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riassunti Storia della Moda XVIII-XXI secolo. Enrica Morini, Sintesi del corso di Costume E Moda

riassunto per capitoli e paragrafi del libro Storia della Moda, con questa sintesi non c'è bisogno di studiare dal libro

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica riassunti Storia della Moda XVIII-XXI secolo. Enrica Morini e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! Il lusso, la moda, la borghesia Il lusso Il lusso è una delle chiavi interpretative per comprendere la moda occidentale. Il modo di vestire è stato utilizzato anche per comunicare significati che sono cambiati a seconda delle culture, ma le idee di magnificenza e ricchezza dell'abito hanno costituito un dato indiscutibile delle trasformazioni della moda. Quando si parla di moda si intende qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento, che nella civiltà occidentale era il rifiuto della nudità e l'obbligo sociale di coprire il corpo. Se l'abbigliamento riguarda tutta la società, la moda è stata, a partire dal medioevo prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato l'abito per manifestare il proprio ruolo gerarchico all'interno della comunità. Nell'Europa occidentale fra il XIII e il XIV secolo, la tradizione è stata sostituita dalla trasformazione. L'abito ha cominciato rappresentare la posizione sociale della persona. L’introduzione del principio del cambiamento della moda è stato l’effetto di un processo storico, che ha visto la trasformazione strutturale dell’Europa e il suo passaggio dal mondo antico a una concezione moderna dello Stato. Ma la ricchezza ha continuato ad essere il vero fondamento del potere reale e la moda metteva in evidenza questi segni. “Far vedere ed essere visti”: per tutti i secoli dell’Ancien regime questa regola rimase indiscussa. La struttura gerarchica della società europea si conservò per secoli, mantenendo fissa la suddivisione sociale in campo economico stabilita nel medioevo: alcuni avevano l'incarico di produrre, altri quello di consumare. Il consumo era commisurato al potere e alla visibilità. Il principio di ineguaglianza trovava ragione nel volere divino: la chiesa di dio. Ma il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua economia precapitalistica. Con Luigi XIV lo sperpero esplicitò la funzione sociale ed economica: la nobiltà, costretta dall'esempio del re, porto la propria munificenza alle conseguenze della rovina. Mentre i moralisti cattolici vedevano nel consumo di lusso un peccato di vanità e carnalità. Ma il potere cerco sempre di reprimere l’emanazione di leggi suntuarie. Abiti borghesi La borghesia inventa la propria moda, che corrisponde a un ideale di vita. La corte di Luigi XIV era stata fondamentale per comprendere il senso borghese: il lusso era un modello di consumo, un modo per far girare e produrre ricchezza. Concetti di lusso e fasto: il secondo era collegato al principio economico dello spreco, il primo era considerato effetto della pulsione e poteva essere positivamente utilizzato all'interno dell’economia. Nel corso del 700 si assistette alla crescita di un modello borghese. L’abbigliamento maschile propose un modello semplificato: il completo composto da marsina, sotto marsina, camicia, calzoni (in tinta unita) che rimase invariato. Era la sobrietà scelta da chi voleva distinguersi dallo sperpero degli aristocratici, comunicava valori quali intelligenza, benessere, salute, comodità. La cultura borghese cominciò a proporre anche un ideale di donna lontano da quello della corte. Gli scopi principali erano il matrimonio e la cura dei figli perciò l'abito era privo di elementi ma adottava colori chiari e tessuti leggeri e comodi. L'innovazione stava nella liberazione del corpo dalle costrizioni e nell'attenzione dedicata alla sua salute. Questa prima forma di moda borghese si sviluppò nei secoli seguenti in due modi antitetici: quella maschile si istituzionalizzò, quella femminile mutò nel tempo. La moda maschile aveva accettato i dettami stabiliti da Lord Brummel e si è concentrata sui particolari: tessuti, cravatte, pulizia, stiratura. L'abbigliamento femminile ebbe una storia diversa: le donne non avevano un ruolo pubblico, la loro vita serviva solo per mostrare lo status symbol del marito (erano incaricate di rendere pubblico il successo maschile). Infatti nel 700 la moda si occupò più della donna che dell’uomo. Le professioni della moda Per tutto l'Ancien regime le novità arrivavano dalle corti. Nella moda si era praticata una distinzione tra momento ideativo e fase di realizzazione: il primo apparteneva al cortigiano, il secondo agli artigiani. L'unica fase autonoma era quella della fabbricazione dei tessuti che richiedeva competenze professionali e capitali. Infatti il tessuto costituiva il segno più lussuoso di un abito. C'era anche la suddivisione fra chi vendeva tessuti, chi tagliava e chi cuciva. Fu questo il momento delle merchandes de modes: donne che ebbero spazio per la loro imprenditorialità. Inizialmente si richiese la mano femminile per la prova dei corsetti in nome del pudore delle clienti, fino ad arrivare all'espansione del commercio di nastri, piume, bottoni, scialli, fazzoletti. Nacque così la possibilità per la creatività femminile. Le mode del 700 prevedevano un numero di fogge limitato, perciò la variabile erano gli ornamenti e le acconciature. In questo periodo gli artigiani della moda erano al pari dei rappresentanti delle altre scienze: si trattava di un'industria che occupava migliaia di persone che cominciavano a servire un pubblico più allargato rispetto a quello della corte. Le corporazioni Il sistema delle Arti e dei Mestieri, nel 1675, aveva riconosciuto l'esistenza giuridica della differenza tra i sarti (tailleurs) e la corporazione delle couturières, che vestivano donne e bambini. Nel 1595 era nata la corporazione delle lingères, con il diritto di fabbricare e vendere ogni tipo di tela di lino e canapa. Era una corporazione femminile che si collocava in mezzo alla realizzazione e alla vendita, così da poter intervenire sulla scelta delle merci. Tutto ciò ebbe uno sviluppo nel consumo di biancheria, in ragione delle nuove norme igieniche che l'Illuminismo iniziò a diffondere. Ma i veri padroni della moda parigina erano i merciers, nei loro magazzini si commerciavano oggetti di lusso (mobili, cineserie, tabacchiere, gioielli e accessori). Avevano in comune con i drappieri il monopolio della vendita delle stoffe ricche (in oro e argento). Svolgevano una funzione fondamentale ai fini della diffusione delle mode: quella di intermediari fra la corte e il resto della società. Da questa corporazione prese forma, alla fine del 600, una specializzazione che divenne delle donne: quella delle merchandes de modes. Le “merchandes de modes” La loro attività comprende la vendita di tutto ciò che riguarda le acconciature e gli ornamenti degli uomini e delle donne. Si occupano di disporli sugli abiti e inventano il modo di farlo. Il loro nome deriva dall'oggetto del loro commercio perché vendono solo articoli di moda. Quella delle merchandes de modes diventò una vera corporazione solo con la riforma del 1776 e Rose Bertin ne fu il primo sindaco. Anche se il loro numero era limitato, nel periodo precedente si assistette al formarsi del loro peso, fondamentale nella diffusione delle mode. Esse “inventavano”: era questa la parola per il futuro della moda borghese. La moda e i modelli vestimentari settecenteschi La funzione delle merchandes de modes era quella di creare le garnitures per un sistema vestimentario fatto di poche fogge. Alla metà del secolo il modello più diffuso in Francia era la robe à la française (con decorazioni eccessive). Mentre la moda inglese si diffuse in Francia verso gli anni 70 con un modello detto robe à l’anglaise (una linea più semplice e comoda che introduceva elementi maschili). Queste erano le due fogge base per le dame della seconda metà del secolo. C'erano poi altre tipologie che avevano un uso più ristretto. Dalla fine del secolo l'abito di corte divenne un indumento di rappresentanza, in opposizione si trovava invece una versione accorciata per uso casalingo. Sarte e Merchandes si dividevano il compito di realizzare questi indumenti. Il lavoro della sarta riguardava la costruzione degli elementi di base del vestito, quello della modista era ottenere un'infinita quantità di variazioni. L'abbigliamento delle classi lavoratrici invece era molto più semplice. I cambiamenti che si diffusero in quel periodo erano nei tessuti: dalla lana e dal lino si passa al cotone e alla seta. Questi tessuti più leggeri favorivano il movimento ed erano adatti per la città, prendevano spunto dalle opere teatrali e dagli esotismi. La “chemise à la Reine” La vera rottura con il sistema vestimentario del passato avviene negli anni 80. Nel 1783 fu esposto al Salon un ritratto di Maria Antonietta, in cui la Regina indossava un abito bianco di mussolina dalla foggia semplice. Fu chiamata chemise à la Reine: derivava dalla robe à la créole usata dalle signore francesi nelle Indie occidentali. La regina si ispirò alla moda delle ragazze più giovani, una semplice camicia dritta con le maniche lunghe e una fascia in vita. La mussolina di cotone leggero era trasparente e preziosa, proveniente dall'India. Rispondeva alle indicazioni illuministe: igienica, comoda e giovane. Il colore, adesione al gusto neoclassico, riprendeva le statue greche e romane che mostravano le forme dei corpi perfetti. Il bianco stava diventando il colore della fine del secolo e il corpo un fatto culturale e sociale. Rose Bertin Le novità che fecero la moda in questo periodo furono scelte da Rose Bertin e Maria Antonietta. La regina non amava l'etichetta che regolava la vita di Versailles: il dono del Petit Trianon tuttavia fu l'occasione per vivere in modo meno formale. Maria Antonietta amava la moda, adorava i capricci e l’abbigliamento. Rose Bertin fu la risposta a questo continuo desiderio di rinnovare l’aspetto. Per una quindicina d’anni le scelte e le creazioni delle due donne furono “la moda”. Fino al 1781 la regina di Francia fu il simbolo di una maniera di vestire ricca di decorazioni. Dopo la nascita dell'erede al trono, Maria Antonietta lanciò la moda dei capelli corti e adottò un abbigliamento più semplice (chemise à la Reine, moda all’inglese). Au Grand Mogol, il magasin della Bertin, esponeva l’insegna “Merchande de mode de la Reine”. Si trovava nel quartiere di lusso: la prima sede fu aperta negli anni 70, poi si trasferì e diventò il luogo più alla moda di Parigi. Per rispondere alle richieste della clientela numerosa, Rose Bertin si serviva di una trentina di persone che lavoravano nella bottega sotto la direzione di una première fille e di fornitori da cui acquistava le merci. C’erano i sarti che si occupavano dei tessuti per l’abito, i mercanti e gli artigiani invece appaiono nei libri dei conti. Dal 1774 Bertin era la più importante fra le Merchandes della Regina, un privilegio che le permise di diventare la figura centrale della moda nel 700. Le novità emergono dai documenti, come la fatture che inviava alla corte di Francia, la polemica sui suoi prezzi e sulle spese della regina, i libri contabili. Ancora sotto Luigi XV gli abiti di re, regine e cortigiani erano confezionati con tessuti pesanti. Nessuno aveva mai pensato di sottrarsi alle regole dell’etichetta e i cicli della moda erano lenti. Ma con Maria Antonietta tutto cambiò, trasferendo l’interesse alla moda che le conferiva un ritmo accelerato. I materiali, i colori si alleggerirono e si schiarirono. È difficile dire quale delle due donne ne sia stata l'ideatrice, tutto però fa pensare che la personalità dominante sia stata quella della merchande. Le nobildonne di corte facevano a gara per seguire le mode lanciate dalla sovrana il resto del mondo copiava Versailles e comprava a Parigi. La nuova concezione del lusso però modificò il ruolo della merchande: fino a quel momento i produttori di vesti erano gli artigiani e i merciai erano commercianti di accessori, in questo momento cominciò a farsi strada l'idea di una professionista. La trasformazione iniziò nei prezzi. La moda stava sperimentando il passaggio dall'artigianato all'arte. In assenza di elementi oggettivi per determinare i prezzi (oro, argento, gemme) il costo degli oggetti dipendeva dalla fama della merchande: i prezzi esorbitanti davano la misura dell’esclusiva. Contravvenendo alla regola, la sovrana non legò Bertin al suo uso, ma le permise di continuare a tenere la bottega a Parigi e di condividerla. Fu scandaloso, ma questa qualifica le permetteva di gestire le novità, di scandire i tempi con cui una moda poteva essere estesa alla clientela. Dopo la comparsa a Versailles, le sue creazioni passavano nei società diverse, una legata alle maniere dell’Ancien regime, l'altra composta da banchieri e nuovi ricchi. Napoleone cerco di amalgamarle per dar vita a una nuova classe dirigente. Moda e mondanità furono utilizzate come strumenti per raggiungere questo fine, ma la società dei ricchi voleva spendere per mostrare la propria ricchezza e la società dei nobili le guardava con disdegno rifiutandone ogni rapporto. Il progetto di Napoleone era assecondare i desideri dei primi con un genere di vita mondana in modo da attrarre anche i secondi, così da mantenere un'educazione reciproca. Il gusto e le buone maniere dell'aristocrazia avrebbero trasformato i borghesi in una classe accettabile al resto d’Europa. Il compito di questo processo fu affidato a sua moglie Josephine, che organizzò feste e ricevimenti. Il modo di vestire fu rivisto: il modello a vita alta rimase ma senza eccessi. Per il giorno si continuava ad utilizzare la veste lunga, per la sera era d'obbligo l'abito da cerimonia. Mentre gli uomini indossarono di nuovo l’abito à la française. La vita mondana riprese: Napoleone, nel 1800, reintrodusse il ballo dell’opera e consentì i travestimenti per il carnevale. Il ritorno alla normalità favoriva la produzione di moda che si rinnovava spesso. Napoleone costituì intorno se una corte, riprendendo il modello di Luigi XIV, promuovendo il fasto il consumo sfrenato. L'immagine della Francia imperiale dipendeva dal tenore di vita degli alti funzionari, dalle loro case e dalle loro mogli. Parigi doveva tornare ad essere un modello per tutta l’Europa, rimettendo in moto l'intera economia del paese. La moda era lo strumento per risollevare l'industria tessile, che si trovava in crisi da quando era stato sostituito lo stile francese con quello inglese. Napoleone intervenne reintroducendo l'abito di corte di seta e di velluto e favorendo la sostituzione della mussola con i cotoni francesi. Cercò di fare lo stesso con la riproduzione degli sciali di cachemire, cercando di copiare quelli indiani. Era l'inizio di una produzione originale in cui la Francia avrebbe avuto un ruolo di eccellenza fino agli anni 60 dell’800. L'abito femminile e lo stile impero rimasero invariati per vent’anni, anche se ci furono delle mode effimere come d'esempio l’uso del turbante e delle pellicce. Il grand habit di corte Gli uomini tornarono di utilizzare l'abito alla francese, per le donne invece il problema era più complesso. Napoleone cerco di introdurre un'immagine moderna dell'abito di corte. Quando assunse il titolo di imperatore dedicò una particolare cura sia al suo abito che a quello di Josephine, con una linea neoclassica arricchita dal revival. Ricreò il grand habit con l'utilizzo del manto di velluto foderato di ermellino e ricamato in oro. Perciò tutte le altre dame di corte dovevano seguire la moda dell’imperatrice. Diffusione e professioni della moda La moda imperiale fu un affare di corte, inventate e diffusa dalla famiglia imperiale. Tutte le donne della famiglia si trasformarono in ambasciatrici della moda francese e le altre corti si modellarono su quella di Parigi. Il gusto francese si diffuse in tutta Europa ma anche nelle Americhe. Il mezzo di comunicazione dello stile impero in Francia e all'estero fu in realtà “le Journal des dames et des modes”, che proponeva le toilette delle dame più in vista. La stampa determinò l'andamento della moda europea fino alla caduta di Napoleone. Leroy fu il couturier che divenne il solo fornitore dell’imperatrice. La sua attività era articolata in un atelier per gli abiti, un altro per gli accessori e un negozio per la vendita di tessuti. La sua fama dipese dalla capacità di rispondere alle esigenze del nuovo mercato: egli vendeva qualsiasi accessorio e grazie ad alcune riviste le sue realizzazioni venivano pubblicate. Divenne la guida del buon gusto femminile e la sua influenza non finì neanche quando Napoleone divorziò da Josephine. Leroy divenne l'unico fornitore della famiglia imperiale. La moda imperiale però era limitata alle corti, al di fuori di esse vi era lo spirito borghese. Molte mogli di estrazione borghese coltivavano il culto del risparmio, della famiglia, della semplicità. Il ruolo femminile era lontano dalla vita pubblica, limitato alla casa e alla maternità. Alla fine dell'impero la morale borghese preso il sopravvento: la crisi economica costrinse l'abbandono del lusso. L'affermazione della moda borghese La nuova cultura del lusso Il ritorno alla vecchia monarchia borbonica non aveva fermato l'ascesa della borghesia. La nuova società aveva affermato nuove regole sociali ed economiche. Vennero eliminate le gerarchie ereditarie e l'uguaglianza dei cittadini venne sancita dalla legge. Questo principio non eliminava le differenze ma sostituiva quelle basate sul diritto di nascita, con altre moderne, legate al denaro. Quest’ultimo diventò la misura dell’intelligenza. Era finita l'epoca dello sperpero e iniziava quella fondata sul risparmio. Privato e pubblico erano diventati due sfere separate; la città offriva attività di piacere aperte a tutti. C'erano giardini e parchi deve passeggiare, caffè, teatri, concerti. Fecero la loro comparsa anche i primi luoghi di vacanza al mare. Il lusso borghese prese la strada del comfort. Il comfort I racconti dei viaggiatori che alloggiavano in Inghilterra descrivevano tutti gli oggetti messi a disposizione dell'ospite per rendere più comoda la vita. Erano i segni di una nuova cultura materiale finalizzata alla comodità, all'igiene del corpo e alla casa. Si trattava dei lussi funzionali, resi possibili dalla tecnologia e dal progresso. La rivoluzione industriale mise a disposizione i beni come l'acqua corrente, il gas, l’elettricità. Tutto ciò non era considerato un vero e proprio lusso: quello che apparteneva alla sfera del comfort diventava un’abitudine. Il mito dell'eleganza Una logica analoga accompagnava la teoria dell’eleganza: l'uomo che non fa niente e dedica la propria intelligenza alla realizzazione estetica della vita elegante. L'intera borghesia era fatta di individui nati uguali ma che cercavano di distinguersi dagli altri. Essi cercavano di acquisire una superiorità morale per apparire eleganti. Abitudine, educazione, istinto, gusto innato: erano le qualità che facevano la differenza. Il rischio però era di imitare la nobiltà dell’ancien regime. D'altra parte la società non amava l'ostentazione dello spreco, semplicità e sobrietà erano le regole del nuovo vivere sociale. L'abito della borghesia L'abito comunicava la posizione e il ruolo dell'uomo. La scelta dell'abito appropriato non era sinonimo di eleganza, ma era già una forma di buona educazione. L'uomo che lavorava adottò la divisa di Lord Brummel, senza la sua raffinatezza. Nero e bianco erano i colori ammessi nella vita pubblica, non bisognava ostentare alcuna differenza gerarchica. La distinzione stava nei particolari: il nodo alla cravatta, la stiratura, Il tessuto ecc. Anche l'abito femminile doveva comunicare la virtù della donna e rispecchiare l’unico campo d’azione: la casa e la famiglia. Le donne dovevano essere disinteressate alla vita pubblica, quelle borghesi erano sciocche, ignoranti e nullatenenti. L'abito femminile era caratterizzato da un corsetto steccato, le scollature erano limitate agli abiti da sera e le maniche molto gonfie. Era iniziato un processo di occultamento del corpo della donna: le forme erano rigide e trasformavano la silhouette. Il processo giunse al culmine quando la toilette assunse la forma di tre triangoli: testa, torace, gonna. Le acconciature erano decorate, la linea delle spalle esagerata. La borghesia mostrava la propria ricchezza attraverso la vanità femminile e la moda era lo strumento per rappresentare le distinzioni sociali maschili. Era l'unico ruolo pubblico che si affidò alla donna. La moda del revival Nella prima metà del secolo, Il movimento romantico diffuse una moda storicista che si manifesta attraverso la letteratura, il teatro, l'architettura e le arti. Gli abiti ripresero la cultura medievale, il gusto neogotico o l'abito aristocratico. Il verdugale, il guardinfante, il panier si trasformarono nel 1845 in crinolina. Era una sottoveste resa rigida da una trama di crine, in seguito divenne una gabbia metallica brevettata per liberare il corpo femminile. L'industria della moda iniziò a specializzarsi nella produzione di copie di oggetti antichi, adattati alla vita moderna per mettere il lusso a disposizione di tutti. Le ragioni di tutto ciò sono molteplici: vi è il desiderio di possedere il lusso di cui si è stati privati ed è un modo per costruirsi un passato. Il revival e il kitsch costituivano però una negazione dell'eleganza teorizzata da Brummel. La cultura medio borghese viene invasa dal cattivo gusto: una forma primitiva della società di massa e dell'arricchimento rapido prodotto da un sistema capitalistico che stava creando una situazione di benessere improvviso e non dava tempo all'educazione al buon gusto. Le sarte parigine rimanevano l'unico riferimento per la moda, ma ciò riguardava solo il consumo da parte dell'élite. Per la diffusione della moda agli altri strati sociali bisognava avere strumenti moderni che furono messi a punto da nuovi professionisti. Magasins de nouveautés Il commercio degli articoli di moda si era sviluppato nel periodo napoleonico: alle merchandes si erano sostituiti i magasins de nouveautés, un termine che comprendeva tutti settori dell'abbigliamento agli accessori. Erano forniti di vetrine illuminate con lampade a gas, segnalati da insegne e in modo che fosse visibile anche dall'esterno, per attrarre la clientela. Spesso collocati nei passages, le nuove gallerie coperte dedicate al passeggio e al commercio, si aprivano sulla strada con una porta centrale e due vetrine laterali. Volantini e manifesti furono il primo veicolo pubblicitario, senza la sostituzione delle riviste di moda. Nello stesso periodo subì una trasformazione anche il rapporto con la clientela. Il sistema da seguire era: “guadagnare poco per vendere di più”, i prezzi erano fissi (la produzione industriale immetteva sul mercato grandi quantità di prodotti realizzati in serie) e nessun acquisto era obbligatorio. Ogni mercanzia veniva cambiata e poteva essere anche rimborsata. Era l'inizio di un nuovo rapporto tra l'acquirente e la merce. La confezione La vera novità di questa fase fu la confezione. Gli abiti delle classi più alte continuarono a essere confezionati dai sarti, ma la borghesia era stratificata e i ceti medi e piccoli erano impossibilitati per motivi economici a ricorrere al sarto. Il problema riguardava gli uomini e le esigenze di decoro sul luogo di lavoro. Per rispondere alla nuova domanda, nel 1824, Parissot creò un’impresa: la Belle Jardinière che vendeva indumenti maschili, confezionati in serie e nuovi. Il successo fu tale che l'idea venne ripresa da tanti altri, ma fu dagli anni 40 che la realizzazione di abiti pronti ebbe un vero sviluppo, attraverso perfezionamenti tecnici nel taglio e nella cucitura. I mestieri legati alla confezione si organizzano sulla base di uno sweating system, che raduna sarti e sarte in un atelier. Nel 1847 a Parigi operavano 233 confezionisti, che si servivano di 7000 lavoranti, impegnati nell'abbigliamento maschile. La confezione femminile riguardava soli indumenti che non richiedevano di essere modellati sul corpo. Il successo di questa iniziativa creò le condizioni finché si diffondessero due nuovi tipi di professione: le confezioniste e le sarte-confezioniste. Le prime fabbricavano su cartamodello e non su misura (pellicce, mantelline ecc.), mentre le seconde realizzavano, oltre ai normali indumenti su misura, anche vestaglie, camicie e abiti per bambini. Nel 1847 le due categorie contavano 250 professioniste con 1300 operaie. In questa prima fase, la produzione non riguardò l'abito intero, che le signore preferivano far realizzare su misura da una sartoria. Ma venne comunque inventata la robe de Paris: un taglio di 15 o 18 m da mettere in vendita in una scatola, accompagnato da una guida che indicava la maniera di tagliarla. Ebbe un successo strepitoso. I grandi magazzini Nel 1848 ci fu una crisi economica che segnò la fine della prima fase dello sviluppo industriale, ma dal 1850 ci fu il boom economico. In questo periodo ci furono le Esposizioni Universali (Londra, Vienna ecc.), in cui 14.000 ditte esposero i loro manufatti. Le esposizioni avevano il compito di mostrare al mondo la forza del capitalismo, in un gigantesco mercato che trasformava le merci in denaro. L'industria metallurgica avete trovato nella costruzione della ferrovia la perfetta forma di consumo. I grandi magazzini furono la forma stabile delle grandi esposizioni, i luoghi in cui la merce poteva essere ammirata e acquistata. Dagli anni 50 iniziarono a sorgere i nuovi grandi magazzini: nel 1852 Boucicaut fondava il Bon Marché, nel 1854 Chauchard creava il Louvre, nel 1865 venne costruito il Printemps, nel 1869 il Samaritaine e così via. Queste imprese cominciarono da subito a ingrandirsi, inglobando le case intorno, fino a occupare interi quartieri. Il successo attirò l'attenzione di finanziatori chi investirono grandi somme in questa forma di attività commerciale. La regola del grande magazzino era identica a quella dei magasins: ridurre il margine di profitto sui singoli articoli per favorire le vendite. Questo richiedeva una produzione in serie efficace, una caratteristica che apparteneva solo all'industria tessile. Per questo l'oggetto principale della vendita fu la moda: indumenti, biancheria e accessori. Solo più tardi comparvero mobili, vasellame, giocattoli. Ogni reparto era specializzato e gestito in modo individuale, con un responsabile e tanti commessi chi avevano il compito di essere a disposizione della cliente senza forzare la volontà. L’ingresso era libero, ma le signore dovevano essere indotte agli acquisti. Per raggiungere questo scopo vennero utilizzate una serie di tecniche scenografiche: la facciata assunse uno stile moderno, con materiali come il ferro e vetro; vi erano immagini utilizzate per pubblicità e le vetrine. Queste ultime affascinavano le signore perché mostravano le merci a prezzo ribassato. La donna inizia a comprare anche senza bisogno. Le esposizioni interne non erano più semplici banchi, ma allestimenti temporanei dedicati all'articolo di stagione. Queste esposizioni, di cadenza mensile, erano dei grandi eventi che portavano molti clienti, come ad esempio i saldi: un’altra invenzione che liquidava gli invenduti. Pubblicità e riviste di moda A tutto questo si aggiungeva la pubblicità, che veniva fatta utilizzando vetture per la consegna a domicilio, che mostravano ai passanti il nome del magazzino scritto sulle fiancate. Venivano appesi gli striscioni nelle facciate oppure manifesti grandi e piccoli, fino all'utilizzo di cataloghi e riviste che raggiungevano le clienti lontane, per corrispondenza. I cataloghi avevano uscite stagionali, ma potevano essere anche più frequenti. All'inizio privi di illustrazioni, dagli anni 70 cominciarono a presentare le merci attraverso un disegno. Lo sviluppo delle riviste di questo periodo è legato alla moda borghese. Limitata, fino alla fine degli anni 20, a due o tre titoli, la stampa di moda passo a una decina di testate negli anni 30 e più di 20 negli anni 40. “Le Journal des dames et des modes” dominava il mercato e vendeva fino a 2500 copie. Lo sviluppo era stato reso possibile dalla diminuzione dei costi degli abbonamenti. Le riviste di moda erano destinate o alle donne o ai professionisti (sarti da uomo, acconciatori ecc.). Si occupavano oltre che di moda anche di problemi quotidiani, educazione, buone maniere, consigli per le signore borghesi di provincia. Immagini e iconografia della moda I figurini di moda richiedevano dei professionisti, ma gli illustratori provenivano dal mondo della formazione artistica tradizionale. In questo settore lavoravano anche molte donne, provenienti da famiglie che operavano nel campo della pittura. Il caso più noto è quello delle sorelle Colin: in quest’attività divennero famosissime sia in Francia che all’estero. L'iconografia più seguita nelle immagini di moda all'inizio del secolo prevedeva una figura umana caratterizzata secondo l'ideale di bellezza in voga: la modella era utilizzata per trasmettere bellezza e per mostrare l’abito. La confezione del vestito poteva essere sartoriale oppure casalinga, ma il figurino serviva come guida per la scelta dei materiali e dei colori, per il taglio. Il disegno doveva essere il più chiaro possibile. Alcune riviste infatti pubblicavano figurini in cui si aveva una doppia visione, frontale e di spalle dello stesso modello. Dagli anni 40 iniziarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato, così da fornire indicazioni sia sull’abito ma anche sull’occasione. La capacità di scegliere I grandi magazzini attiravano tutto il mondo ad ammirare lo spettacolo delle merci, indipendentemente dalle classi e dei ceti sociali. Ma le esigenze di gusto delle diverse componenti della società portarono i magazzini a selezionare le proprie offerte in base alla loro clientela. Alcuni si specializzarono in una moda lussuosa, altri mantennero un carattere più provinciale. Alcuni scelsero una moda più giovane, altri una moda popolare a prezzi bassi. Accanto a loro continuavano a prosperare le sartorie di lusso e le maison di moda più esclusiva, che fornivano confezioni alla nobiltà e all'alta borghesia. Anch’esse però dovevano adeguarsi ai tempi e adottare il moderno stile di esposizione delle vetrine. Lentamente si fece strada la figura di un professionista che, all'interno del grande magazzino, assunse il compito di guida: un commesso chi interpretava le esigenze delle clienti che iniziano ad avere un rapporto fiduciario nei confronti di qualcuno che s’intende di abbigliamento. In quel momento Charles Frederick Worth fece il suo ingresso nella moda parigina. Charles Frederick Worth (1825-1895) Worth era nato in Inghilterra da una famiglia borghese, aveva svolto il suo apprendistato in due ditte di tessuti londinesi prima di recarsi a Parigi nel 1845. Qui lavorò come commesso a La Ville de Paris, prima di essere assunto Gli artisti e la moda parigina degli anni Venti La prima guerra mondiale portò una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fece dritta e il taglio si semplificò. La sartoria coinvolse anche gli artisti: il gusto déco. Thayaht, la tuta e Madeleine Vionnet Particolare è il caso di Thayaht che nel 1920 propose la tuta: un indumento intero composto da camicia e pantaloni , abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura. Era progettato secondo uno schema geometrico semplice. Non si trattava propriamente di un’invenzione, dato che questo tipo di vestito era già in uso come capo di biancheria da lavoro e da aviatore, ma della sua sostituzione con l’intero guardaroba maschile. La tuta era adatta per ogni occasione e per tutte le stagioni: per lo sport, per il lavoro, come abito da sera, per dormire ecc. Insieme alla versione maschile propose una tuta da donna: una sorta di camicia da uomo allungata con le maniche corte. L avversione maschile fu dimenticata mentre quella femminile fu adotta dopo la prima guerra mondiale. Nel 1919, Thayaht, iniziò a collaborare con Madeleine Vionnet. La maison Vionnet era organizzata “like an industry”, in cui madame Madeleine aveva il ruolo principale nella progettazione sartoriale. I collaboratori si occupavano invece di proporre spunti ed idee, di preparare i disegni. Nel 1922 la sarta parigina e l’artista cominciarono a lavorare sulla forma della tuta femminile (il modello fu depositato dalla maison Vionnet). La couture francese cercò di rivoluzionare il modo di vestire eliminato i busti, le gonne lunghe, i sostegni. Le donne chiedevano abiti comodi per lavorare, ballare, guidare, fare sport. Dalla guerra ero uscite vestite con tailleur maschile. Pensata da prima come robe d’ avation, era un modello destinato alle viaggiatrici e poi come abito da tennis. Era di cotone o di flanella inglese, alpaca o cammello. La tuta entrò nel sistema parigino. Sonia Delaunay Diverso fu il caso di Sonia, un’artista russa che si era trasferita a Parigi per la propria formazione. Si era dedicata al cubismo e all’arte astratta. Il suo incontro con il mondo della moda ebbe un carattere privato: realizzò la robe simultanée. Nei primi anni venti aprì a Madrid Casa Sonia, dove fabbricava e vendeva vestiti. Tornata a Parigi aprì un’atelier per professionalizzare il proprio lavoro. Nel 1925 partecipò all’exposition Internationale in cui espose i tessuti simultanei. Il tessuto era la sua forma espressiva, la superficie su cui svolgeva la sua ricerca sui colori: come un quadro. La novità quindi riguardò solo parzialmente l’abbigliamento. La maison chiuse a causa della crisi nel 1929. Paul Poiret (1879-1944) Gli esordi Agli inizi del 900’ l’haute couture rappresentava il modello produttivo di punta della moda parigina, con un buon numero di case che non si limitavano al lavoro di sartoria, ma offrivano modelli esclusivi. Poiret era figlio di un commerciante di tessuti. Terminate le scuole, il padre, gli trovò lavoro da un amico che produceva ombrelli. Lavoro noioso da cui Paul sfuggiva con l’immaginazione progettando abiti per una bambola e disegnando. Il giovane Poiret andò da madame Chéruit a mostrare i suoi lavori: la grande sarta li comprò e lo incoraggiò a continuare. Egli cominciò a visitare le case di moda di Parigi per vendere figurini e nel 1898 Doucet gli propose di lavorare per lui. Imparò il mestiere del couturier di lusso. Fu incaricato di dirigere la sezione di taglio fino alla realizzazione dei costumi maschili. Però alla fine Doucet lo licenziò. Nel 900’ Poiret partì per il servizio militare e al ritorno trovò lavoro da Worth. Era gli anni di crisi dopo la morte del proprietario e gli fu affidato l’impegno di rinnovare l’immagine della maison con creazioni più giovani. Egli tentò con un tailleur e un kimono, ma la clientela di Worth era troppo affezionata al vecchio gusto, quindi il rapporto si concluse. Maison Poiret Nel 1903 Poiret aprì la sua prima maison: due piccoli saloni ed una vetrina sulla strada. Nonostante le esperienze in due famosi atelier, non aveva una fama personale. Doveva attirare l’attenzione ricorrendo alla vetrina per creare esposizioni spettacolari, che presto diventarono uno dei luoghi più importanti delle passeggiate parigine. La sua moda era semplificazione ed innovazione, cominciò proponendo sia capi che seguivano le fogge di moda, sia le linee morbide. Nel 1905 realizzò un mantello kimono. Per la moda segnò l’inizio dell’influenza orientale. Il suo modello si inseriva nella voga del giapponesismo: l’indumento giapponese era proposto come vestaglia da camera ma Poiret lo propose come soprabito. Iniziò il suo modo di intendere l’esotismo mescolando Cina e Giappone. Nel 1905 sposò Denise Boulet, che diventò la sua musa ispiratrice e una delle donne più eleganti di Parigi. L’atelier ottenne il successo sperato e si trasferì per riorganizzare il lavoro in reparti specializzati, seguiti da una equipe. Qui Poiret eliminò il busto che costringeva il corpo, con una cintura rigida alla quale era cucita la gonna. Fu il primo abito senza corsetto (Lola Montes). Poiret raccomandò l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno, non utilizzò più il busto ma lo sostituì con una guaina che stringeva il seno e il sedere. I nuovi abiti erano morbidi e leggeri ed eliminavo il peso che le donne erano abituate ad indossare. L’ispirazione neoclassica Poiret si ispirò alla moda neoclassica, non voleva però riproporre un’epoca storica, al contrario coglierne gli elementi fondamentali per la progettazione di un abito nuovo. Il risultato fu un modello dritto e a vita alta, con materiali innovativi: prese il nome di Josephine. Insieme ad esso propose una serie di capi d’ispirazione esotica. Realizzata la trasformazione, si rese conto che doveva anche comunicarla. Non poteva ricorrere alla normale stampa di moda perché non sarebbe stata in grado di rendere giustizia ai colori. Trovò un’artista e nel 1908 uscì “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”:un album di 10 tavole a colori, pubblicato in 250 copie numerate. Iribe utilizzò un linguaggio grafico mai usto prima nella stampa di moda: le figure femminili erano ate, sottili, senza forme, con i capelli corti. L’album fu inviato a tutte le clienti e venne messo in vendita per i collezionisti. L’immagine “Poiret” Egli incaricò Iribe di progettare il marchio della maison a forma di rosa. In seguito trasferì la sede della maison in un hotel particulier con un grande parco intorno. Ciò divenne un secondo marchio della maison e fece sfondo alle sfilate e alla sue feste. L’orientalismo Fra il 1909 e il 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Ballets russes, che fece della capitale il centro della danza e della musica. Diaghilev e i suoi artisti offrirono l’immagine di un mondo culturale ignoto: costumi e scenografie avevano ricordavano il folklore orientale. Ciò che colpì maggiormente fu la presentazione dei balletti: i danzatori si vestirono con costumi mirabolanti e le scene erano elaborate e colorate. Tutti notarono la somiglianza tra i costumi dei balletti e i modelli di Poiret, ma il couturier si difese dalle accuse di averi copiati. Il punto di passaggio fu rappresentato dalla Jiupe entravée, una gonna lunga e dritta (sembrò la negazione delle realizzazioni che il sarto fece prima del 1910). Nacque la femme fatale, un oggetto di desiderio, lusso ed erotismo. Ma fu all’inizio dell’anno successivo che l’immagine di donna che Poiret sognava venne esplicitata con la jupe-culotte, con il conseguente scandalo. La realizzazione di pantaloni per le donne non passò inosservata, ma la proposta di Poiret non voleva essere rivoluzionaria, si trattava solo di un paio di pantaloni da harem da portare a casa. Il nuovo album fu affidato a Lepape, un giovane disegnatore, che fu pubblicato con il titolo di “Les choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape”. Le 12 tavole interpretavano in modo perfetto lo stile di vota che Poiret voleva proporre. Questo però fu l’ultimo album prodotto da Poiret. La festa della milleduesima notte Poiret fece parlare di sé in tutti i modi, ma ciò che colpì di più fu una serata in costume che si svolse nel giardino della maison. Poiret voleva presentarsi alla società come un artista e un uomo di mondo, che amava circondarsi della bellezza delle donne e dei suoi abiti. Per questo ricercò l’amicizia di pittori e artisti, collezionò opere d’arte moderna e aiutò giovani talenti come Elsa Schiaparelli. Sapeva inventare iniziative promozionali come il lungo viaggio del 1910 attraverso l’Europa, insieme a 9 indossatrici. La secessione viennese e l’atelier Martine Anche da questo viaggio conobbe realtà diverse da quella francese e movimenti artistici d’avanguardia. L’Europa dell’est offrì idee popolari ed esotiche. L’incontro che lo aveva segnato maggiormente fu quello con Vienna, dove conobbe Klimt ed Emilie. Affascinato dalla secessione viennese scatenò una serie di riflessioni sul ruolo della moda. Poiret sposò la nuova teoria e nel 1919 aprì l’atelier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazzine dava libero sfogo alla propria creatività in tutti i i campi delle arti applicate. L’atelier fu dotato di un punto vendita, partecipò a varie esposizioni, realizzò arredamenti e fu sostenuto dalla maison. M la sua produzione ebbe un tratto un po dilettantesco e non raggiunse mai il valore che Poiret sognava. Il successo maggiore lo ebbe la produzione di profumi, con la collaborazione del dottor Midy, che aveva un laboratorio farmaceutico. Nel 1911 fu messo a punto il primo profumo e venne fondata la ditta Rosine che ne curò la fabbricazione. Alla produzione di profumi venne associata un’intera gamma di prodotti di bellezza: dalle creme al mascara, alle ciprie. Era la prima volta che il nome di un couturier veniva associato ad una linea di prodotti. La fama di Poiret era costruita e influenzava la moda senza dover ricorrere all’alta società. E così nessuno parlò più dello scandalo della jupe-culotte, ,ma venne accetta la nuova versione nel modello abat-jour. Nel 1913 Poiret e la moglie compirono un viaggio pubblicitario negli Stati Uniti. La funzione di Mannequin fu svolta da madame Denise. La tournée si snodò fra feste e conferenze. Gli anni di guerra L’anno successivo scoppiò la guerra e il mondo intero accorse sui campo di battaglia e questo lo cambiò completamente. La Francia tentò di salvare la produzione di moda mentre Poiret fu mobilitato in un reggimento di fanteria dove prestò servizio come sarto. Nel 1915 venne destinato agli archivi del Ministero della Guerra e nella sua qualità di presidente collaborò all’organizzazione promossa da Vogue a New York. Partecipò alla manifestazione insieme alle maison di moda ancora aperte, con lo scopo di matenere un rapporto con il mercato americano e sollecitare i sostegni per la Francia in guerra. Nel 1916 Poiret lanciò anche un profumo patriottico, contrassegnato dal tricolore. Nel 1917 tentò di aprire una succursale a New York ma il progetto non decollò per le difficoltà del periodo di guerra. Il dopo guerra La guerra finì ma Poiret uscì dall’esperienza provato dal punto di vista economico. Per far fronte alle difficoltà aveva dovuto vendere o ipotecare tutte le sue proprietà. Egli era stato colpito anche dal punto di vista umano: òa febbre spagnola gli aveva ucciso due figli e la tragedia aveva minto il suo matrimonio che si concluse con il divorzio. Si trovò nella condizione di rilanciare la Griffe con un capitale insufficiente, così decise di darsi tempo e partì per un viaggio in Marocco trovo ritrovò lo stimolo creativo per rincominciare. Tornò alla moda con la voglia di festeggiare la fine della guerra. Installò nel giardino una tenda araba in cui tutte le sere organizzava feste a tema, coinvolse nell’impresa le vecchie glorie della Belle Epoque. Le collezioni si fecero sapienti, i materiali ricercati e le ispirazioni esotiche (dal Marocco alla Cina, dall’Egitto alla Spagna). Negli stessi anni realizzò costumi di scena e per feste mascherate a tema ma diminuì il suo successo presso l’Haute Couture. La teatralità allontanò il pubblico dalla maison e nel 1922 fece un nuovo viaggio negli Stati Uniti: credeva ci fosse spazio per l’esportazione dei suoi modelli, ma lì era esplosa la moda à la garçonne e il successo di Chanel. L’anno dopo Poiret fu costretto a fare i conti con la fine del proprio successo: la soluzione temporanea fu affidare la gestione amministrativa ad un professionista e cercare sostegno finanziario, ma alla fine del 1924 affidò la maison ad una società di banchieri. Il prezzo fu altissimo: la vendita delle sue proprietà di Parigi, compreso l’atelier. Però in questo modo sperava di trovare la tranquillità per riprendere il lavoro: spostò la maison in una nuova sede con la trovata di un falso incendio. La nuova sede riuniva tutte le attività, dall’atelier alle boutique Martine e Rosine, a cui si aggiunse Bagatelle destinata agli accessori ed alle giacche sportive. Gli parve che l’occasione di rilanciò potesse essere l’Exposition Internationale ma il Consiglio di amministrazione rifiutò di sostenere le spese. Poiret vendette Rosine e Martin per la realizzazione di 3 grandi zattere che vennero collocate sulla Senna. Il pubblico disertò sia le zattere sia gli intrattenimenti, quello che doveva essere il punto di svolta diventò un disastro finanziario. Nel 1926 vendette la sua collezione di pittura e vennero alienati i suoi ultimi beni. Poiret non accettò mai che la cultura moderna americana aveva invaso l’Europa e le donne volevano essere libere e comode. Nel 1927 ci fu la rottura con l’amministrazione delle maison che continuò l’attività fino al 1933, con il suo nome ma senza di lui. Nel 1932 riprovò ad aprire una casa di moda e nel 1933 fu chiamato dal Printemps per realizzare una collezione di abiti, ma anche questo rapporto terminò. Coco Chanel (1883-1971) Gli inizi La vita privata di Gabrielle Chanel ebbe un’importanza nel suo percorso creativo e fu all’origine di una personalità difficile. La necessità di inserirsi in ambienti che non erano propri e la mancanza di radici a cui affidarsi, la costrinse ad inventarsi un’identità. Era nata nel 1883, il padre era un venditore ambulante e trascinò la famiglia in una vita miserabile. La madre era una donna malata che morì a 33 anni. Il padre abbandonò i figli e i nonni li affidarono a un orfanotrofio. Fino ai 18 anni Gabrielle visse nell'istituto delle suore ed ebbe un’educazione alle arti domestiche. La vita pubblica di Chanel iniziò a Moulins lavorando in un negozio di biancheria e maglieria. Un anno dopo aprì un’attività di riparazioni, l'autonomia le consentì di frequentare la città e i giovani ufficiali. Tentò anche la carriera da cantante, ma di quel periodo rimase solo il soprannome Coco. Conobbe Etienne Balsan, un giovane ufficiale di famiglia borghese, che aveva acquistato un antico monastero in cui voleva iniziare un allevamento di cavalli da corsa. Al momento del congedo chiese a Gabrielle di andare con lui. Chanel scoprì lo sport e un mondo diverso, troppo isolato. Fu in quegli anni che concepì l’abbigliamento, scoprendo le uniformi e l’abito maschile. Le fotografie di quegli anni la mostrano vestita da uomo oppure con gonna, camicia e cravatta. Ciò che non le piaceva era il ruolo femminile che la moda incarnava: Poiret, Worth e la femme fatale. Iniziò cimentandosi nella modifica dei cappelli: eliminando elementi decorativi. La sua abilità destò interesse fra le donne perciò chiese a Balsan di aprirle una modisteria a Parigi. L'attività ebbe subito successo, ma lei non era una vera modista e aveva difficoltà a mettere in pratica le sue idee. Qualche anno dopo conobbe Arthur Capel, uomo d'affari inglese che diventò l'uomo della sua vita. Con il suo aiuto, nel 1910 aprì la prima sede, la stessa in cui si trova tuttora la maison Chanel. In quegli anni ebbe successo e le riviste pubblicarono i suoi cappelli indossati da attrici famose. La vita culturale di Parigi le fece scoprire la produzione artistica d’avanguardia e i Ballets Russes. Nel 1913 però la sua attenzione era compresa tra Capel e la modisteria. Durante l'estate si recò in vacanza Deauville, una cittadina di mare di villeggiatura. I due intuirono che quello poteva essere il luogo in cui iniziare una vera attività di moda. Capel le finanziò l'apertura della sua prima boutique situata nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi, ma le loro esigenze erano diverse: gli sport stavano entrando a far parte dello stile di vita vacanziero, anche il mare e la spiaggia e le dame desideravano un abbigliamento più confortevole. Chanel s’ispirò all'abbigliamento maschile e provò a realizzare capi di maglia comodi. Iniziò a venderli nella boutique: pullover sportivi, blazer ecc. Era la sua prima esperienza di sarta ed ebbe successo immediato e la guerra contribuì. La guerra La prima guerra mondiale era scoppiata e Deauville si svuotò: tutti tornarono a casa tranne Channel, che rimase in attesa. Tutto ciò si rivelò giusto perché alla fine del mese i tedeschi invasero la Francia e la città divenne la meta di fuga dalla capitale. Le signore sole cominciarono una vita in vacanza. Per affrontare questa situazione si rifecero il guardaroba nella boutique Chanel, l’unica aperta, e comprarono gonne dritte, giacche da marinara, scarpe con tacco basso e capelli di paglia: tutto adatto per camminare a piedi. Gabrielle tornò a Parigi e iniziò il lavoro di volontariato. Le donne iniziarono a fare cose mai fatte prima, a causa del buio e del freddo, si riparavano nei bar e iniziarono a frequentarli da sole. Il Ritz divenne il luogo di ritrovo dell’alta società e Chanel ne trasse vantaggio aprendo un negozio vicino. Capel e Coco ripeterono un’altra volta l’esperimento di Deauville e aprirono una Maison che fu rifornita direttamente da Parigi. La clientela comprendeva i nuovi ricchi e l’élite spagnola. L’impresa contava 300 lavoranti. L’impegno bellico della Francia non ridusse la produzione di haute couture e rimaneva una delle poche attività che sostenevano il bilancio del paese. Ma il problema era rappresentato dai materiali, così Chanel propose il jersey (una maglia a filo continuo fatta a macchina). L’atelier Nel 1912 apre il suo primo atelier, sostenuta da una delle clienti di Doucet che si era proposta come finanziatore. Ma quest’ultima morì e il suo posto lo prese un’altra cliente. Si trattò di una storia di donne unite solo dal buon gusto. Si unì al gruppo Chaumont, che fu la collaboratrice più importante. Madeleine fu la protagonista di una storia di donne al servizio delle donne, per l’emancipazione. I suoi primi abiti erano senza busto, ispirati al kimono perché era interessata alla semplicità della struttura sartoriale. Nel 1914, allo scoppio della guerra, chiuse l’atelier e viaggiò per tutta l’Europa, soggiornando soprattutto a Roma. Nel 1918 riaprì la Maison. Lo sbieco e la geometria Riprese l’attività fondando la società Madeleine Vionnet et Cie e si presentò con una collezione di abiti in sbieco. Crinoline, pantaloni erano cose lontane dalla sua produzione. Si presentò con il modello à la grecque, un abito che, a differenza di Chanel che scelse il modello maschile, non ebbe nessun genere di appartenenza. Vionnet tornò all’antico abito lavorando il tessuto senza tagliarlo: utilizzava dei quadrati di tessuto appesi sul corpo. Il risultato era un chitone greco con plissetatura naturale. Tutto ciò prevedeva solo l’uso della stoffa in obliquo. S’ispirò a Roma e alle statue classiche per l’esteriorità dell’abito, ma la struttura nascosta derivava dalla geometria. Nelle sue realizzazioni non esisteva un rapporto tradizionale fra la vestibilità del capo e il modo di tagliare il tessuto: se la prima era coerente con la tridimensionalità del corpo, il secondo era costituito solo da figure geometriche piane. Vionnet studiò le diverse tipologie di vesti bidimensionali. I suoi abiti venivano progettati su un manichino di legno di 80 cm, si trattava di lavorare su un abito concepito come piatto e che solo sul corpo sarebbe diventato tridimensionale. Partiva dal risultato finale fino ad ottenere il sistema di costruzione. La ricerca dell’armonia Proporzione, armonia, perfezione erano gli obiettivi finali. Tutto ciò scaturiva dall'osservazione diretta del comportamento dei tessuti usati in sbieco. Dopo la guerra scelse collaboratori che venivano dal mondo dell’arte, come Thayaht, che realizzò l'immagine grafica dell'azienda, dalla carta d’imballaggio al logo della griffe. Fu da tale sodalizio che nel 1922 nacque la versione haute couture della tuta femminile, che Thayaht aveva progettato. Nel 1921 la maison sperimentò la struttura proporzionale della pittura greca attraverso il ricamo, usando la superficie del vestito come un vaso. Il tema divenne il simbolo della maison. I suoi vestiti avevano forme dinamiche ricavate delle proporzioni armoniche della figura umana, i suoi modelli rispettavano l'uso della diagonale e di figure come quadrato, triangolo, rettangolo e spirale logaritmica. L’aderenza era il risultato di un accurato calcolo dell'elasticità delle stoffe, così nasce l'uso dello sbieco. Ma in generale nessuna delle creazioni di Vionnet dichiarava la propria struttura geometrica. Il comportamento il materiale utilizzato in sbieco originava sul corpo petali, drappeggi ecc. Dava grande importanza al ricamo ma non lo considerava una decorazione. 50, Avenue Montaigne La sua proposta venne accolta sia dal mercato europeo che da quello americano, perciò nel 1922 si espanse e la società accolse un nuovo socio. Venne acquistato un hotel particulier in Avenue Montaigne per dare alla maison una sede più adatta. Nel realizzare la nuova sede si diede importanza alla sua funzionalità come luogo di lavoro e l’azienda iniziò a contare 1000 lavoranti. Vionnet introdusse innovazioni che riguardavano i rapporti contrattuali e le condizioni di lavoro. In tutte le sartorie si cuciva sedute sugli sgabelli mentre lei arredò i laboratori con le sedie. Nell’edificio c’erano una mensa, una nursery, un’infermeria e un dentista. Per le sue operaie introdusse i congedi di maternità e le ferie pagate. Istituì anche un corso di formazione per le apprendiste. Nonostante questo, nel 1936 nemmeno Vionnet passò indenne nell'ondata di scioperi che sconvolsero la Francia. Ma le operaie aderirono solo per solidarietà. Il copyright Condusse una battaglia per imporre una novità fondamentale: il copyright. Uno dei problemi dell'alta moda era la diffusione delle imitazioni, intorno alle quali si era formata l'industria della contraffazione. La legge difendeva dai falsi la produzione artistica ma non quella dei couturiers. Così nel 1921 venne emessa una sentenza per la protezione e il deposito dei brevetti. Dopo la sentenza, la maison fece pubblicare su Vogue un comunicato in cui spiegava il modo per riconoscere gli originali attraverso l'etichetta che portava la firma e l'impronta digitale del couturier. Prét à porter Il successo fu tale che nel 1925 fu aperta una succursale specializzata in abiti per le vacanze e per lo sport. Ma la vera sfida era il mercato americano e nel 1924 la Singer firmò un contratto con la maison per la produzione in esclusiva di abiti “taglia unica”. L’esperimento doveva durare 6 mesi, la collezione fu apprezzata dagli Stati Uniti ma non proseguì. Nel 1926 tentò di nuovo, con un socio americano, realizzando 40 modelli griffati in 3 taglie ma l’impresa non ebbe successo perché i tempi non erano ancora maturi. Negli anni seguì l’obiettivo dei soli abiti, senza specializzarsi in accessori. Stile anni 20 Negli anni 20 i suoi abiti si semplificarono: la linea si fece squadrata e i decori si ridussero. Ma lei era la moda, visto il successo delle sue creazioni e il suo pubblico vasto: quello ufficiale delle sue clienti e quello ufficioso dei contraffattori. In realtà come personaggio non faceva nulla per essere alla moda, non frequentava il gran mondo e non compariva mai. Lavorava come un’artista in solitudine e forse era questo suo “fare” che le diede prosperità, sopratutto durante la crisi del ’29, quando divenne un punto di riferimento. Gli anni 30 Nel 1930 l’adolescenza lasciò il posto a una giovinezza più matura e adulta. Il lusso chic venne sostituito da quello delle dive del cinema. La moda adottò un linguaggio classico: il fisico modellato dallo sport era simbolo di bellezza e gli abiti bianchi valorizzavano il sex appeal. Il metodo Vionnet rimase di moda perché era il migliore per sottolineare le forme del corpo. Tutti si cimentarono con lo sbieco ma i suoi modelli erano più belli e avevano un aspetto meno revival. Erano abiti che vivevano in simbiosi con il corpo. Con il tempo il sistema di taglio di Vionnet andava migliorandosi. La gonna ampia Nel 1934 ci fu una svolta nella produzione. 15 giorni prima della presentazione della collezione invernale decise che era ora di cambiare e il suo stile venne rappresentato da una gonna larga coperta di volant, ispirata all’800 romantico. Negli anni successivi gli abiti divennero lussuosi e di gusto hollywoodiano, segnando la vita alta e la gonna ampia. Sperimentò anche il materiale alla moda: il merletto. Ma inventò nuove tecniche di decorazione come l’effetto a contrasto (applicando materiali diversi sui altri tessuti). Reinventò i procedimenti di tintura usando bagni di differente intensità di colore. Nel campo dei modelli aderenti sperimentò la pieghettatura in rilievo. La collezione della primavera 1939 fu sontuosa ma sarebbe stata l’ultima ad essere messa in commercio. Infatti la società Vionnet era stata ,essa in liquidazione nel Settembre in cui scoppiò la seconda guerra mondiale. Nel 1940 furono messi all’asta gli arredi della maison e fu venduto tutto quello che l’atelier conteneva. Nel 1952 Vionnet donò all’unione francese delle arti quello che le era rimasto de suo lavoro. Morì nel 1975 a 99 anni. Elsa Schiaparelli (1890-1973) Una giovinezza inquieta Elsa aveva alle spalle una situazione familiare privilegiata. Nonostante questo la sua vita non fu tranquilla. Era nata a Roma in una famiglia di intellettuali piemontesi e tutto ciò avrebbe potuto far presumere per Elsa una vita borghese, questo però non era il suo destino. Avrebbe voluto fare l’attrice ma la sua posizione sociale non glielo consentiva. Scrisse poesie in stile dannunziano e suo cugino convinse un editore a pubblicarle. In famiglia il libro era considerato una disgrazia e per punirla la mandarono in un convento della Svizzera: la soluzione fu temporanea. Un’amica della sorella si occupava di bambini orfani e aveva bisogno di una ragazza per aiutarla, Elsa colse l’occasione. Partì per Londra passando per Parigi: fu il suo primo contatto con la città e la vita mondana. Fu anche il suo primo approccio con la sartoria. A Londra conobbe il conte William de Wendt de Kerlor e si sposarono. Allo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza e nel 1919 partirono per gli Stati Uniti: l’impatto con il nuovo mondo fu fortissimo. Elsa ebbe una figlia ma il matrimonio fallì e il marito se ne andò. Nello stesso periodo morì suo padre e lei si trovò sola a New York con una bambina dalla salute cagionevole, senza nessun sostegno economico. Si mise a cercare lavoro e conobbe Gabrielle Buffet che le permise di inserirsi nella vita di New York. Sua figlia si ammalò di poliomielite e perciò partì a Parigi dove fu ricoverata e lei trovò lavoro. Fu in questo periodo che incontrò Paul Poiret e cominciò ad inventare abiti. Scelse un settore che negli anni Venti si stava aprendo alla partecipazione femminile agli sport. Lo sport e la maglia Negli anni Venti l’attività sportiva era una moda diffusa, ci fu lo scandalo delle tenniste che entrarono in campo con una nuova divisa: un completo che lasciava libero il corpo. Elsa iniziò a realizzare abbigliamento sportivo e nel 1925, sostenuta dal finanziamento di un’amica americana acquistò la maison Lambal. La prima vera collezione fu presentata nel 1927: maglieria dai colori brillanti, ispirata a Poiret, con materiali nuovi come il kasha, un cachemire morbido ed elastico. Il golf armeno Il modello che la lanciò nella moda fu un golf, lo aveva visto addosso ad un’amica e aveva scoperto che era stato fatto da una donna armena. Era un particolare punto a maglia, ottenuto con 2 fili di lana. L’innovazione che apportò Elsa fu l’effetto “disegni” ottenuto con due fili di colore diverso. Venne chiamato golf trompe-l’oeil. Fu lei stessa ad indossarlo in pubblico attirando l’attenzione: un buyer americano ne ordino 40. La nuova idea si impose a Parigi attraverso le attrici e i personaggi famosi. La fantasia di Elsa si scatenò e sui golf comparvero cravatte da uomo, nodi, fazzoletti, schemi per cruciverba ecc. Negli anni seguenti la maglia divenne immagine del corpo perciò la riempi di tatuaggi con cuori trafitti e scritte. Nel giro di poco tempo anche il mercato delle copie se ne impadronì, per questo Elsa ne limitò la produzione per conservare loro un valore elitario. Dallo sport all’haute couture Nel 1928 trasferì abitazione ed attività in un vecchio appartamento dove espose l’insegna “Schiaparelli pour le sport” e cominciò a presentare collezioni di abiti sportivi colorati e decorati. Dal punto di vista della struttura i suoi modelli erano una novità: il costume da bagno era realizzato a maglia elastica ed aderente e si era ridotto eliminando la copertura di braccia e gambe. Questa novità la ripropose nel pijama da spiaggia. Estese l’utilizzo dei pantaloni cavallerizzi per lo scii e nei primi anni 30 la collezione si aprì alle toilettes da città e da sera. Il tailleur e le gonne- pantalone diventarono la specialità della casa. Fra le frequentatrici della maison cominciarono ad esserci attrici di rilievo, ma ciò non bastava per colpire l’immaginario internazionale. Era necessario che le sfilate venissero fatte nei luoghi frequentati dall’alta società: grandi alberghi, luoghi di villeggiatura, tornei di tennis, teatri. Per questo Elsa scelse di indossare i propri abiti ai party e alle occasioni mondane. Per poter fare tutto ciò doveva essere accetta alla pari dalla società del lusso, condizione resa possibile dal fatto che lei veniva dall’aristocrazia. La moda secondo Schiaparelli All’inizio degli anni 30 Elsa creò una silhouette che corrispondeva all’ideale di donna della crisi del 1929. Il mondo era povero e la ricchezza era un bene raro. La sua ipotesi vestimentaria nasceva da un’idea femminista e gli abiti dovevano proteggere la donna dagli attacchi del maschilismo: difensiva di giorno e seducente la sera. I 10 anni passati fra New York e Parigi le avevano insegnato che l’uomo era la controparte e il 1929 stava creando disoccupazione che colpiva soprattutto le donne. Nacque così la silhouette a grattacielo: linee dritte e verticali, spalle larghe e squadrate e molte imbottiture. Anche chanel aveva creato indumenti simili per liberare il corpo dalle costrizioni, ma Schiaparelli andò oltre: conquisto il comfort e il mood femminista mantenendo la femminilità. Alla divisa affiancò gli accessori: cappelli e copricapo. Dal 1931 iniziò ad ingrandire la maison e il suo staff che prevedeva un responsabile per ogni settore. Nel 1933 aprì una sede a Londra ma per problemi finanziari chiuse nel ’39. Negli anni seguenti presentò la silhouette “temporale”: una versione aerodinamica. Sperimentò una grande quantità di materiali: naturali, artificiali, sintetici o rielaborati chimicamente. Adoperò il cellophane sia lavorato a tessuto che in jersey per realizzare accessori trasparenti. Le collezioni a tema Nel ’35 la maison fu trasferita fu trasferita e il piano terra diventò l’ingresso della boutique. La sua produzione non si limitò alla sartoria, spaziò dai profumi agli accessori, dai bijoux agli indumenti sportivi: l’idea era offrire alle clienti la possibilità di vestire Schiaparelli dalla testa ai piedi o di scegliere un solo particolare. Per l’inaugurazione del nuovo atelier creò un tessuto stampato a pagine di giornale, ma la vera novità riguardò le collezioni che dal ’35 in poi ebbero una cadenza stagionale (4 ogni anno). Ognuna di queste aveva un tema conduttore tra abiti, accessori e sfilata. Un’altra novità fu la cerniera: furono un vero successo di vendite. Nel 1935 andò a Mosca per rappresentare la couture francese alla prima fiera sovietica. Anche lei, come Vionnet, aveva risolto la situazione contrattuale dei suoi lavoranti garantendo salari più alti della media, 3 settimane di ferie l’anno e assistenza in malattia. Contrariamente a quanto accadde nelle altre maison, le sue operaie non si unirono allo sciopero del ’36. Il rapporto con il surrealismo Dal ’36 iniziò un periodo particolare nella sua ricerca: voleva che le donne osassero essere femminili ed estrose. La forma di lusso che lei offriva era di non seguire le regole del senso comune e c’era qualcosa in tuto ciò che somigliava alle regole degli artisti dada e surrealisti. Le collezioni del ’36 in poi vennero elaborate con l’aiuto di artisti come Cocteau e Dalì. Per la cultura occidentale il corpo femminile era un insieme di simboli erotici che potevano essere smontati per trasformarsi in feticci. La struttura anatomica della donna non era altro che un busto da sarta, e nel ’37 Elsa comunicò questa “scoperta” realizzando per l’Exposition un manichino nudo con gli abiti ad un filo. Il nuovo profumo invece lo chiamò Shocking, come il suo colore rosa venne venduto in una boccetta che aveva le forme del busto. Il tappo era coperto di fiori e il marchio era scritto su un metro da sarta, il messaggio era esplicito: “la moda è un metro e un manichino da decorare”. La moda, l’inconscio, l’immaginazione poetica La donna era per lei un insieme complesso, composto da una forma anatomica e uno stato sociale, ma anche da un mondo interiore. Il ruolo sociale, che esse avevano ricoperto negli anni 30, era rappresentato dalla divisa. Mentre il mondo interiore (la psiche) andava ricercato tramite la psicanalisi. Era innegabile che il linguaggio della moda fosse diventato erotico e seduttivo, ma bisognava ricorrere ad altri linguaggi per esprime la femminilità. L’obiettivo allora era di liberare l’immaginazione poetica e dare sfogo ai propri sogni. L’infanzia, il sogno e il favoloso erano le fonti cui ricorrere. Schiaparelli usò questo metodo per creare uno stile che comunicasse l’interiorità della donna. La prima collezione che seguì dava libero sfogo alla sua immaginazione e le sfilate diventarono ancora più teatrali. Il tema fu quello del circo, usando acrobati sulla facciata della maison e una parata per far ammirare i vestiti. Era la prima volta che una sfilata aveva le caratteristiche di uno spettacolo. I vestiti presentati erano i soliti, la novità stava nella decorazione dei tessuti e dei materiali (forme di animali, insetti, stampe colorate ecc.). La ricchezza della sua proposta ormai poteva fare a meno dell’aiuto di artisti e questa fu, infatti, l’ultima collaborazione tra un couturier e un pittore. Le collezioni seguenti seguono temi come il cosmo, la natura, lo zodiaco, la maschera e la commedia dell’arte ecc. Ma nel 1939 iniziava ad avvicinarsi la minaccia di guerra dalla Germania. Il mercato della moda Quello che Dior affrontò nel ’47 era un mercato differente dato dal fatto che nel ’40 gli Stati Uniti avevano interrotto i legami con la Francia e avevano dovuto riorganizzare un sistema produttivo interno ed una moda americana (il ready- to-wear). Ma nel ’45 i fili interrotti si riannodarono anche se il pubblico ormai era abituato ad indossare il ready to wear. Accanto all’alta moda sorse una moda più abbordabile grazie al boom economico degli anni ’40. Così la maison Dior iniziò a sperimentare il prèt à porter di lusso. Nel frattempo iniziò anche un lavoro sulle licenze, partito con un contratto per le calze stilato con Prestige. La ridiscussione del contratti portò ad una rottura e alla prima licenza: dal ’49 Kayser cominciò a produrre le calze Christian Dior. La seconda licenza del ’50 riguardò le cravatte, la cui fabbricazione era gestita dalla società Stern, Merritt & Co. A Dior toccò dal 30 al 40% delle royalty . Da quel momento le licenze si moltiplicarono e con loro i mercati raggiunti. Nel ’52 si cercò di concentrare a Parigi tutta la creazione per arginare il mercato delle coppie. Nel ’54 Dior rappresentava da solo il 49% delle esportazioni di couture verso gli Stati Uniti. L’immagine dell’haute couture Per sostenere ciò era necessario tenere l’attenzione della stampa sulla lunghezza delle gonne e sulla linea (i simboli del New Look). Dior scelse poi di sviluppare in ogni collezione solo 2 temi, cui venivano attribuiti nomi che ne riassumevano le caratteristiche (nomi di fiori, donne e paesi esotici). La rappresentazione teatrale della sfilata era preparata secondo il suo gusto, infatti il lavoro creativo lo svolgeva solo lui con alcuni collaboratori stretti. Selezionava con il suo staff i disegni e le idee, i nomi da dare ai modelli e quali di essi sarebbero entrati nella collezione (ogni collezione comprendeva dai 170 ai 200 modelli). L’evento veniva organizzato nei minimi particolari, perché la sua riuscita era fondamentale per mandare avanti la maison. Lo stile Dior Il New Look durò 7 anni, ma venne cancellato dalla linea del ’54. Chiusa la crisi del dopoguerra si chiuse anche la parentesi della donna-fiore. Nel frattempo, Chanel era tornata dall’esilio con una collezione dedicata alla donna moderna e il modello femminile stava cambiando. Le nuove collezioni si affermarono tutte in altezza: una rivoluzione. Lo sconcerto iniziale si trasformò subito in pubblicità. Nelle collezioni seguenti venne riproposto il modello dritto e ogni linea prese il nome delle lettere dell’alfabeto. Alcune furono più semplici e sobrie ma Dior non abdicò mai dal suo gusto opulento, ma la correzione fu necessaria a causa della concorrenza. La maison aprì un dipartimento di prèt à porter chiamata la "grande boutique”. Nel ’57, a 10 anni dalla prima collezione, la fama di Dior era giunta la culmine e la sua azienda era un impero valutato 7 miliardi di franchi. Ma nello stesso anno Dior morì improvvisamente e poteva essere la fine di tutto. Ci fu una conferenza per decidere il futuro dell’impresa e alla fine la Maison Dior continuò nella sua strada, grazie al fatto che nel ’48, Dior pose le basi affinché la maison potesse continuare anche dopo la sua morte. La gestione passò a Yves Saint Laurent, che si trovò con una responsabilità enorme e l’affrontò benissimo. La sua prima collezione, che riprendeva lo stile Dior, ebbe molto successo. Il giovane continuò il suo lavoro fino agli anni 60. La moda italiana La moda italiana nacque nel secondo dopoguerra. Dopo un passato glorioso durante l’Ancien Regime, l’Italia divenne un paese marginale. Le novità venivano da Parigi e la produzione locale era sartoriale. Si tentò di stabilire una moda italiana sotto il regno della regina Margherita e durante il fascismo, ma non ebbe successo. Gli Stati Uniti e la moda italiana Il processo di rinnovamento fu favorito dal rapporto con gli Stati Uniti, con il piano Marshall del ’47 l’America mise a disposizione finanziamenti e macchinari. L’obbiettivo era trasformare la produzione italiana adatta per il mercato statunitense. l’Italia era considerata fra le più povere delle nazioni moderne ma tra i settori di eccellenza vi era la moda romana. Vogue iniziò a parlare dell’Italia fashion, ma tutto questo interessa era dato dal fatto che Ferragamo vinse il Neiman Marcus Award per le calzature. Nel frattempo l’industria americana si era allontanata da Parigi e aveva creato un proprio stile (produceva alta moda e sportswear). Ma il mercato americano era tanto vasto da poter accogliere la produzione altrui. I primi buyer che si recarono in Italia fecero tappa a Milano e Roma. L’Italia stava diventando interessante per i suoi paesaggi e la sua cultura. La sartoria di alta moda Le sartorie riaprono dopo la guerra, ma i nomi famosi prebellici furono sostituiti da imprese nuove e giovani (le sorelle Fontana, Biki, Carosa ecc..). In questa prima fase la capacità progettuale delle sartorie era limitata, infatti adottavano uno stile ottocentesco. Nel corso del decennio il problema fu superato attraverso contratti che legavano alcuni designer a delle case di moda, per favorire un’identità precisa. Negli anni 50 l’alta moda italiana era ancora ispirata alla sartoria francese, ma il mercato americano le assunse il compito di realizzare alta moda e sportswear a prezzi bassi. Così da accontentare la borghesia che non poteva permettersi i prezzi di Parigi e di proporre anche il ready-to-wear. Moda, boutique e accessori Le sartorie iniziarono a produrre capi da boutique e accessori per accontentare il mercato americano. Alcune aziende come Ferragamo e Gucci, erano abituate da tempo a produrre per l’esportazione. Accanto a esse nascevano nuove imprese che ebbero successo con la vecchia nobiltà, come ad esempio la marchesa Olga de Gresy che produceva maglieria; Giuliana Coen Camerino che produsse borsette e così via. Il caso più noto resta quello di Emilio Pucci che produceva abiti e sandali. Nel giro di poco era riuscito a elaborare uno stile sportswear: capi semplici ma caratterizzati da una fattura sartoriale, tanta fantasia e colore. La nascita della moda italiana fu un’operazione di carattere culturale che consistette nell’uso di competenze artigianali e popolari. Pucci aveva studiato in America e sapeva cosa voleva quel mercato, così propose un tipo di abbigliamento con le stesse caratteristiche dello sportswear, ma adatto anche alle vacanze e alla quotidianità, con un gusto antico. Il pubblico americano ne decretò il successo e quella fu la prima forma di moda italiana. Tessuti italiani Il fattore che Vogue riteneva eccitante erano i tessuti. Nel dopoguerra, l’unica merce del settore moda ad essere prodotta industrialmente era il tessuto. L’Italia aveva dei centri specializzati: la seta in Lombardia; il cotone, la lana e le artificiali in Piemonte e Veneto. Il comparto delle fibre chimiche aveva un’industria moderna. Alcuni imprenditori di Como, negli anni 50, produssero tessuti per i couturiere parigini, ma un ruolo fondamentale lo ebbe la SNIA Viscosa che promosse le sfilate a Venezia. Le sfilate di Venezia raggruppavano tutte le sartorie più importanti e nel ’51 venne costituito il Centro internazionale delle arti e del costume. Nel ’53 si consolidò un accordo che rapportava una casa di moda con un’industria, per facilitare la produzione, l’economia e le collaborazioni. Gli italiani iniziarono anche ad acquistare spazi nelle riviste per presentare i propri modelli con il proprio marchio. La promozione della moda italiana L’inventore che mise in relazione l’Italia con il mercato americano fu Giovanni Battista Giorgini, un commissionario che comprava la produzione italiana e la vendeva ai grandi magazzini americani (biancheria, abbigliamento, ceramiche). Negli anni 50 decise di investire sull’abbigliamento italiano come settore adatto all’esportazione e nel ’51 organizzò la prima manifestazione internazionale di moda italiana. Il successo ottenuto lo portò a continuare l’impresa, scegliendo per i due anni successivi, il Grand hotel di Firenze. Nel ’52 ci fu la prima sfilata nella sala Bianca a Palazzo Pitti, che divenne poi la sede ufficiale delle passerelle made in Italy. Nello stesso anno però, le sartorie romane decisero di presentare le collezioni a Roma, creando un nuovo polo. Le sfilate a Palazzo Pitti erano collettive: le case di moda si susseguivano con 18 modelli ciascuna (alta moda, boutique, linee sport). La comunicazione La concorrenza fra le case di moda, enfatizzata dalla passerella unica, portano i sarti a ricercare una personalità per caratterizzare le loro collezioni. Nel giro di pochi anni, Firenze divenne meta abituale per buyer e giornalisti di moda italiani e stranieri. Le novità italiane iniziarono ad apparire anche su Vogue e Harper’s Bazaar. La stampa nazionale iniziò ad interessarsi al fenomeno, mentre la moda italiana divenne un sistema produttivo complesso e le riviste che se ne occuparono furono “la Donna”, “Bellezza”. Tutto ciò favorì l’uscita di testate nuove come “Novità”, per un pubblico borghese colto; oppure “Grazia” e “Annabella”. Ma le riviste, per essere al pari di quelle internazionali, necessitavano di professionisti e disegnatori/fotografi non erano sufficienti. Alla domanda rispose una nuova generazione di fotografi ma anche di modelle. Nel ’56 il Centro della moda italiano organizzò una crociera a New York, parteciparono case di moda milanesi e romane che furono poi presentate in televisione. Nel ’58 vennero organizzate manifestazioni a Chicago, san Francisco e Los Angeles. La forma di comunicazione più spettacolare di cui godette la moda Italiana fu il grande schermo: Cinecittà, fondata dal regime fascista nel ’37, fu rimessa in funzione nel dopoguerra e divenne polo importante per il cinema degli anni 50. Roma divenne industria cinematografica mondiale, con la conseguente concentrazione di divi e attori. Le sorelle Fontana furono le più abili nello sfruttare questo potenziale, vestendo anche Frank Sinatra. Emilio Federico Schuberth vestì invece le dive italiane, da Sophia Loren a Gina Lollobrigida. Fernanda Gattinoni si occupò invece di attrici come Audrey Hepburn. Tutte le sartorie romane vantavano nella loro clientela le dive dello star System, e tutto ciò permise alla moda italiana di diventare molto popolare. Prèt à porter La fine della guerra aprì un nuovo capitolo nella moda occidentale e l’influenza americana ebbe un peso incommensurabile: l’Europa iniziò a guardare agli Stati Uniti come un modello. Le tradizioni vecchie furono sostituite da modi di vivere più democratici. Le produzioni artigianali e le manifatture imboccarono la strada della modernità, completando il processo di industrializzazione. La moda ne risentì e importò la confezione industriale e il ready-to- wear. Le origini del prèt à porter La riapertura delle frontiere commerciali degli Stati Uniti fornì l’occasione agli imprenditori europei di visitare le aziende americane. Il settore moda scoprì il ready-to-wear: ma non era la confezione che si conosceva già in Europa, ma un vero e proprio sistema moda progettato da designer, con una gamma ricca e di qualità. Negli anni 50 l’Europa adottò il modello di consumo americano acquisendo i caratteri della civiltà di massa. Fu un processo graduale, di un decennio. La Francia iniziò a creare prodotti diversi dall’haute couture e dalla confezione a basso prezzo, senza avere i costi della prima ma nemmeno la mediocre qualità della seconda. I francesi decisero di intervenire sulla percezione che il pubblico aveva del ready-to-wear, traducendo il nome in prèt à porter. Definiva una produzione industriale di qualità, che si adeguava allo stile dell’alta moda ma che sostituiva il “fatto su misura”. La relazione diretta tra produzione e pubblico era fondamentale e la stampa di moda (“Elle”, “Marie Claire”) propose sia le collezioni francesi che americane. Bisognava cercare di attrarre più clientela possibile studiando i vari gusti delle nuove generazioni consumatrici. Dior aveva colto il mutamento e aveva proposto una linea di prèt à porter di lusso dedicata al pubblico americano, ma presto anche gli altri couturier presero questa strada. In Italia iniziarono dagli anni ’60 e le sartorie diedero vita a linee di prèt à porter e sfilare con l’etichetta di alta moda pronta. L’industria della confezione in Italia In Italia la produzione di abiti in serie non aveva tradizioni. La presenza di molti sarti artigiani in grado di rispondere alle richieste di abbigliamento di tutti gli strati della popolazione non aveva favorito la nascita dell’industria. Le uniche aziende che si occuparono di confezione femminile tra le due guerre erano Torino e Milano. Più consistente fu la produzione maschile (prevaleva la camiceria e gli impermeabili). Il settore si formò negli anni ’50 stimolato dallo stile americano, la maggior parte della produzione fu maschile (unica femminile fu Max Mara). Il modello di riferimento era l’industria americana: grandi stabilimenti e quantità abbondante di manodopera. Nel ’45 nacque l’associazione italiana dell’abbigliamento. Nel ’55 fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone per promuovere le vendite della moda pronta (per 2 volte l’anno). Il gruppo dei confezionisti italiani iniziava ad essere consistente, ma bisognava ricercare uno stile riconoscibile e un modo più strategico per la pubblicità sui giornali ed in televisione. Nel ’69. Fu aperta a Torino la prima edizione di Modasalone, che comprendeva Max Mara, Piero Chiesa, Sergio Bonanni ecc. La stagione della grande industria stava volgendo al termine, nei primi anni ’70 iniziarono a cambiare le condizioni che ne avevano favorito lo sviluppo: i rapporti tra lavoratori ed imprenditori, il desiderio giovanile verso l’abbigliamento informale. L’haute couture stava perdendo il proprio ruolo a favore del prèt à porter giovanile. Tutto ciò portò al fallimento delle grandi industrie. Nel ’75 alcuni imprenditori fondarono la Federtessile, per affrontare insieme la crisi. Investirono su piccole imprese collegate a filiera e iniziò ad essere individuato un ruolo centrale per la progettazione creativa. Si stavano ponendo le basi del successo internazionale della moda italiana degli anni ’80. La moda giovane degli anni ’60 Furono gli anni ’60 che cambiarono il modo di vestire: l’adozione dei blue jeans come abbigliamento da città, l’apparizione dei primi stilisti di prèt à porter. Nel ’65 Courrèges presentò la moda corta e diede vita alla “mini”, che guadagnò strada a Londra con Mary Quant. Nel ’67 nasce a San Francisco il movimento hippy, che conquistò tutta l’Europa portando uno stile folkloristico, vestiti di cuoio e blue jeans. Ma è presso gli hippies che bisogna cercare l’inizio della moda maxi. Nel ’70 appaiono i mini shorts e tutte le mode cominciano a mescolarsi. Sarà l’anno della totale anarchia: mode selvagge che daranno vita al militare e al kitsch. Attori principali di tutto ciò furono gli adolescenti, un gruppo sociale che la moda non aveva mai considerato come possibile mercato. L’alta moda fu ignorata e i giovani adottarono quelli che furono chiamati stili: comportamenti vestimentari autonomi. Teddy Boys, mods, rockers, beatniks, hippies cominciarono a vestirsi e a recuperare indumenti della rivendite dell’usato, magazzini di abiti da lavoro e viaggi in Oriente. Aldilà delle aggregazioni identificate esisteva però un intero popolo di giovani che adottò la moda pop: mini gonna femminile e il colore negli abiti maschili. Queste mode ero diverse da quelle adulte e nascevano in opposizione ad esse. I maschi avevano i capelli lunghi, diventarono fantasiosi e psichedelici. Londra diventò il centro internazionale della cultura giovanile ed una nuova generazione di stilisti creò moda e negozi concepiti per gli adolescenti. Mary Quant nel ’55 aprì il Bazaar, lanciò l’abito con la gonna a metà coscia da indossare con i collant colorati. Tutto ciò nacque come divisa di ragazzini che rifiutavano di crescere, non avevano implicazioni erotiche. A Parigi le boutiques si moltiplicarono, modificando le vetrine. Le mode trassero ispirazione dai teenagers, dai miti musicali. L’Europa si aprì alla confezione in serie per il pubblico allargato, dal couturier si passa allo stilista (Karl Lagerfeld). Anche l’haute couture cambiò e propose uno stile spaziale, futuristico, ispirato alla fantascienza e ai fumetti. Ungaro e Rabanne presentarono modelli con cuciture a vista e materiali tecnologici. Il primo a percorrere la strada di una linea pronta, accompagnata da una boutique monomrca e punti vendita controllati, fu Pierre Cardin, seguito poi dagli altri: Yves Saint Laurent Rive Gauche, nel ’67 miss Dior, nel ’68 Givenchy Nouvelle Boutique. Solo Balenciaga non accettò il cambiamento ma le sue creazioni continuarono ad essere punto di riferimento della moda francese anche se nel ’68 la stagione aristocratica finì e chiuse il suo atelier. Uno dopo l’altro i grandi magazzini di lusso americani chiusero il settore couture, la moda era ormai guidata dai giovani stilisti (Kenzo). Nel ’71 si corressero i rapporti tra gli stilisti, che avrebbero progettato e firmato le collezioni, e gli industriali che le avrebbero prodotte. Lo stesso anni iniziò il calendario delle sfilate. Il prèt à porter italiano L’unica azienda che seppe trarre vantaggio dal cambiamento fu Max Mara, creando una linea per giovani. Dal ’67 la passerella di palazzo Pitti fu riservata invece alle sfilate di lusso. Nelle grandi città e nei luoghi di vacanza aumentarono le boutique e a Milano nacque il “quadrilatero della moda”. I nomi Krizia, Missoni, Karl Lagerfeld, Walter Albini diventarono i primi stilisti con marchio aziendale. La professione di stilista: Walter Albini Fu il primo a cogliere l’eccezionalità della situazione legando il suo marchio aziendale alla boutique. Il primo passo fu creare un rapporto paritario con un produttore e fondare una piccola società di produzione di abiti: la Misterfox. La Haute couture e industria del lusso: Chanel Nessuno si rivolgeva più all’haute couture, l’industria di confezione aveva ormai i propri stilisti e non aveva più bisogno di andare a Parigi. Le sartorie erano del tutto scomparse e i buyer non sceglievano più capi da sfilata. Il vero volume d’affari delle maison era rappresentato dalla vendita di profumi, dalle licenze e dal prèt à porter di lusso. Nonostante ciò Parigi, due volte l’anno, continuava a fare le sfilate. Ma quella bravura artigianale dell’haute couture rappresenta ancora la moda e questo poteva voler dire che non era ancora morta. Se ne resero conto alcune maison che negli anni 80 rivalutarono il tema del lusso. Il nuovo corso cominciò con Chanel. Karl Lagerfeld e la Maison Chanel Nel 1982 la maison affidò il ruolo di consulente artistico per l’haute couture a Karl Lagerfeld. La notizia creò un certo scalpore: era strano che si affidasse a uno straniero questo compito. Karl era nato nel 1933 ad Amburgo, ma viveva lavorava a Parigi dal ’54. La seconda perplessità fu che Karl era sempre stato al servizio del prèt ò porter, ma in quegli anni era anche considerato uno degli stilisti più famosi nel panorama della moda (diede successo a marchi come Fendi e Chloé). La maison Chanel Dopo la morte di Coco (1971), la maison aveva continuato a proporre il tipo di modelli che ne avevano segnato il successo tra gli anni 50 e 60. Per tutti gli anni 70, la sopravvivenza della maison fu affidata all’atelier. Il problema era che mancava lo slancio creativo, una carenza grave in quel periodo. In quegli anni il couturier era stato sostituito dallo stilista e Parigi aveva perso da tempo il privilegio di essere l'unico polo capace di irradiare nuove tendenze: New York, Firenze, Londra e Milano si presero questo ruolo. Alla fine degli anni 70 Chanel non era più una griffe di punta. Proprietaria del marchio era la famiglia Wertheimer, che nel ’68 lanciò una campagna pubblicitaria di Chanel N°5, che portò alla distribuzione incontrollata del profumo più famoso del XX secolo. Nel ’73, la sede fu spostata a New York in un grattacielo ma bisognava rimediare all'errore riportando la distribuzione del profumo entro canali più controllati, per restituirgli l'immagine di lusso. Nel ’78 vennero girati due spot pubblicitari, ci fu il lancio del N°19 e di Cristalle, ma non avevano dato grandi risultati. La scelta quindi cadde sui cosmetici: comparve la linea Beauté. Per adeguarsi davvero si decise di sperimentare il metodo delle licenze e proporre una boutique Chanel per borse, scarpe, foulard e cravatte. Nel 1980 entrò Karl Lagerfeld, che fece rinascere Chanel. L’haute couture di Karl Lagerfeld La collezione portata da Lagerfeld nell’83 non suscitò grande entusiasmo. Effettivamente Lagerfeld aveva avuto solo il tempo di iniziare quella che sarebbe stata un’esplorazione approfondita dell’universo Chanel. In mezzo alla collezione c’erano però due modelli che facevano presagire un nuovo corso. Il primo completo apriva il dialogo fra lo stile degli esordi di Chanel e la moda contemporanea. Il secondo era frutto di una riflessione più complessa, si trattava di un lavoro di decostruzione del mondo Chanel. Il “patrimonio spirituale” di Chanel In un breve articolo Lagerfeld sintetizzò il suo obiettivo: “Chanel è un look che io devo portare in un altro decennio”. Nei primi anni 90, il procedimento fu chiaro, quando lo stilista decise di rendere pubblico il suo percorso. Il progetto di rilancio era riuscito: ripercorrere la storia di Coco e del suo lavoro unico. Il punto focale proposto da Lagerfeld come chiave interpretativa del fenomeno Chanel era la filosofia del cambiamento, del saper evolvere interpretando i tempi e i desideri delle donne. Egli aveva fatto un’approfondita ricerca alla scoperta del patrimonio spirituale di Chanel. Il risultato di questo lavoro ne ripercorre la storia. Oltre alla sua vita e alla sua produzione, Chanel aveva messo a disposizione dello stilista un foulard. Prodotto nel ’65, quel quadrato di Twill di seta portava stampato i simboli della sua carriera: la doppia C intrecciata. Il lavoro di decostruzione e di selezione aveva messo in luce una serie di sogni che potevano essere fissati in un eterno presente e trasformati in Indémodable. In questo modo fu creato un codice fatto di emblemi eterni. La nuova moda Chanel Dal 1983 Karl teneva in mano l’intera direzione artistica della maison parigina: dall’haute couture al prèt à porter, agli accessori, alla pubblicità. Fu dal prèt à porter che iniziò il ringiovanimento della moda Chanel. La clientela della couture era ancora la stessa, un piccolo gruppo di signore dell’alta società. Il mercato del près à porter era invece del tutto nuovo, composto da donne giovani che furono il pubblico di riferimento dello stilista. La collezione del ’84, la prima ufficialmente firmata da Lagerfeld, aprì un nuovo corso. Fu infatti inaugurata una nuova boutique a Parigi. La collezione proponeva un esperimento: il denim, un materiale povero e popolare. Egli non si avventurò nella creazione dei jeans griffati, ma lo utilizzò per confezionare un tailleur. L’idea era coerente con il carattere sportivo della collezione, ma dovette avere poco successo. L’imperativo era fare di nuovo moda, essere al passo con i tempi o anticiparli. Questo valeva per il prêt à porter ma anche per l’haute couture. Il codice Chanel Lagerfeld era sempre più bravo nello scovare nuovi collaboratori giovani e creativi, capaci di portare in scena il trasgressivo. Il rapporto di amore e odio dello stilista con il mito Chanel produceva soluzioni sempre più irriverenti ed ironiche. Le mode di strada entrarono in passerella mettendo a dura prova le lezioni sull’eleganza che Coco amava impartire, aprendo definitivamente le porte alla clientela più giovane. Le novità maggiori furono le mini gonne di jeans e gli stivaletti da motociclista, il chiodo di pelle e le gonne da ballo. Comparvero sulla passerella i primi piumini, poi i costumi da bagno e anche dell’abbigliamento più tecnico per lo sport e la ginnastica. Era una scelta che teneva conto di un cambiamento culturale nato negli Stati Uniti, come la moda del jeans, maglietta e scarpe Nike. Il mito Coco Tutto questo poteva funzionare grazie alla sopravvivenza del mito Coco Chanel. Lagerfeld ne era cosciente fin dall’inizio e aveva messo in evidenza il fatto che tutta la lunga storia della maison ruotava intorno alla sua figura fisica. In molti casi gli schizzi ripropongono le fotografie di Coco, in altri Karl indica il suo nome nella didascalia. Perciò il mito non doveva essere sfatato, al contrario lo spirito della grande Mademoiselle doveva continuare ad aleggiare. Lo fece in modo magistrale nel filmato pubblicitario del profumo Coco. La partita che egli giocò con Chanel era difficile e senza precedenti. Fino a quel momento coloro che erano subentrati in una maison fondata da altri avevano portato avanti il lavoro rinnovandolo, come Saint Laurent con Dior, o mummificandolo come il caso di Chanel. Il teorema Lagerfeld fu vincente, condiviso dalla maggior parte delle donne, dal Giappone agli Stati Uniti. Nel ’86 il mondo della moda assegnò a Karl il Dé D’Or. Tutto funzionava perfettamente, tanto che nel ’96, di fronte al collasso della vecchia couture Karl affermò che la sua maison era lontana da questi problemi. Nel ’90 i punti vendita diventarono 29 in Europa, 1 in Australia, 28 negli Stati Uniti, 1 in Canada, 9 in Giappone e 2 boutique a Parigi. A sostegno del lavoro di Karl aveva però operato tutta la dirigenza Chanel. L’investimento pubblicitario non fece perdere mai di vista il fatto che Chanel era un marchio di lusso. Il sistema Lagerfeld venne considerato un paradigma da prendere a modello ogni qual volta si decidesse di rinnovare una griffe storica. Accadde per Gucci, Dior e Louis Vuitton, Balenciaga e Vionnet. Haute couture e industria del lusso: Christian Dior La nuova proprietà: da Boussac ad Arnault La prima fase della maison Dior finì nel ’78, quando il gruppo Boussac venne messo in liquidazione giudiziaria. L’impero di Boussac era cresciuto acquisendo aziende e società tessili, più altri investimenti in vari settori: viaggi, corse di cavalli, editoria, stampa, elettrodomestici. La sua decisione di finanziare Dior aveva dato una spinta all’haute couture del dopoguerra. Il declino era iniziato negli anni 60. La diffusione dei tessuti sintetici, la concorrenza di quelli fabbricati a prezzi bassi nel terzo mondo furono le cause della rovina. Per far fronte alle perdite Boussac vendette i suoi beni. Il gioiello più prezioso era la maison anche se era stata separata dalla Parfums Dior, venduta a Moet et Chandon. Il gruppo Boussac venne invece assegnato ai Willot. L’illusione fu breve perché anche i Willot furono sottoposti ad amministrazione giudiziaria. Nell’84 l’intero gruppo venne messo in vendita. Fra i candidati all’acquisto c’era Bernard Arnault che fu nominato amministratore generale della compagnia Boussac Saint-Ferré. Il passo successivo era prendere la società Willot. Finanza ed industria del lusso Ad Arnault non interessava diventare un industriale tessile e nel giro di qualche anno vendette tutto, tranne la Dior. Aveva capito che poteva usare la sua posizione e l’esperienza di manager di altri comparti, per creare gruppi solidi attraverso investimenti e acquisizioni nello stesso settore. I due casi che darono ottimi risultati furono Moet et Chandon e Louis Vuitton. Egli entrò nel nuovo business usando Christian Dior, l’acquisizione di Celine e di Christian Lacroix. Il problema di fondo era però l’impossibilità di sostenere l’espansione senza la vendita di profumi e cosmetici. La vendita della società parfurms Dior aveva dimezzato il potenziale della casa di moda. L’occasione per riunificarle si presentò nell’87, con l’accordo di fusione tra Moet Hennessy e Louis Vuitton, che diede vita al primo gruppo mondiale specializzato nel lusso: LVMH. Louis Vuitton divenne famoso nel mercato dell’estremo Oriente, impiegava 1217 persone e raggiungeva una cifra d’affari di 1,1 miliardi di franchi. Si Moet Hennessy che Louis Vuitton SA furono quotate in borsa negli anni ’80. l’occasione favorì il progetto di Arnault che nell’88 assunse il controllo del gruppo LVMH. La parfurms Dior era stata recuperata, insieme ad essa era stato riunito un impero del lusso. La vicenda portò al centro dell’attenzione l’intero gruppo: Hermés si aprì alle arti della tavola e al prèt à porter; il gruppo Vendono riunì marche come Cartier, Mont Blanc, Chloè. Utilizzando i ricavi della vendita Arnault acquisì le quote di Fendi. La maison Christian Dior La maison non era più quella degli anni ’50, il marchio era gravato dalle licenze “260”. Si iniziò quindi un lungo lavoro, durato molti anni, per il recupero di Dior. Il nuovo corso fu cominciato attraverso 2 iniziative: nell’86 fu organizzata la mostra “Hommage à Christian Dior”; poi venne rimessa a nuovo la sede storica, ristrutturando gli uffici e la boutique. Gianfranco Ferré I cambiamenti erano alle porte: la maison presentò lo stilista che avrebbe progettato le collezioni haute couture, prèt à porter e alta pellicceria (Gianfranco Ferré). La notizia non fu accolta bene come nel caso di Lagerfeld e Chanel. Nello stesso periodo Arnorlt continuava a condurre l’affare LVMH. Lo stilista italiano aveva iniziato a lavorare nella moda, prima collaborando con diverse aziende, poi con un marchio proprio. Fu l’immagine del made in Italy nel mondo. La prima collezione haute couture fu un omaggio a Christian Dior e al New Look. Il risultato più importante fu costituito dall’arrivo dei buyer americani e dalla ricomparsa dei modelli Dior nelle vetrine degli stores americani. Negli anni però rimase attaccato allo stile e alle tradizioni del passato, affidando la nuova immagine Dior al grande abito da ballo. Ciò portò alla consumazione del rapporto con la maison nel 1996. John Galliano e l’haute couture Negli anni 80 il pubblico cambiò e Dior divenne poco attraente. Il nuovo stilista scelto dalla maison fu Galliano, che aveva lavorato per Givenchy. Egli portò a Parigi l’idea che l’abito fosse una sorta di travestimento. In Inghilterra nel frattempo nacquero i punk e i New romantics, i nuovi dandies e Galliano scoprì anche il teatro e i costumi. Il passaggio alla maison Dior avviene nel 1996 insieme a una mostra di inaugurazione organizzata a New York. La prima sfilata haute couture fu nel 97, con una scenografia fatta di tessuto grigio perla, in cui le modelle si muovevano tra il pubblico come negli anni 50. La collezione era un omaggio a Dior, in coincidenza con i 50 anni dalla prima sfilata. Egli cercò di costruire una femminilità nuova e libera. Anche nella seconda collezione presentò molti simboli e particolari usati da Dior durante il 900, modernizzando il tutto rapportandolo con la grande metropoli. Fu il primo passo verso la nuova immagine Dior. Dior però aveva lavorato per soli 10 anni, troppo poco. I soli simboli riconoscibili erano: la grafica della griffe, lo stile Luigi XVI, il grigio perla.. nonostante ciò lo stile Dior era inconfondibile. Galliano produsse negli anni seguenti un lusso moderno, con continuità del passato, a volte trasgressivo e pensato per le donne che volevano osare. Tutto questo fu sostenuto dalla pubblicità e dalla boutique monomarca. La boutique principale era a Parigi ma ne furono aperte tante altre nel mondo. Il cuore del progetto rimase la moda, ma considerata dal punto di vista del marketing. La nuova Generazione Dior sfilò a Versailles con la sua grandezza francese, ma all’insegna di provocazione e avanguardia con collezioni ispirate da Matrix a Dorian Grey.
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