la scomparsa dei kokushi) e del potere amministrativo (che avevano assorbito dagli intendenti terrieri militari, i jitō). Avendo il diritto di reclutare i soldati delle unità militari locali, inoltre, essi disponevano di truppe al proprio comando, che non esitarono a usare per difendere i diritti e la posizione che detenevano. Il rapporto tra shugo e bakufu si fondava sulla garanzia che esso poteva dare alla loro posizione. Ma con il declino dell’autorità del governo militare, tali garanzie vennero meno e, con esse, il vincolo di fedeltà che legava gli shugo allo shōgun. All’indebolimento della posizione di molti shugo contribuì senza dubbio l’obbligo di risiedere a Kyōto, che li costringeva ad affidare la responsabilità delle province a loro sostituti (shugodai). Spesso, questi ultimi si dimostrarono incapaci di sedare le rivolte contadine, di garantire il prelievo delle tasse e, soprattutto, di fronteggiare la competizione con i capi delle grandi famiglie residenti in loco (noti come kokujin) i quali avevano consolidato un saldo potere nel territorio. Ciò aprì la strada a un rimescolamento del potere a livello locale, che avvenne con il ricorso alle armi e da cui sarebbero emersi nuovi capi militari locali. Nel 1467, primo anno dell’era Ōnin, le tensioni e le contese tra i vassalli presero la forma di un’aspra guerra, che scaturì da una disputa tra gli Hosokawa e gli Yamana legata alla successione shogunale. Destinata a perdurare sino al 1477, essa vide i grandi shugo schierarsi a sostegno dell’una o dell’altra fazione, distruggendo buona parte della capitale. Lo shōgun, invece, preferì proseguire la sua quieta esistenza lontano dal fragore delle armi, dedicandosi alla cultura. La guerra Ōnin segnò l’inizio di un lungo periodo di guerre civili (detto Sengoku o «dei territori belligeranti»), che durò circa un secolo. Nel corso di questo periodo, l’autorità del bakufu declinò al punto da potersi dirse conclusa assai prima del 1573, anno in cui fu deposto l’ultimo shōgun di questo clan. Durante il periodo Sengoku, si assistette a una completa redistribuzione del potere e all’ascesa di nuovi leader militari, i sengoku daimyō. Diversamente dagli shugo, essi furono poco sensibili all’autorità del governo militare, concentrati ad accrescere la loro forza militare ed economica e a difendere i propri domìni. L’affermazione dei sengoku daimyō segnò dunque la dissoluzione del sistema shōen. Il daimyō assorbì i diritti amministrativi e di «proprietà» sulle terre, assumendo così le sembianze di un vero e proprio feudatario. All’interno del proprio dominio del tutto svincolato da ogni forma di controllo centrale, egli provvedeva a emanare codici legali (le «norme della casa» o bunkokuhō), a organizzare i propri seguaci, a ordinare i rilevamenti fondiari, esercitando un efficace controllo dal suo castello, attorno al quale si raggrupparono i guerrieri formando vere e proprie città castello, i jōkamachi. Egli poteva pertanto sedare le turbolenze rurali e sovrintendere all’organizzazione dei villaggi (mura), i quali si erano sviluppati come unità autosufficienti in grado di gestire autonomamente l’amministrazione interna. Ogni mura era responsabile del versamento di una determinata quantità del raccolto e trasmessa al daimyō come tributo. Oltre a forme di governo interno, i mura si dotarono anche di organi di autodifesa, che furono rafforzati nel corso del lungo e turbolento periodo di guerre civili. Nonostante la forte instabilità che caratterizzò il periodo Muromachi in generale e quello Sengoku in particolare, sul piano sociale ed economico si registrarono sviluppi rilevanti. Nelle campagne, il miglioramento delle tecniche di irrigazione, il crescente impiego degli animali nel lavoro dei campi, la diffusione dell’uso dei fertilizzanti e il miglioramento della loro qualità contribuirono all’incremento della produttività agricola. Numerosi progressi furono compiuti anche nell’ambito del commercio e dei trasporti. Il commercio con la Cina immise in Giappone merci pregiate e nuove tecniche per la lavorazione della seta, mentre dalla Corea si apprese la tecnica per produrre il cotone. Dalla Cina giunsero pure forti quantità di monete di rame, usate negli scambi commerciali, mentre in alcune zone del Paese si sfruttavano miniere che fornivano oro, argento e rame, in parte usato per coniare nuove monete. Artigiani e mercanti accrebbero il loro livello di specializzazione, si cimentarono nella pratica del prestito e dell’usura, e si costituirono in attive corporazioni, note come za. Consolidatesi sotto la protezione di un tempio o di un santuario, di un ricco nobile o di un capo locale, queste corporazioni assunsero il monopolio sulla vendita e la lavorazione di specifici prodotti e crearono una rete di distribuzione sempre più estesa. Il periodo Azuchi-Momoyama (1573-1600) I rapporti tributari stabiliti da Yoshimitsu con la Cina agli inizi del XV secolo avevano rappresentato l’epilogo di una serie di tentativi compiuti dai Ming per indurre il Giappone a reprimere l’attività dei pirati dediti anche al commercio illegale. A tal fine Yoshimitsu aveva acconsentito ad aderire al «sistema dei contrassegni» (kangō) atto a garantire le missioni e il commercio ufficiali. Per circa un secolo e mezzo, numerose missioni giapponesi continuarono a recarsi alla Corte Ming, stimolando un proficuo commercio, tuttavia, il deterioramento del governo degli Ashikaga minò la sua effettiva capacità di reprimere il commercio illegale e la pirateria. Anche per la stessa Cina l’onere finanziario derivante dall’accoglienza delle missioni provenienti dagli Stati tributari non sempre era compensato dal valore delle merci che giungevano alla Corte Ming, e ciò contribuì alla decisione dapprima di limitare e quindi di proibire il commercio marittimo. L’ultima missione ufficiale (la diciannovesima dall’instaurazione dei rapporti tributari nel 1401) partì per la Cina nel 1547 e, poco dopo il suo rientro in patria, i contatti con i Ming furono formalmente interrotti. Parallelamente a questi avvenimenti, era andato crescendo il numero di pirati e di trafficanti non autorizzati attivi nel commercio clandestino tra il Giappone e la Cina, i quali tuttavia si trovarono in concorrenza con i mercanti europei. L’arrivo dei primi mercanti portoghesi in una piccola isola a sud del Kyūshū è registrato nel 1543, introducendo anche il cristianesimo. L’opera di evangelizzazione fu svolta in primo luogo dai missionari della Compagnia di Gesù, tra cui vi era Francesco Saverio (1506-1552), e poi anche dai Gesuiti. Francesco Saverio, dopo aver soggiornato in India, proseguì verso il Giappone, dove sbarcò nel 1549 e restò per circa due anni. Recatosi a Kyōto con l’intento di ottenere il consenso a svolgere la sua attività missionaria e deluso dal rifiuto oppostogli dallo shōgun in carica, egli riuscì comunque a istituire la prima chiesa e una comunità cattolica a Yamaguchi. In genere, i daimyō convertiti (noti come kirishitan daimyō) sostennero l’attività missionaria al fine di trarre beneficio dalle conoscenze dei gesuiti e dal legame che essi avevano con i mercanti portoghesi, e spesso non esitarono a rinnegare la propria fede di fronte all’opposizione del clero buddhista o a una politica nazionale ostile all’opera di evangelizzazione. Per oltre mezzo secolo, i contatti con gli europei furono limitati ai portoghesi, successivamente giunsero anche spagnoli, olandesi e inglesi. Vennero introdotte le prime armi da fuoco, che, assieme all’acquisizione di nuove tecniche militari, determinarono sempre più le sorti delle battaglie. L’attività militare, pertanto, richiese crescenti risorse economiche di cui solo i maggiori daimyō disponevano, e ciò consentì loro di consolidare il proprio potere ed eliminare con facilità i rivali più deboli. Anche in altri campi l’apporto delle conoscenze giunte dall’Europa fu rilevante: oltre alla tecnologia nautica e a nuovi motivi artistici, i giapponesi ebbero modo di conoscere gli orologi e gli occhiali, gli articoli di vetro e i tessuti di lana e di velluto, il tabacco e la patata. Agli europei si deve anche la diffusione della stampa, che i giapponesi conobbero nel 1590. Questa intensa attività di contatti e di scambi commerciali con il mondo esterno fu caratterizzata anche da una riaffermazione, verso la fine del XVI secolo, dei giapponesi nelle attività marittime dirette verso le coste del continente e il Mar Cinese Meridionale. In quello stesso periodo, sotto la guida del secondo «riunificatore», Hideyoshi, il Giappone tentava un’avventura espansionista inviando due spedizioni militari in Corea (nel 1592 e nel 1597) con l’obiettivo ultimo di conquistare la Cina, ma che ebbe termine con l’improvvisa scomparsa del capo giapponese nel 1598. Tuttavia, con la riunificazione del Paese e con il consolidamento del potere dei Tokugawa, il bakufu avrebbe potuto riasserire un rigido controllo sugli scambi con l’estero, che furono sottoposti a un sistema di autorizzazioni (detto shuinsen). L’intolleranza verso la fede cristiana, già dimostrata da Hideyoshi con un editto di proibizione emanato del 1587 e poi con la crocifissione di ventisei credenti nel 1597, avrebbe assunto sempre più le sembianze di una vera e propria persecuzione attuata con risolutezza e violenza, che si sarebbe conclusa con l’espulsione di missionari e mercanti dei Paesi cattolici e con la soppressione della Chiesa cattolica in Giappone. Il Paese si avviava così verso una politica di quasi totale isolamento, destinato a durare per oltre due secoli. 4. Verso un «feudalesimo centralizzato»: la riunificazione del Paese e l’istituzione del «bakufu» di Edo Dai contatti con gli europei, nacque l’esigenza di riunificare militarmente il Paese e di ristabilire un unico, legittimo centro di potere, per evitare di essere in qualche modo sottomessi. Alcuni tentativi vennero compiuti in tal senso dalla metà del XVI secolo, ma fu l’esercito guidato da Oda Nobunaga che riuscì a conquistare Kyōto nel 1568. Discendente da una famiglia guerriera minore insediatasi a Owari (la zona attorno a Nagoya) e dotato di grandi capacità militari, egli emerse come un importante personaggio sconfiggendo nel 1560 un potente daimyō rivale che aveva tentato di occupare i suoi territori. Da allora, Nobunaga si dedicò a consolidare il potere attraverso alleanze e matrimoni e raggiunse un prestigio tale da attirare l’attenzione dell’Imperatore, che si appellò a lui per pacificare la zona della capitale, nonché di Ashikaga Yoshiaki (1537-1597), desideroso di assicurarsi la successione alla guida del bakufu. Ergendosi a difensore della nobile causa, egli conquistò Kyōto e garantì a Yoshiaki la carica di quindicesimo shōgun della dinastia Ashikaga, pur non rinunciando a privarlo delle sue prerogative al fine di assumere poteri sempre più estesi. Lo shōgun iniziò così a cospirare per eliminare il suo ex protettore, il quale reagì costringendolo, nel 1573, a lasciare la carica e segregandolo lontano dalla capitale, anche se Yoshiaki rinunciò formalmente al titolo solo quindici anni dopo. Questi avvenimenti segnarono la fine del bakufu degli Ashikaga, ovvero del periodo Muromachi. L’affermazione del potere di Nobunaga procedette con il consolidamento del controllo sulla zona della capitale, che affermò ricorrendo a metodi di violenza estrema per eliminare quanti si opponevano alla sua ascesa. Furono annientati anche centri religiosi rivali, i cui territori furono in buona parte confiscati e la cui guida fu assunta da figure a lui legate. In tal modo, fu posta fine all’autonomia e al potere che queste istituzioni religiose avevano tradizionalmente detenuto, e furono gettare le basi per l’assoggettamento del Buddhismo e dello Shintoismo al governo militare. Diverso fu l’atteggiamento riservato al Cristianesimo – che egli favorì attirando molti missionari nella zona della capitale – e, più in generale, verso gli europei e le loro innovazioni tecnologiche in campo militare, di cui fece un abile impiego. In effetti, Nobunaga fu il primo giapponese a usare le nuove armi per scopi offensivi e difensivi, e a impiegare rivestimenti di ferro nelle sue navi da guerra; inoltre, fece erigere fortezze di pietra in grado di resistere agli assalti di armi da fuoco. Il primo esempio di questo genere di costruzione è rappresentato dal castello che fece edificare nel 1576 ad Azuchi, sulla sponda nord-orientale del lago Biwa, per porvi la sede del suo quartier generale. Nobunaga inaugurò così la tradizione di concentrare gli eserciti in quartier generali fortificati, che proseguì nel corso di tutto il periodo Azuchi-Momoyama. L’improvvisa scomparsa del primo «riunificatore», assassinato a tradimento da un suo vassallo nel 1582, impedì che il suo progetto di porre «tutto il Paese sotto un’unica autorità militare» (tenka fubu) fosse portato a termine, la riunificazione, infatti, era stata realizzata solo in parte. La sua attività aveva avuto un carattere prettamente militare, ma nell’ambito dei territori conquistati egli diede avvio a una ristrutturazione dell’amministrazione e all’introduzione di alcune importanti innovazioni che ridussero il potere indipendente delle province e posero le basi per la successiva riunificazione politica. Infatti, Nobunaga assegnò ai suoi vassalli i feudi confiscati ai nemici sconfitti, nei quali fu ricalcato il modello, già sperimentato ad Azuchi, di un quartier generale fortificato dove si concentravano le truppe armate. Ciò favorì l’allontanamento dei guerrieri dalle zone rurali e contribuì ad avviare la separazione della classe militare da quella contadina, nota come heinō bunri. Tale processo proseguì con una serie di provvedimenti, adottati a partire dal 1576 in alcune regioni controllate da Nobunaga, che furono finalizzati a confiscare le armi della popolazione non guerriera; oltre che contro le comunità religiose ribelli, essi erano rivolti ai contadini, i quali furono vincolati al proprio status e obbligati a dedicarsi esclusivamente al lavoro agricolo. Con varie misure, Nobunaga favorì il commercio (tra cui l’adozione di pesi e di misure uniformi o l’adattamento della carreggiata dei veicoli a quella delle vie carrozzabili), mentre affermò il controllo sulle comunità di mercanti. In tal modo, Nobunaga creò le condizioni per la completa riunificazione del Giappone, che proseguì sotto Toyotomi Hideyoshi. La sua ascesa fu sorprendente: di Ōsaka. Ieyasu era ormai il capo indiscusso del Paese e, quando nel 1616 morì, le basi dell’egemonia della sua famiglia erano state fondate e il sistema di controllo del bakufu sugli han era ormai istituzionalizzato. Il successo di Ieyasu a Sekigahara fu seguito da una profonda riorganizzazione dei possedimenti feudali nel Paese, e i signori sconfitti videro scomparire o ridimensionare in modo considerevole i propri territori: era necessario un sistema di controllo capace di garantire l’equilibrio tra l’autorità centrale e il potere dei daimyō. In primo luogo, egli stabilì una gerarchia tra i daimyō fondata sui vincoli di fedeltà tra questi e lo shōgun. Una posizione elevata fu assegnata a un numero ristretto di fidati signori degli «han imparentati» (shinpan) ai Tokugawa e, in particolare, alle «tre famiglie» (sanke) legate a Ieyasu da vincoli di parentela diretta; queste ultime portavano il suo stesso cognome e, in assenza di eredi dello shōgun, potevano contribuire alla successione alla guida del bakufu. Vi era poi il gruppo più numeroso costituito dai daimyō della casa dello shōgun, cioè da coloro che avevano aderito alla causa di Ieyasu prima della battaglia di Sekigahara e che erano pertanto considerati del tutto affidabili; essi vennero nominati vassalli ereditari (detti fudai) e si videro assegnare importanti funzioni. Infine, i daimyō sottomessi dopo la vittoria del 1600 furono riconosciuti come «signori esterni» (tozama). I daimyō furono sistemati in modo tale sia da evitare che la vicinanza di signori ostili potesse dar vita a una coalizione contro il bakufu, sia da controllare le principali vie di comunicazione e di accesso a Edo e a Kyōto. Come gli altri daimyō, lo shōgun si serviva dei propri vassalli per amministrare questi estesi possedimenti, da cui traeva le risorse necessarie a sostenere il proprio governo e a garantirsi una posizione egemone nel Paese. Alle sue dirette dipendenze, infatti, figuravano numerosi vassalli, distinti in hatamoto (uomini della bandiera), dotati del privilegio di essere da lui ricevuti e spesso di disporre anche di un proprio feudo, e in gokenin (uomini della casa), che occupavano una posizione inferiore e ricevevano in genere uno stipendio. Lo shōgun, pertanto, era il più ricco daimyō del Giappone, controllando i maggiori centri economici, le fonti di metallo prezioso e un’alta percentuale delle rendite agricole prodotte nel Paese. L’autorità dei Tokugawa era legittimata dalla delega dei pieni diritti di governo concessa dall’Imperatore allo shōgun. Si trattava di un riconoscimento formale che ben poco dipendeva dalla volontà del sovrano, la cui influenza politica era assai limitata così come le risorse economiche a cui aveva libero accesso. Furono i Tokugawa, infatti, a contribuire finanziariamente affinché la Corte fosse in grado di mantenere uno stile di vita consono alla propria posizione, dato che al prestigio di questa istituzione era legata la legittimità del loro stesso potere. Allo stesso tempo, gli shōgun non rinunciarono a limitare l’autonomia politica della famiglia imperiale e dei kuge e, a questo scopo, disposero l’insediamento di un governatore nel castello di Kyōto, il quale era incaricato di mantenere i contatti tra l’Imperatore e il bakufu, ma che di fatto servì a controllare l’attività della Corte grazie anche a un cospicuo presidio di uomini armati alle sue dipendenze. Inoltre, nel 1615 fu emanato un corpo di regole specifiche cui la famiglia imperiale e l’aristocrazia civile dovevano attenersi, che vietava al sovrano di partecipare agli affari di Stato, vincolava all’approvazione dello shōgun la concessione di titoli imperiali ad alti funzionari e all’aristocrazia militare (i buke) e regolava i contatti con le istituzioni religiose. Le funzioni delegate allo shōgun prevedevano che egli detenesse il dominio del Paese, regolasse le questioni tra i daimyō e tra le istituzioni religiose, definisse la politica nazionale in campo fiscale e militare, gestisse gli affari esteri e, soprattutto, disponesse della totalità delle terre. Già utilizzato da Hideyoshi, il sistema della «residenza alterna» (sankin kōtai) a Edo rappresentò un efficace sistema di controllo sui daimyō, ai quali venne imposto l’obbligo di costruire una residenza (yashiki) nella capitale shogunale, dove essi dovevano dimorare per un certo periodo secondo scadenze fissate e, in loro assenza, lasciare i propri familiari e alti funzionari al loro servizio, garantendo così la propria lealtà al governo di Edo. Lo shōgun operava con l’ausilio di due organismi: quello dei Consiglieri anziani (detti rōjū) e quello dei Consiglieri «meno anziani» (wakadoshiyori). Il Consiglio degli Anziani era formato da quattro o sei membri selezionati tra un ristretto numero dei più potenti fudai, e a esso era affidata la gestione dell’amministrazione generale e delle questioni di rilevanza nazionale, tra cui quelle relative alla Corte imperiale, ai daimyō, alle istituzioni religiose, agli affari militari e a quelli esteri; inoltre, aveva potere di intervento sulla tassazione e sulla distribuzione delle terre, era responsabile dell’assegnazione di titoli e onori, e disciplinava il conio e la circolazione monetaria. Da questo organismo dipendevano i più importanti funzionari del bakufu, tutti provenienti dalle fila dei fudai e degli hatamoto. Il Consiglio dei Meno anziani contava tre o quattro membri prescelti tra i fudai di rango inferiore e aveva la responsabilità sulle questioni interne al governo di Edo, compresi i vassalli e i servitori personali dello shōgun e l’esercito e le unità di guardia del bakufu; a questo organismo erano sottoposti anche i metsuke, cioè gli ispettori e i funzionari incaricati di vigilare sull’osservanza delle norme. In prossimità del castello di Edo fu pure stabilita un’Alta corte di giustizia (Hyōjōsho), simbolo del potere esercitato dal bakufu sul piano nazionale. A livello locale, il controllo del governo di Edo era esercitato dagli intendenti delle finanze, che si occupavano delle zone rurali e da cui dipendevano intendenti locali selezionati tra gli hatamoto di medio e basso rango, mentre il controllo delle zone urbane era assegnato ai magistrati delle città. Questo modello di amministrazione era ricalcato anche in ogni singolo han, all’interno del quale il daimyō godeva di un alto grado di autonomia, pur nei limiti imposti dall’autorità centrale che riguardavano, tra l’altro, la consistenza del suo esercito personale e il numero e le dimensioni delle fortezze. Le unità dei mura e dei distretti urbani (machi) si autogovernavano sotto la guida di un capo scelto a livello locale. All’interno dei villaggi fu mantenuto l’assetto stabilito dalle riforme realizzate sotto Hideyoshi e venne rafforzato il divieto di abbandonare, acquistare o cedere i terreni agricoli. I contadini furono organizzati in gruppi di famiglie (goningumi), reciprocamente garanti del pagamento delle tasse e del rispetto delle norme fissate, secondo il tipico modello confuciano di responsabilità collettiva. Gli amministratori alle dipendenze del daimyō compivano ispezioni periodiche nei mura e prelevavano le tasse agricole raccolte dal capo del villaggio, che fungeva da intermediario tra la comunità locale e l’autorità superiore. Il processo di differenziazione delle classi sulla base del ruolo occupazionale, già avviato da Nobunaga e sviluppato da Hideyoshi, fu portato a termine con l’adozione del modello shinōkōshō, ispirato all’esempio cinese e finalizzato a organizzare, su una scala gerarchica e in ordine di importanza, rispettivamente i guerrieri, gli agricoltori, gli artigiani e i mercanti. Per ciascun livello furono sancite norme adeguate allo status, che regolavano la responsabilità e la condotta dei singoli individui, così come i diritti sui terreni agricoli, gli obblighi fiscali, i reati e l’autorità politica, mentre il rafforzamento di regole endogame servì a ostacolare la mobilità sociale. Ne scaturì una società fortemente differenziata, sia in relazione allo stile di vita, sia per quanto concerne la disposizione sul territorio, con una prevalenza di samurai, mercanti e artigiani nei centri urbani e la concentrazione degli agricoltori nei villaggi rurali. Alla rigidità di questo ordine sociale contribuì poi la concezione secondo cui esso fosse regolato da una legge naturale, che non consentiva all’individuo di cambiare la condizione sociale ereditata sin dalla nascita, cui egli era vincolato per l’intera esistenza. Il pilastro ideologico dell’ordinamento politico e sociale fu rappresentato dalla dottrina sociale neoconfuciana, che servì ad avallare il potere dei governanti e a fornire una base etica per la condotta pubblica e privata dei giapponesi, imprimendo peraltro nuovi e rilevanti stimoli all’attività intellettuale di tutto il periodo. Il Cristianesimo fu visto sempre più come una pericolosa dottrina (jahō) straniera, che contrastava con l’assetto dato all’organizzazione politica, sociale e religiosa, essendo in sostanza considerata un’ideologia eversiva. In realtà, pur non abrogando l’editto di proscrizione emanato da Hideyoshi nel 1587, Ieyasu da principio aveva assunto un atteggiamento indulgente verso i missionari europei, dato il suo interesse a spostare i traffici marittimi dai porti del Kyūshū a Edo. D’altra parte, per il bakufu era essenziale impedire che i daimyō delle regioni occidentali continuassero a trarre lauti profitti dal commercio privato con l’estero. Ieyasu favorì il commercio estero con Cina, Filippine, Messico Portogallo, Spagna, Olandesi e Inglesi, ma non riuscì ad attirare le loro navi verso Edo. Ciò, unito al rifiuto opposto dalla Cina alla sua proposta di istituire un commercio ufficiale sottoposto a un sistema di autorizzazioni, lo indusse a tentare di asserire il monopolio sul commercio attraverso il controllo dei porti e l’imposizione del sistema di certificati di autorizzazione (shuinsen). L’istituzione di restrizioni sul commercio estero procedette di pari passo con l’imposizione di limitazioni sulla fede cristiana, percepita come un pericolo politico e ideologico. Fu sotto i suoi due successori che l’intolleranza verso il Cristianesimo assunse toni aspri e violenti, ricorrendo a torture, martiri ed esecuzioni di massa di molti credenti, compresi quelli che rifiutavano di calpestare le figure sacre usate dalle autorità per costringerli a svelare la propria fede e dette fumie. Misure estreme e definitive furono assunte dopo una grande rivolta scoppiata nel 1637 a Shimabara (non lontano da Nagasaki), che il bakufu sospettò fosse stata fomentata da samurai convertiti e che riuscì a reprimere con violenza l’anno seguente. Nel 1639 furono espulsi i portoghesi, che si ritirarono a Macao; due anni dopo gli olandesi furono confinati a Dejima (un isolotto artificiale collegato a Nagasaki con un ponte) e i cinesi relegati in un quartiere di Nagasaki, che divenne l’unico porto del Giappone autorizzato da Edo a svolgere limitate attività commerciali con l’estero. Nel 1635 ai giapponesi era stato fatto divieto di recarsi fuori dal Paese e, a quanti si trovavano all’estero, di tornare in patria. Il Giappone entrava così nell’era Sakoku (dall’espressione che significa appunto «Paese chiuso»), nel corso della quale i contatti con il mondo esterno furono controllati da Edo e limitati, oltre che a Nagasaki, ad altre tre località: l’estremità meridionale dello Hokkaidō (commercio con la popolazione ainu); a Tsushima (intermediari nelle relazioni tributarie che la Corea stabilì con il Giappone); a Satsuma (commercio con la Cina, di cui il Regno era tributario). La politica del sakoku pose forti limitazioni al commercio internazionale, di conseguenza lo sviluppo economico si fondò sulla crescita del mercato interno. Fu dalle zone rurali, su cui si fondava l’economia essenzialmente agricola del periodo Edo, che provenne l’impulso verso una profonda trasformazione dell’assetto economico-sociale del Paese. Il sistema di tassazione prevedeva che la rendita determinata per i singoli feudi fosse suddivisa a metà tra i contadini, obbligati a risiedere nei villaggi al fine di non ridurre il livello dei raccolti, e il daimyō, con il gettito fiscale, provvedeva a stipendiare i samurai alle sue dipendenze, ad affrontare le spese personali e quelle per eventuali lavori pubblici. La responsabilità del versamento dell’imposta continuò a ricadere collettivamente sulle comunità di villaggio. Nonostante il divieto ai contadini di modificare le assegnazioni dei terreni coltivabili contenute nei registri catastali (kenchichō), contingenze diverse cominciarono a erodere l’usufrutto di alcune famiglie rurali in favore di altre. Ciò poteva accadere per ragioni oggettive (come, ad esempio, che la difficoltà di irrigare terreni lontani dalle fonti idriche fosse aggravata in periodi di siccità) o per motivi soggettivi (quali le onerose spese legate a matrimoni e funerali dei membri della famiglia), compromettendo in entrambi i casi la rendita delle famiglie contadine meno agiate. Ne risultò un’alterazione dell’assetto economico-sociale all’interno delle comunità di villaggio, che lentamente si discostò da quanto registrato nei registri catastali. Parallelamente, si ebbe un’espansione delle colture extra-cerealicole, come il cotone, la canapa, il tabacco e il tè, destinate al mercato. In sostanza, dunque, i contadini che poterono disporre di un incremento delle rendite (dovute a maggiori estensioni di terreni da loro controllati e a un aumento della produttività) iniziarono a investire in attività «protomanifatturiere» situate nei villaggi e distretti rurali, nelle quali essi potevano impiegare il tempo residuo rispetto a quello necessario per la coltivazione del riso. Pertanto, l’incremento produttivo favorì l’espansione dei mercati locali nei quali confluivano manufatti di uso quotidiano, e la concentrazione a Edo dei daimyō o dei loro familiari diede impulso alla formazione del mercato nazionale, costituito dai due poli del Kantō e del Kinai, area ad alta intensità produttiva. In questo contesto e in virtù delle regole fissate dal sistema mibun, i legami dei bushi con i mercanti si intensificarono. Infatti, raccolte le imposte agricole e versati gli stipendi ai samurai, il daimyō e i bushi dovevano inevitabilmente affidarsi all’attività dei mercanti per convertire i prodotti agricoli nelle merci a loro necessarie. Emerse così la «borghesia mercantile», altrimenti nota come ceto dei mercanti «protetti». È bene precisare che, sul piano politico, i mercanti «protetti» non acquisirono un potere corrispondente a quello conseguito in termini economici, e la loro posizione nella gerarchia mibun non si discostò, almeno in linea teorica, da quanto stabilito dalla dottrina sociale neoconfuciana. Infatti, sebbene l’aumento dei consumi di lusso costringesse i daimyō a ricorrere a prestiti con frequenza sempre maggiore, essi si sforzarono di conservare la loro autorità sulla «borghesia mercantile». meno separata dal resto della società di quanto imponessero le rigorose barriere istituite dal sistema mibun, mentre i chōnin andavano acquisendo un rilevante ruolo economico, nonostante lo scarso peso esercitato sul piano politico e la bassa posizione occupata nell’organizzazione sociale. A eccezione dello shōgun, dei daimyō da lui delegati e dei vassalli cui era stato concesso un feudo, la classe militare era costituita da amministratori stipendiati che risiedevano nelle zone urbane, fossero esse le città- castello o la sede del bakufu. Vincolati ai loro compiti di governo da uno status ereditario, essi mantennero il potere politico e una posizione sociale privilegiata nel corso di tutto il periodo Edo, anche se la loro condizione economica mostrò evidenti sintomi di vulnerabilità a causa dell’ascesa dei ceti urbani e mercantili. Eredi della nobile tradizione militare, essi godettero del diritto esclusivo di portare due spade (una corta e l’altra lunga), sebbene il generale clima di pace li alienasse di fatto da ogni tipo di attività guerresca. Conformemente all’ideale bunbu, la cultura (bun) era per loro un dovere pari a quello delle arti marziali (bu), e ciò contribuì a trasformare la classe militare in una élite istruita, che si raccoglieva nelle scuole fondate nei vari han per coltivare gli studi confuciani, selezionare raccolte di leggi e normative, compilare storie locali e nazionali di rilevante valore, sviluppare nuovi campi di indagine in ambito filologico, dell’antichità e di critica letteraria. Nel complesso, i samurai diedero al Paese un governo di certo autoritario e rigoroso, ma di rado efficace, dato che i diritti e i doveri di ciascun individuo erano rigorosamente stabiliti, così come il loro status sociale e occupazionale, in linea con il Neoconfucianesimo. Le leggi suntuarie stabilivano per ogni classe sociale precise norme che regolavano vari aspetti della vita pubblica e privata, dal comportamento all’abbigliamento, sino alle attività di svago e alle opportunità di accesso all’istruzione e alle espressioni culturali. La stessa diffusione dell’educazione non fu limitata alla casta guerriera interessando pure i ceti rurali ricchi e le classi socialmente meno elevate delle zone urbane, dove fiorì una cultura di stampo borghese, espressione dei nuovi ceti emergenti in campo economico. Infatti, il progresso economico produsse un generale innalzamento del livello di vita, che fu accompagnato dall’allargamento dell’istruzione anche al di fuori dell’élite al potere e che contribuì a trasformare in modo significativo i costumi, le abitudini e il sistema di valori dei giapponesi. L’accresciuta possibilità di accesso all’istruzione fu resa possibile dalla creazione di numerose accademie private (shijuku), finanziate dall’amministrazione degli han e aperte anche ai giovani di estrazione non samuraica, e di scuole private, spesso annesse ai templi locali e note come terakoya, che impartivano l’educazione ai figli dei contadini e dei chōnin. Ciò consentì anche ad agiati mercanti, artigiani e contadini di acquisire un livello di istruzione superiore e, in alcuni casi, di divenire esperti in vari campi (dalla matematica e dalla botanica all’astronomia e all’ingegneria civile) o di affermarsi nel mondo intellettuale riservato in teoria alla classe guerriera. La cultura chōnin si orientò in genere verso la ricerca di ciò che risultava essere piacevole e divertente, prediligendo in primo luogo i temi amorosi ed erotici. L’ideale dello ukiyo (mondo fluttuante) era ispirato da una visione effimera della vita, che imponeva di cogliere l’immediato godimento di una realtà sfuggente, fosse esso suscitato da un fenomeno della natura, da un sentimento amoroso, dall’ebbrezza del sake, dal piacere di una gradevole compagnia o dal pur momentaneo distacco dai problemi quotidiani. Tale ideale veniva espresso in varie forme: nelle stampe e nei dipinti noti come ukiyoe, resi celebri specie grazie all’opera di Katsushika Hokusai (1760-1849) e di Andō Hiroshige (1797-1858); nella narrativa e nel kabuki, L’apogeo della cultura chōnin è rappresentato in primo luogo dall’era Genroku (1688-1704), quando il mondo animato e variopinto delle zone urbane presso cui si riversavano le masse popolari era costituito da negozi, teatri, bagni pubblici e sale da tè, nonché dai quartieri presso cui le prostitute erano state confinate per ordine shogunale (detti kuruwa o yūkaku). Qui la cortigiana viveva in condizioni ben diverse rispetto a quelle che la morale vigente riservava al resto delle donne, costrette a sottomettersi ai genitori, quindi al marito e, infine, al figlio maggiore qualora questi fosse divenuto il capofamiglia. Il «mondo fluttuante» risultava attraente anche per i samurai i quali, entrando nei quartieri di divertimento, erano costretti a spogliarsi delle spade e a sottostare alle regole ivi imposte. La società chōnin, comunque, non era scevra dai doveri e dalle responsabilità, né priva di ideali superiori o di un senso etico, così come peraltro dimostra il ricorrente uso nella produzione letteraria e artistica di due termini specifici: giri (dovere e ragione), il quale racchiude l’insieme degli obblighi cui è sottoposta l’esistenza sociale e privata dell’individuo, e ninjō (sentimenti umani), che designa le insopprimibili spinte passionali e sentimentali. Molti dei personaggi della letteratura chōnin sono oppressi dal conflitto tra dovere e istinto che trova spesso una soluzione drammatica, come nel caso del doppio suicidio d’amore (shinjū). Il mondo dell’ukiyo rappresenta, in sostanza, una fuga da una realtà densa delle restrizioni e delle inibizioni dettate dall’ideologia ufficiale. Durante tutto il periodo Edo, pertanto, si registrò un fermento intellettuale che interessò diversi livelli della società e riguardò vari ambiti, dalla sfera politica, sociale e filosofica sino al campo scientifico, letterario e artistico. La politica del sakoku non sempre comportò un completo disinteresse verso il mondo esterno, e nel 1720, fu eliminato il bando all’importazione di opere occidentali, a esclusione di quelle relative al Cristianesimo, e fu consentito anche a coloro che non erano interpreti ufficiali di imparare l’olandese. All’inizio del secolo successivo, l’attività dei rangakusha (studiosi di cose olandesi) e degli yōgakusha (studiosi di cose occidentali) si era diffusa in molti han, divulgando le nuove conoscenze acquisite in campo medico e in altre discipline scientifiche, mentre nel 1811 lo stesso bakufu provvide a fondare un centro di traduzione di opere occidentali. In questo stesso periodo nell’ambito degli studi confuciani si andarono creando zone di eterodossia, generate sia da una reazione al fanatismo che spesso pervadeva l’attività dei sinologi (kangakusha), sia dalla ricerca di soluzioni originali ai problemi del proprio Paese o, anche, dalla volontà di disegnare un profilo più netto e definito dell’identità del Giappone. È in questo contesto che occorre ricordare l’attività degli studiosi di cose nazionali (kokugakusha o wagakusha), dediti a rivalutare la tradizione e i valori indigeni. Nell’ultima parte del periodo Edo, si ravvisavano ormai i sintomi evidenti della crisi che investiva la società e il sistema economico feudale. Il malcontento generato dalle difficili condizioni economiche in cui molti versavano diede vita a numerose insurrezioni, alle quali si aggiunse il problema del timore dell’Occidente. Se nel corso del XVIII secolo si era andata diffondendo in Giappone la consapevolezza dell’esistenza di un Occidente evoluto sul piano scientifico e tecnologico, già verso la fine del secolo tale percezione fu sempre più pervasa dal timore della società capitalistica. Pertanto, il fermento intellettuale, già stimolato dalle difficoltà politiche, economiche e sociali che si registravano sul versante interno, fu ulteriormente sollecitato dalle trasformazioni che stavano avvenendo nell’assetto internazionale. Ciò si riscontra in buona parte delle opere prodotte tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento e incentrate attorno ai temi della difesa delle frontiere, della politica di limitazione dei contatti con l’estero, della sicurezza e dell’identità nazionale. Gli studi occidentali, che sino ad allora erano rimasti confinati in un ristretto ed erudito ambito, cominciarono a trovare un’applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato nel 1792 dalla Russia di stabilire rapporti commerciali con il Giappone. Seppure prontamente rifiutata dalle autorità di Edo, tale richiesta aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Ezo (l’odierna Hokkaidō, dov’erano giunti i rappresentanti russi) e a stabilirvi un proprio commissario. Il senso di crisi generato dall’atteggiamento che l’Occidente andava assumendo in Asia Orientale si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte alla palese incapacità dimostrata dal bakufu di attuare un’efficace politica di risanamento economico. Ciò indusse le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale, dando vita a esperimenti riformistici volti a sanare le finanze dei propri domini. I tentativi più significativi si ebbero a Chōshū e a Satsuma: Chōshū attuò un programma teso in primo luogo a migliorare l’assetto agricolo e a ridurre drasticamente le spese; anche gli sforzi destinati alle attività commerciali fruttarono una certa quota di ricchezza che lo han poté investire per migliorare la sua organizzazione militare e per procurarsi equipaggiamenti occidentali. Satsuma, invece, grazie al controllo che aveva istituito sui traffici commerciali e al monopolio che deteneva sulla produzione dello zucchero, puntò soprattutto sull’attività mercantile. Il successo di queste come di altre iniziative locali che si ebbero in varie zone del Giappone fu comunque limitato dall’assenza di un quadro generale di riferimento, che poteva essere assicurato soltanto da una robusta ed energica autorità politica nazionale. In Giappone, dove le frontiere storiche e geografiche (con le pur vistose eccezioni dello Hokkaidō e di Okinawa) non avevano subìto significative modifiche negli ultimi secoli, vi erano vari elementi che potevano essere usati come simboli di unità nel presente e di continuità con il passato, come la comune storia di Impero, la permanenza di una forma di autorità sovrana ancorata all’idea di sacralità, lo Shintoismo, da cui l’identità del popolo giapponese poteva attingere in termini di unità etnica e persino razziale. Questi temi erano stati affrontati nel dibattito degli studiosi kokugaku e di Mito, che preparò il terreno alla rielaborazione degli elementi tradizionali in chiave moderna, ed ebbe una portata sensazionale come collante sociale e ai fini del discorso nazionalista. Vi era poi un altro importante aspetto che questi studiosi non avevano trascurato, cioè la ricerca di una nuova posizione in un contesto internazionale che andava rapidamente mutando. La contestazione del primato culturale cinese e della concezione sinocentrica prevalente nel mondo asiatico orientale aveva stimolato il processo di emancipazione dell’identità e del ruolo del Giappone e l’aspirazione a garantirsi una posizione meno marginale. Pur se inizialmente limitate a una ristretta élite, queste concezioni furono oggetto di un interesse che crebbe con l’aumentare della pressione occidentale, inducendo alcune autorevoli voci ad affermare come l’espansionismo fosse il rimedio al problema della sicurezza nazionale. Il tentativo russo di stabilire rapporti commerciali con il Giappone nel 1792 fu rinnovato nel 1804, ottenendo l’ennesimo rifiuto del bakufu, il quale ribadì il divieto di accesso ai «barbari» al di fuori del porto di Nagasaki, pur senza riuscire a impedire del tutto le incursioni lungo le coste giapponesi. Se la pressione russa si allentò allorché il Paese fu invaso dalle truppe napoleoniche (1812) e ritrovò vigore solo dopo la fine della guerra di Crimea (1854-1856), le navi britanniche presero a comparire all’orizzonte del Giappone agli inizi dell’Ottocento, e i ripetuti approdi compiuti negli anni successivi indussero il governo di Edo a usare toni ancor più perentori nel riaffermare, nel 1825, la politica del sakoku. In seguito, tuttavia, l’attenzione britannica fu distolta dal Giappone per rivolgersi alla Cina, che per decenni aveva continuato a respingere le richieste di Londra finalizzate a stabilire un libero commercio, limitando al porto di Canton gli scambi commerciali con gli europei in cerca di prodotti cinesi pagati con valuta preziosa. Di fronte all’atteggiamento intransigente di Pechino, la East India Company aveva dato vita a un sistema di vendita illegale di oppio in Cina, il cui uso era andato diffondendosi in varie zone dell’Asia Orientale sin dal XVII secolo, divenendo un pregiato prodotto commerciale anche per altre compagnie europee delle Indie. Nonostante i divieti imposti e più volte ribaditi dalle autorità cinesi, la Compagnia continuò a introdurre in Cina una crescente quantità di oppio prodotto in India, che dalla metà del XVIII secolo era stata trasformata in un dominio britannico; ciò contribuì a sovvertire l’equilibrio della bilancia commerciale, dato che l’acquisto di questa merce non era più compensato dalla vendita di prodotti cinesi (la cui richiesta era calata in Europa sin dall’inizio dell’Ottocento) ma da pagamenti in argento. Oltre a produrre un vertiginoso aumento della perdita di valuta, l’introduzione dell’oppio in Cina procurò effetti deleteri sul piano sociale, e ciò indusse il governo di Pechino a inviare a Canton un commissario speciale che, nel 1839, diede ordine di bruciare circa 1300 tonnellate di oppio sequestrato, scatenando la reazione britannica. Ebbe così inizio la Prima guerra dell’oppio (1839-1842), al termine della quale la Cina fu costretta a sottoscrivere il primo di una serie di trattati che l’avrebbero sottoposta a un meccanismo di controllo economico e territoriale da parte delle Potenze occidentali. Le notizie che giungevano dalla Cina diedero un nuovo impulso al dibattito sulla difesa e sulla sicurezza del Paese, acuendo peraltro il senso di crisi nazionale, e indussero il bakufu a mitigare la rigidità di alcuni provvedimenti e a consentire almeno l’approvvigionamento delle navi straniere che fossero approdate nei porti giapponesi. In quello stesso periodo, dal Re dell’Olanda giunse una missiva che esortava le autorità giapponesi a mutare la propria politica estera prima di esservi costretti dalla forza militare degli occidentali e che, tuttavia, riscosse un interesse assai scarso. Nel 1852, sempre dall’Olanda giunse la notizia dell’imminente arrivo di una missione statunitense decisa a rompere l’isolamento del individui, navi ed edifici stranieri, causando reazioni di protesta e, anche, di rappresaglia da parte degli occidentali, come accadde ad esempio nel 1863 quando, a seguito dell’uccisione di un suddito britannico, le navi inglesi bombardarono e incendiarono Kagoshima. Nel frattempo, si era acuita la disputa interna che, comunque, solo in parte rifletteva i rispettivi e reali orientamenti verso la politica estera. Infatti, così come anche tra gli assertori del kaikoku non mancava chi reputasse eccessive le concessioni fatte agli stranieri, lo stesso fronte raccoltosi attorno alla Corte adottando lo slogan sonnō jōi (onore all’Imperatore, fuori i barbari) non necessariamente si opponeva alla riapertura del Paese. Tra queste due posizioni estreme, l’una allineata con Edo e l’altra con Kyōto, si formò poi un movimento che riunì in primo luogo i vecchi sostenitori di Tokugawa Yoshinobu, colpiti in passato dall’epurazione di Ii Naosuke e determinati a rientrare nella competizione politica, e che suggerì di gestire la riapertura del Giappone con responsabilità e unità politica stabilendo una unione tra la Corte e il bakufu (kōbu gattai); d’altra parte, specie dopo le dimostrazioni di potenza militare fornite dagli occidentali in risposta agli atti terroristici e xenofobi di cui furono oggetto, andò crescendo la convinzione secondo cui la riapertura fosse un passaggio obbligato per acquisire la tecnologia necessaria a rafforzare il Paese. Tutto ciò chiarisce come, in realtà, i vari orientamenti espressi in merito alla politica estera si intrecciassero con una lotta per il potere tra diverse fazioni. Per un breve periodo, il bakufu tentò di percorrere la via del kōbu gattai, adottando di fatto una politica di compromesso con Kyōto e con i daimyō principali, e riuscendo peraltro ad allontanare dalla Corte i più strenui oppositori del regime. Ciò, comunque, ebbe solo l’effetto di spostare l’attivismo antishogunale altrove, più precisamente a Chōshū, dove l’opposizione militare ai Tokugawa si rafforzò al punto da resistere a una prima spedizione punitiva inviata nello han nel 1864 e da annientare le truppe mandate nuovamente da Edo due anni dopo. Un successo militare, questo, favorito dagli accordi conclusi da Chōshū con la Gran Bretagna, che assicurarono il rifornimento di armi, e da un patto segreto di mutua alleanza stabilito con Satsuma che, abbandonando la sua posizione mediatrice tra la Corte e il bakufu, sottrasse a quest’ultimo l’appoggio dell’unico han capace di contrastare militarmente Chōshū. L’avvicinamento dei due più potenti feudi del Giappone occidentale, cui concorse la mediazione svolta da uomini di Tosa, costituì il nucleo della coalizione militare che, di lì a breve, avrebbe sconfitto i sostenitori del bakufu e, dopo il crollo del regime feudale, avrebbe assunto un ruolo di guida politica nel Paese. Mentre il Giappone era percorso da un’ondata di rivolte contadine e urbane e il governo di Edo tentava invano di attuare riforme capaci di risanare le proprie finanze e rafforzare la difesa, due avvenimenti verificatisi a distanza di pochi mesi contribuirono ad accelerare il corso degli eventi: verso la fine del 1866, la scomparsa dello shōgun Iemochi consentì a Yoshinobu di ottenere la carica che gli era stata negata alcuni anni prima e, agli inizi dell’anno seguente, salì al trono il giovane Mutsuhito succedendo a suo padre Kōmei, di posizioni assai conservatrici. Convinto che le sorti del bakufu dipendessero dalla capacità di attuare riforme innovative e disposto ad accogliere l’assistenza offerta dalla Francia per modernizzare il Paese, Yoshinobu cominciò a emanare una serie di provvedimenti che non incontrarono l’assenso della Corte. Inoltre, la posizione di favore accordata alla Francia indusse la Gran Bretagna a rafforzare i propri legami con i feudi occidentali, nella convinzione che lo sviluppo dei propri traffici potesse beneficiare maggiormente dalla vittoria del fronte antishogunale, il quale sembrava opporsi non all’apertura del Paese al commercio con l’estero, bensì al fatto che fosse il bakufu a beneficiarne. Di fronte al rischio di uno scontro militare tra il regime di Edo e la coalizione di Satsuma e Chōshū (e, anche, alla prospettiva che la vittoria dei due han occidentali avrebbe procurato loro un potere ancor più esteso), fu ancora una volta il feudo di Tosa ad agire come mediatore presentando un memoriale allo shōgun. La richiesta era di dimettersi dalla carica restituendo al sovrano i poteri civili, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di daimyō e nobili, in cambio della garanzia del mantenimento delle loro terre. La proposta fu accettata da Yoshinobu che, nel novembre del 1867, si rivolse all’Imperatore pregandolo di accogliere il suo atto di rinuncia alla carica di shōgun, nella speranza di evitare una guerra civile. Questo atto, comunque, non fu sufficiente a impedire che la coalizione guidata da Satsuma e Chōshū (cui anche altri feudi, come Tosa e Hizen, decisero di aderire per timore di restare esclusi dal futuro assetto di potere) muovesse le proprie truppe contro i sostenitori del bakufu e occupasse il palazzo imperiale. Da lì, il 3 gennaio 1868 fu proclamata la Restaurazione del potere imperiale, assieme a un decreto che sancì l’abolizione dello shogunato e privò il capo Tokugawa di tutti i possessi della sua famiglia. Assunte ormai le sembianze di un «esercito imperiale», le truppe vincitrici proseguirono verso Edo senza incontrare ostacoli. Focolai di opposizione al nuovo governo si protrassero per poco più di un anno; quando l’ultima, estrema resistenza ritiratasi in Hokkaidō fu sconfitta nel giugno del 1869, il nuovo governo si era già insediato in una nuova capitale ed era all’opera per trasformare le istituzioni politiche, economiche e sociali del Giappone in nome dell’Imperatore. A Edo, che rappresentava il centro politico del Paese e che venne ora ribattezzata Tōkyō (capitale orientale), furono infatti trasferite le attività governative, e in quella che per quasi tre secoli era stata la residenza degli shōgun Tokugawa presero dimora il sovrano e la sua Corte.
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