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Riassunti Storia dell'estremo Oriente, Appunti di Storia dell'Asia

Riassunti dettagliati della storia di Cina, Giappone e Corea.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 18/01/2022

kanae95
kanae95 🇮🇹

4.6

(16)

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Scarica Riassunti Storia dell'estremo Oriente e più Appunti in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! INTRODUZIONE ESTENSIONE DELL'ASIA ORENTALE: Per "Asia orientale" si intende la zona geografica comprendente Cina, Giappone e Corea; dell'Asia centrale invece fanno parte la Mongolia, il Xīnjiāng e il Tibet; la storia dei nomadi di queste regioni ha avuto stretti rapporti con quella cinese. L'Asia sudorientale comprende il Vietnam, la Birmania, la Tailandia, la Cambogia, la Malesia, l'Indonesia e le Filippine; la cultura di buona parte dell'Asia sudorientale ha subito più l'influenza dall'India dalla Cina, inoltre l'Islam e il cristianesimo hanno più tardi contribuito ad accrescere ulteriormente le distinzioni esistenti tra queste aree. La Cina antica aveva una popolazione almeno uguale a quella dell’Impero Romano; la popolazione dell'intera Asia orientale costituisce quasi un terzo del genere umano, inoltre, i popoli dell'Asia orientale, durante gli ultimi cento anni, hanno accresciuto la loro potenza molto più rapidamente di quanto non abbiamo fatto noi occidentali. LA NECESSITA' DI COMPRENDERCI: Le lingue, le consuetudini sociali, i valori etici e le tradizioni storiche variavano sensibilmente tra l'Asia orientale, l’India, il mondo islamico e l'Occidente. Tra le masse dei paesi dell'Asia si è manifestata un'enorme crescita della coscienza nazionale e dell'orgoglio patriottico: un atteggiamento più critico verso l'Occidente alla quale si è inevitabilmente accompagnato un rapido mutamento dei rapporti tra l'Occidente e l'Asia. I mutamenti culturali verificatisi nell'Asia orientale, come nel resto del mondo, sono stati accompagnati da ogni sorta di violenti sconvolgimenti: se la Cina fosse stata effettivamente "immutabile", sarebbe stato molto più facile per noi comprenderla, per quanto grandi fossero le differenze tra la sua cultura e quella occidentale; al contrario, essa ha subito trasformazioni rapide ed esplosive e quindi il nostro compito, quello di inquadrare chiaramente questa cultura a noi estranea, viene reso più complesso dalla rapidità della sua evoluzione. Si deve cercare di stabilire tra noi e i popoli dell'Asia orientale il reciproco rispetto, la volontà di cooperazione e una certa comunanza di intenti. Per l'umanista, interessato all'arte e alla letteratura, alla filosofia e alle religioni, le antiche società della Cina, del Giappone e della Corea sono uno specchio posto di fronte alla nostra cultura occidentale; già sono state rilevanti le influenze che abbiamo ricevuto della letteratura e della filosofia della Cina e del Giappone, e ancora più grandi quelle delle loro arti, evidenti non soltanto nei nostri musei, ma anche nella architettura, nella disposizione dei giardini e nell'arredamento. Per certi periodi e incerti campi vi sono testimonianze molto più complete di quelle di cui possiamo disporre in Occidente: il sistema familiare cinese, lo sviluppo economico giapponese, le istituzioni del regime burocratico coreano e le interdipendenze tra i popoli e le culture dell'Asia sudorientale costituiscono capitali importanti della storia del genere umano. L'APPROCCIO ALL'ASIA ORIENTALE ATTRAVERSO LA SUA STORIA: I popoli dell'Asia orientale, più di quanto non facciano quelli del resto del mondo, considerano sé stessi entro una prospettiva storica: essi sono pienamente consapevoli dei lori legami col passato, come sono coscienti del giudizio storico del futuro; accostarsi a questi popoli attraverso la loro storia significa vederli come essi si vedono, ed è questa la prima condizione per comprenderli. L'attuale inquietudine dell'Asia orientale è essenzialmente dovuta all'azione reciproca tra forze nuove, molte delle quali introdotte dall'Occidente, e abitudini e modi di pensiero tradizionali. L'AMBIENTE NATURALE: La civiltà occidentale si è sviluppata intorno al bacino orientale del Mediterraneo, in un certo numero di zone strettamente collegate, come la Mesopotamia, l'Egitto e la Grecia; soltanto dopo aver esteso la sua influenza fino a comprendere buona parte dell'Europa, l'Africa del Nord e l'Asia occidentale, essa si divise nei suoi 2 rami attuali rappresentati dalla civiltà occidentale cristiana e da quella islamica. La regione nella quale ebbe origine l'antica civiltà dell'Asia orientale, ossia la Cina del Nord, era molto più isolata dagli altri antichi centri: circondata dal Pacifico da un lato e dall'Himalaya, l'altopiano tibetano e le enormi catene montuose dall'altro. A nord del massiccio vi sono i grandi deserti e le steppe dell'Asia centrale, freddi, inospitali e quasi del tutto insuperabili per l'uomo primitivo; a sud del massiccio, i monti selvaggi e le giungle della Cina sudoccidentale e dell'Asia sudorientale formano una barriera ancora più temibile dei deserti del Nord. Anche le differenze climatiche contribuirono a caratterizzarla culturalmente. Una zona vasta come l’Asia orientale non può avere un clima uniforme: anche considerando soltanto la Cina propriamente detta vi è una enorme differenza tra le regioni nordoccidentali, fredde e aride, e quelle della costa meridionale, umide e subtropicali; tuttavia, le principali distinzioni climatiche sono quelle stabilite tra le 3 zone culturali cioè l'Asia centrale, l'Asia sudorientale e l'Asia orientale. La maggior parte della zona di sviluppo della civiltà est-asiatica, vale a dire Giappone, Corea e Cina costituisce la regione temperata - dove durante l'inverno si producono masse di aria fredda e pesante determinando una temperatura rigida e secca, e il contrario accade durante l'estate, quando l'aria diventa calda e leggera con abbondanti precipitazioni – dove è possibile una coltivazione intensiva del suolo; a sud vi è l'Asia sudorientale, una regione tropicale in gran parte distinta dai vicini territori settentrionali sia dal punto di vista culturale che da quello climatico. A nord e a ovest della zona centrale vi sono la Mongolia, il Tibet e lo Xīnjiāng: in queste terre aride e fredde l'agricoltura può essere praticata soltanto nelle basse vallate del Tibet, ai limiti meridionali della Mongolia; queste vaste regioni furono inizialmente abitate da popolazioni di pastori nomadi, i cui sistemi di vita furono, nel corso della storia, in netto contrasto con quelli dei cinesi. Vi sono due serie di catene montuoso parallele in Cina: una delle principali catene interne può essere indicata dalla linea che si stende dalla Manciuria sudoccidentale verso nordest, attraverso lo Shanxi e la Manciuria occidentale; una catena parallela a questa si allunga da Canton verso nord, dalla costa fino al basso corso dello Yángzǐ e poi tra le montagne lungo il confine coreano e quello mancese. Nell'estremo nord, un'altra catena, che va da oriente a occidente, divide la Cina settentrionale dall'altipiano della Mongolia; questa disposizione di catene montuose ha creato un numero di regioni geograficamente distinte, ha inevitabilmente suscitato problemi di unità geografica e politica. I grandi fiumi della Cina bagnano i principali centri abitati situati tra le catene montuose: a nord vi è il Fiume Giallo (Huáng Hé); durante la stagione piovosa dell'estate, le acque che scorrono dalle grandi catene montuose prive di alberi trasportano una grande quantità di fanghiglia gialla, dalla quale il fiume prende il nome. È per questa ragione che esso innalza progressivamente il suo letto e che fin dalle età più remote i governanti di questa antichissima parte della Cina sono stati costretti a costruire argini per mantenerlo entro il suo corso. Lo Huáng Hé è meno vasto dello Yángzǐ (Fiume Azzurro), e, a differenza di quest’ultimo, non è navigabile. Ricco di un gran numero di affluenti, anche lo Yángzǐ trasporta un’enorme massa di fango nel Mar Cinese. I laghi Dòngtíng Hú e Poyang servono come bacini di raccolta delle acque per il basso corso dello Yángzǐ. LE LINGUE: Le più significative distinzioni tra gruppi umani all'interno dell'Asia orientale sono in primo luogo linguistiche: sia in Asia orientale che in Occidente esiste una concezione erronea molto diffusa secondo la quale le differenze linguistiche corrisponderebbero alle divisioni etniche. LINGUE SINITICHE: è l'elemento che linguisticamente occupa in Asia orientale una posizione predominante, comprendente la Cina propriamente detta, il Tibet, il Vietnam, la Thailandia, il Laos e la maggior parte della Birmania. Le popolazioni di lingua cinese occupavano la Cina del Nord, culla della civiltà dell'Asia orientale, già dall'inizio zio dei tempi storici; nel corso della storia, essi andarono estendendosi sia con l'emigrazione che con l'assimilazione dei gruppi culturalmente e linguisticamente affini. Ben presto giunsero ad occupare quasi tutta la Cina propriamente detta e in seguito la Manciuria, buona parte dell'isola Taiwan e a stabilire quartieri cinesi nelle città e nei centri di tutta l'Asia sudorientale, e particolarmente in Malesia. il cinese propriamente detto, che è chiamato "mandarino" è come madre lingua, la più parlata di ogni altra sulla terra. Le lingue che derivano dal cinese, di solito impropriamente chiamate "dialetti cinesi", differiscono dal mandarino e sono: il dialetto Wu della zona di Shangai; il dialetto Min del Fujian e il cantonese. Una delle autoritario veniva applicato nell'intera società e forniva le basi dell'autorità e dell'ordine sociale sia nella vita politica che in quella domestica; sia la famiglia che la società erano organizzate secondo gli stessi principi etici, che venivano applicati in egual modo alla politica e alla vita morale degli individui. I SISTEMI ETICO E POLITICO: Nella vita cinese, erano le virtù personali dell'onestà e della lealtà, della sincerità e della benevolenza a stabilire le norme della condotta sociale; la legge era uno strumento utile per l'amministrazione, ma la moralità personale costituiva il fondamento della società. La scarsa importanza attribuita al concetto di legge non era però fonte di anarchia in una società, come quella cinese, tenuta saldamente unita dal confucianesimo. Questa grande istituzione etica ha prodotto una forte coesione sociale e uno straordinario equilibrio. Liberi dalle limitazioni derivanti dalla forza di una chiesa o della legge e sostenuti da una concezione particolare delle funzioni del padre, i governanti cinesi hanno mostrato la tendenza a esercitare un potere politico assoluto, fondato sulla loro interpretazione del codice etico; come è accaduto in molte società contadine, netta è sempre stata la frattura, per quanto riguarda il potere e il prestigio, tra governanti e governati; inoltre, tradizionale era la suddivisione della società in 4 classi, rappresentate in ordine discendente dai letterati-amministratori ( o guerrieri-aristocratici ), dagli agricoltori, dagli artigiani e dai mercanti. Qualunque fosse il tipo di rapporto intercorrente tra le ultime tre classi, nessuna di esse contestava la supremazia dei letterati-amministratori, che si presumeva fossero, in quanto uomini di cultura, moralmente superiori. Poiché esercitava l'autorità suprema dell'imperatore, il letterato- amministratore, pater familias dell'intera società cinese, giunse a controllare la vita pubblica in tutti i suoi aspetti. In ogni caso, la tradizione sociale cinese, sebbene meno limitante dell'ambiente naturale, contribuirà a determinare il futuro del paese. LA CINA ANTICA I MITI Il mito da cui tutto ha origine è quello di Pangu: all’inizio dei tempi c’era il caos e in mezzo a questo caos c’era un uovo gigante nel quale vi era l’essere magico di nome Pangu. Questi, nascendo, rompe l’uovo e l’albume va a formare il cielo e il tuorlo la terra. C’era però bisogno di mantenerli separati, quindi egli si allunga fino a 18000 km per mantenerli divisi. Dopo migliaia di anni finalmente cielo e terra si stabilizzano, rimanendo fermi e separati, così Pangu, esausto, muore, e dal suo sangue nascono i fiumi e dai capelli le piante. A questo si aggiunge il mito di Nüwa, dea con il busto di donna e la parte inferiore di drago, la quale, sentendosi sola, inizia a creare gli animali dal fango. Non contenta, crea anche gli esseri umani, divertendosi con questi che prendevano vita dal suo soffio. A questa dea è legato anche un altro mito secondo il quale ad un certo punto la volta celeste si rompe, provocando inondazioni e catastrofi, ed ella la ripara usando 5 pietre magiche di 5 colori diversi (il 5 è un numero ricorrente). Nüwa era una dei tre huang detti i 3 Augusti. Oltre a lei vi sono FuXi e Shennong. Sono esseri superiori legati a diverse fasi di costruzione del mondo. FuXi come Nüwa ha la parte inferiore del corpo di drago, infatti sembra che FuXi e Nüwa fossero fratelli, ma anche marito e moglie. I due insieme hanno creato il genere umano, in particolare FuXi insegna agli uomini a pescare con le reti, ad addomesticare gli animali e ad allevare i bachi da seta. Avrebbe inventato anche la divinazione e gli otto trigrammi, nonché i Cento Cognomi. Shennong è la divinità dell’agricoltura. È raffigurato molto alto con la testa di bufalo e il viso di drago. Questi avrebbe insegnato agli uomini a coltivare, a ricavare medicinali dalle piante, l’arte della ceramica e della tessitura. A questi tre huang si affiancano altri personaggi semidivini che si chiamano i 5 di. Questo “di” sta a indicare il sovrano, infatti, si tratta dei 5 re leggendari, i primi sovrani, che sarebbero vissuti tra il 3000 e il 2000 a.C. e che avrebbero preceduto le Tre Dinastie. Questi 5 sono: Huangdi (l’imperatore giallo), Zhuanxu, Ku, Yao e Shun. Il loro governo era una monarchia elettiva dove i sovrani sceglievano il loro successore in base a delle qualità. L’imperatore Giallo (Huangdi) è considerato l’antenato di tutta la razza cinese, si dice che abbia inventato il calendario (che rappresenta il legame tra cielo e terra del sovrano e la sua comunione con il cosmo poiché nel calendario sono segnate le fasi lunari, i periodi di semina etc.), le prime imbarcazioni, gli abiti e probabilmente anche la musica. Egli è il simbolo dell’unità e della continuità storica di un popolo che ancora oggi chiama sé stesso «Han». Nel XVII secolo il gesuita Martino Martini (primo ad andare in Cina per diffondere la fede cristiana) calcolò la data 2697 a.C. quale inizio del suo regno. Cang Jie, ministro di Huangdi, è considerato il padre della scrittura. In un dipinto viene rappresentato vestito di foglie e con quattro occhi, questo per dargli una parvenza di sovraumano, di magico. Gli imperatori Yao e Shun diventarono modelli di virtù e giustizia, e durante il loro governo gli astri splendevano come pietre preziose, e a corte nidificavano le fenici. Questi cinque sovrani erano probabilmente antenati di clan diversi, in tradizioni autonome e diverse, ma vengono rappresentati dalla prospettiva dell’impero unitario, come sovrani che succedono l’uno all’altro nello stesso territorio della Cina settentrionale. Le genealogie dinastiche sono collegate alla figura mitica del regolatore di corsi d’acqua Yu il Grande, colui che «divise la regione e deviò i fiumi». Egli sarebbe nato dal ventre di suo padre, avrebbe inventato il carro, fondato la prima dinastia cinese, gli Xia, e infine salvato, sempre di propria mano, l’intera regione da un diluvio universale. Un intero pantheon di figure mitiche dalle origini remote popolò la letteratura della fine del I millennio a.C. Questi miti disparati, originari di contesti regionali diversi, furono organizzati per la prima volta in un ordine sistematico soltanto nel II secolo a.C., sotto la dinastia Han nell’opera intitolata “Le Memorie” (Shiji) di Sima Quian. Questa è l’opera più importante della storiografia cinese, nonché la prima storia generale della Cina. LA CULTURA DEL VASELLAME DIPINTO: Le antiche civiltà dell'Asia occidentale e della valle dell'Indo sembrano risalire a tempi più remoti e dai dati archeologici risulta che molti degli elementi fondamentali della civiltà si svilupparono dapprima in queste regioni, per estendersi poi all'Asia orientale. Le steppe e i deserti dell'Asia centrale costituivano una via di comunicazione praticabile, anche se lunga e difficile, tra l'Occidente e l'Oriente, e le scoperte e le invenzioni umane filtrarono lentamente per questa via: importanti cereali come il grano, gli animali addomesticati come le pecore, i buoi e i cavalli, i metalli come il bronzo e il ferro, che hanno reso possibile una civiltà più evoluta, e importanti invenzioni come la ruota e il carro da guerra, sembra siano passati per questa via dall'Occidente all'Oriente. La maggior parte dell'Asia orientale, dalla Siberia alla Malesia, fu caratterizzata nei tempi neolitici da un vasellame di colore grigio completamente diverso da ogni altro oggetto ritrovato nell'Eurasia occidentale. Nell'ambito di questa cultura, caratteristica dell'intera Asia orientale nell'età neolitica, apparvero verso il 2000 a. C., due varianti tipiche della Cina del Nord. La prima, la cultura del vasellame dipinto o rosso, è nota anche come cultura di Yangshao dal nome della località dove sono stati rinvenuti lungo le sponde del Fiume Giallo. La cultura del vasellame dipinto è caratterizzata da grandi vasi rossi, rigonfi, dipinti con disegni geometrici ben tracciati, solitamente in nero; questo vasellame presenta notevoli somiglianze con il vasellame dipinto dell'Asia occidentale e dell'Europa sudorientale. LA CULTURA DEL VASELLAME NERO: La seconda variante culturale del tardo neolitico si sviluppò nella Grande Pianura: essa deve il suo nome ai caratteristici vasi neri e lucidi, ed è chiamata cultura di Longshan. Molti degli animali e delle colture tipici delle popolazioni del periodo del vasellame nero sono infatti gli stessi dell'epoca Shang; comuni sono anche le pratiche divinatorie. Questa cultura è sotto molti aspetti più tipicamente est-asiatica di quella del vasellame dipinto ma anch'essa mostra il segno di evidenti influenze occidentali; alcune di queste influenze possono essere penetrate tramite la cultura del vasellame nero; infatti, quest'ultima è forse una diretta discendente della cultura del vasellame dipinto. Inoltre, esistono molte somiglianze con il vasellame nero tipico dell'Occidente. LE TRE DINASTIE: SAN DAI GLI XIA (III millennio a.C.): Fondata secondo la tradizione da Yu il Grande, la dinastia Xia è considerata mitica, in quanto non sono state rinvenute fonti archeologiche, tuttavia potrebbe coincidere con il centro di Erlitou. GLI SHANG (XIII-X secolo a. C.): La cultura storica del bronzo degli Shang, che ebbe il suo centro intorno ad Anyang (ultima delle loro 5 capitali, la prima potrebbe essere Erligang) dal XIII al X a. C. circa. I bronzi Shang sono per la maggior parte armi e vasi lavorati, usati per le cerimonie e i sacrifici religiosi. I vasi sono spesso di notevoli dimensioni, spesso decorati con disegni molto elaborati, incisi e talvolta in rilievo; la forma angolare di molti vasi e le linee molto nette del disegno fanno pensare all'uso di stampi di legno. Il principale elemento figurativo è noto col nome di maschera di animale: si tratta della veduta frontale di una testa di animale, che ha il suo centro nel naso ed è fornita di occhi, di corna, di orecchie prominenti e di altri elementi che sporgono simmetricamente da ogni lato. La maschera è stilizzata da linee angolari, riproducono spesso figure altrettanto convenzionali di draghi e uccelli, di tigri e di altri animali. Da queste fonti scaturisce il quadro di una società di tipo patriarcale, tribale o di clan: dal nome del clan si era sviluppato il nome della famiglia. La successione avveniva spesso tra fratelli più che tra padre e figlio (alternanza generazionale). In una società fondata sul clan anche le credenze religiose tendevano a focalizzarsi su questa base, come il culto degli antenati, al quale si deve l’invenzione della scrittura. Gli antenati imperiali venivano interrogati per mezzo della divinazione che consisteva nell’incidere la domanda (talvolta anche la risposta e l’esito) su ossa piatti (scapole di bovino o gusci di tartaruga), cospargere questi ossi con un liquido particolare, e poi passarli su una fiamma. In base alle crepe che si creavano, l’oracolo era in grado di interpretare il volere degli antenati. Le domande riguardavano raccolti, tempo, guerra, caccia e pesca, lavoro, malattie e fortuna nei successivi giorni. Da queste iscrizioni si possono ricavare molte notizie sulla società degli Shang; essi facevano frequenti sacrifici agli spiriti ed usavano generalmente gli animali, ma talvolta anche un liquore, probabilmente una specie di birra, che veniva cosparso sul terreno. Si compivano sacrifici alla terra, al vento e a varie altre divinità piuttosto vaghe della natura, nonché ai punti cardinali; una delle divinità era chiamata Shangdi (primo antenato) a cui sembra risalire il culto degli antenati. L'economia Shang era per la maggior parte agricola, anche se gli aristocratici dedicavano molto del loro tempo alla caccia, possedevano pecore e bestiame. Poiché il bronzo era raro e costoso, gli attrezzi agricoli erano di legno e di pietra. Anche la giada era molto apprezzata, e piccole conchiglie venivano usate come una specie di moneta primitiva. Sembra che gli Shang esercitassero anche una certa autorità su altre comunità, simili ma più piccole, sparse su buona parte della Grande Pianura. Naturalmente la cultura Shang si estese a una zona piuttosto ampia, ma sappiamo che i confini della unità politica propriamente detta erano relativamente ristretti, poiché essi furono spesso in guerra con le popolazioni vicine e con i nomadi invasori. Gli Shang erano governati da una dinastia di sovrani ereditari; le tombe di costoro erano delle enormi fosse riempite con grandi quantità di terra battuta: era costume seppellire insieme al cadavere suppellettili di valore e arnesi vari, presumibilmente affinché il defunto ne facesse uso nell'altra vita. Gli edifici erano grandi e imponenti, ma le case della popolazione, al contrario, sembra non fossero diverse dalle rozze grotte del periodo neolitico. La frattura fra governanti e governati è inoltre illustrata dal criterio apparentemente casuale che gli Shang avevano adottato per i sacrifici umani, scegliendo generalmente i multipli di 10: molte delle vittime di tali sacrifici erano prigionieri di guerra o appartenevano alle tribù nomadi occidentali. In origine, i sovrani non dovettero essere che poco più di capi sciamani, intermediari tra il popolo e gli spiriti degli antenati o i fenomeni della natura, ma nel tardo periodo Shang la loro autorità sembra essersi considerevolmente rafforzata. I ZHOU OCCIDENTALI (1050-771 a.C.) L’ultimo sovrano Shang fu un uomo perverso, corrotto e dal governo tirannico, così alla fine il re Wu figlio di Wang rovesciò gli Shang nella battaglia di Muye, fondando la terza dinastia cinese, ossia la dinastia Zhou. La principale divinità Zhou era Tian, il Cielo; i sovrani Zhou si chiamarono "Figli del Cielo" e giustificarono la conquista dello stato degli Shang con la pretesa di aver ricevuto il “Mandato del Cielo”, Tianming. Il re Wu fu notevolmente aiutato nel governo dal fratello, il duca di Zhou, che dopo la successione del giovane figlio di Wu si astenne dall'impadronirsi del trono e divenne invece il saggio e illuminato consolidatore della dopo una serie di grandi campagne condotte tra il 230 e il 221 a. C., Qin sottomise i rimanenti stati indipendenti unificando per la prima volta la Cina e aprendo una nuova fase nella sua storia. LA DINASTIA QIN (221 – 206 a.C.) È un fatto significativo che lo stato di Qin abbia avuto il suo centro nella valle del Wei, dove era sorta in passato la potenza dei Zhou. La zona presentava alcuni vantaggi strategici: la sola via di accesso alla valle, separata dal resto della Cina da una catena di monti, passava infatti attraverso una stretta lingua di terra, situata tra il fiume e le colline, in prossimità della grande ansa del Fiume Giallo. Era quindi assai facile difendersi. Vi era inoltre spazio per estendersi a nordovest, a spese dei vicini nomadi “barbari” e, a sudovest, verso le popolazioni agricole meno progredite del bacino dello Sichuan. Per quanto riguarda il problema dell’imbrigliamento delle acque, essi riuscirono a costruire un canale di irrigazione e di trasporto nella valle del Wei, che aumentò sensibilmente la produttività e la popolazione della zona. Un'altra ragione del successo dello stato di Qin fu la larga applicazione delle nuove tecniche di organizzazione politica e militare, che, sebbene non teorizzate dai legisti, furono da costoro giustificate sul piano filosofico. Il primo grande balzo in avanti verso una posizione di predominio fu compiuto sotto la guida di Shang Yang, funzionario, che stabilì un rigido sistema di pene e ricompense, costrinse l’intera popolazione a svolgere lavori produttivi, introdusse il sistema della mutua responsabilità (in famiglia fino alla III generazione) e della reciproca delazione e cercò di sostituire le grandi famiglie ereditarie con un’aristocrazia nuova, scelta per i meriti militari. La più importante delle riforme di Shang Yang fu il tentativo di portare l’intero territorio dello stato sotto il diretto controllo del governo centrale; Shang Yang divise l’intero territorio di Qin in 31 prefetture e pose ciascuna di esse sotto la direzione di un funzionario dipendente dal governo centrale e noto col nome di prefetto (ling), applicando in tal modo un sistema centralizzato che impediva il rafforzarsi dei grandi domini ereditari. All’epoca di Shang Yang, lo stato di Qin non era annoverato tra le maggiori potenze, i cosiddetti SEI STATI (Yan a nord, Zhao, Wei e Han al centro, Qi a est e Chu a sud), comunque Qin riuscì a distruggere le forze congiunte dei 5 stati settentrionali e Zhou. L’unificazione della Cina fu infine compiuta da un re Qin, che salì al trono nel 246 a. Assunse il titolo di Qin Shi Huangdi, ossia “Primo/Augusto Imperatore”, adottando per il nuovo termine imperatore due caratteri un tempo usati per le divinità (Shang Ti) e per i mitici imperatori saggi dell'antichità (i tre Huang e i cinque Ti). Su consiglio di Li Si, il Primo Imperatore estese il sistema centralizzato dello stato di Qin a tutte le terre conquistate (tripartizione che resterà nella storia cinese sino alla rivoluzione); la Cina fu divisa in 36 comandi militari, e questi furono a loro volta suddivisi in prefetture. Alla testa di ogni comando furono posti un governatore civile, un governatore militare e un terzo funzionario, con funzioni ispettive (giudiziaria), che rappresentava il governo centrale e aveva l’incarico di fare da equilibratore tra i primi due. Nello stesso tempo, il sistema Qin di possesso privato della terra veniva esteso a tutto l’impero, insieme al sistema fiscale e a una legislazione impersonale ed egualitaria; il Qin Shi Huangdi provvide anche al disarmo di tutti gli eserciti, tranne il proprio, e ordinò il trasferimento di tutta l’aristocrazia ereditaria cinese alla capitale Xianyang, vicina ad Hao. Il Primo Imperatore non cercò soltanto di consolidare le sue vaste conquiste per mezzo della centralizzazione amministrativa, ma unificò altresì i pesi e l misure, il sistema monetario e persino lo scartamento dei carri; quest’ultima decisione aveva particolare importanza per le comunicazioni, dove le ruote dei carri avevano scavato nel loess dei solchi profondi; sembra che Li Si abbia anche uniformato il sistema scrittura. Nel 213 a.C., Li Si procedette alla distruzione delle opere indesiderate con una specie di inquisizione letteraria nota in seguito col nome di “Incendio dei libri”: gli unici testi risparmiati furono quelli di utilità immediata, come le opere di medicina, di divinazione e di agricoltura, le memorie storiche dei Qin, le collezioni della biblioteca imperiale a disposizione dei 70 letterati di corte; tutti gli altri libri furono distrutti e gli intellettuali recalcitrati puniti con il bando o con la morte. Con l’arruolamento dei contadini, si poteva contare, su riserve militari quasi illimitate, e gli eserciti incorporarono nell’impero molte delle popolazioni barbariche del Sud, penetrarono nella parte settentrionale dell’attuale Vietnam. Incorporando i tronconi in precedenza eretti da stati settentrionali, la GRANDE MURAGLIA si allungò per circa 1400 miglia, essa doveva costituire una permanente linea divisoria tra le popolazioni agricole cinesi a sud e i barbari nomadi a nord. Dal punto di vista militare, essa formava una barriera difensiva abbastanza efficiente se adeguatamente presidiata, poiché era in grado di arrestare almeno in parte la penetrazione dei cavalieri nomadi fino a che le truppe necessarie alla difesa non fossero affluite sul luogo. Il successo della politica di accentramento del potere adottata da Qin Shi Huandi contribuì alla fine prematura della dinastia; l’amministrazione era così strettamente controllata dal centro che un colpo inferto al vertice aveva immediate ripercussioni in tutto il paese. Nel 210 a.C., quando il Primo Imperatore morì, durante uno dei suoi viaggi, Li Si e l’eunuco Zhao Gao posero sul trono un giovane e inesperto figlio del defunto sovrano, attribuendogli il titolo di Secondo Imperatore; ma presto Li Si cadde vittima degli intrighi di Zhao Gao e l’impero si disintegrò rapidamente. Il rapido collasso dei Qin non deve essere attribuito solo agli intrighi di corte: una ragione molto più importante è rappresentata dal fatto che al nuovo impero mancava l’appoggio della grande maggioranza della popolazione, e molti erano rimasti fedeli agli antichi principi che i Qin avevano spodestato. Avevano esteso troppo il loro dominio, e non erano più in grado di controllare il loro apparato militare, che aveva raggiunto dimensioni esagerate. Nel 209 a.C. Xiang Yu, già comandante militare oltre che discendente della nobiltà dello stato di Chu, si appoggiò alle vecchie strutture nobiliari pre-Qin, e a sud sconfisse l'esercito inviato a contrastarlo. Nel mentre, Liu Bang, a capo di una rivolta contadina, entrava nella capitale, deponeva l'ultimo sovrano della dinastia Qin e abrogava tutte le leggi più efferate promulgate contro i contadini. All'arrivo nella capitale dell'esercito di Xiang Yu la città fu saccheggiata, la biblioteca imperiale bruciata e Xiang Yu si autoproclamò sovrano egemone di Chu Occidentale (utilizzando una terminologia che si discostava dal titolo imperiale di "huangdi" e riproponeva una terminologia del tardo periodo Zhou) dando a Liu Bang il titolo di sovrano di Han, dal nome di uno dei diciotto regni in cui intendeva suddividere l'impero. Liu Bang allora raccolse attorno a sé tutti i capi delle rivolte che non accettavano l'egemonia di Xiang Yu e cominciò una guerra civile che si protrasse fino al 202 a.C. quando Xiang Yu, accerchiato nell'attuale provincia dell'Anhui, dopo la battaglia di Gaixia si suicidò. Liu Bang salì al trono con il nome di Gaozu diventando il primo sovrano di umili origini. LA DINASTIA HAN ANTERIORI O OCCIDENTALI (202 a.C. – 8 d.C.) Liu Bang e dei suoi seguaci, uomini di umili origini e non aristocratici orgogliosi, si rivelarono più pratici e trattabili dei loro predecessori, si mossero con maggiore cautela nel consolidare il loro potere e non gravarono eccessivamente i contadini di tasse e di corvée. L’Impero fondato da Liu Bang durò poco più di 2 secoli senza interruzioni significative; poi, dopo una temporanea caduta, fu ricostruito e durò per altri 2 secoli prima della sua definitiva rovina; nel periodo che precedette la prima caduta, Wang Mang, il più eminente statista del tempo, usurpò il trono nell’anno 8 d.C., dando inizio a una dinastia denominata Xin (nuova); ma nonostante i grandi sforzi per ridare vita ad un potere centralizzato, il suo regno si concluse nel 23 d.C. nel caos e nella rivoluzione, e 2 anni dopo un discendente della famiglia Han riuscì a riunificare il paese. L’impero che questi fondò durò fino al 220 d.C. e viene solitamente chiamato impero degli HAN POSTERIORI, per distinguerlo da quello degli HAN ANTERIORI di Liu Bang; i due imperi Han abbracciano insieme 4 secoli che vanno dal 206 a.C. al 220 d.C. Liu Bang, come la maggior parte dei successivi imperatori cinesi, è più noto con l’appellativo postumo di Gaozu, cioè Alto Progenitore; il nuovo impero era minacciato dai dissensi interni e dagli attacchi esterni, e passarono alcuni decenni prima che il dominio degli Han fosse saldamente stabilito. Vaste zone dell’impero erano lontane dalla capitale e, con i primitivi mezzi di trasporto allora disponibili, non si poteva sperare che recassero un efficace contributo a sostegno del governo centrale. Sembrava quindi ragionevole delegare le responsabilità di governo e la riscossione delle imposte, nelle zone più lontane, a vassalli dell’imperatore. Gaozu spese gran parte dei suoi pochi anni di regno all’eliminazione dei 7 re (wang) che egli aveva creato, donando dei territori a persone che lo avevano aiutato a prendere il potere. I suoi successori provvidero a limitare il potere dei rimanenti re, riducendo i loro territori, dividendoli tra i loro figli e nominando in ogni regno funzionari del governo centrale incaricati di svolgervi una attività di controllo, ma ancora prima dell’adozione di quest’ultimo provvedimento, la minaccia dei re era stata eliminata allorché 7 dei più forti regni, costretti alla ribellione nel 154, erano stati distrutti o la loro superficie sensibilmente ridotta. La dinastia Han dovette fronteggiare fin dall’inizio una seconda minaccia rappresentata dalla famiglia dell’imperatrice: molte erano le mogli degli imperatori cinesi, ma quando il figlio di una di loro veniva riconosciuto come erede al trono, la madre riceveva il titolo di imperatrice; con l’ascesa al trono del figlio, costei diventava spesso, in quanto imperatrice vedova, la figura dominante di corte. Questo fatto si verificò per la prima volta con l’imperatrice Lu, che divenne la vera padrona della Cina dopo la morte di Gaozu: sul trono sedeva un bambino, mentre molti dei più importanti membri della famiglia reale risiedevano nei loro lontani regni, tale situazione permise all’imperatrice Lu di esercitare il potere con l’aiuto dei membri della sua famiglia. Per un momento, essa parve in grado di usurpare il trono a vantaggio dei suoi familiari ma alla sua morte nel 180 a.C. uno dei vecchi e fedeli luogotenenti di Gaozu massacrò l’intera famiglia Lu e pose sul trono uno dei figli di Gaozu, Wendi (l’Imperatore Colto). L’impero Han dovette immediatamente affrontare una terza minaccia, quella dei nomadi alle frontiere settentrionali: i nomadi furono chiamati dai cinesi Xiongnu, forma primitiva della denominazione di unni, popolazioni di lingua turca. Gaozu, in guerra per distruggere la potenza dei re e sottoposto alla pressione dei Xiongnu, credette di poter tenere lontani questi ultimi offrendo una principessa cinese in moglie al loro imperatore, un espediente che diventerà un’abitudine nelle successive relazioni tra cinesi e barbari. Malgrado queste difficoltà, la Cina conobbe una grande prosperità dopo secoli di guerra quasi ininterrotte. Durante la dinastia Han, le pene divennero meno severe, le imposte agrarie fondamentali progressivamente ridotte, mentre alcuni alleggerimenti vennero introdotti nel sistema delle corvée; queste erano per il potere centrale un sostegno fondamentale poiché in linea di massima, ogni agricoltore era costretto a dedicare ogni anno un mese di lavoro alle opere locali lungo le strade, sui canali, nei palazzi e nelle tombe imperiali, mentre con minore frequenza doveva allontanarsi per vari periodi al fine di prestare servizio militare nei presidi di frontiera o nelle guarnigioni della capitale. Il governo di un impero così vasto richiedeva naturalmente complicate istituzioni amministrative e una sterminata burocrazia stipendiata, che si concentrava nella capitale; organi speciali furono istituiti per l’amministrazione dell’esercito e delle province, per le funzioni civili del governo centrale e per la casa imperiale. Insieme ad altre persone di rango elevato, i funzionari facevano parte di una gerarchia divisa in 18 gradi, l’appartenenza alla quale conferiva il diritto alla riduzione della condanna nel caso di reati e nei gradi più alti il privilegio della esenzione fiscale. L’amministrazione centrale doveva provvedere con larghezza al mantenimento dell’imperatore e della sua famiglia e alla difesa della dinastia: il popolo era oggetto di considerazione da parte del governo come fonte di entrate fiscali, come prestatore di corvée o come matrice di ribelli potenziali. Se le imposizioni fiscali venivano osservate e le corvée eseguite, le popolazioni godevano della libertà di amministrare gli affari del villaggio e di esercitare la giustizia secondo le norme consuetudinarie. Il governo era quindi un organismo relativamente piccolo, rigorosamente centralizzato, posto alla sommità di un gran numero di comunità contadine isolate; il punto di contatto tra queste comunità e il governo era la città sede di prefettura, dove un governatore, delegato del potere centrale, trattava con i capi dei villaggi e ricevevano gli altri dirigenti locali. La classe dei mercanti era esplicitamente esclusa dal governo: la dinastia Han nutriva un particolare disprezzo per i mercanti considerati dal punto di vista economico come dei parassiti; a loro che esercitavano il commercio era proibito acquistare terre, il mezzo più sicuro per investire capitali, ed esistevano nei loro riguardi discriminazioni di vario genere. Di conseguenza, la classe sociale agiata e colta, che favoriva in larga misura i quadri della burocrazia, era costituita principalmente dai ricchi proprietari terrieri: essi erano in una certa misura esenti dalle imposte, e in quanto capi locali con interessi su larga scala nazionale costituivano il legame tra il governo centrale e i distretti rurali; mentre i contadini mantenevano i proprietari con le rendite e il governo centrale con le tasse e le corvée. Il governo centrale, già indebolito dalla lenta erosione fiscale e amministrativa, aveva ora perduto l’appoggio delle ricche e potenti famiglie contro le quali Wang Mang aveva emanato l’editto di espropriazione, poi una serie di cattivi raccolti, la rottura degli argini sul Fiume Giallo, la carestia nella zona della capitale, rivelarono chiaramente che l’intera struttura dello stato si stava disgregando. Le ribellioni divennero frequenti: una grande insurrezione contadina scoppiò nello Shandong nel 18 d.C. e si estese ben presto a tutto l’impero; questi ribelli si chiamarono Sopraccigli Rossi, dal segno di riconoscimento che avevano adottato, essi provenivano da una società segreta fortemente caratterizzata in senso taoistico. Essi desolarono il paese, ma mancarono dell’esperienza amministrativa e delle conoscenze necessarie per sostituire un loro governo a quello che stavano distruggendo; il compito di ricostituire il potere centrale passò quindi nelle mani di persone più colte. Alcuni discendenti degli imperatori Han, o uomini che portavano almeno il loro stesso cognome, quello di Liu, si unirono ai ribelli sostenendo di essere gli unici eredi legittimi della dinastia: si trattò generalmente di gradi proprietari terrieri che in tempi più tranquilli sarebbero stati sostenitori del governo centrale più che suoi oppositori. Nel frattempo, le linee difensive lungo i confini si erano sgretolate e gli stati di frontiera avevano riaffermato la loro indipendenza; WangMang aveva progettato grandi spedizioni contro i Xiongnu, ma non era riuscito a finanziarle. I nomadi invasero le regioni di frontiera, la capitale fu messa a sacco dai ribelli, che uccisero Wang Mang nel 23 d.C. LA DINASTIA HAN POSTERIORI O ORIENTALI (25 – 220 d.C.) L’uomo che, nel 25 d.C., uscì vittorioso dalla lotta tra i contendenti che seguì la caduta di Wang Mang fu Liu Xiu, il quale, in quanto discendente dei sovrani della precedente dinastia, fece rivivere il nome degli Han. Egli scelse come capitale la città di Luoyang, che era già stata capitale al tempo dei Zhou orientali: proprio per la posizione di Luoyang, la dinastia Han posteriore è nota anche con il nome di dinastia Han orientale, mentre la anteriore viene chiamata dinastia Han occidentale. Liu Xiu, al quale fu conferito il titolo postumo di Guangwudi (splendente imperatore marziale), dedicò i tre decenni del suo regno (25-57 d.C.) al consolidamento del potere portando a termine il ristabilimento di un forte governo centralizzato dopo i disordini di una grande insurrezione. Dotato di grande energia, Guangwudi domò i Sopraccigli Rossi e altri ribelli; ricostituì una forte amministrazione centrale sul modello dei suoi predecessori e liberò tutti coloro che erano caduti in schiavitù durante il precedente periodo. La dinastia nuova non era più gravata dal pesante fardello rappresentato da una grande famiglia imperiale e dalla classe dominante; di conseguenza, le entrate fiscali erano più che sufficienti alle necessità del governo. Già durante il regno di Guangwudi, un generale riconquistò la Cina del Sud e il Vietnam del Nord; e al tempo del secondo imperatore, Mingdi (l’imperatore illuminato) questi sottomise i nomadi settentrionali e riconquistò l’Asia centrale, i Xiongnu meridionali si erano infatti sottomessi. Gli Han posteriori non riuscirono mai a raggiungere quella forte posizione finanziaria che aveva caratterizzato gli anni dell’apogeo della dinastia Han anteriore: troppe delle grandi tenute del I secolo a.C. erano sopravvissute per permettere alla nuova dinastia una ripresa sul piano economico e amministrativo. La posizione dei proprietari terrieri era inattaccabile: essi pagavano un’imposta irrilevante, quando la pagavano, e potevano vivere sontuosamente con rendite esorbitanti estorte ai contadini; essi accrescevano inoltre le entrate con il controllo del commercio e salvaguardavano i loro patrimoni con monopolio delle alte cariche di corte. Sebbene il governo centrale tentasse ripetutamente di costituire una efficiente burocrazia basata sul merito, la grande maggioranza dei funzionari prendeva possesso della carica grazie ai privilegi ereditari. La distribuzione territoriale della popolazione fiscale e soggetta a corvée costituiva un problema ancora più grave della diminuzione numerica; dopo gli Han anteriori, il numero delle persone registrate subì una drastica riduzione. Il governo centrale fu costretto, per mantenersi, a imporre tributi sempre più gravosi al sempre decrescente numero di contadini soggetti: alla fine, molti contadini furono costretti a fuggire verso il Sud, dove il fisco era meno rigoroso, oppure nelle tenute dei grandi proprietari, dove le rendite erano meno onerose delle tasse che gravavano sui contadini liberi. Il risultato di questo esodo fu un evitabile aumento del peso fiscale su coloro che erano rimasti: i contadini oppressi furono così costretti a darsi al banditismo o alla aperta ribellione, e questo indebolì ulteriormente le finanze della dinastia. Ma il maggior pericolo per la famiglia imperiale venne dai parenti delle imperatrici, che videro aimentare il loro potere e la loro ricchezza mediante le vantaggiose relazioni che intrattenevano a corte. Gli imperatori riuscirono a sbarazzarsi degli ingombranti parenti delle loro mogli ricorrendo all’aiuto dei grandi eunuchi di corte: essi poterono anche rendere ereditari il loro titolo e la loro ricchezza; naturalmente le altre grandi famiglie non erano disposte a tollerare questo spostamento del potere. Il dissidio esplose in un aperto conflitto, tra il 168 e il 170, sintomo della decadenza amministrativa. Nel 184 scoppiarono altre 2 grandi ribellioni nella Cina orientale e nello Sichuan, ambedue furono guidate da capi religiosi taoisti appartenenti a sette. Poiché i seguaci di Zhang Jue portavano al momento della rivolta del copricapo di colore giallo, essi furono chiamati i Turbanti Gialli: il giallo indicava la terra, l'elemento che per questi fanatici religiosi doveva trionfare ora sul rosso fuoco che era stato il simbolo del dominio Han. Le ribellioni taoiste durarono per più di 30 anni e la dinastia Han posteriore non riuscì mai a riaversi del tutto dai colpi che esse infersero al governo centralizzato. Furono però i generali che diedero il colpo di grazia al regime Han: dopo lo scoppio delle ribellioni popolari, i generali diventarono praticamente dei signori della guerra completamente indipendenti nelle loro rispettive zone di comando e ben presto esautorarono del tutto il governo centrale; gradualmente si giunse poi ad una tripartizione del potere tra i generali più influenti. A partire dalla fine del II secolo, le grandi famigli locali erano semplicemente troppo ricche e potenti per poter essere piegate dal governo centrale; in realtà, esse lo controllavano, e la divisione del paese in tre regni separati, che avvenne nel 220 d.C., non fu che il riconoscimento formale di un fatto già acquisito, ossia l’impossibilità di ricostituire uno stato unificato. La maggior parte degli imperi succeduti all’impero Han non furono che dinastie formate da un’unica persona, fondate da un generale energico e scomparse per l'incapacità dei suoi eredi dopo una o due generazioni. IL PERIODO DI DIVISIONE (220-589 d.C.) Questo periodo è detto «medioevo», ma bisogna ricordare che i riferimenti alla storiografia occidentale non corrispondono alla nomenclatura originale: non esiste in cinese un corrispettivo di medioevo. Le caratteristiche comuni al nostro sono: 1. Frammentazione dopo un impero unificato 2. Forte presenza barbarica 3. Diffusione di una religione straniera. I principali elementi di discrepanza rispetto al nostro medioevo sono: 1. Al termine del periodo, ritorna l’impero unificato 2. La chiesa buddhista non si è mai costituita in uno stato indipendente 3. I barbari si amalgamano molto di più in Cina che non in Europa, contribuendo in maniera determinante alla riunificazione del nuovo stato centralizzato 4. Tutti sognano di riunificare l’impero. I sotto periodi principali sono: I Tre Regni, sanguo (220 – 266 d.C.) [risultato di una prima frammentazione quando la dinastia Han non è ancora stata dichiarata finita e Cao Cao tenta di tener in vita l’imperatore Han]; Sei Dinastie: Dinastia Jin Occidentale 266- 316 e, a sud Jin Orientali (con capitale Nanchino) [unificazione parziale, sono le famiglie che gestiscono la burocrazia] Liu Song, Qi, Liang e Chen (Storiografia tradizionale non considera le dinastie del Nord), In realtà è più corretto parlare di Dinastie del Sud e del Nord (Nanbeichao 南北朝) (420 – 589 d.C.). Cao Cao dopo essersi conquistato i primi meriti nella lotta contro i Turbanti Gialli, verso la fine del II ridusse in proprio potere l’intera Cina settentrionale. Nel 196 aveva messo sotto la propria protezione l’ultimo imperatore Han, pretendendo per sé ampi diritti nel governo: si nominò cancelliere, fece diventare imperatrice sua figlia e poi assunse il titolo di re di Wei. Non riuscì però a conquistare tutto l’impero: il Sichuan restava occupato da Liu Bei e la grande campagna contro il sud, nel regno di Sun Quan, si interruppe alle Scogliere Rosse, dove, nel 208 d.C., Liu Bei e Sun Quan lo fronteggiarono e lo sconfissero, impedendogli di riunificare la Cina. Nella Cina settentrionale, invece, Cao Cao seppe consolidare a tal punto il proprio potere che dopo la sua morte, nel 220, suo figlio Cao Pi (186-226) poté farsi proclamare imperatore di una nuova dinastia, i Wei. Egli diede alla cosa ogni parvenza di legittimità, in quanto ricevette ufficialmente i sigilli del dominio dall’imperatore Han dimissionario (non certo per volontà sua), e ne divenne così il successore. Quando si diffuse la notizia dell’impero di Cao Pi, anche Liu Bei (preteso parente degli imperatori Han) si fece proclamare, nel Sichuan, imperatore di una dinastia Shu-Han, che dichiarò legittima continuatrice di quella Han. Poco dopo, nel sud-est, Sun Quan in segno di indipendenza proclamò un proprio calendario e, pochi anni più tardi, assunse il titolo di imperatore di Wu. Ora, l’intera Cina era divisa in tre parti: Wei, Shu-Han e Wu. La geografia dei Tre Regni corrispondeva esattamente alla grande spartizione naturale dello spazio cinese. Wei occupava la regione del loess della Cina settentrionale, la zona più popolosa e più forte economicamente. Del tutto diverso era Shu-Han, la cui capitale Chengdu si trovava nel fertile bacino del Sichuan, circondato dai monti, staccato da tutto il resto e raggiungibile solo per angusti sentieri di montagna. Infine Wu, con la capitale Jianye (l’odierna Nanjing), nella valle dello Yangzi paludosa e di difficile accesso, abitata da popolazioni thai. La Cina era nuovamente divisa nelle macroregioni i cui confini, geologicamente determinati, fin dal Neolitico condizionano la sua storia. Lo stato di Wei, chiamato anche Cao Wei, è la parte economicamente più importante del territorio Han, ma ha problemi di manodopera, perché molti contadini sono emigrati al Sud. L’esercito, su base ereditaria, è il punto di forza e inizia qui la fusione con i barbari. Lo stato di Wu, situato a Sud-est, è prevalentemente orientato verso il mare: possiede una potente flotta e raggiunge Taiwan. Commercio marittimo, si coltiva il riso, tuttavia, il governo è debole e i grandi latifondisti sfuggono completamente al suo controllo, inoltre l’esercito non è sufficiente. Lo stato di Shu, situato a Sud-ovest (Sichuan), ha dalla sua un territorio imprendibile, ma scarse risorse economiche e popolazione insufficiente, ha dalla sua il famoso il ministro Zhuge Liang, stratega e inventore di numerose tecniche belliche, e Il suo sovrano è un lontano parente degli imperatori Han. Ora emersero, tra il nord e il sud, nette divergenze culturali: mentre le élite fuggite verso lo Yangzi venivano influenzate dallo stretto contatto con le popolazioni meridionali, i Cinesi del nord si mescolavano, etnicamente e culturalmente, con le popolazioni della steppa. Nel sud si usava un linguaggio schietto e popolaresco, si mangiava riso e pesce e si andava in barca; nel nord si usava un linguaggio ampolloso e antiquato, si mangiava miglio e carne e si andava a cavallo. Nel sud si trovavano piccoli nuclei familiari con concubine e le donne avevano scarsa libertà; nel nord dominavano le grandi famiglie monogame, di cui le donne erano parte attiva e consapevole. I Cinesi meridionali, che si vedevano come i nuovi custodi dell’eredità culturale, disprezzavano quelli del nord come primitivi, rozzi, al contrario, per i Cinesi settentrionali quelli del sud erano mollicci e deboli. Lo stato di Wu ebbe un ruolo fondamentale nel portare la cultura cinese anche in territori non cinesi: come Giappone, Corea e Manciuria. A Wei le colonie agricole (tuntian), create da Cao Cao erano collettivi che riunivano soldati e contadini, questi ultimi spesso trasferiti a forza, con compiti da un lato di difesa, dall’altro di rafforzare la base economica dello stato. Sotto la guida di un funzionario militare e di uno civile, queste colonie agricole risolsero molti problemi in un colpo solo: assicuravano infatti i viveri al grande apparato militare, in quanto erano autosufficienti, e rendevano possibile lo sfruttamento di terre fino ad allora incolte. Inoltre, esse ricondussero sotto il controllo statale una popolazione vagante e procurarono introiti fiscali regolari coltivando terreni dello stato. Con queste colonie agricole e militari i Wei gettarono le basi della loro ascesa, ma esse furono anche una delle cause del loro declino. La militarizzazione della società accrebbe il potere dei generali. Uno di essi, Sima Yi (179-251), divenne reggente e la sua famiglia, anche dopo la sua morte, governò di fatto sullo stato Wei. Sotto la sua guida i Wei riuscirono, nel 263, a sconfiggere Shu-Han e a conquistare il Sichuan. Poco dopo, il nipote di Sima Yi, Sima Yan (236-290), costrinse l’imperatore Wei ad abdicare e si proclamò primo imperatore di una nuova dinastia, quella dei Jin. Questa dinastia nel 280 riuscì anche a conquistare Wu e a riunificare, per un breve periodo, l’impero. La sovranità dei Jin durò soltanto una generazione. Fin da principio, la famiglia Sima era economico e demografico tra il nord e il sud. Mentre il centro politico dei Sui era nel nord, il baricentro economico a partire dal III secolo si era spostato verso sud. Lo spostamento della capitale verso est era una misura per portare il centro politico più vicino al centro economico dell’impero. Inoltre, i Sui iniziarono un’opera che doveva assicurare durevolmente gli approvvigionamenti al nord: il Canale Imperiale. Già a partire dal 584 l’imperatore Wen aveva iniziato a costruire canali che provvedessero ai rifornimenti della capitale. È diviso in tre rami: il primo, che collega le zone interne con il fiume Huai e da qui raggiunge Jiangdu; il secondo è il canale del Jiangnan, parte dalla sponda opposta dello Yangzi di fronte a Jiangdu, fino ad Hangzhou e il terzo è verso Nord, nella zona dell’attuale Beijing. Più di 5 milioni di lavoratori furono costretti a prestare servizio per il grande canale, e vennero reclutate perfino le donne, perché gli uomini non erano più sufficienti; chi si nascondeva, veniva punito con lo sterminio di tutta la sua famiglia. Innumerevoli cinesi dovettero lasciare la vita in questi impieghi di massa per l’unità dell’impero. Oltre ai cantieri di Luoyang e del Canale Imperiale, l’imperatore Yang ordinò che si continuassero i lavori alla Grande Muraglia, con più di un milione di lavoratori, e condusse numerose campagne militari verso tutti i punti cardinali, per terra e per mare. Tutte queste campagne, anche se ufficialmente furono registrate come vittoriose, furono estremamente costose, e non assicurarono ai Sui conquiste durature. Quando, per giunta, nel 611 le acque dello Huanghe devastarono ampi tratti dello Shandong, scoppiarono rivolte, che furono represse solo a fatica. Molti dei ribelli si allearono quindi con i Turchi orientali, che ora assaltarono la vacillante dinastia. Nel 615 l’imperatore Yang, dopo essere riuscito a stento a sfuggire al loro attacco a sorpresa, si rifugiò nella sua «terza capitale», Yangzhou, finché nel 618 fu ucciso nel bagno da uno dei suoi generali. Dopo soli 38 anni, la dinastia Sui era alla fine. I ribelli più pericolosi venivano dalla loro stessa élite, infatti i Sui non caddero per una rivoluzione del popolo oppresso, ma per la resistenza della vecchia nobiltà militare, che combatteva per la restaurazione del vecchio ordine. Tra essi, uno dei più potenti era appunto Li Yuan, rampollo di una famiglia nobiliare, da guardia del corpo personale dell’imperatore Wen, era diventato governatore e generale dell’esercito, e per i suoi meriti nella repressione dei ribelli era stato poi nominato duca di Tang e comandante della guarnigione di Taiyuan (Shanxi). Nel 617, partendo da questa postazione pressoché inespugnabile, egli mosse contro la capitale Daxing. La occupò e, nel 618, vi ascese al trono fondando la dinastia Tang. LA DINASTIA TANG (618 – 907) Quando Li Yuan, nel 617, mosse con il suo esercito da Taiyuan, incontrò una resistenza accanita, a quanto riferisce la storia dell’impero Tang. Un generale Sui gli mosse contro e poi per settimane ogni movimento di truppe fu reso impossibile dalle piogge torrenziali, mentre anche le provviste cominciavano a scarseggiare. In una situazione così critica, nell’accampamento di Li Yuan apparve un vecchio tutto vestito di bianco, che disse di essere stato inviato ad annunciare all’imperatore dei Tang, che la pioggia sarebbe presto cessata e si offrì di guidare l’esercito. I Tang riuscirono ad aprirsi un varco e infine conquistarono la capitale. Questa leggenda ebbe un ruolo importante nella legittimazione dei Tang; infatti, i Li, che non avevano molto sangue cinese nelle vene, si riferivano in questo modo al daoismo cinese. Essi erano stati evidentemente aiutati da una divinità daoista, anzi, erano addirittura discendenti diretti del divino Laozi, al quale tradizionalmente veniva attribuito anche il nome Li. E l’epoca Tang divenne la grande epoca del daoismo: vennero eretti nuovi templi, e i testi daoisti facevano parte della materia d’esame per i funzionari; il Daode jing fu tradotto in sanscrito per ordine dell’imperatore, e Laozi ottenne, postumo, il titolo onorifico di «Sommo Imperatore dell’Oscuro Principio Originario». L’impero, però, non era ancora unito. Quando Li Yuan, nel 618, assunse il titolo di imperatore (il suo nome postumo fu «Gaozu») e diede alla sua capitale il nuovo nome di Chang’an, «Eterna Pace», la pace non c’era affatto (Chang’an: pianta rigidamente quadrata a scomparti regolari con quartieri ben divisi a seconda del mestiere). I Tang non erano che uno dei numerosi regimi ribelli che miravano all’impero dei Sui. A Luoyang, alcuni seguaci dei Sui proclamarono imperatore un nipote dell’imperatore Yang, mentre lo Henan e lo Hebei erano governati da ex generali dei Sui, e sul medio corso dello Yangzi fu proclamata una nuova dinastia, i Liang. Per rafforzare il precario dominio dei Tang, Gaozu riprese fondamentalmente le istituzioni dei Sui: la divisione della regione in governatorati e distretti, la scelta dei funzionari dal centro, il codice legislativo, il sistema dell’«equa distribuzione delle terre» come base della tassazione e centinaia di guarnigioni militari autosufficienti, di 1000 soldati ciascuna, distribuite sul territorio dell’impero. Mentre consolidavano il loro potere, i Tang parallelamente muovevano campagne alla conquista dell’impero, che si conclusero solo nel 624. Queste guerre più tardi vennero trasfigurate in leggende eroiche. Soprattutto un figlio di Li Yuan, Li Shimin (599- 649), è dipinto come un eroe di queste battaglie, un genio militare che annientò i ribelli ma seppe anche essere mite con i loro accoliti. Li Shimin viene esaltato da molti come il più grande imperatore della storia cinese; il periodo del suo governo è considerato uno dei vertici del buon ordinamento statale. Grazie ai suoi successi militari, Li Shimin riuscì ad avere una posizione di grande potere e a imporre le proprie ambizioni al trono. Nel 626 fece uccidere in un’imboscata suo fratello, l’erede al trono, poi anche un secondo fratello, e infine costrinse suo padre a proclamarlo principe ereditario. Una delle epoche più splendide per lo stato cinese iniziò così con un doppio fratricidio e un colpo di stato. Li Shimin salì al trono come imperatore Taizong. Nel VII secolo i Turchi orientali continuarono le loro scorribande sui territori dei Tang fino a minacciare la capitale, ma Li Shimin, a quanto afferma la sua biografia, sarebbe riuscito a ricacciarli e, qualche anno più tardi, ad annientare le truppe turche, a far prigioniero il loro khan e a por fine al loro dominio. La Mongolia divenne parte dell’impero Tang e l’imperatore Taizong, da vassallo obbligato a versare il tributo, divenne sovrano dei Turchi. Nel 630 egli assunse infatti ufficialmente il titolo di «khan celeste» dei Turchi. Taizong governava ora sulla Cina e sulla steppa: integrò le truppe turche nelle guarnigioni della milizia a difesa dell’impero, e le impiegò inoltre per un’espansione traendo profitto dagli antagonismi tra i comandanti dei Turchi orientali – «utilizzava i barbari per controllare i barbari» (yi yi zhi yi) –, ora avanzando militarmente con l’aiuto di truppe di Turchi orientali, estese il proprio potere verso ovest. In questo modo, la zona d’influenza dei Tang arrivava al confine dell’impero persiano, e la parte orientale delle Vie della seta era ora interamente sotto il loro controllo. Non ovunque, però, le truppe dei Tang uscirono vittoriose. Due campagne contro la Corea ebbero un esito disastroso, inoltre, a ovest era sorto, con i Tibetani, un potente avversario. Sotto il loro primo «re religioso», Songtsen Gampo (c. 605-649), che riunì diverse tribù, il Tibet divenne per la prima volta una grande potenza. Il suo dominio arrivava dall’Himalaya fino al Kunlun, e dal Kashmir fino ai confini dell’impero Tang. Dopo parecchie incursioni in territorio Tang, egli costrinse Taizong, nel 635, a dargli in moglie una principessa cinese. Sebbene il daoismo avesse sempre la priorità nel culto statale, Taizong favorì anche il buddhismo. Fece erigere numerosi templi e permise infine che il principe ereditario pronunciasse i voti laici. Sotto il dominio di Taizong, il monaco Xuanzang (603-664) intraprese il suo leggendario pellegrinaggio in India e al suo ritorno si ritirerà nella Grande Pagoda dell’Oca Selvatica, costruita perché egli potesse dedicarsi alla traduzione in cinese dei testi. Le sue traduzioni di tali sutra sono tra i capolavori della letteratura cinese buddhista. Il favore statale significava anche il controllo statale del buddhismo. Fin da principio, gli imperatori Tang cercarono di limitare il numero delle ordinazioni e il potere dei monasteri, di sorvegliare la disciplina dei monaci, di impedire il mercato degli oggetti sacri, e, nei decenni successivi ci furono anche interventi nella prassi religiosa. Nella stessa misura in cui il buddhismo veniva oppresso, ritornava agli onori il confucianesimo. Già Gaozu aveva fondato ovunque scuole nell’impero, e aveva fatto erigere diversi templi a Confucio. La venerazione di Confucio assunse tratti religiosi, proprio come era successo nel caso delle divinità daoiste e buddhiste. Ma il confucianesimo non fu mai in primo luogo una religione, bensì un’ideologia politica: l’ideologia dell’assolutismo burocratico. La società era divisa in Popolo buono (liangmin 良民) - ovvero contadini, artigiani, letterati, soldati, monaci, mercanti - e Popolo basso (jianmin 贱民) – ovvero servi, musicisti, attori, cantanti, battellieri, macellai, discendenti dei condannati – e queste due categorie non possono sposarsi tra loro e sono trattate diversamente dalla legge. Gli uffici di governo non erano più occupati superando esami, ma grazie a privilegi ereditari. Taizong fece partecipare con pari diritti i suoi consiglieri alle sue decisioni politiche, che discuteva sempre dettagliatamente con loro. Vennero organizzate le scuole superiori statali a Chang’an, dove, nelle scuole di diritto e calligrafia, di nuova fondazione, venivano formati gli impiegati specializzati di fascia media, mentre nell’istituto umanistico i figli dell’élite studiavano la letteratura classica. Sotto Taizong, fu approntata anche una nuova edizione del canone confuciano, le Interpretazioni corrette dei “Cinque scritti canonici” (Wujing zhengyi, compiute nel 653), determinanti per tutta l’erudizione successiva. Le varie interpretazioni che si erano accumulate nel medioevo cinese vennero radicalmente tagliate per ottenere un’unica, definitiva stesura normativa. Poco dopo, vennero raccolti in un canone ufficiale anche gli scritti del daoismo e contemporaneamente anche il clero daoista venne posto sotto il controllo di un’autorità. Anche la storiografia venne istituzionalizzata in un Ufficio storiografico. In questo ufficio, alcuni gruppi di funzionari, basandosi sui documenti amministrativi, si divisero il compito di compilare la storia ufficiale delle dinastie precedenti. Alla morte di Taizong, l’epoca successiva è considerata un periodo di debolezza, segnato da crisi e catastrofi. In realtà il suo immediato successore, Gaozong (649-683), continuò l’espansione militare. A partire dal 665 però, si ribellarono i Turchi occidentali, e dal 682 quelli orientali iniziarono a tormentare con le loro scorribande i territori attorno alla Grande Muraglia. Inoltre, dopo la morte di Songtsen Gampo, tra il 660 e il 670 i Tibetani ripresero i loro attacchi ai territori occidentali dei Tang. Negli ultimi anni di Gaozong la Cina settentrionale fu ripetutamente funestata da inondazioni, siccità e invasioni di cavallette, che provocarono tremende carestie. Ma la cattiva fama di Gaozong non fu dovuta a queste catastrofi, bensì al suo fatale amore per una concubina di suo padre, Wu Zhao (624-705). Si narra che, dopo la morte di Taizong, ella si fosse ritirata in un monastero di monache buddhiste, dal quale Gaozong la prelevò per condurla a palazzo come sua concubina. E a corte ella si fece strada in fretta, con il suo garbo, la sua intelligenza e la sua perfidia. Gaozong depose dal trono la propria imperatrice e nominò al suo posto Wu Zhao, nel 655, proclamando anche erede al trono il figlio che ella gli aveva generato. L’imperatrice Wu Zetian (com’è nota) non perse tempo per uccidere l’imperatrice appena deposta e per togliere di mezzo alcuni avversari. Dopo la morte di Gaozong, avvenuta nel 683, mise sul trono suo figlio, ma dopo sole sei settimane lo depose, dimostrando in modo inequivocabile il proprio potere, e insediò al suo posto suo fratello. Quando, poco dopo, la nobiltà Tang le si ribellò contro, ella diede inizio a un regime di terrore, reprimendo brutalmente ogni resistenza. La storiografia ufficiale ha sempre attribuito tutto il male del mondo ai sovrani illegittimi, e soprattutto alle donne, ma tanta brutalità e infamia erano dovute al sistema. La siccità portò allo spostamento della capitale a Luoyang, più vicina al Canale Imperiale e ai terreni agricoli della pianura cinese settentrionale. Con questo trasferimento, la vecchia élite fu emarginata, e Wu Zetian cercava proprio una nuova base di potere: la trovò a Luoyang e in una nuova élite, quella dei funzionari. L’imperatrice favorì il sistema basato sugli esami, finanziò la costruzione di scuole, introdusse rituali e cariche arcaiche per i funzionari, e con un gesto altamente simbolico fece correggere l’albero genealogico di Taizong. Non soltanto la sua famiglia ebbe il primo posto, ma furono citate in generale solo quelle famiglie che avevano avuto funzionari di alto grado sotto i Tang: la perdita di potere da parte della vecchia nobiltà veniva così registrata d’ufficio. Nel 690 assunse ella stessa il titolo di imperatrice proclamando una nuova dinastia, quella Zhou. Una donna che fondava una propria dinastia, e con quel nome venerando e altisonante, la resero non proprio ben voluta, anzi, il suo sembrava essere un affronto. Nei 15 anni del suo potere assoluto Wu Zetian riuscì a difendere l’impero dai violenti attacchi dei Tibetani, dei Turchi occidentali e dei Khitan, mantenendo la pace e il benessere all’interno. Favorì il buddhismo, finanziò le traduzioni del famoso pellegrino Yijing (635-713), fece costruire numerosi monasteri, produrre edizioni di decine di migliaia di copie dei testi sacri e una serie di grandi statue di Buddha nelle grotte di Longmen. Fin dall’inizio utilizzò il buddhismo per i propri scopi, facendo riferimento alla profezia contenuta in un sutra per legittimare la propria ascesa al potere e si presentò come «Buddha vivente». La dottrina della scuola Huayan, al centro della cui cosmologia domina il «Buddha simile al sole» Vairocana, forniva la furono terribili siccità e scoppiarono rivolte che i Tang non furono in grado di affrontare. La più violenta di queste rivolte, guidata da un certo Huang Chao (morto nell’884), inferse il colpo di grazia. Le sue truppe conquistarono le due capitali, Luoyang e Chang’an, le saccheggiarono e le rasero al suolo. Di nuovo, come già nel 756, l’imperatore si rifugiò nel Sichuan, e di nuovo la rivolta fu domata grazie all’aiuto di truppe turche; ma questa volta non ci fu un ritorno, per i Tang. LE CINQUE DINASTIE E I DIECI REGNI La Cina, alla fine dei Tang, per 70 anni fu disgregata tra «Cinque Dinastie» che si susseguirono nella pianura cinese settentrionale in rapida successione: i Liang Posteriori, i Tang Posteriori, i Jin Posteriori, gli Han Posteriori e i Zhou Posteriori. Tutti nomi dal suono cinese, ma soltanto due di queste dinastie, i Liang e i Zhou, lo furono realmente, le altre erano turche. Esse non dominarono su tutti i territori che erano stati sotto i Tang. Ancora una volta, il sud si era staccato dal nord. Nonostante la loro fioritura culturale, agli occhi degli storici tradizionalisti cinesi gli stati del sud (i dieci regni) non apparvero mai come dinastie legittime. Nell’epoca Song si fissò il concetto che una sola possa essere la «linea giusta» (zhengtong), cioè la successione di dinastie che porta avanti il «mandato del cielo. LA DINASTIA SONG (960-1126-1279 d.C.) Zhao Kuangyin, un generale di origine cinese, fu inviato ad arrestare una nuova incursione dei khitan, ma egli impiegò le truppe ai suoi ordini per impadronirsi del trono e riuscì a fondare una dinastia su solide basi. Zhao Kuangyin è celebre nella storia col titolo di Taizu (Grande Progenitore) della dinastia Song, che durò più di tre secoli. Prima di morire, nel 976, Taizu soggiogò con le armi o costrinse alla sottomissione tutti gli altri stati, fatta eccezione per la dinastia Liao al confine settentrionale; gli ultimi due stati furono annessi dal fratello e successore di Taizu, Taizong (Grande Antenato). Taizu riuscì a trasferire i generali più influenti a incarichi di minore importanza o a dimetterli in cambio di adeguati compensi, e nelle province limitò l’influenza dei comandanti regionali all’ambito di una sola prefettura, sostituendoli, in caso di morte o di ritiro, con funzionari civili della burocrazia centrale. Egli adottò inoltre il sistema di trasferire negli eserciti della capitale le migliori unità militari, sostituendole nelle province con i reparti meno efficienti, e ponendo tutte le forze armate sotto il diretto controllo del governo; con queste iniziative egli assicurò all’autorità centrale la superiorità militare. I Song conclusero il primo trattato con i Liao, impegnandosi a consegnare annualmente «contributi» di 200 000 balle di seta e 100 000 once d’argento; nel 1042 seguì un altro trattato, ancora con i Liao, e nel 1044 uno simile con il regno Xi Xia dei Tanguti. Questi accordi diedero inizio ad un lungo periodo di pace, che fu interrotto soltanto dalla comparsa di nuovi barbari. L’amministrazione si articolò in tre tronchi: amministrazione militare, censorato e amministrazione civile. Al vertice dell’amministrazione civile c’erano due cancellieri che lavoravano a stretto contatto con l’imperatore. Sotto di loro, i sei ministeri tradizionali, nei quali venivano elaborati i ricorsi al trono e i decreti e veniva curata la corrispondenza con le autorità locali nelle 26 province, 300 prefetture e 1230 distretti. Di questo complesso sistema facevano parte circa 12 000 funzionari, due terzi dei quali nella capitale. La carica di funzionario non si basava più su diritti ereditari, ma sulla bravura personale. I funzionari Song erano colti, consapevoli e ben pagati: oltre a uno stipendio mensile in denaro, avevano abbondanti razioni di cereali, seta, vino, sale e altri beni. Inoltre, erano esenti da imposte e da obblighi di corvè, godevano di alcuni privilegi giuridici e della possibilità di fruire di 54 giorni di vacanza all’anno. Certamente, diversamente dai nobili guerrieri del medioevo, non era loro consentito di guardare in faccia e di discutere alla pari con l’imperatore. Dovevano esprimere le loro istanze in forma scritta, e presentarle stando in ginocchio. Però, nonostante questi atti formali di sottomissione, l’imperatore doveva ascoltarli. Doveva anche tollerare la loro critica e stare alle loro regole. Anche se nell’epoca Song molti uomini (le donne ne rimasero escluse) giunsero a occupare gli uffici amministrativi grazie a raccomandazioni, gli esami divennero la via maestra per la carriera da funzionario. Gli esami furono dapprima banditi sporadicamente, ma dopo il 1065 si tennero regolarmente ogni 3 anni e si svolgevano in 3 fasi successive: la prima era rappresentata dagli esami sostenuti presso le prefetture o le scuole governative, i promossi potevano quindi affrontare gli esami che si svolgevano alla capitale sotto l’egida del governo centrale; dopo questa seconda prova i promossi venivano ammessi all’esame di “palazzo”, che stabiliva l’elenco definitivo dei vincitori. La nomina iniziale e la futura promozione dipendevano in gran parte dal posto in graduatoria raggiunto in questo esame finale, e gli uomini che occupavano i primi posti di frequente raggiungevano le più alte cariche di governo in pochi anni. Generalmente i candidati respinti ripetevano l’esame più volte, di conseguenza l’età dei promossi poteva oscillare tra i 20 e gli 80 anni. Per ricompensare la perseveranza di coloro che erano stati ripetutamente respinti e probabilmente per evitare che i candidati delusi si trasformassero in elementi di sovversione, i più vecchi che erano stati più volte respinti venivano ammessi nella amministrazione mediante speciali esami facilitati. La promozione dei funzionari dipendeva da parecchi fattori: la durata del servizio prestato, il merito, esami speciali per certi incarichi particolari, il posto in graduatoria raggiunto negli esami iniziali e la raccomandazione dei funzionari di grado superiore. Il sistema dell’amministrazione civile e quello degli esami riuscirono a far entrare al servizio del governo molti degli uomini di talento e a mantenere gli individui più abili lontani dalle attività sovversive, aprendo loro prospettive più allettanti; la dinastia Song non conobbe infatti ribellioni di grande portata. Naturalmente, il sistema degli esami ammetteva al servizio del governo soltanto persone appartenenti a famiglie relativamente agiate, che potevano dare un’educazione ai propri figli. L’aumento della popolazione in una economia in rapida espansione era naturalmente un elemento positivo per l’amministrazione, ma ad esso non corrispose un aumento della produzione; infatti, più numerose erano le bocche da sfamare e minore era l’eccedenza di cui l’esattore poteva disporre. L’onere fiscale gravava principalmente sul piccolo contadino, che disponeva di scarse risorse finanziarie; l’aumento della popolazione significava minore disponibilità di terra e un eccesso di sfruttamento del suolo, col risultato che la diminuzione della produzione pro-capite lasciava al contadino, dopo il soddisfacimento dei bisogni immediati, minori eccedenze per far fronte agli obblighi fiscali. Il numero di piccoli contadini ridotti in miseria o costretti come affittuari sulle tenute dei grandi signori crebbe vertiginosamente. I grandi signori, grazie ai legami con il governo e alla condizione privilegiata, riuscivano spesso a sottrarsi, almeno in parte, ai loro obblighi e di conseguenza l’aumento delle loro proprietà era accompagnato da una corrispondente diminuzione delle entrate governative. Una regione più importante del disavanzo dei Song è il colossale aumento delle spese militari: Taizu, per assicurare la pace interna, aveva eliminato il sistema relativamente efficiente, delle milizie locali alle dipendenze dei comandanti regionali, concentrando l’intera forza militare in grandi eserciti di mestiere accentrati nella capitale. Questi mercenari, reclutati in gran parte tra i poveri, non brillavano, di conseguenza, per le loro qualità belliche: gli eserciti cinesi erano inoltre svantaggiati dalla debolezza della cavalleria, giacché l’impero Song, non occupando territori della steppa, era povero di cavalli; sebbene l’introduzione di nuove tecniche, come l’uso degli esplosivi, desse loro qualche vantaggio, i cinesi cercarono di colmare queste deficienze qualitative soprattutto aumentando la consistenza numerica degli eserciti, ossia reclutando sempre nuovi soldati e accrescendo le spese militari. Un’altra ragione dell’aumento incessante delle spese è da ricercare nel rapido aumento del costo dell’amministrazione civile, nonché nell’accresciuto numero di funzionari; nei primi anni della dinastia si era sentita la mancanza di personale esperto, ma verso la metà del secolo XI l’amministrazione civile era sovraffollata: a causa delle difficoltà finanziarie del governo, gli stipendi finirono per diventare inadeguati, e questo suscitò il risentimento della burocrazia e incoraggiò gli abusi di potere. Con il deteriorarsi della situazione economica e militare iniziarono a crearsi lotte politiche, e si formarono da una parte il gruppo dei tradizionalisti, i quali, favorevoli al sistema di governo che si era sviluppato nell’ultimo secolo e fiduciosi nel valore ultimo dell’esempio morale, non vedevano la necessità di drastiche riforme; dall’altra il gruppo degli innovatori o riformatori, convinti che gli evidenti mali del tempo richiedessero un deciso intervento. Nel 1069, poco dopo l’ascesa al trono del giovane imperatore Shenzong (Antenato Ispirato) venne nominato primo consigliere l’abile riformatore Wang Anshi (1021-86): egli diede immediatamente inizio a una serie di radicali riforme, intese a rinsaldare la posizione finanziaria del governo e ad accrescerne l’efficienza militare. Wang sottrasse alla competente commissione il controllo della politica finanziaria e impegnò il governo in una serie di manipolazioni economiche; il governo intervenne acquistando prodotti tipici di una zona per venderli in altre regioni, e in tal modo facilitò lo scambio delle merci, contribuì alla stabilizzazione dei prezzi e ne ricavò un certo profitto. Vennero redatte nuove mappe catastali per eliminare le vecchie disuguaglianze e stabilire un sistema proporzionale di imposta fondiaria basato sulla produttività del suolo. Le corveé che ancora restavano, e che gravavano in massima parte sui contadini poveri, furono trasformate in obblighi fiscali e quindi addossati prevalentemente alle classi superiori; Wang provvide inoltre a tassare le ricchezze personali, tentò di regolare i prezzi, estese le agevolazioni creditizie ai piccoli imprenditori creando agenzie di prestito governative che applicavano tassi di interesse relativamente bassi, fece eseguire i lavori necessari per il controllo delle acque. Nel settore militare, egli reintrodusse il vecchio sistema della responsabilità collettiva, detto “dei tre capi”, in vigore al tempo delle Sei Dinastie e decretò che le varie unità create dal sistema provvedessero a loro spese all’addestramento e all’armamento di un determinato numero di soldati. Wang Anshi accrebbe notevolmente il numero delle scuole governative per contrastare le ricche accademie private che egemonizzano a quel tempo l’educazione, e insistette affinché gli esami imperiali si svolgessero con programmi meno strettamente letterari e più attinenti ai problemi pratici della politica e dell’amministrazione. Le riforme suscitarono naturalmente l’opposizione dei gruppi contro i quali erano dirette, ossia i grandi proprietari terrieri, i ricchi mercanti e gli usurai; anche il grosso della burocrazia, reclutata tra le classi agiate, si schierò all’opposizione. Così Wang Anshi fu costretto a dimettersi a causa dei violenti rancori personali che aveva suscitato e i tradizionalisti ritornarono al potere cambiando completamente il programma. La decadenza finanziaria e amministrativa dei Song continuò fino al disastro che sopravvenne con il regno di Huizong (eccellente antenato): pittore di talento e grande mecenate, si circondò di una corte brillante e fastosa indebolendo ulteriormente le finanze della dinastia; negli ultimi anni del suo regno, l’impero fu sconvolto da insurrezioni contadine, ma il colpo decisivo venne inferto dall’esterno. Oltre i territori settentrionali occupati dai Liao, tribù tunguse conosciute col nome di jurchen avevano gradualmente raggiunto una posizione di predominio nella Manciuria nordorientale. Questi si ribellarono ai Liao e l’anno dopo adottarono il nome dinastico cinese di Jin che significa dorato; nell’intento di riconquistare le 16 province di confine occupate dai Liao due secoli prima, i Song si allearono incautamente con i Jin, e quando i Song si mostrarono insoddisfatti della divisione del bottino, che assegnava loro soltanto 6 prefetture intorno a Pechino, i Jin continuarono la loro marcia verso sud. Nel 1126 i Jin occuparono Kaifeng, la capitale dei Song, catturando Huizong e il nuovo imperatore. Di conseguenza, la seconda fase della dinastia, precisamente dal 1127 al 1279, viene comunemente chiamata dei Song meridionali, mentre la prima dal 960 al 1127, è per contrasto quella dei Song settentrionali. I Jin inseguirono gli eserciti cinesi oltre il Fiume Azzurro, ma i molti fiumi e i canali del Sud rendevano il terreno poco adatto alla cavalleria nomade; per di più, proprio in questo momento la morte privò i Jin del loro abile sovrano. Essi trasferirono la capitale dalla Manciuria a Pechino e lo stato cominciò a subire un graduale processi di sinizzazione; intanto, i Song meridionali avevano stabilito la loro capitale ad Hangzou. Essi continuarono per qualche tempo a combattere disperatamente per riconquistare il Nord, ma alla fine stipularono con i Jin un trattato dove si riconoscevano vassalli dei Jin, sottomettendosi al pagamento di un tributo annuo (metà in argento e metà in seta). LA DINASTIA JIN [Jurchen (1115 –1234)] La vita nella Cina settentrionale continuava come prima. L’imperatore Jurchen dovette emanare un decreto per vietare di vestirsi alla cinese, o di assumere nomi cinesi. Essi, una minoranza di 4 milioni che governava su una popolazione di 50 milioni di persone, pensarono bene di lasciare tutto come prima, nei territori conquistati. Gli unici per i quali la vita cambiò sensibilmente furono i Jurchen stessi, che divennero sempre più urbani. Essi fondarono parecchie capitali: Huining, la «suprema capitale», e Liaoyang, la «capitale orientale», in Manciuria, poi Kaifeng, la «capitale meridionale», e Zhongdu, la «capitale di mezzo», l’odierna fondamentale soprattutto quando Borte sarà fatta prigioniera dai Merkit, che riusciranno a liberare a seguito di varie operazioni militari. Il figlio che nascerà alcuni mesi dopo, Jochi, sarà riconosciuto da Temujin. La sconfitta dei Merkit segna l’inizio del riconoscimento da parte di alcune tribù mongole della sovranità di Temujin, che viene proclamato Chinggis Qa’an in un’assemblea di nobili intorno al 1195. Chinggis deriva probabilmente dal Turco e significherebbe oceano, ma vi sono diverse ipotesi al riguardo. È comunque probabile che con questo titolo si volesse utilizzare un termine alternativo a quello usato in precedenza, che significava Sovrano Universale. Intorno a questo stesso periodo, scoppiò un difficile conflitto con i Tatari, che avevano avvelenato suo padre. Essi detenevano una posizione dominante sui clan mongoli in quanto alleati/vassalli dei Tungusi, i quali, profondamente sinizzati, governavano sulla Cina del nord con il nome dinastico di Jin. La dinastia Jin si difendeva dalle continue incursioni utilizzando i Tatari come scudo, i quali ricevevano in cambio titoli e denaro. Tuttavia, appena le loro richieste si fecero troppo onerose, i Jin gli aizzarono contro nemici lontani, tra cui i Kerait di To’oril e Temujin che lo affiancava. La vittoria contro i Tatari si tradusse nel titolo di re per il primo e nel titolo minore di “commissario pacificatore” per Temujin. Il passo successivo consiste nell’attaccare i Naiman. Durante questa guerra vi fu un fraintendimento tra il Kerait e Temujin: il primo scappò insieme ai suoi uomini durante la notte, e al mattino Temujin stava per essere circondato. Tuttavia, questi riesce a ritirarsi e, non appena seppe che il suo traditore era stato catturato dai nemici, corse a salvarlo, e lo perdonò per averlo tradito. In seguito a questa campagna militare i Naiman si ritirarono. Nel 1202 i Tatari, ancora pericolosi, furono nuovamente sconfitti, e questa serie di vittorie portò altri clan a riconoscere spontaneamente la sua autorità. Nel frattempo, sorgeva però il malcontento nei Kerait. Temujin percepì questa nascente malevolenza e offrì in sposa una nobile fanciulla della sua famiglia al nipote di To’oril, proponendo che una principessa kerait fosse data in moglie al suo primogenito Jochi, ma la richiesta fu respinta. Diventò inevitabile lo scontro frontale, da cui Temujin ne uscì vincitore. Dominatore della steppa centrale e orientale, non gli restava che sferrare l’ultimo attacco all’ultima tribù che ancora si opponeva al suo potere a ovest: i Naiman. Naturalmente anche da questa battaglia Temujin ne uscì vittorioso. Nel maggio 1206, convocata una nuova assemblea di tutti i nobili, Temujin fu definitivamente riconosciuto come Chinggis Qa’an da tutti i clan della steppa, e dominava tutta la Mongolia e parte della Manciuria. L’impero doveva tuttavia essere consolidato, per evitare che si disgregasse facilmente. Chinggis Qa’an si preoccupò innanzitutto di sottomettere gli abitanti della siberia, per poi rivolgere il suo sguardo ai regni cinesi di XiXia e di Jin. Prima si occupò del regno XiXia, il cui sovrano, sottomesso, offrì doni al Qa’an e gli propose di essere lasciato sul trono anche se riconosceva la supremazia mongola e avrebbe contribuito alle campagne militari. Per quanto riguarda il regno dei Jin, invece, al momento sul trono sedeva il successore di Zhangzong, che gli aveva conferito il titolo di “commissario pacificatore”, e a questo nuovo sovrano la fedeltà giurata non era più valida. Nel 1211 parte l’offensiva, nella quale l’esercito mongolo assale prima i piccoli villaggi e le campagne, tagliando così i rifornimenti alle cittadelle, e procurandosi viveri per cavalli e truppe. Tre anni dopo il Qa’an chiede al sovrano Jin un enorme quantità di oro e beni in cambio del suo ripiegamento. Il sovrano Jin, stremato dalle guerre accetta, e abbandona comunque Pechino, rifugiandosi a Kaifeng. L’anno seguente, al suo ritorno, il Qa’an troverà una città difesa da guerrieri, che si arrenderanno dopo un mese di assedio. La resa non fermò il saccheggio e la violenza, che fecero grande scalpore. Sul fronte occidentale, Chinggis Qa’an, inseguendo un suo rivale Naiman che si era alleato con i regni persiani, riesce a sottomettere anche i popoli mediorientali (battaglia di Qatvan). Dopo aver costruito l’impero più grande di tutti i tempi, Chinggis morì nell’agosto del 1227. Le fonti sono discordi sia riguardo la data esatta, sia riguardo le cause. Secondo la Storia segreta dei Mongoli sarebbe morto a seguito di un’emorragia interna verificatasi durante una battuta di caccia; altre contengono elementi più misteriosi e simbolici. Il luogo della sepoltura, essendo sacro, è anche segreto. Secondo la tradizione, avrebbe dovuto essere in Mongolia, ma probabilmente è nella regione dell’Ordos per le difficoltà del viaggio nella calura di agosto. Nel nomadismo mongolo, le donne svolgevano un ruolo fondamentale e lavoravano altrettanto duramente degli uomini. I loro compiti non riguardavano solo la gestione della cucina e gestire i figli, ma anche il montaggio e lo smontaggio della yurta familiare, caricare e guidare i carri ad ogni spostamento. Le donne realizzavano poi i tessuti per le yurte e per il vestiario, e la pelle per le scarpe; curavano il bestiame, mungevano mucche e capre e producevano burro e formaggio. La mungitura delle cavalle era invece riservata agli uomini. Accompagnavano i mariti anche sul campo di battaglia e in molti casi erano al comando di battaglioni. Erano ammesse ai quriltai (assemblee dei nobili) alle quali prendevano parte al pari degli uomini, contribuendo all’elezione del qa’an. In ogni famiglia vi era una moglie principale e altre che seguivano secondo una precisa gerarchia. Il numero delle mogli indicava la ricchezza e la posizione sociale del capofamiglia, dunque le donne assumevano anche valore di merce, al pari del bestiame. Alla morte del marito, la vedova doveva sposare un componente della famiglia del marito per mantenere intatta l’organizzazione famigliare, inoltre alla morte del qa’an la sposa principale assumeva automaticamente la reggenza e poteva anche emettere propri decreti. I culti tradizionalmente praticati dalle tribù mongole erano connessi a una sorta di sciamanesimo che individuava nelle forze della natura le entità a cui offrire omaggi e sacrifici allo scopo di migliorare la vita quotidiana e assicurarne l’aiuto in caso di conflitto. La divinità principale era Tenggeri (il Cielo), che nella Storia segreta dei Mongoli avrebbe incaricato Chinggis Qa’an di conquistare il mondo. Specifici rituali venivano svolti in luoghi elevati, da cui la comunicazione con il Cielo era più facile poiché più vicina. Lo sciamano rivestiva un ruolo importante per la sua capacità di comunicare con il Cielo e gli spiriti, e di interpretare i segni che essi fornivano. I suoi abiti e il suo cavallo erano bianchi. Questa concezione religiosa – strumento atto essenzialmente ad assicurare protezione all’uomo e ad aiutarlo a realizzare i suoi disegni – si accompagnava a una forte tendenza alla superstizione, che individuava una serie di comportamenti da evitare, e numerose azioni da compiere per scongiurare un pericolo o curare una malattia. La medicina era dunque strettamente legata alla pratica religiosa. Non prevedendo la loro fede un aldilà, essi erano ben disposti alle altre dottrine proprio perché, da una parte, erano indifferenti a queste tematiche, e dall’altra, perché si appoggiavano a quante più sponde possibili per ottenere una vita migliore. In altre parole, qualunque religione sostenesse il loro impero era ben accetta. L’opera di unificazione di Chinggis Qa’an avrebbe annoverato tra i suoi elementi fondanti un codice legislativo chiamato yasa (decreto, oridinanza) promulgato già nell’assemblea del 1206. Non sapendo né leggere né scrivere, si racconta che dettò personalmente le leggi agli scribi (termini mongoli in scrittura uigura). Un figlio adottivo di Chinggis assunse il ruolo di giudice supremo, e fu incaricato di prendere nota dei casi e delle relative sentenze del sovrano su un registro denominato Codice blu. Tale codice aveva un carattere sacro ed era considerato immutabile, prevedendo comunque la possibilità di aggiungere articoli in conseguenza di nuove esigenze, e divenne parte integrante del codice legislativo. Prima della sua morte, Chinggis Qa’an attribuì ad ognuno dei quattro figli un dominio (ulus). A capo dell’impero rimaneva il Qa’an (gran khan), una figura che avrebbe dovuto fungere da coordinatore dell’intero impero. Sin da subito, tuttavia, la successione comportò diversi problemi, e le quattro linee di discendenza si resero progressivamente sempre più indipendenti, entrando spesso in conflitto tra loro. Già mentre Chinggis era ancora in vita, il primo genito Jochi avrebbe progettato di diventare indipendente, ribellandosi al padre, ma venne avvelenato su ordine dello stesso Qa’an. Ogodei, il terzogenito, fu eletto gran khan per via del suo carattere conciliatore, e a lui andarono il khanato dei territori sud-occidentali e Quaraqorum divenne la capitale dell’Impero. Nel Khanato dell'Orda d'Oro, dei territori dell’Asia centro- occidentale regnarono i discendenti del primogenito Jochi. Il khanato dei territori sud-occidentali, compreso l'odierno Medio Oriente andarono al secondogenito Chagatai. Il Khanato comprendente la Cina andarono all’ultimo genito Tolui, al quale andò anche gran parte dell’esercito, inclusa la guardia personale dell’imperatore. Durante il regno di Ogodei (1229-41) l’espansione proseguì verso la Russia e continuarono i tentativi di sconfiggere il regno dei Jin, già parzialmente annesso con la conquista di Pechino da parte di Chinggis. Il territorio dei Jin era ormai limitato a una stretta striscia sul fiume Giallo, che aveva come capitale Kaifeng. I Jin inviarono un ambasciatore a Chinggis proponendo di riconoscerlo come fratello maggiore, ma questi rifiutò intimando al sovrano di rinunciare al titolo imperiale per diventare signore di uno stato vassallo dei Mongoli. Di conseguenza le trattative furono interrotte. Nel 1223 l’appena salito al trono Aizong si impegnò a stringere alleanze sia coi Song sia con i XiXia (nel mentre nello Shandong infuriava la ribellione delle giacche rosse). Dopo la morte di Chinggis Qa’an, l’ambasciata di Jin che presentava le condoglianze fu respinta, e Ogodei, dopo aver annientato i XiXia, rivolse la sua attenzione ai Jin, attaccandoli su due fronti insieme al fratello Tolui. Nel 1232 le armate giunsero a Kaifeng che aprì le porte dopo un anno di assedio, e dopo l’improvvisa morte di Tolui. Intanto Aizong era fuggito a sud e aveva chiesto aiuto ai cinesi, i quali preferirono però allearsi con i Mongoli contro i Jin. L’imperatore Aizong allora si suicidò mettendo fine alla dinastia Jin. Anche il regno di Koryo, che pagava un tributo in cambio della pace, fu nuovamente attaccato e costretto a diventare stato vassallo e ad accettare un governatore militare mongolo. Per governare un impero così vasto Ogodei aveva bisogno di impiegare le strutture amministrative già esistenti in loco e, per quanto possibile, anche il personale. Tuttavia, bisognava assicurare il controllo dei Mongoli su tali amministratori e ciò avveniva attraverso due strategie: innanzitutto con la presenza di un governatore militare residente di etnia mongola (come avvenne per Kroryo), e in secondo luogo mediante personale proveniente da altre aree dell’impero. Yelü Chucai, discendente della famiglia imperiale che aveva fondato la dinastia Liao, e che, dopo il superamento degli esami, era stato al servizio dei Jin, fu convocato da Chinggis, dopo la conquista di Pechino, che lo inserì nel suo seguito come consigliere e astrologo. Quando Ogodei salì al trono, Yelü lo affiancò nella gestione di tutta la Cina del nord. Per prima cosa ottenne dal sovrano una sorta di amnistia generale per tutti i reati commessi prima del 1229, in quanto, non conoscendo il codice mongolo, era facile incorrere in atti considerati criminali, evitando molte condanne a morte di sudditi cinesi. Il suo piano di riforma si basava sul concetto fondamentale di gestione burocratica alla cinese, con precise norme fiscali che non opprimessero la popolazione danneggiando l’economia, e perciò prevedeva la separazione tra cariche civili e militari, in contrasto con l’abituale gestione mongola. Il risultato fu estremamente positivo, tanto che Ogodei gli affidò la carica di responsabile della segreteria imperiale e ordinò che il sistema fosse esteso a tutto il territorio. Instaurò il monopolio su alcol, sale, ferro e prodotti minerari, inoltre, terminato il censimento, diversificò la tassa fondiaria in base alla tipologia di terreno e alla grandezza degli appezzamenti, alleggerendo notevolmente le tasse. In base a un editto di Chinggis, secondo il quale i religiosi erano esentati dalle tasse, Yelü fece promulgare una legge secondo cui tutti i monaci con meno di cinquant’anni dovevano sottoporsi a un esame sulle scritture relative alla propria religione prima di poter essere considerati tali, riuscendo così a eliminare un certo numero di impostori che avevano dichiarato uno status sociale falso pur di ottenere privilegi. Inoltre, fu stabilito che i monaci che coltivavano una terra o che portavano avanti una qualsiasi forma di commercio fossero soggetti al pagamento di tasse. Tuttavia, l’applicazione pratica di tutte queste norme incontrò diversi ostacoli. Yelü cercò di restaurare il sistema degli esami e di favorire l’ingresso di funzionari cinesi, ma questi furono indetti una sola volta e non vennero mai più ripetuti, segno della volontà da parte di Ogodei di non far partecipare i cinesi alla gestione del loro territorio. Questa sconfitta testimonia anche il declino di Yelü presso la corte. Successivamente il Qa’an concesse a funzionari musulmani il privilegio di riscuotere le tasse, e quando Ogodei morì, Yelü non riuscì nemmeno a imporre il volere del sovrano, il quale voleva nominare come suo successore il nipote. Per volere della regina Toregene fu eletto, invece, suo figlio Guyug. Se il regno di Ogodei fu caratterizzato da una relativa stabilità e da un tenore di vita moderatamente lussuoso, il breve periodo del Qa’anato di suo figlio Guyug fu invece improntato da eccessi di ogni tipo. Essendo stato eletto in modo non unanime e forse non del tutto trasparente, permetteva ai suoi sostenitori di impossessarsi di risorse dello stato, di emettere editti e di utilizzare sigilli riservati solo al Qa’an. Era incapace di governare e considerava la sua carica una comoda posizione per sperperare senza ritegno quanto accumulato dal padre. In tali condizioni si inasprì il conflitto con il cugino Batu che, coalizzando abbandonare la capitale, proponendo al nemico un ingente tributo annuo in cambio della pace, ma Bayan rifiutò, e Xie non poté far altro che consegnare il sigillo Song, simbolo della sovranità. Nel 1276 i mongoli riuscirono finalmente a completare la conquista della Cina. I due fratellastri dell’imperatore bambino riuscirono a fuggire via mare, ma non vi sopravvissero, mentre l’imperatrice vedova e l’imperatrice madre Xie furono inviate nella capitale Dadu (Pechino), dove furono trattate con ogni riguardo. Il legame tra Qubilai e la Cina nacque quando gli fu assegnato un appannaggio nell’attuale Hebei, durante il qa’anato di Mongke, dove vi costruirà una città come sua residenza, Kaiping. Nel 1260, il quriltai della sua controversa elezione ebbe sede proprio a Kaiping, e questo segnala già allora uno spostamento del centro dell’Impero. Una volta qa’an si rese necessaria la costruzione di una nuova capitale (poiché Kaiping era nata come residenza di un principe, e non come sede imperiale), espressione del nuovo sovrano che, a differenza degli altri capi Mongoli, sentiva di essere Figlio del Cielo, detentore del mandato celeste. Per il progetto di Kaiping era stato incaricato un personaggio che affiancò Qubilai fino alla morte, il letterato Liu Bingzhong. Questi guidò il Qa’an sia in campo militare, sia illustrandogli le istituzioni cinesi e il loro funzionamento. Liu gli spiegò le mosse da compiere per essere riconosciuto come legittimo sovrano secondo la tradizione cinese: approntando un apparato burocratico i cui funzionari sia civili che militari siano reclutati secondo il merito e quindi ripristinando il sistema degli esami; promulgare una legislazione codificata; preoccuparsi del benessere del popolo; stabilire un’unità di misura standard; compilare la storia della dinastia Jin; etc. Un altro dei passi fondamentali per un nuovo sovrano era la costruzione di una nuova capitale, in quanto faceva parte del complesso sistema di azioni e rituali che lo legittimeranno. Il sito prescelto era quello dell’antica capitale Jin (Pechino), conquistata dai Mongoli nel 1215, per mano del padre di Qublai, Tolui, lo stesso anno in cui egli era nato, dove era significativo il riferimento alla dinastia straniera che era stata sul trono celeste. Questi criteri sembrano contrastare con l’abitudine delle steppe di scegliere un sito scoccando una freccia nelle quattro direzioni. La città presentava una struttura geometrica con tre cinte murarie concentriche, e le fu dato il nome di Dadu, Grande capitale. I viaggiatori europei dell’epoca la descrivono utilizzando il nome turco di Khanbaliq (città del khan). Kaiping, più a nord, prendeva il nome di Shangdu, Capitale superiore, e diventerà semplicemente la residenza estiva del Qa’an. Contemporaneamente fu proclamato il nome dinastico di Yuan, Inizio, che rimandava al Cielo secondo la tradizione mongola, e quindi poteva soddisfare anche l’aristocrazia mongola. L’esigenza di individuare un nome dal significato semantico era motivata dal fatto che le dinastie precedenti avevano sempre adoperato nomi geografici riferiti all’area di provenienza dei rispettivi fondatori, e per i mongoli era impossibile fare una simile scelta. In ogni caso, Qubilai, spostando la capitale a Dadu, rinunciava implicitamente al dominio delle aree occidentali più lontane, preferendo la Cina, ma mantenendo comunque un legame con la madrepatria, e l’impero era ormai frantumato irrimediabilmente in macroregioni indipendenti. Durante l’epoca Yuan furono mantenute le strutture amministrative precedenti. Gli organi più importanti erano il Segretariato, a capo dell’amministrazione civile; l’Ufficio degli affari militari e il Censorato, che vigilava sull’operato dei funzionari e poteva esprimere opinioni sulle politiche governative. A essi si aggiungeva la Guardia Imperiale, che aveva carattere ereditario, e l’Ufficio per la famiglia imperiale. Vi era poi la Commissione per gli affari buddhisti e tibetani, che di fatto governava il Tibet, e quella per la Promozione delle religioni, che supervisionava tutte le comunità religiose straniere presenti sul territorio. Le figure che coordinavano e supervisionavano l’operato dei funzionari civili e militari erano i darugachi, in genere mongoli o appartenenti alla classe dei semuren, termine che indicava diverse etnie centro-asiatiche. L’utilizzo di questi personaggi fu giustificato dall’imperizia dei Mongoli nella gestione degli affari amministrativi, e la loro presenza garantì maggiore controllo sulla popolazione cinese. I funzionari erano reclutati per privilegio ereditario, secondo le pratiche mongole, che garantì la supremazia delle etnie dominanti. I funzionari cinesi avevano solo cariche medio basse, quindi, e a questo si deve probabilmente la ribellione di Li Tan (1262). Questa ribellione portò anche all’istituzione dello shumi yuan (Ufficio degli affari militari) che separava nettamente il potere civile da quello militare. Lo shumi yuan si occupava non solo di gestire tutto ciò che riguardava l’esercito, ma anche di elaborare le strategie militari, ed era del tutto precluso ai cinesi. Per quanto riguarda il reclutamento, tutti i nobili mongoli potevano essere chiamati in cavalleria, mentre i cinesi fornivano la fanteria, ma non su base universale: soltanto un certo numero di famiglie godeva dello statu militare ereditario. Dopo la resa dei Song meridionali, il loro esercito era stato aggiunto a quello mongolo con il nome di «Nuova armata», e la sua gestione comportò diversi problemi amministrativi proprio perché, nell’amministrazione cinese, questo ruolo non era ereditario. Già Chinggis e poi Ogodei tentarono di conquistare la Penisola coreana, ma riuscirono ad ottenere soltanto un tributo annuale. Un elemento che rafforzò i legami tra l’Impero mongolo e il Regno di Corea fu il matrimonio tra la figlia di Qubilai e il re Ch’ungyol. Lo scopo di questi matrimoni era di controllare più da vicino il regno coreano, seguendo la tradizione mongola che attribuiva grande rilevanza politica alle donne. Qubilai inviò numerose ambascerie pacifiche in Giappone per ottenere il riconoscimento formale della sua sovranità, e sottomettere l’arcipelago a stato vassallo, ma nessuna di queste ambascerie ebbe successo, così il Qa’an preparò una spedizione militare mentre era ancora impegnato nella battaglia con i Song meridionali, sperando di conquistare il Giappone e di bloccare il commercio coi Song. Le truppe mongole approdarono ad Hakata nel 1274, e inizialmente ebbero la meglio, finché una tremenda tempesta non decimò gli invasori, e i pochi superstiti furono costretti a tornare in patria. L’anno seguente i Giapponesi giustiziarono l’ennesima ambasceria pacifica mandata a reclamare il tributo, e la vendetta di Qubilai dovette attendere la fine della guerra coi Song. Nel mentre, i giapponesi costruirono una muraglia intorno alla baia di Hakata, per facilitare la difesa negli anni successivi. Nel 1281 ebbe luogo il secondo sbarco, ma questa volta la muraglia di Hakata impedì ai mongoli di avanzare. Dopo due mesi di battaglie un altro cataclisma, questa volta un tifone, si abbatté violentemente sulle truppe mongole costringendole alla ritirata. Per i mongoli fu una batosta incredibile non solo alla loro immagine di invincibilità, ma anche alle casse dello stato che avevano speso ingenti somme nell’impresa. Non andarono meglio le spedizioni in Indocina, avviate anch’esse in quegli stessi anni. Fu avviata una campagna punitiva contro il regno di Pagan (Myanmar) il cui sovrano aveva giustiziato gli ambasciatori mongoli giunti per chiedere il tributo. Tra le file del nemico vi erano numerosi elefanti che spaventarono i cavalli mongoli e gli elefanti, a loro volta furono spaventati dalle frecce. Di conseguenza i due eserciti si ritirarono e lo scontro fu un fallimento. Una seconda spedizione non diede alcun esito, e soltanto alla terza i mongoli ottennero una vittoria definitiva occupando la capitale. Negli anni successivi fu perciò presentato un tributo ma i vantaggi economici non pareggiavano le enormi spese sostenute per la guerra. Lo stato vicino, l’Annam, aveva accettato invece di presentare il tributo, ma non aveva intenzione di aiutare Qubilai nell’attacco al più meridionale regno di Champa. Il sovrano di Champa aveva offeso il qa’an in quanto rifiutò più volte di presentarsi alla sua corte, né inviò familiari in ostaggio. Un esercito sbarcò nel regno, ma il re si era già rifugiato sulle montagne e i soldati mongoli si trovarono invischiati in una sorta di guerriglia in un territorio a loro ostile. Fu deciso di inviare via terra altre truppe, ma quando l’esercito mongolo chiese il permesso per transitare sul territorio annamita, inaspettatamente gli fu negato. Fu necessario quindi un ulteriore conflitto contro l’Annam, e anche in questo caso la struttura del territorio giocò in favore del paese invaso. La sconfitta convinse Qubilai a ritentare l’impresa e questa volta l’esercito mongolo giunse nella capitale, ma la famiglia imperiale era già fuggita e l’esercito mongolo fu costretto a ritirarsi nuovamente. I due regni vietnamiti decisero quindi di pagare il tributo per liberarsi delle continue spedizioni Yuan nel loro territorio. Negli stessi anni del conflitto vietnamita, anche l’Indonesia fu oggetto di richieste mongole di sottomissione. Il regno di Giava, dove lo sventurato ambasciatore di Yuan era stato marchiato sul volto come risposta, divenne obiettivo di un’ennesima spedizione punitiva. Il re Giava non aveva però previsto la ribellione di un suo vassallo, il quale riuscì ad ucciderlo, e a lui succedette il genero. Questi offrì la resa ai mongoli in cambio del loro aiuto a vendicarsi contro il ribelle. Accettata prontamente la resa, portata a termine la missione e distrutta la resistenza interna, mentre si trovavano sulla strada della capitale, i capi mongoli furono a loro volta ingannati e riuscirono a stento a contenere le perdite. A questo punto i responsabili della spedizione fecero ritorno in Cina e la spedizione fu una completa sconfitta. Dopo la conquista del regno di XiXia da parte di Chinggis, i Tibetani avevano accettato l’imposizione del tributo, per poi sospenderlo alla sua morte. Kogen, figlio di Ogodei, cercò di riprendere il controllo della regione inviando una lettera all’abate di uno dei tre monasteri più importanti, Sa skya Pandita, in cui gli chiedeva assistenza spirituale, lasciando intendere che in caso di rifiuto si sarebbe mosso militarmente. I due raggiunsero un accordo e le principali autorità tibetane furono costrette a pagare tributi e a fornire uomini per l’esercito del Qa’an, in cambio il capo mongolo garantiva non solo la pacifica convivenza, ma anche un valido aiuto per la diffusione della fede buddhista e rinnovava l’esenzione delle tasse per i religiosi. Durante il qa’anato di Mongke questo accordo non fu rinnovato, ma ogni territorio e monastero fu assegnato a un membro della famiglia imperiale perché se ne occupasse. Prima di diventare Qa’an, Qubilai mise a capo della delegazione tibetana il Sakyapa Lama nipote e successore di Sakya Pandita, che acquisì grande influenza alla corte mongola, fino ad essere nominato precettore imperiale (guoshi o dishi) appena Qubilai divenne Qa’an. Nei primi anni Qubilai decise di esentare delle tasse alcune regioni che erano state particolarmente travagliate o dalle guerre o da calamità naturali, e istituì organismi per aiutare i bisognosi, cercando di stabilire una certa equità. In questo quadro rientra la creazione dell’Ufficio per il sostegno all’agricoltura e la proibizione ai mongoli di danneggiare le terre coltivate, inoltre fu estesa a tutto il territorio la she, la comunità rurale che spesso si estendeva a tutto il villaggio, che, sotto la direzione di un capo eletto, si occupava di coltivare anche le terre incolte, regolare i corsi d’acqua e incentivare la produzione della seta, oltre a occuparsi dei censimenti, dell’istruzione e dell’assistenza ai bisognosi. Gli artigiani erano esentati dalle corvée e forniti di abiti, cibo e sale, inoltre potevano vendere parte della loro produzione liberamente. Verso il 1275 i problemi di tipo economico e fiscale si complicarono in modo esponenziale, non solo per l’aumento della popolazione e del territorio, ma anche perché le campagne militari e le opere pubbliche necessitavano di fondi sempre maggiori. Durante l’epoca Yuan non fu possibile stabilire un codice unico per tutta la popolazione a causa della grande varietà di etnie diverse. Pertanto, almeno i Mongoli, i Musulmani e i Cinesi seguivano le proprie consuetudini in modo indipendente. La giurisprudenza Yuan riuscì ad associare elementi di diritto mongolo e cinese, ad esempio, per il popolo nomade l’esilio in terre disabitate non era ritenuto molto grave, dunque fu tramutato in esilio in luoghi il più possibile lontani dalla propria regione. Nella tradizione cinese, poi, la detenzione era impiegata solo a scopo preventivo, non come pena, mentre per gli Yuan fu utilizzata sempre accompagnata da pene corporali. Vennero introdotte anche pene supplementari in denaro, a testimonianza della diffusione della cartamoneta. Il tatuaggio veniva adoperato in caso di furto per marchiare il reo, il quale era poi tenuto a collaborare con le autorità per scoprire attività criminose di altri per un certo periodo. Tutte queste norme venivano applicate in modo diverso in base all’etnia delle parti coinvolte, anche perché generalmente si seguivano codici diversi, come differenti erano gli organi e le sedi demandate a giudicare. Per essere riconosciuto appieno come detentore del Mandato celeste, Qubilai si impegnò a scrivere la storia delle dinastie precedenti (Liao, Jin e Song) a quella Yuan, come voleva la tradizione. Il principio di legittimazione prevedeva una linea di successione ininterrotta che segnava il mandato celeste trasmesso da una dinastia all’altra. Per farlo, creò appositi uffici, e si cominciò redigendo gli annali dedicati agli imperatori mongolo, da Chinggis in poi. Il problema della lingua mongola e del multilinguismo dell’impero fu centrale. Nelle prime fasi della conquista, i Mongoli usarono per i documenti ufficiali la scrittura uigura, che però mancava di alcuni suoni presenti nella lingua mongola e cinese. Il Qa’an incaricò allora Sakyapa Lama di creare una scrittura adatta all’impero, che creò la scrittura guozi. Qubilai decretò che i documenti dovevano essere scritti con questo sistema e affiancati da una traduzione cinese, ma questo tipo di scrittura non fu accolto con entusiasmo dai funzionari che dovettero operarla, pertanto il suo impiego restò marginale. Fu poi fondata l’Università nazionale mongola, dove si studiavano le lingue dell’impero, che inizialmente era aperta solo ai mongoli, ma poi furono ammesse anche altre etnie. dall’imperatore da tutte le cariche, e costretto all’esilio da suo nipote Toghto, il quale assunse il suo ruolo. Scomparvero anche l’erede al trono El Tegus, e l’imperatrice fu esiliata al sud. Toghto diede inizio a una serie di azioni politiche, economiche e militari che diedero prova della sua intelligenza, partendo dal ripristino degli esami di stato, cancellò anche le tasse imposte dal suo predecessore e completò le tre storie dinastiche dei Liao, dei Jin e dei Song, avviate durante il regno di Qubilai. I cambiamenti climatici di quegli anni, portarono a numerosi straripamenti del fiume Giallo, e il Gran cancelliere cominciò a predisporre dei lavori idraulici che inizialmente furono contestati e lo portarono lontano ad allontanarsi dalla sua carica per cinque anni, finché l’imperatore non lo richiamò. Dal 1351 scoppiarono una serie di rivolte, tra cui quella della città di Gaoyu. Quando il lungo assedio stava per risolversi positivamente per le forze imperiali, all’improvviso l’imperatore ordinò a Toghto di ritirarsi, il che permise ai ribelli di riorganizzarsi e fu perduta per sempre la possibilità di stroncare la ribellione. A seguito di ciò, il Gran cancelliere fu esonerato e morì poco dopo in esilio. Probabilmente la scelta dell’imperatore fu manipolata da altri funzionari che approfittarono dell’assenza di Toghto per i propri scopi, o probabilmente l’imperatore credeva che se il cancelliere avesse vinto anche questa battaglia, sarebbe diventato troppo potente e pericoloso. Sta di fatto che l’improvvisa ritirata dell’esercito, portò i soldati, demoralizzati dopo che una vittoria a portata di mano e i relativi premi gli furono sottratti, a saccheggiare i territori circostanti, e l’impero Yuan si frammentò in tanti piccoli territori dominati dai signorotti locali, che controllavano le maggiori risorse agricole e tagliavano i rifornimenti alla corte. A ciò si aggiunsero i cambiamenti climatici, causati dal figlio del Cielo, come voleva la tradizione cinese, cui seguirono diversi cataclismi che portarono a carestie e malattie. Durante la crisi climatica della seconda metà del XIV secolo che portò con sé distruzione e morte a causa delle carestie, si svilupparono numerosi movimenti religiosi e pseudo-religiosi, risultati dalla combinazione di elementi buddhisti, taoisti e manichei (manismo: una cosmologia dualistica che descriveva la lotta tra il bene e il male rappresentati il primo dalla luce e dal mondo spirituale e, il secondo, dalle tenebre e dal mondo materiale; attraverso un continuo processo all'interno della storia umana, la luce viene gradualmente rimossa dal mondo materiale e restituita al mondo spirituale da cui proviene e influisce in ogni aspetto dell'esistenza e della condotta umana). In particolare, avvenne la trasformazione dell’originaria dottrina del Buddha, volta adesso a stimolare l’attesa di un liberatore, arricchita di pratiche alchemiche e sortilegi. Il governo cercò di opporsi alla formazione di questi movimenti, i cui adepti furono perciò costretti ad agire in clandestinità, finché queste aggregazioni si trasformarono in vere e proprie sette che presero ad armarsi per difendersi dalle irruzioni dei soldati imperiali. Tra queste la più importante era quella del Loto Bianco, la cui struttura armata fu chiamata Turbanti Rossi, per via del copricapo che indossavano. Questa setta si sviluppò inizialmente nel centro-sud, in numerosi focolai, e portò allo scoppio di una rivolta dapprima nell’antica capitale Kaifeng, e si estese ben presto a tutta la regione, finché il fronte della ribellione giunse al nord, costringendo la corte Yuan a fuggire a Qaraqorum dove vi si stabilì, e dove l’imperatore Toghon Temur morì nel 1370. Contemporaneamente a Sud un altro gruppo di turbanti rossi, slegato dal precedente proclamava l’ascesa di un sovrano della restaurata dinastia Song, Chengì Youliang, che prontamente cambiò il nome della dinastia in Han. Questi era figlio di un pescatore che era riuscito a studiare e a lavorare da impiegato in un ufficio governativo. Rispetto alle precedenti rivolte della storia cinese, che rappresentavano il malcontento degli stati più bassi della società, e quindi, poco organizzate, erano facili da sedare, le attuali sollevazioni godevano del sostegno della classe media, composta da persone di una certa cultura che affiancavano i funzionari regolari e svolgevano un’importante funzione di intermediazione tra popolo e governo. LA DINASTIA MING (1368 – 1644) Figlio di contadini, Zhu Yuanzhang era stato consacrato in tenera età al Buddha per un voto fatto dai genitori a causa della sua salute malferma. La sua nascita, secondo la leggenda, fu segnalata da presagi positivi: la madre sognò un essere soprannaturale che le porgeva una pillola luminosa. Dopo averla ingerita, partorì il bambino, mentre un raggio di luce rossa beneaugurante riempiva tutta la casa. Questo è un elemento ricorrente nelle biografie dei fondatori delle dinastie. Anche il suo aspetto è avvolto nel mistero, poiché nell’iconografia vi sono alcuni ritratti i cui si vede un bell’uomo, con i tratti tipici della dignità imperiale, in molti altri ha un volto grottesco. Con la morte dei genitori a causa dell’epidemia, Zhu si rivolse al vicino tempio buddhista, onorando l’antico voto, presso il quale sperava di vivere sfuggendo alla fame. Lavorò umilmente nel tempio, apprendendo i rudimenti della scrittura e della religione, solo per poche settimane, finché fu costretto, insieme agli altri monaci, a incamminarsi nelle strade per chiedere le elemosina. Girovagò per alcuni anni, tornando di sovente al tempio, fino a quando non lo trovò distrutto. L’esercito imperiale aveva infatti bruciato il monastero immaginando un legame tra i monaci e la setta segreta. Zhu trovò allora il modo per unirsi a ribelli e in pochi mesi aveva già dimostrato la sua attitudine al comando e guidava le truppe dei turbanti rossi in conquiste sempre più ardite, fino a prendere l’odierna Nanchino, dove si fece proclamare «Duca di Wu», e cominciò a costruire un suo centro di potere personale. Sconfisse i principali rivali (ribelli di altre regioni che si proclamavano discendenti dei Song e che fondarono la dinastia Han o la dinastia Wu), e ancora prima che la capitale Dadu fosse conquistata e rinominata Beiping (pace settentrionale), acclamato dai suoi soldati con il nome di imperatore, dopo aver ritualmente rifiutato tre volte come aveva fatto anche Qubilai un secolo prima, Zhu proclamò nel 1368 il primo anno del suo regno con il motto di hongwu (magnificenza militare, nome con cui sarà chiamato postumo insieme a quello da imperatore che sarà Taizu, augusto imperatore). Proclamò quindi l’inizio della dinastia Ming, che significa «luce», in contrapposizione al termine Yuan che raramente è impiegato con il significato di «oscuro», scegliendo, come i mongoli, un nome dinastico con un preciso valore semantico piuttosto che geografico, com’erano stati i nomi delle dinastie precedenti. Morto Shundi, l’erede al trono Ayushiridara, appena diventato imperatore, e rifugiatosi a Quaraqorum con tutta la corte Yuan, non rispose alle ripetute lettere che lo invitavano a riconoscere il formale passaggio del mandato celeste, e nemmeno la cattura di suo figlio sortì alcun effetto. Vi furono diversi scontri successivi tra le truppe delle due dinastie, finché Hongwu non restituì alla sua famiglia l’ostaggio, sperando di ottenere pace e sottomissione dai mongoli. Ayushiridara morì poco dopo, continuando ad affermare il suo diritto al trono cinese; tuttavia, le diverse tribù mongole erano ormai separate. Intanto era necessario che la legittimità della nuova dinastia fosse ampiamente riconosciuta all’interno del paese, pertanto Hongwu stabilì tre capitali: Kaifeng, Yingtian (che divenne Nanjing, capitale meridionale, da cui Nanchino) e Linhao (capitale centrale, l’odierna Fengyang). Più capitali contemporaneamente rimandavano alle dinastie straniere Liao, Jin e Yuan. I veri lavori di ricostruzione però di ebbero di fatto solo a Nanchino. I Ming si avvantaggiarono della grande estensione dell’Impero mongolo per affermare le pretese cinesi su alcune regioni che non erano mai state incluse nell’Impero. Alla fine del suo primo anno di regno, Hongwu emanò un decreto con il quale ordinava la compilazione della storia degli Yuan, con l’intento di legittimarsi maggiormente, poiché di fatto, il sigillo imperiale era ancora in mano dei sovrani Yuan riparati in Mongolia. Nei primi anni del suo regno, Zhu Yuanzhang, con il nome imperiale di Ming Taizu, mantenne la struttura amministrativa Yuan, i cui principali organismi erano il Segretariato, l’Ufficio degli affari militari e il Censorato, all’interno del quale eliminò l’Ufficio delle rimostranze – addetto a presentare critiche all’imperatore – in quanto egli non voleva che la sua autorità fosse messa in discussione. Un atteggiamento, questo, che va contro la visione confuciana del sovrano, il quale è tenuto ad accogliere le sagge osservazioni dei suoi consiglieri. Di fatto il governo Hongwu può essere definito con una sorta di paternalismo autoritario, perché se da una parte afferma la centralità del benessere del popolo, dall’altra è ricco di elementi riconducibili alla Scuola legista che sosteneva l’autorità suprema del sovrano. Egli accolse nel suo governo alcuni funzionari che avevano fatto parte della burocrazia Yuan, inoltre il reclutamento dei funzionari avvenne in un primo momento per raccomandazione (i funzionari in carica segnalavano quelli meritevoli) e per privilegio, ma solo per un figlio di funzionari da un certo livello in su, ovviamente senza nessuna considerazione della razza. In un secondo momento fu ripristinato il sistema degli esami, in conseguenza di una grave crisi burocratica che portò l’imperatore ad avvalersi di un ristretto gruppo di alti funzionari, che formarono il Consiglio interno. La reintroduzione del sistema degli esami, e la sua progressiva stabilizzazione come canale principale del reclutamento, produsse una notevole mobilità sociale con la conseguente perdita di potere della nobiltà, che cominciò ad essere definita solo in base alla parentela con gli altri imperatori e ogni altro lignaggio non aveva più alcun valore. Hongwu assegnò poi ai suoi figli maschi (escluso il primogenito, già nominato erede al trono) dei territori in cui risiedere una volta maggiorenni. In essi i principi dovevano occuparsi della difesa contro le incursioni mongole e non avevano alcun potere amministrativo sulla popolazione, ma soprattutto dovevano stare lontani dai centri del potere, recandosi a far visita ai genitori soltanto una volta l’anno e mai contemporaneamente, per scongiurare il pericolo di intrighi politici. L’unica persona in grado di esercitare una positiva influenza su Hongwu era l’imperatrice Ma, la quale gli fu al fianco dalla giovinezza alla morte, e con la quale condivise le umili origini. È descritta come una donna intelligente, ricca di qualità umane e fervente buddista, partecipe alle imprese del marito, al quale diede sempre ottimi consigli. L’imperatore decretò che le spose imperiali fossero scelte tra le famiglie dei militari, essendo queste non colte, non aristocratiche e prive di legami influenti, così da rendere difficile alle imperatrici inserire i propri parenti nell’amministrazione. Anche l’organizzazione militare seguì l’impianto degli Yuan, anche per quanto riguarda il sistema delle tuntian, i territori coltivati per il sostentamento delle truppe, che fu esteso a tutto il territorio così da non far ricadere sul popolo la spesa per nutrire le guarnigioni. Lo stesso status degli appartenenti alla classe militare, che divenne ereditario, va ricondotto alla dinastia mongola. Anche le categorie di contadini e artigiani furono rese ereditarie, in modo da avere una base finanziaria stabile. Hongwu si serviva anche della Guardia Imperiale che proteggeva l’imperatore in ogni momento e che svolgeva anche la funzione di polizia segreta. Come per la nobiltà mongola, anche la caccia fu ritenuta importante, poiché serviva da allenamento volto a sviluppare le qualità militari. Un’altra istituzione mongola che fu preservata è il servizio postale, anch’esso sottoposto al Ministero della guerra. L’imperatore Hongwu ebbe sempre presente il benessere del popolo, e pertanto si sforzò di assicurarlo mediante un accurato catasto dei terreni e con un sistema fiscale basato sul villaggio, i cui anziani erano incaricati di gestire il pagamento delle tasse. Gli anziani si occupavano anche di dirimere le contese e questioni legali tra privati, in cui il magistrato locale non poteva intervenire poiché si occupava soltanto dei casi di diritto penale. Per quanto riguarda i mercati, Hongwu cercò di controllarne maggiormente l’attività, anche per favorire un riequilibrio tra le loro ricchezze e la situazione generale dei contadini. Una categoria particolare di mercanti ereditari furono i salinatori, che erano in possesso delle speciali licenze per commerciare il sale, sottoposto a monopolio insieme al tè e ai prodotti minerari. La cartamoneta fu pressoché abbandonata in favore delle monete di rame e di argento. L’imperatore si adoperò anche per promulgare un codice legislativo che si divideva in quattro parti: le Istruzioni Ancestrali, dirette alla famiglia e a tutto il personale del Palazzo; le Ordinanze dei Grandi Ming e il Codice dei Grandi Ming, che contenevano le leggi che i funzionari, i militari e il popolo dovevano rispettare, sia per quanto riguarda la legge civile che penale, nonché i rituali e le tasse; infine i Manifesti per educare il popolo, che erano editti esposti in luoghi pubblici, riguardanti aspetti specifici, ad esempio il modo corretto di gestire liti e contese a livello locale. Secondo la consuetudine delle dinastie cinesi, il trono doveva essere trasmesso al figlio primogenito, perciò Hongwu nominò erede il primo figlio dell’imperatrice Ma. Questi però morì prematuramente, e l’imperatore fu costretto a nominare un altro erede, e, come prevedeva la tradizione, nominò il figlio del defunto erede al trono, suo nipote Zhu Yunwen. Alla morte di Hongwu nel 1398, questi salì al trono e proclamò il titolo di regno di Jianwen (fondazione della virtù civile). Jianwen non approvava la direzione in cui il nonno aveva spinto l’impero, e desiderava ritornare a un governo più vicino ai modelli confuciani. Non potendo ripristinare l’Ufficio del Segretariato (proibito nelle Istruzioni Ancestrali), si circondò di consiglieri confuciani, conferendo a tre di essi incarichi esecutivi di governo. I consiglieri confuciani spinsero sin da come Jiajing (1521- 1566), che ignorò completamente gli affari di governo, abolì le udienze a corte e si circondò di maghi e alchimisti. I funzionari, custodi del sistema, non fecero mancare le loro critiche. Il pensatore che seppe meglio esprimere lo spirito dell’epoca Ming fu Wang Yangming (1472-1529). Vincitore degli esami imperiali, educato alla dottrina ortodossa, nel 1506 cadde in disgrazia a corte e venne trasferito a Longchang, nell’attuale Guizhou, un posto selvaggio ai margini dell’impero. Là, lontano da casa, e circondato da gente straniera, sembra che abbia avuto l’illuminazione: non nell’«indagine delle cose», come aveva insegnato Zhu Xi, l’uomo può trovare il modello del cosmo, ma unicamente e soltanto in sé stesso. L’«illuminazione» di Wang Yangming non può disconoscere le influenze buddhiste, ma il suo riferimento esplicito era decisamente confuciano: era la dottrina di Mencio del «sapere intuitivo», proprio ad ogni uomo. È questo il vertice della filosofia di Wang Yangming: l’uomo non ha bisogno di apprendere dal mondo esterno, perché reca già ogni sapere in sé; per questo il sapere non si può «perfezionare», come voleva Zhu Xi, perché è sempre già perfetto. Non c’è bisogno di libri o di scritti canonici, e neppure di un saggio sovrano, per guidarlo: e questa è una concezione sovversiva. Wang Yangming colse lo spirito della sua epoca: un’epoca in cui la struttura sociale iniziava a cedere e i «quattro ceti» della tradizione, additati dai primi imperatori Ming come modello eterno di ordinamento, si stavano disgregando. Lo stato reagì alla minaccia della rivoluzione sociale con l’involuzione: cioè rafforzando il modello d’ordine sperimentato. Nel XV e XVI secolo la società cinese si trasformò ugualmente, cogliendo il sistema politico completamente impreparato. Dopo due secoli di sbarramento, la rivoluzione economica premoderna trovò il proprio sbocco in una rivoluzione commerciale. In primo luogo, la popolazione, che nell’epoca Yuan si era ridotta moltissimo, crebbe più che mai, e con la crescita demografica, si manifestò una differenziazione sociale che fece saltare tutte le categorie dei fondatori della dinastia. La politica commerciale repressiva dei Ming, con il divieto dei traffici marittimi, tolse a molti commercianti le basi stesse della loro sussistenza. Divennero così contrabbandieri, e anche «pirati». Ma non erano i «pirati» che violavano le leggi, ma le leggi che producevano le violazioni: «pirati e mercanti sono la stessa cosa, se il commercio è permesso, i pirati diventano mercanti, e se il commercio è vietato, i mercanti diventano pirati». Inoltre, al commercio illegale dovette partecipare in modo determinante la gentry: tollerandolo, approfittandone – o, in caso contrario, denunciando la «pirateria». In tal modo, gli eruditi diventavano mercanti, e i mercanti predoni. La gerarchia dei «quattro ceti» si indeboliva sempre più. I contadini divennero artigiani, poiché nei villaggi, nei borghi con diritto di tenere mercato e nelle città della Cina meridionale nacquero manifatture di tutti i tipi e andarono formandosi centri di produzione specializzati. Le mercanzie venivano trasportate su carri di buoi, ma soprattutto sulle barche, e raggiungevano ogni angolo dell’impero. Dall’economia di sussistenza dei primi Ming si era passati a reti commerciali piuttosto vivaci, che paradossalmente furono la salvezza dell’impero. Nel XV secolo, i Ming si trovavano in una situazione finanziaria gravissima: il sistema tributario era in perdita, da un pezzo le tasse agrarie non riuscivano a compensare le spese dello stato, e la carta moneta, dopo un’inflazione, dovette essere abolita. Lo stato dovette di nuovo contare sulla moneta metallica, e in particolare sull’argento che divenne lo strumento del commercio. Ma quel metallo, in Cina, era sempre scarso, e le miniere statali erano ben lontane dal fornirne a sufficienza per soddisfare i bisogni dell’impero. Soltanto il commercio marittimo, il genere di affari più proibito e disprezzato, la «pirateria», salvò la situazione. Nonostante tutti i rischi che correvano, all’inizio del XVI secolo i mercanti trafficavano illegalmente con il Giappone e le Filippine, dove cotone, pietre preziose, porcellane, seta e mobili venivano scambiati con l’argento. Questa importazione di argento aumentò improvvisamente quando davanti alle coste cinesi arrivarono, bramosi di commerciare, gli Europei. Dapprima furono i Portoghesi. Nel 1497 Vasco da Gama aveva passato il Capo di Buona Speranza e trovato la via marittima per l’India. 90 anni dopo Zheng He riuscì ad arrivare a Calcutta, e questo segnò l’inizio di un nuovo ordine mondiale. Nel 1511 i Portoghesi ottennero il diritto di stabilirsi a Macao. Ma ancora maggiore successo ebbe la conquista delle Filippine da parte degli Spagnoli, attorno al 1570. Gli Spagnoli fornirono all’economia cinese il denaro di cui essa aveva bisogno per crescere; in cambio, i Cinesi consegnavano loro ciò di cui l’Europa aveva bisogno. La seta cinese, adeguata al gusto spagnolo, dominò il mercato mondiale, e anche la produzione di porcellane si adattò preso ai bisogni dei forestieri. Il commercio marittimo contribuì in maniera determinante alla crescita dell’economia cinese tanto che nel 1567 lo Stato abolì il divieto di commercio marittimo, e poco dopo il sistema fiscale, subì una riforma radicale. Nel 1581 il ministro Zhang Juzheng (1525-1582) introdusse un tributo unitario che comprendeva, in una sola rata annuale, da pagare in argento, le tasse sul suolo e sulle proprietà e le corvè. L’oncia d’argento restò fino al XX secolo l’unità monetaria standard in Cina. Ma gli effetti del commercio mondiale sulla società dei Ming andarono oltre, e arrivarono anche altri prodotti importanti: il mais, il tabacco, le arachidi e le patate. Queste piante, provenienti dal Nuovo Mondo, arricchirono l’agricoltura cinese e contribuirono all’impressionante crescita demografica dell’epoca Ming. Questa crescita vanificò i divieti di spostamento dell’imperatore Hongwu: a milioni si spostarono in cerca di terra e lavoro verso il sud e il sud-ovest; i mercanti attraversavano il paese in tutte le direzioni; gli eruditi si recavano per turismo a Suzhou, Nanjing e altre località famose; mentre i pellegrini (tra loro, anche molte donne) attraversavano l’impero in cerca dei luoghi sacri. La mobilità oltrepassava ogni limite: non soltanto quelli dei confini regionali e delle differenze di ceto, perché caddero anche le distinzioni culturali. Mentre prima la cultura alta si era tenuta accuratamente a distanza dalla massa, nacque ora una cultura popolare che seppe dare la propria impronta all’intera società. Determinante, per la diffusione della cultura popolare, fu la stampa, che si impose definitivamente nella società nel XVI-XVII secolo, quasi mille anni dopo la sua invenzione. Fino ad allora in Cina, nonostante parecchie pubblicazioni notevoli, i testi erano stati tramandati molto più in forma manoscritta oppure oralmente che per mezzo della stampa. Solo ora il basso costo della carta (grazie al commercio), l’affinamento delle tecniche di incisione (l’artigianato) e altri fattori abbassarono talmente il costo dei libri da poterne creare un mercato. Anche il popolo cominciava a leggere, e un numero sempre maggiore di opere non venne più scritto nel linguaggio letterario dell’élite, ma in una lingua vicina a quella parlata, inoltre anche i temi trattati, si avvicinarono di più ai gusti del popolo. Il primo decennio dell’imperatore Wanli (1572-1620) è considerato come un’epoca di pace, prosperità e buon governo. Sotto la guida severa del ministro Zhang Juzheng, uno dei massimi uomini di stato dei Ming, la dinastia conobbe un periodo di pace, in cui le casse dello stato erano stracolme e l’amministrazione funzionava. Presto, però, la situazione peggiorò. L’imperatore Wanli non si curava del governo, tanto che per 25 anni evitò le udienze, e si rifiutava anche di ricevere gli alti funzionari, lasciando perfino che molti posti, una volta tornati liberi, restassero vacanti. Wanli non puniva neppure i suoi critici: si limitava a ignorarli. In mancanza di una guida forte, la corte si dilaniò in guerre tra cricche, mentre il potere si concentrava sempre più nelle mani degli eunuchi. L’imperatore Hongwu li aveva rigorosamente tenuti lontani dalla politica, ma già Yongle ne aveva nominato qualcuno ammiraglio, e a partire dall’era di Zhengtong avevano avuto le mani in pasta dappertutto, diventando sempre più potenti e determinanti. Sotto Wanli, gli eunuchi ebbero l’incarico di esattori in tutto il territorio dell’impero, cosa che assicurò loro entrate sconfinate. La storiografia cinese tradizionale ha dichiarato responsabili della caduta dei Ming le lotte sotterranee a corte. La scienza moderna fornisce un’altra spiegazione: la colpa sarebbe delle finanze. I Ming, legati alla mentalità taccagna del fondatore della dinastia, non erano mai riusciti a prelevare abbastanza dalle ricchezze dell’impero. La maggior parte delle entrate, servivano al mantenimento della famiglia imperiale e dell’esercito, che però restava molto sottopagato. Alcune unità rimasero per anni senza paga, mentre i soldati disertavano a frotte, tanto che, in alcune guarnigioni, restava solo una minima parte degli effettivi previsti. Inoltre, verso la fine del secolo, la dinastia dovette affrontare parecchie campagne dispendiosissime, che contribuirono a logorarla ulteriormente dal punto di vista finanziario. Tutto cominciò quando, nel 1592, il maresciallo giapponese Toyotomi Hideyoshi (1537-1598) entrò nel Choson e i Ming mandarono in soccorso un grosso esercito, mentre combattevano ancora in Corea. Intanto, nei territori della Manciuria, si andava formando un nuovo avversario. Lì vi vivevano tribù tunguse di cacciatori e allevatori di maiali, che si dicevano discendenti dei Jurchen e che avevano da sempre recato tributi ai Ming, soprattutto pellicce e ginseng. Ma verso la fine del XVI secolo esse iniziarono ad avanzare verso sud. Forse, il clima estremamente rigido di quegli anni aveva cominciato a minacciare la loro sopravvivenza. Mentre le truppe dei Ming erano impegnate in Corea, Nurhaci (1559-1626), il comandante del clan Aisin-Gioro, riuscì a riunire le tribù dei Jurchen e fondò una confederazione altaica di tribù che organizzò sotto quattro (più avanti sarebbero diventate otto) «bandiere»: unità militari delle quali facevano parte anche le famiglie dei soldati. Nurhaci compì, nel 1616, tre atti altamente simbolici. In primo luogo, fondò un impero, che chiamò «Aisin», «dorato»: lo stesso nome che aveva guidato la dinastia Jurchen; secondo, assunse il titolo di khan, ponendosi quindi come successore di Gengis Khan; terzo, come nome di regno del suo governo assunse il cinese tianming, «mandato del cielo». Avanzava in tal modo tre pretese: voleva essere signore dei Jurchen, dei Mongoli e dei Cinesi. Nel 1618 dichiarò infatti apertamente guerra ai Ming, e negli anni seguenti occupò prima il territorio del Liaodong, a est della Grande Muraglia, e poi fece di Mukden (l’odierna Shenyang) la propria capitale, giungendo fino ai confini con l’impero Ming. Con l’avanzata verso ovest, anche molti cinesi divennero sudditi dei Manciù, e il carattere del loro dominio iniziò quindi a trasformarsi. Questo mutamento fu evidente dopo la morte di Nurhaci, quando il suo ottavo figlio, Hong Taiji (1626-1643), proseguì la sua opera. Nel 1632 inflisse una sconfitta decisiva ai Mongoli Cahar, guidati dal gran qa’an Ligdan, e ne prese le insegne di comando, tra le quali, pare, il sigillo imperiale degli Yuan; introdusse il nome di «Manciù» per il suo popolo e chiamò la propria dinastia «Daicing». Questi nomi non riportano né a tradizioni cinesi né a tradizioni jurchen; parrebbero piuttosto di origine mongolica, perché forse «Daicing» deriva dalla parola mongolica daicin, «guerresco, eroico», e «Manciù» è un nome diffuso tra i Mongoli, un’abbreviazione di quello del bodhisattva Mañjuśrī. Col suo duplice riferimento, il nome «Manciù» non esprime solo l’aspirazione all’eredità politica dei Mongoli, ma anche quella al loro legame religioso con il Tibet. I khan dei Mongoli si erano presentati come reincarnazioni di bodhisattva, e i Manciù dovevano imitarli, appoggiando il potere dei «Berretti Gialli» in Tibet e contemporaneamente legittimando il proprio potere con la religione. Il loro modello era infatti l’impero mondiale dei Mongoli. Nel 1636 le truppe di Hong Taiji entrarono in Corea, conquistarono Seul, negli anni successivi fecero irruzione anche nell’impero Ming, minacciando Beijing, saccheggiando e incendiando innumerevoli località della Cina settentrionale. I Ming avevano poche possibilità di opporsi a queste scorribande. Le casse dello stato erano vuote, le importazioni di argento frutto del commercio estero erano diminuite, e anche gli introiti fiscali erano in calo, inoltre una serie di catastrofi naturali avevano causato raccolti così scarsi che molti contadini non riuscivano più a pagare le tasse. I contadini si impoverivano, mendicanti e disperati vagavano per il paese, mentre si diffondeva il cannibalismo e i banditi spargevano il terrore. In parecchie regioni esplosero epidemie devastanti, che ridussero città e campagne a deserti. In questo scenario apocalittico, un certo Li Zicheng (c. 1605-1645) riunì intorno a sé, nello Shaanxi, un esercito ribelle con il quale attraversò gran parte della Cina, fino ad arrivare a Beijing, dove le truppe dei Ming, che da cinque mesi non ricevevano la paga, non opposero praticamente resistenza. L’ultimo imperatore Ming fuggì sulla collina a nord della Città Proibita e si impiccò. Prima, narra la tradizione, scrisse le ultime volontà con il proprio sangue sulle pareti del suo palazzo: «Meglio che i banditi squartino il mio cadavere, piuttosto che sia fatto del male anche a uno soltanto del mio popolo!» Il suo desiderio non fu esaudito. Le truppe di Li Zicheng infuriarono nella capitale, uccisero i funzionari dei Ming, saccheggiarono le abitazioni private, finché non furono scacciate: non dai Ming, ma dai Manciù. Il generale dei Ming Wu Sangui (1612-1678), che era di stanza ai confini con la Manciuria, si trovava di fronte all’alternativa se sottomettersi ai ribelli o allearsi con i Manciù. Scelse quest’ultima opzione, si rasò il capo e chiese aiuto al comandante delle truppe mancesi, Dorgon (1612-1650). Dopo che le truppe di Dorgon ebbero preso Beijing, ci rimasero – per 268 anni. Beijing divenne la nuova capitale della dinastia Daicing, ora più nota con il suo nome cinese, Qing. I Manciù erano così i nuovi signori della Cina. LA DINASTIA QING (1644 – 1911) Sotto i Ming, i Cinesi portavano i capelli lunghi, fermati dietro in una crocchia. Soltanto i Manciù, come prima i Jurchen e i Mongoli, ordinarono ai Cinesi di radersi la parte anteriore del capo e di intrecciarsi il resto dei capelli in un codino sulla nuca. Il codino era un segno di assoluta sottomissione al nuovo sovrano: dibattito, e ciò accadde mediante la scelta dei titoli, ma anche grazie a un’opera massiccia di censura. Non solo vennero censurati passi ambigui, ad esempio a proposito dei «barbari», ma al progetto Siku quanshu fu collegata una vera e propria inquisizione letteraria. Tutte le opere che esprimevano fedeltà ai Ming o astio verso i Manciù, o anche soltanto indicavano il nome segreto degli imperatori Qing, vennero distrutte. Non a caso la censura fu più forte che mai, nell’epoca di Qianlong. Durante il suo impero l’erudizione cinese raggiunse un nuovo vertice: non con la dottrina ortodossa o la filosofia speculativa, ma con una filologia che non voleva essere né l’una né l’altra. «Esaminare i fatti per raggiungere il giusto» (shishi qiushi), fu il motto di questi eruditi. Soltanto l’erudizione «sostanziale» (shixue) o «critica» (kaozheng xue) poteva offrire un rimedio. Si intendeva con ciò il passaggio dal pensiero deduttivo a quello induttivo, che parte dal principio di non partire più da principî. Le affermazioni non valgono più in base all’autorità, ma solo in base alle prove che vengono addotte a loro favore. Yan Ruoju mostrò anche che gran parte del canonico Libro dei documenti (Shujing) era una falsificazione: uno dei risultati più spettacolari dell’erudizione critica. Affrontò, con altri eruditi, il canone confuciano con tutti i mezzi della filologia. L’epigrafia, lo studio delle iscrizioni antiche, divenne una disciplina importante, ma più ancora la critica del testo: la rigorosa comparazione di tradizioni diverse, allo scopo di stabilire la stesura originaria del testo. Il rifiuto delle autorità, l’indagine critica e perfino il dubbio sugli scritti canonici c’erano già stati, in precedenza: ma l’erudizione dell’epoca Qing arrivò come una rivoluzione, per la radicalità, l’ampiezza e la consequenzialità dei suoi procedimenti. Era un risultato della rivoluzione mediale del XVI-XVII secolo. Con la diffusione della stampa, la ricerca ebbe a disposizione molti più libri di prima, e quindi il rapporto coi testi mutò in modo fondamentale. Anche l’uso della lettura ripetuta, volto alla memorizzazione di contenuti sempre uguali, quale era stata consigliata una volta da Zhu Xi, non venne più richiesta, ma fu sostituita da letture estensive di testi diversi. I libri a stampa stimolano al confronto, mettendo davanti agli occhi la molteplicità del sapere, e anche le sue contraddizioni. Non si tratta più di conservare un sapere (un problema che, con la stampa dei libri, non esiste più), né di sistematizzarlo, ma di esaminare, di ampliare, di sostituire. Il sistema degli esami esigeva solo la ripetizione stereotipata dell’ortodossia e dunque molti di questi eruditi non intrapresero la carriera del funzionario, ma fecero il consigliere, o il docente in qualche accademia locale, dove nacque per la prima volta, nel XVIII secolo, qualcosa di simile a una scientific community, i cui membri facevano della scienza la loro professione: acutissimi filologi che si ponevano questioni altamente specialistiche e risolvevano problemi che senza di loro nessuno si sarebbe mai posto. Tuttavia, proprio questi personaggi stravaganti divennero un problema per la dinastia. Dove non venivano riconosciute autorità, si sviluppava un potenziale critico che poteva rivolgersi velocemente contro lo stato. Lo smascheramento di parti dello Shujing come false colpiva al cuore anche l’ortodossia statale, che poggiava proprio su quelle scritture. Gli eruditi kaozheng dovevano essere frenati: non stupisce che più di 300 di loro venissero impiegati per il progetto Siku quanshu. Qualcosa di simile accadde anche alle arti: i pittori si staccarono dalla tradizione e sperimentarono forme espressive nuove. Se però l’arte spezzava le catene delle convenzioni, tanto più saldamente gli imperatori Qing l’accoglievano nelle loro braccia. Kangxi e Yongzheng erano appassionati calligrafi, e allestirono grandi atelier per la pittura di corte, Qianlong acquistò raccolte d’arte private in tutto il territorio dell’impero e commissionò innumerevoli opere d’arte negli atelier e nelle officine imperiali. Sorvegliava di persona l’esecuzione di tali opere, poi concedeva il suo sigillo. In tal modo, Qianlong imprimeva letteralmente il proprio marchio all’arte. Non solo allestì la raccolta imperiale, ma plasmò il gusto della propria epoca e creò un canone artistico che restò esemplare a lungo, fissato negli splendidi cataloghi delle sue collezioni. Ma, in quanto sovrano in un sistema autoritario, il patrocinio delle attività artistiche gli serviva per tenerle sotto controllo, raccogliendo pittura classica e conservatrice, ignorò le opere dei fedeli dei Ming. Così come aveva già fatto prendendo gli eruditi sotto la sua protezione, anche favorendo l’arte tarpò in realtà la libertà del dibattito. L’epoca che va da Kangxi a Qianlong, dal 1662 al 1796, segna l’apogeo della dinastia Qing, e forse dell’impero cinese in generale. I Qing erano sovrani dei Mongoli e dei Cinesi, e protettori dei lama tibetani; avevano sottomesso i popoli musulmani del Turkestan orientale, avevano conquistato Taiwan, a sud-ovest avevano scacciato i Miao e avevano incorporato nell’impero le odierne province dello Yunnan e del Guizhou. L’impero dei Qing godeva di pace e benessere. La conquista dell’impero Ming aveva portato, soprattutto nella Cina meridionale, all’abolizione dei grandi latifondi e all’ascesa dei piccoli coltivatori liberi. Inoltre, i Manciù fin dall’inizio avevano affrontato energicamente l’evasione fiscale e avevano fatto in modo che gli introiti delle casse dello stato fossero più regolari. La produzione agricola aumentò grazie all’impiego massiccio di concime tratto da residui di cotone, colza e soia, alla coltivazione dei frutti arrivati dal Nuovo Mondo e alla diversificazione regionale. Fioriva anche il commercio anche oltremare. Per far fronte alla crescita demografica i Qing favorirono la coltivazione di nuovi terreni. Ridussero o abolirono le tasse, misero a disposizione sementi e animali da tiro, promisero perfino posti da funzionario in premio a chi avesse dissodato ampie superfici. Si colonizzarono le zone che si erano spopolate durante le guerre e ovunque vi era il benessere. Si raggiunse un grado di urbanizzazione quale non si era mai più visto dall’epoca Song. Con l’urbanesimo e la maggiore mobilità mutò anche il ruolo delle donne. In assenza dei mariti, gestivano le finanze domestiche, concedevano prestiti, si impegnavano negli affari, istruivano i figli, e anche con il pennello furono pari agli uomini. La scoperta dell’amore individuale svelò poi la possibilità di vedere nelle donne coniugi esattamente alla pari, quando ciò non venisse impedito dai matrimoni combinati. «Le inclinazioni di Yun coincidono con le mie», scrive a proposito di sua moglie Shen Fu (nato nel 1763), nei suoi Sei racconti di vita irreale. Entrambi sanno godere insieme dell’arte e della letteratura, ed egli sospira: «Peccato che tu sia una donna e debba startene nascosta! Se si potessero mutare le donne in uomini, potremmo andare a visitare insieme i monti e tutte le belle cose degne di essere viste. Tutto il paese potremmo attraversare. Non sarebbe un piacere?». Non solo i piedi fasciati impedivano alle donne di attraversare il paese, me anche lo stato faceva il possibile per tenerle in casa. Nel tentativo di mantenere l’ordine sociale, i Qing nel XVIII secolo propagandarono l’ideale delle «caste vedove» (jiefu). Per impedire che le giovani vedove si risposassero, lo stato rendeva onore alle famiglie in cui le donne rimaste vedove al di sotto dei 30 anni fossero rimaste fedeli alla memoria del marito almeno fino ai 50. Ancora oggi, scrigni e archi di pietra ricordano le caste vedove e il loro culto: sono testimonianze di un fondamentalismo confuciano che si manifestò proprio quando l’ordine sociale gerarchico andava dissolvendosi. Bisognava onorare le caste vedove proprio perché molte donne cominciavano a scuotersi di dosso i legami della castità e della sottomissione. Nel XVIII secolo, lo splendore dell’impero cinese raggiunse l’Europa. I missionari avevano provveduto a inviare dalla Cina resoconti appassionanti, che non soltanto suscitarono un vasto entusiasmo per le cineserie (porcellane, padiglioni, ombre cinesi, tè), ma affascinarono anche i massimi pensatori dell’epoca: la «saggezza cinese» e la loro «speciale intelligenza delle cose nell’amministrazione dello stato» erano ammirate ovunque. L’entusiasmo per la Cina era certo dovuto soprattutto alla sua distanza dall’Europa (il viaggio per andarci durava più di un anno). Questa distanza era necessaria alla trasfigurazione dell’immagine della Cina, e permetteva anche che fosse tanto ammirata. Senza il rischio di un contatto reale, la Cina poté sempre essere stilizzata come l’assolutamente altro: come ciò che era diametralmente opposto all’Europa, nel bene come nel male. Quanto fosse radicale la reciproca incomprensione tra Europa e Cina apparve nel modo più chiaro alla fine del XVIII secolo, quando per la prima volta i due mondi si confrontarono sul piano politico. Nel frattempo, davanti alle coste cinesi non veleggiavano più soltanto le navi portoghesi, spagnole e olandesi. Anche gli Inglesi erano entrati nel commercio delle spezie dell’Oceano Indiano già dal XVII secolo. Tanto la East India Company, semistatale, quanto alcuni mercanti privati avevano ben presto allargato la loro attività facendo scambi commerciali con India e Cina. In Cina arrivavano cotone dall’India e lana, tessuti e metalli inglesi, mentre gli Inglesi importavano porcellane, seta, rabarbaro, lacche, spezie, e soprattutto il tè. Il tè era stato introdotto in piccole quantità come bevanda esotica dagli effetti medicinali e guadagnò una popolarità enorme, fino a diventare una parte ineliminabile della vita quotidiana in Inghilterra. Ogni anno arrivavano in Cina 10 milioni di dollari d’argento: un affare lucrosissimo, per i commercianti cinesi. Per gli Inglesi, però, le condizioni si erano fatte meno vantaggiose. I Qing registravano il commercio con l’Inghilterra come un tributo, cioè come un privilegio che essi concedevano a quei «barbari» e che poteva essere limitato in ogni momento. Gli alti dazi e le cavillose «sovrattasse» destinate ai funzionari locali ridussero i profitti degli Inglesi, ai quali inoltre vennero vietati, tutti i porti eccetto Guangzhou. E anche lì dovevano adeguarsi a un rigido regolamento. Il commercio era consentito solo passando per ditte cinesi autorizzate, le cosiddette hong (in cinese, yanghang), che ne traevano guadagni enormi. Inoltre, il commercio era limitato a una sola stagione, più o meno da ottobre a gennaio, e a Guangzhou gli stranieri potevano muoversi soltanto in zone determinate, non era loro concesso imparare il cinese, alle loro mogli non era consentito il soggiorno, e inoltre dovevano adeguarsi al diritto cinese, compresa la pena di morte per strangolamento. Di fronte a questi incomodi e a terms of trade che si facevano sempre più sfavorevoli, il governo britannico decise infine di inviare a Beijing un’ambasceria diplomatica. Questa missione fu affidata a George Macartney (1737-1806), un nobile irlandese che era stato già inviato come diplomatico in Russia e in India. Il suo compito era di raggiungere un accordo con l’imperatore della Cina per ottenere maggiori diritti per il commercio inglese e per stabilire regolari contatti diplomatici con i Qing. Nel 1793 la flotta di Macartney, con un carico di orologi, strumenti astronomici, vetri, argenti, tappeti e perfino vasi di porcellana Wedgwood per l’imperatore, arrivò a Tianjin. Di lì la missione, come prescriveva il protocollo per le ambascerie dei paesi tributari, fu accompagnata a Beijing e a Jehol, dove l’imperatore Qianlong trascorreva l’estate. L’imperatore, mite e saggio, si rallegrò molto della visita di quegli stranieri. Mentre Macartney pensava di aver incontrato «re Salomone in tutto il suo splendore», per l’imperatore Qianlong l’ambasceria inglese era solo una delle tante missioni di tributi che accoglieva continuamente: erano certo gradite, dovevano manifestargli il loro rispetto e poi tornarsene a casa. Macartney aveva già irritato l’imperatore rifiutando la genuflessione obbligatoria (che consisteva nel mettersi tre volte in ginocchio, battendo nove volte la testa a terra): toccò infatti il suolo con un solo ginocchio, come era abituato a fare davanti al proprio re. Se Qianlong questo l’aveva ancora tollerato, dovettero però sembrargli sfacciate le richieste inglesi alla seconda udienza: pensavano seriamente di poter aprire una rappresentanza commerciale a Beijing. L’imperatore Qianlong rispose a tanta arroganza con un editto rivolto a re Giorgio III che fece storia. A Jehol si erano affrontati, per la prima volta nella storia della Cina, due imperi, i Qing e l’Inghilterra: due grandi stati di importanza mondiale, i cui ordinamenti pretendevano di avere validità universale. Ma questi ordinamenti non erano conciliabili l’uno con l’altro e il conflitto era inevitabile. Se la crescita demografica aveva garantito fino a quel punto la ricchezza della Cina, ora poteva diventare un pericolo per la società cinese. I limiti di espansione del terreno coltivabile erano stati ormai raggiunti, le rendite agricole diminuirono, e a fronte della crescita demografica lo standard di vita non migliorò più, ma al contrario si abbassò. I contadini «vivevano in capanne ricoperte di paglia, indifesi dalla pioggia e dal vento, non mangiavano che semi crudi, mescolati a pula e a bucce». La riduzione delle risorse, accompagnata a un’oppressione fiscale sempre crescente, dovuta alle guerre e alla corruzione, creò una quantità di giovani senza prospettiva, che non avevano a disposizione né terra né donne per fondare un proprio nucleo familiare. Questa polveriera esplose quando nel 1796 l’imperatore Qianlong, dopo sessant’anni di regno, lasciò il trono (non voleva superare il periodo di governo di suo nonno, che era durato altrettanto). Quello stesso anno scoppiarono rivolte nei territori di confine e, come già alla fine dell’epoca Yuan, per anni i ribelli, col nome di «Loto Bianco», imperversarono nella regione conducendo una lotta di guerriglia contro i Qing. Solo con enormi sforzi, bloccando gli approvvigionamenti e formando milizie locali, l’imperatore Jiaqing (1796-1820) riuscì a soffocare la rivolta. Ma ancora dovette subirne gli strascichi, quando una frangia del Loto Bianco irruppe nella Città Proibita e per poco non riuscì a ucciderlo. La debolezza del governo Qing non era una novità. A causa di funzionari corrotti, lo stato aveva perso fondi durante la lotta contro il Loto Bianco, tanto che i Qing, per finanziare le truppe, dovettero chiedere denaro ai commercianti di sale e tagliare gli stipendi ai funzionari, mentre i funzionari a loro volta si rifacevano sul popolo introducendo sovrattasse: la corruzione generava altra corruzione. Anche questa diffusa corruzione era una conseguenza della crescita demografica. Infatti, mentre aumentava costantemente il numero di coloro che affrontavano il sistema degli esami e raggiungevano un titolo accademico, il numero dei posti da «Adoratori di Dio» (Bai Shangdi hui), con cerimonie ispirate a quelle cristiane e con un’ideologia radicalmente egualitaria, che andava contro tutte le dottrine alla base della società confuciana. Hong Xiuquan predicò una sorta di comunismo agrario, grazie al quale sarebbe stata abolita la proprietà terriera e i campi sarebbero stati coltivati collettivamente, ci sarebbe stata la parità dei sessi, la fasciatura dei piedi e il concubinato sarebbero stati vietati tanto quanto l’oppio, l’alcool e il gioco d’azzardo. Probabilmente, alle decine di migliaia di seguaci di Hong Xiuquan la cosa era indifferente. Questi poveracci sradicati avevano solo bisogno di una giustificazione ideologica, una qualsiasi, per ribellarsi violentemente. Nel 1850, si tagliarono il codino e diedero inizio a una rivolta che in breve si estese dal Guanxi fino al sud dell’impero. Interi villaggi si aggregarono alle loro truppe, tanto che i Taiping, come vennero chiamati, divennero presto un esercito di un milione di uomini. Dopo una cruenta marcia attraverso il sud, nel 1853 conquistarono Nanjing e ne fecero la loro «capitale celeste». La ribellione dei Taiping fu la più vasta e sanguinosa guerra civile nella storia mondiale. Un’avanzata verso il nord fallì, ma in pratica tutto l’impero, a sud dello Yangzi, era in mano ai Taiping. La rivolta dei Taiping sarebbe forse bastata da sola a distruggere i Qing, ma non fu affatto l’unica. A partire dagli anni ’50 del XIX secolo, inoltre, il Tibet fu di fatto indipendente, 16 delle 18 province dell’impero si ribellarono contro il dominio Qing, ampi territori furono devastati, la popolazione diminuì. L’impero Qing iniziava a dissolversi. Tuttavia, si salvò grazie agli Europei, infatti, anche dopo il trattato di Nanjing, i problemi con gli Inglesi non erano affatto finiti. Da un lato, i Cantonesi erano estremamente ostili nei confronti degli stranieri, provocavano scontri e mantenevano una pesante atmosfera xenofoba. Dall’altro, neppure gli Inglesi potevano essere soddisfatti, perché il commercio con la Cina non andava come previsto. Le importazioni dalla Cina (tè e seta, principalmente) superavano di nove volte le esportazioni: una bilancia commerciale che non permetteva agli Inglesi di finanziare le loro colonie in India, Singapore e Hong Kong. Soltanto con l’oppio la situazione poteva migliorare, ma per accrescerne la vendita era necessaria una nuova guerra. Nel 1856 gli Inglesi approfittarono di un incidente di scarso rilievo (la polizia cinese aveva arrestato alcuni contrabbandieri a bordo della nave anglo-cinese Arrow e, così almeno si disse, aveva fatto ammainare la bandiera inglese) per scatenare una nuova guerra contro la Cina. Quell’oltraggio alla bandiera fu infatti sufficiente come pretesto per «riversare tutta la potenza inglese contro la vita di uomini disarmati». Dopo che fu bombardata Guangzhou, Palmerston mandò nuovamente una flotta contro la Cina, e questa volta si unirono ad essa anche i Francesi, che usarono come pretesto l’uccisione di un missionario. Di nuovo i Qing dovettero capitolare di fronte allo strapotere delle cannoniere occidentali, di nuovo dovettero piegarsi a sottoscrivere un umiliante trattato di pace. Nel trattato di Tianjin, che fu discusso nel 1858, i negoziatori dovettero accettare l’accreditamento di ambasciatori a Beijing, l’apertura di altri dieci porti al commercio, la libertà di movimento in tutta la Cina per gli stranieri, e in specie per i missionari, l’abbassamento dei dazi, elevati risarcimenti di guerra a favore dell’Inghilterra e della Francia, e infine la legalizzazione dell’oppio. Gli Europei imposero con la forza delle loro armi il «libero commercio del veleno». Poiché l’imperatore Xianfeng esitava a ratificare il trattato di Tianjin, gli alleati mandarono altri soldati contro Beijing. Queste truppe inflissero dure sconfitte a quelle dei Qing, e infine nel 1860 occuparono la capitale, mentre l’imperatore era già fuggito a Jehol. Quello che accadde in seguito va annoverato tra gli atti di maggior barbarie nella storia delle relazioni tra Cinesi ed Europei. Dopo che le truppe francesi ebbero saccheggiato il Palazzo d’Estate (Yuanming yuan), a nordest di Beijing, le truppe inglesi misero a ferro e fuoco tutta l’area. Veniva così distrutta una «meraviglia del mondo». Oggi, soltanto le rovine dei palazzi che un tempo vi costruirono i gesuiti ci ricordano ancora lo Yuanming yuan. Il Palazzo d’Estate era probabilmente l’ultimo monumento di quell’impero «più colto del mondo» che aveva tanto esaltato la fantasia degli Europei. Distruggendo questo simbolo, gli Inglesi colpirono al cuore la dinastia Qing. Il fratello dell’imperatore Xianfeng, il principe Gong (1833-1898), incaricato di trattare con gli stranieri, dovette ratificare, volente o nolente, il trattato di Tianjin. Non soltanto l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti ne approfittarono, ma anche la Russia colse l’occasione per ottenere le condizioni più favorevoli e per far valere le proprie pretese in Cina. Già nel 1851 i Russi si erano assicurati diritti di commercio nel territorio dell’Ili, ora costrinsero i Cinesi ad aprire Ulan Bator (Mongolia) al commercio e soprattutto a cedere i territori a nord dell’Amur e a est dell’Ussuri: questi confini durano ancora oggi. La seconda guerra dell’oppio, che fu portata fino a Beijing, scosse i Qing molto più della prima, che era stata combattuta soltanto nel lontano sud. Nel 186, dopo la morte dell’imperatore Xianfeng (1861) era salito al trono, a soli sei anni, il figlio di una concubina, con il nome di regno «Perfetto Ordine» (Tongzhi). Ma quell’ordinamento finì presto, perché la concubina, insieme al principe Gong e altri, con un colpo di mano si impadronì del governo, pur operando solo dietro le quinte. Il suo nome era Cixi (1835-1908). Ella riuscì a mantenere al potere la dinastia, che era sull’orlo dell’abisso, e i Qing, infatti, si rafforzarono talmente che l’era Tongzhi (1862-1875) viene indicata come la «restaurazione» (zhongxing). La restaurazione Tongzhi non segnò tanto il ripristino dell’antico quanto piuttosto l’apertura verso un nuovo ordinamento. I Qing avevano dovuto constatare che i barbari dopo i trattati si sono ritirati da Tianjin e hanno fatto vela verso il sud, e che tutte le loro richieste si riferiscono sempre ai trattati. È chiaro che i barbari non vogliono il nostro paese, né il nostro popolo. Ora si fece strada, nel governo, l’idea che gli Occidentali potevano essere controllati mediante un’abile diplomazia: iniziava così una nuova fase politica di distensione. Per la prima volta nella storia fu fondata una sorta di Ufficio affari esteri, sotto la guida del principe Gong, che aveva già seguito i trattati dal 1860. In questo modo, la politica estera veniva scollegata dal Ministero dei riti e dal contesto del sistema dei tributi: un primo passo verso una politica estera moderna. Inoltre, vennero fondate scuole per l’insegnamento delle lingue e delle scienze occidentali. Partì poi per l’Inghilterra un primo gruppo di visitatori, sia pure in forma non ufficiale; i Qing inviarono alcuni giovani in America per studiare all’estero; pochi anni dopo accreditarono loro rappresentanze diplomatiche a Londra, Parigi e Washington. Viceversa, numerose città e stati europei ottennero proprie rappresentanze in Cina. Questo atteggiamento parve agli occidentali come una sottomissione, ma era più un «apprendere le tecniche dei barbari e in tal modo controllarli», e proprio questo volevano i Qing. L’alto funzionario Zhang Zhidong (1837-1909) compendiò più tardi questa politica in una formula concisa: «dottrina cinese per i principî, dottrina occidentale per l’impiego pratico» (zhongxue wei ti, xixue wei yong). I «principî» e l’«impiego pratico»: si intendevano con quest’ultimo le scienze applicate, con i primi l’immutabile «relazione tra sovrano e suddito, come tra padre e figlio». Pur con ogni apertura al nuovo, l’ordinamento complessivo della società non doveva essere toccato. Quanto il panorama politico dell’impero Qing fosse frammentato è chiaro dall’interpretazione che l’«autorafforzamento» ebbe nel sud. Laggiù, gli eruditi cinesi erano a contatto diretto con Europei e Americani e l’ampliamento del mercato librario cinese aveva creato i migliori presupposti per la conoscenza del sapere occidentale, che veniva appoggiato. Non importava il mantenimento della dinastia, ma la salvezza del paese. Gli alti funzionari di provincia dei Qing non perseguissero gli stessi scopi della dinastia. Poiché le truppe governative dei Qing non erano in grado di contrastare i ribelli Taiping, alcuni governatori di provincia iniziarono a organizzare milizie proprie, facendosi aiutare dagli stranieri. E da lì gli uni e gli altri combatterono insieme i Taiping, con armi occidentali. Nel 1864, i Taiping furono annientati e la loro devastante ribellione, dopo 14 anni, ebbe fine. In tutti questi eventi il governo centrale non ebbe quasi parte: gli impulsi all’autorafforzamento non vennero da Beijing, ma da Shanghai; esso non fu promosso dall’imperatore, ma da governatori delle province; non le truppe dei Qing, organizzate in bandiere, combatterono e sconfissero i Taiping, ma le milizie della Cina meridionale. Funzionari di provincia aprirono e gestirono industrie d’armi nel sud, vennero acquistate armi occidentali per armare truppe cinesi, e inviati speciali cinesi si recarono in Occidente per procurarsi informazioni e materiali, ma mentre i governatori delle province spingevano i progetti di riarmo e di industrializzazione – anche per rinforzare le proprie truppe locali –, il governo centrale negò i finanziamenti e tassò talmente le industrie da costringerle a fallire o a cedere la proprietà agli stranieri. Anche il progresso tecnico-industriale non corrispose all’ambizione dei progetti. La costruzione di ferrovie, ad esempio, incontrò fortissime resistenze, perché le rotaie disturbavano il fengshui, la qualità geomantica del paese; le informazioni che gli inviati portavano dall’estero giungevano spesso in ritardo, o imprecise; le «traduzioni» di opere di meccanica occidentali non rispecchiavano quasi mai lo stato attuale della tecnica, per cui non ebbero alcun influsso sulla produzione di armi, e le armi stesse erano innocue. Quanto agli armamenti che venivano importati, mancava il personale addestrato per usarli. Anche la politica estera era in condizioni disastrose. Il sistema dei tributi era ormai carta straccia, e le potenze occidentali, inclusa la Russia, coglievano ogni occasione per avanzare richieste sempre più sfacciate, alle quali i Qing non erano in grado di opporsi. I tentativi del governo di Cixi per tenere insieme l’impero paiono tutti dettati dalla disperazione: concesse lo statuto di provincia al Xinjiang e a Taiwan, con l’intento di legarli formalmente a sé (il Tibet era da un pezzo fuori dalla sua portata), e nel 1884 dichiarò guerra alla Francia a causa del contrasto sul Vietnam (di cui la Francia si era impossessata). La politica di pace e l’«autorafforzamento» venivano così cancellati in un istante. In una battaglia navale svoltasi di fronte a Fujian i Francesi, nel giro di un’ora, distrussero undici delle più moderne navi da guerra cinesi, poi rasero al suolo il cantiere navale di Fuzhou, il fiore all’occhiello dell’industria cinese degli armamenti. Il colpo di grazia ai tentativi di modernizzazione dei Qing non lo diedero le potenze industriali dell’Occidente, ma il Giappone. Considerato il piccolo vicino di casa e l’allievo modello della Cina, almeno nominalmente ancora uno stato tributario dei Qing, in pochissimo tempo aveva sorpassato i Cinesi. Messi a confronto con la superiorità tecnico-militare dell’Occidente, a partire dal 1868 i Giapponesi, nell’era Meiji, avevano dato inizio a un ambizioso programma di riforme che superava di molto l’autorafforzamento dei Qing. Vi erano compresi l’accentramento del potere nelle mani dell’imperatore, l’abolizione della classe dei guerrieri (samurai), sostituita dalla leva obbligatoria, la nuova divisione amministrativa del paese, l’introduzione dell’obbligo scolastico, l’incoraggiamento dei nuovi metodi di coltivazione e, soprattutto, la costruzione di un sistema industriale moderno. Vennero costruite le ferrovie, una rete telegrafica unì le principali città, vennero fondate banche moderne e la tecnica occidentale fu adottata in tutti i rami della produzione. Nel 1870, il Giappone concluse un trattato con i Qing in cui entrambe le parti si riconoscevano come stati sovrani, con gli stessi diritti, successivamente, si intromise su Taiwan (1871) e occupò le isole del regno Liuqiu (1874), che i Qing consideravano uno stato tributario. Il maggiore motivo di frizione tra Giappone e Cina restava però la penisola coreana. Da secoli Choson era, per la Cina, un importante stato tributario e un cuscinetto contro il Giappone. Già i Ming erano intervenuti militarmente, quando i Giapponesi erano entrati in Corea con il loro esercito, e allo stesso modo i Qing ora pensavano di esserne i difensori. Choson, l’unico stato dell’Asia orientale che non si era ancora aperto all’Occidente, negli anni ’70 del XIX secolo era, dal punto di vista strategico, più importante che mai: i Francesi e gli Americani avevano più volte tentato di aprirsi con la forza un accesso in Corea, e anche la Russia guardava con interesse alla penisola. Non furono però le potenze occidentali a ottenere l’apertura della Corea, ma il Giappone. Nel 1875, approfittando della debolezza dei Qing, aveva attaccato la Corea e l’aveva costretta ad aprire tre porti e ad accettare uno scambio di rappresentanze diplomatiche. La Cina fornì a Choson armi moderne e stanziò truppe in Corea. Si giunse all’inevitabile conflitto con il Giappone. L’occasione fu offerta nel 1894 dalla ribellione degli adepti della «scienza orientale» (tonghak), una setta a carattere quasi religioso, contro la quale il governo coreano chiese l’aiuto cinese. Allo stesso tempo anche il Giappone inviò sue truppe in Corea, e fu subito evidente che non si interveniva contro la ribellione (che si esaurì rapidamente), ma per il predominio in Corea. Il conflitto fu deciso con una rapidità impressionante: l’esercito Qing fu distrutto, le piccole ma modernissime navi da guerra giapponesi inflissero gravi perdite alla flotta cinese. Le armi di produzione propria non erano assolutamente in linea col progresso della tecnica, e in caso di crisi non si poteva fare affidamento sulle forniture estere. Già nel conflitto con la Francia i Tedeschi avevano ritardato la consegna di due corvette corazzate. Quando infine queste navi erano state impiegate, mancava comunque il personale addestrato dal punto di vista tattico e tecnico a governarle. Le conseguenze per i Qing furono disastrose. A Shimonoseki, nella parte sud-occidentale dell’isola giapponese di Honshu, Li Hongzhang dovette firmare un trattato di pace che costringeva i Qing a risarcimenti di guerra, decretava «l’indipendenza» (di fatto: l’occupazione giapponese) della Corea, assegnava al Giappone Taiwan e il Liaodong, nella Manciuria meridionale, e concedeva ai Giapponesi il diritto di impiantare industrie in Cina. Anche se i Giapponesi, su pressione delle potenze occidentali, rinunciarono a occupare il Liaodong, la sconfitta contro il Giappone mise davanti agli occhi del mondo la debolezza dei Qing. Per pagare i danni di pezzo, e allora i Tedeschi si «vendicarono» sui contadini, contro i quali perpetrarono orrendi massacri, alla ricerca di Boxer nascosti. Mentre il governo era fuggito a Xi’an, nell’interno della regione (la patria mancese era stata infatti occupata dai Russi), queste truppe occuparono la città, distrussero il tempio sciamanico dei Qing e profanarono il palazzo imperiale. Vi rimasero per oltre un anno, e soltanto l’intervento degli Stati Uniti impedì che la Cina venisse interamente spartita in stile coloniale. I Qing vennero invece obbligati, col «protocollo dei Boxer», a punire i funzionari correi, a smantellare le fortezze, a garantire la sicurezza degli stranieri a Beijing, a istituire un Ministero degli esteri, a mandare una missione di scuse in Europa e a pagare in denaro come riparazione. In risposta, come nel 1860, la dinastia tentò un ultimo atto di forza mettendo in atto, dal 1901, una «nuova politica» (xinzheng), che doveva mutare radicalmente il sistema di governo. L’impulso non venne dal centro, ma dalle province. Vennero fondate le prime banche cinesi moderne, a conduzione statale, e furono incentivati gli investimenti cinesi nell’industria e nel commercio. Nacquero ditte e fabbriche cinesi, soprattutto nelle città portuali: per lo più si trattò di piccole e medie imprese, che però diedero un impulso importante allo sviluppo economico. Nelle città furono introdotte nuove norme di polizia e vennero prese misure come il divieto dell’oppio, del gioco d’azzardo e della prostituzione. Nel 1902 si vietò perfino la fasciatura dei piedi. Fu anche organizzato un esercito moderno, che dipese da un nuovo ministero, creato appositamente. Lo zongli yamen, una volta noto come «ufficio del ritardo», fu trasformato in un normale Ministero per gli affari esteri, e anche gli altri ministeri furono cambiati sull’esempio degli uffici stranieri. Inoltre, furono creati nuovi ministeri, come quello per l’industria e il commercio, per le poste e le comunicazioni, e per l’istruzione. I nuovi organi dello stato avevano bisogno di un apparato totalmente nuovo, per formare i loro funzionari in modo adeguato. Nel 1903 fu istituito un sistema scolastico quadripartito: dall’asilo, attraverso una scuola primaria di 9 anni e una media di 5, fino alle scuole superiori, che dovevano durare 11-12 anni. Ovunque vennero fondate scuole e università moderne, dal 1907 anche per le ragazze. Lo scopo dichiarato di questa riforma dell’istruzione era il rafforzamento dello stato dei Qing. La conseguenza fu la sospensione di tutti gli esami provinciali e anche quelli nella capitale. Nel 1905 i Giapponesi, dopo che il conflitto d’interessi con la Russia per la Corea si era inasprito, avevano sconfitto in modo clamoroso l’esercito russo in Manciuria. Per la prima volta nella storia moderna, un paese orientale aveva sconfitto militarmente una nazione industrializzata occidentale. Il Giappone occupò la Manciuria e fece della Corea un suo protettorato (la completa annessione seguì nel 1910). Cominciò a diffondersi in Occidente la paura del «pericolo giallo»: il Giappone, ma anche la Cina, apparvero improvvisamente come una minaccia per la civiltà occidentale. In Cina, la vittoria giapponese diede slancio alle riforme. Dopo l’abolizione degli esami per funzionari si sentì forte l’esigenza di una costituzione, come quella che il Giappone già possedeva. Dopo che generali e governatori delle province, ma anche vecchi riformisti, avevano chiesto una monarchia costituzionale, i Qing inviarono un gruppo di studio formato da cinque tra principi e funzionari in Giappone, negli Stati Uniti e in Europa, per studiare le costituzioni di quei paesi. Nonostante le forti opposizioni al progetto, nel 1908 fu pronto un abbozzo di costituzione; furono istituiti parlamenti provinciali e distrettuali, che dovevano essere il prodromo di un’assemblea nazionale. Venne incoraggiata anche la fondazione di associazioni professionali (camere di commercio, leghe agricole e degli insegnanti): erano adattamenti, da parte delle istituzioni, all’innegabile mutamento sociale. Le riforme della «nuova politica» toccavano in questo modo il punto centrale: erano la reazione al fatto che la società cinese non era più differenziata per strati, ma secondo le funzioni. Nel 1908 morì l’imperatrice vedova Cixi, e un paio di giorni prima anche l’imperatore Guangxu. Il suo successore fu Aisin Gioro Puyi (1906-1967), un bimbetto di due anni, fu un tipico «ultimo imperatore». La società cinese si trovava da tempo in una trasformazione strutturale irreversibile che non esigeva più solo riforme, ma una rivoluzione. La «nuova politica», che perseguiva lo scopo di rafforzare il governo dei Qing, aveva accelerato ulteriormente questa trasformazione. Al posto di fedeli sudditi, produceva dei rivoluzionari: le scuole moderne formavano teste critiche, le imprese moderne partorivano duri capitalisti, nell’esercito di recente formazione ufficiali consapevoli si organizzavano, i parlamenti locali diventavano luoghi di contestazione del centro, i borghesi illuminati si trasformavano in nazionalisti. Ora si mostrava il rovescio della medaglia del nazionalismo, che non definiva la nazione per mezzo dell’inclusione, ma dell’esclusione: era il razzismo. Diversi pensatori non si concepivano come «Cinesi» (Zhongguo ren) nel senso ampio di sudditi dei Qing, ma nel senso etnico di «Cinesi-Han» (Hanren), che discendevano tutti dall’Imperatore Giallo, e in quanto Cinesi- Han, tenevano le distanze da tutti gli stranieri, Manciù compresi, e volevano una «Repubblica cinese» (Zonghua minguo) senza Manciù, Tibetani, Mongoli e popolazioni turche. L’uomo che divenne il «padre della rivoluzione cinese», Sun Yat-sen (1866-1925) veniva da Xiangshan, una piccola località tra Guangzhou e Macao. In quella regione gli influssi occidentali erano particolarmente forti, e si fecero sentire anche sul giovane Sun Yat-sen, che non ebbe un’educazione confuciana, ma studiò medicina occidentale, prima a Honolulu poi a Hong Kong, e si convertì perfino al cristianesimo. Dopo aver tramato, nel 1895, una rivolta contro il governo locale a Guangzhou, Sun dovette fuggire in Giappone (dove prese il nome di Zhongshan, col quale ancora oggi è conosciuto in Cina). E probabilmente sarebbe rimasto un rivoluzionario da strapazzo, se non fosse stato per un fortunato incidente. Nel 1896, mentre si trovava a Londra, Sun venne arrestato da alcuni funzionari dei Qing e trattenuto per dodici giorni all’interno dell’ambasciata. Il caso finì sulla stampa, ed egli fu rilasciato in seguito alle pressioni del governo inglese. Dalla sera alla mattina Sun era diventato un uomo celebre: un abile, acuto intellettuale, il vessillo stesso della rivoluzione cinese. Negli anni successivi Sun Yat-sen viaggiò per il mondo a propagandare la sua causa e chiedere appoggio economico, soprattutto tra i Cinesi all’estero. Nel frattempo, formulò la sua teoria fondamentale, i «tre principî del popolo» (san min zhuyi). Fino alla morte, Sun sviluppò e precisò tali principî in numerose conferenze: Che cosa sono dunque i «tre principî del popolo»? Sono i tre principî della «stirpe del popolo» [minzu], del «diritto del popolo» [minquan] e del «benessere del popolo» [minsheng]. Il «principio della stirpe del popolo» significa che tutti i popoli del mondo sono uguali, e nessun popolo può essere schiacciato da un altro popolo […] Il «principio del diritto del popolo» significa che tutti gli uomini sono uguali e insieme costituiscono un popolo, e che nessuna minoranza può schiacciare la maggioranza […] Il «principio del benessere del popolo» significa che povero e ricco sono di rango uguale, e che i ricchi non possono schiacciare i poveri. L’attrattiva della dottrina di Sun stava nel fatto che essa univa sia l’aspetto inclusivistico sia quello esclusivistico del concetto di nazione: il concetto della «stirpe del popolo», che implicava la resistenza ai Qing e l’autodeterminazione dei Cinesi, delimitava questi ultimi rispetto ad altre nazioni, pur d’uguale rango, mentre i concetti del «diritto del popolo» (Sun parlava anche di elezioni e di parlamentarismo) e del «benessere del popolo» (intendeva, in concreto, la ridistribuzione delle terre e una tassazione giusta) riconoscevano a tutti gli strati sociali uguali diritti politici ed economici. I principî di Sun Yat-sen affascinarono innanzitutto gli studenti cinesi in Giappone, dove, insieme ad altri rivoluzionari, fondò la Lega giurata rivoluzionaria cinese (Zhongguo geming tongmeng hui, o semplicemente Tongmeng hui). La Lega giurata non era affatto formata dal «popolo comune», ma prevalentemente da intellettuali borghesi, eppure questo non pregiudicò il suo slancio rivoluzionario tanto che tentò non meno di otto rivolte contro i Qing, tutte finite miseramente. La rivolta che fece infine cadere la dinastia avvenne invece senza programmazione. E non partì neppure dalla Lega giurata in Giappone, ma da proprietari fondiari e commercianti del Sichuan: i Qing caddero a causa del conflitto con le élite locali. Nel 1905 alcuni imprenditori cinesi avevano acquistato diritti per la costruzione delle linee ferroviarie Guangzhou-Wuhan e Sichuan-Wuhan. Poiché però il finanziamento sfuggiva al suo controllo, il governo Qing decise di statalizzare le linee e di chiedere prestiti all’estero per la costruzione. Gli investitori si sentirono ingannati, e soprattutto nel Sichuan le proteste furono violente. Quando il governo, vista la situazione, spostò truppe da Wuhan nel Sichuan, ai rivoluzionari della Lega giurata si porse il destro per attaccare a Wuhan. E un caso accelerò gli eventi: l’esplosione, non premeditata, di una bomba portò alla scoperta di una cellula eversiva, al che i rivoluzionari passarono all’attacco. Il 10 ottobre 1911 assaltarono il deposito d’armi governativo, scacciarono il governatore e il comandante militare e in breve occuparono l’intera città. La rivolta di Wuhan fu la presa della Bastiglia cinese. Il «doppio dieci» [dieci ottobre] è considerato l’inizio della Repubblica, e ancora oggi è festa nazionale a Taiwan. Poi, le cose precipitarono. I ribelli spinsero l’assemblea provinciale dello Hubei a dichiararsi indipendente e a proclamare la Repubblica. I rivoluzionari inviarono poi per telegrafo le notizie di Wuhan a tutte le altre assemblee provinciali, e accadde l’imprevedibile: una dopo l’altra, le province si staccarono dai Qing, e nel giro di un mese e mezzo, 15 province si dichiararono indipendenti. I Qing furono vittime delle armi della modernità: le ferrovie e il telegrafo. Ci furono anche terribili massacri di soldati e di civili mancesi. Le vittime furono centinaia, molti Manciù tentarono di spacciarsi per Han, ma non riuscirono a farla franca. Sun Yat-sen venne a conoscenza di tutto questo solo dai giornali, perché all’epoca si trovava negli Stati Uniti. Tornò in Cina passando dall’Inghilterra e dalla Francia, e giunse a Shanghai, giusto in tempo per essere nominato presidente provvisorio della Repubblica cinese, che ebbe ufficialmente i natali il 1º gennaio 1912. La grande dinastia Qing era crollata come un castello di carte. Yuan Shikai, il più potente generale nella Cina settentrionale dopo la morte di Li Hongzhang, nel 1911 era stato incaricato dai Qing di soffocare la ribellione. Ma approfittò del momento per cercare di trarre vantaggio da ambo le parti: ai rivoluzionari disse che l’imperatore lo aveva incaricato di formare un governo repubblicano, e intanto spinse l’imperatore a ritirarsi. Il suo piano riuscì, e il 12 febbraio 1912 l’ultimo imperatore, Puyi, si ritirò senza chiasso, per vivere poi da privato cittadino in un settore della Città Proibita, circondato da pochi eunuchi. Non era solo il crollo di una dinastia, come altri che la Cina aveva già visto, ma la fine dello stesso impero. Era una rivoluzione. Marco Polo (1254 – 1324) Nasce a Venezia da una famiglia di mercanti, infatti conoscerà il padre solo nel 1269, quando sarà tornato dal suo viaggio. Decidono di ripartire anche insieme allo zio che era anch’egli mercante, nel 1271. Il viaggio dura 24 anni, e al suo ritorno Marco Polo verrà imprigionato dai genovesi, poiché all’epoca vi era una guerra tra Venezia e Genova, a cui egli, grazie alla ricchezza e alle navi della famiglia, vi partecipa attivamente. Durante la prigionia racconta a Rustichello da Pisa, suo compagno di cella, le vicende del suo viaggio, e questi si incaricherà poi di trasformare il suo racconto in un’opera letteraria. Viene liberato nel 1299, fa ritorno a Venezia e lì usa le sue ricchezze per mettere in piedi un’impresa di commercio che lo renderà un personaggio di rilievo dell’epoca. Morirà poi nel 1324, con a seguito moglie e figli. Non vi sono biografie o tracce storiche risalenti alla sua epoca. Il Milione è il soprannome che, secondo la leggenda, fu dato a Marco Polo, in quanto egli era solito fare esagerazioni nei suoi racconti, in realtà, anche il padre veniva soprannominato così prima del viaggio, ed è probabilmente l’abbreviazione del nome del ramo dei Polo, Emilione. Il testo nasce con titolo francese, ed è, come già detto scritto da Rustichello, la cui impronta è evidente, poiché vi sono numerose intromissioni e riferimenti all’epica cavalleresca. Vi sono diverse versioni dell’opera, tutte differenti, e quella autentica non ci è pervenuta. Per quanto riguarda la veridicità del viaggio, vi sono diversi elementi che sono chiaramente di fantasia (incarico del papa di convertire il Qa’an) che metterebbero in dubbio, insieme a diverse mancanze, il fatto che Marco Polo sia davvero giunto in Cina. A sostegno di questa tesi, che afferma che il Milione non sarebbe altro che un’opera con intenti mercantili, che quindi fungesse da guida per chi si volesse addentrare in territorio cinese, e che sia stata scritta partendo da fonti persiane, vi è la totale assenza di riferimenti de:  la lingua cinese, ma è da tener presente che il persiano era la lingua franca all’interno dell’impero mongolo, parlata dai mercanti e dai funzionari, e che anche lo stesso Qubilai, non parlava cinese, ma mongolo.  le bacchette cinesi, di cui non parlano neanche altri viaggiatori che sono sicuramente stati in Cina.  tè, dove va ricordato che egli parla dell’impero mongolo, di cui la Cina era solo un pezzo, e che il tè non era diffuso tra i mongoli, i quali bevevano birra e latte di cavalla fermentato.  la stampa, anche se egli scrive nel dettaglio il procedimento della stampa delle banconote, che era lo stesso procedimento che veniva usato per stampare i libri.  la grande muraglia, che però durante l’Impero mongolo era solo un relitto delle epoche precedenti, infatti fu ricostruita in seguito da Yongle.
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