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La nascita della Repubblica Romana: mito di Lucrezia e transizione al repubblicano, Schemi e mappe concettuali di Storia Delle Dottrine Politiche

La fondazione di Roma e la transizione dalla monarchia alla repubblica, attraverso la leggenda di Lucrezia e la cacciata di Tarquinio il Superbo. Il documento illustra i componenti costitutivi della società romana, l'istituzione della Repubblica e la secessione plebei, oltre a discutere sulla necessità di limitare il potere per garantire la stabilità e la durata del governo.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 01/12/2022

arianna_santigli
arianna_santigli 🇮🇹

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Scarica La nascita della Repubblica Romana: mito di Lucrezia e transizione al repubblicano e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! Esperienza politica romana N.B. FONDAZIONE DI ROMA: 753 a.C. (Già dall’età monarchica) Gli elementi costitutivi della civitas (tradotto città) romana erano: la gens (il gruppo di famiglie che hanno in comune un unico capo stipide), i patres familiarum (i capi della gens), il rex, il populus (l’insieme degli armati forniti dai gruppi gentilizi). I patres familiarum avevano piena autorità (patria potestà) su tutto ciò che era in loro possesso (schiavi, figli, mogli, clienti..). Il rex aveva l’imperium (un potere sovrano che ha in se stesso il proprio fondamento di legittimità) ed era dunque comandante militare, sacerdote e giudice. Il rex era assistito da un consiglio di anziani (senato) in epoca storica (700 a.C.) da 300 membri e da un consiglio di auguri per le pratiche del culto. Il popolo era formato unicamente dai guerrieri e partecipava alla creazione del re mediante l’acclamazione che veniva espressa nei comizi curiati. Erano esclusi dalla guerra (nel caso ci fosse) i nullatenenti, cioè coloro che non facevano parte del popolo (i poveri ancor più poveri dei proletari, ossia l’ultima classe). La prima costituzione monarchia aveva una rigida struttura gentilizia (i patrizi stanno sopra e i plebei stanno sotto) e qualunque persona che non apparteneva ad una gens era definita plebe ed erano infatti i piccoli proprietari, i contadini liberi e gli artigiani (plebeo non è uguale a POVERO; è data dall’assenza di una gens). A livello militare si passa da un esercito gentilizio (dei nobili) a un esercito oplitico (esempio: la città subisce un attacco e la città è formata da contadini, artigiani e altri mestieri; i nobili fanno parte della cavalleria e tutti gli altri, in base alle proprie possibilità economiche si compravano l’armatura e andavano in guerra; i più poveri facevano i veliti ossia coloro che in guerra “aprivano le danze” ed erano vestiti con tunica, cingulum, lamina di bronzo e tiravano i giavellotti=morte certa. Erano infatti i più poveri). Durante l’età monarchica con Servio Tullio (re etrusco, riforma del VI secolo) il popolo viene distinto in 6 classi sulla base del censo (guadagno) e queste classi complessivamente formavano 193 centurie; di queste 193 le ultime 5 erano i proletari o capitecensi che partecipavano ai servizi ausiliari. (ricorda che oltre c’erano i nullatenenti che non potevano combattere e non avevano peso politico). Intorno al 509 a.C. con la fine del dominio etrusco su Roma e dunque con la cacciata di Tarquinio il Superbo l’oligarchia gentilizia (i patrizi) sostituì al rex una magistratura annuale. Leggenda: Secondo la versione di Tito Livio sull'istituzione della Repubblica, l'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, aveva un figlio di nome Sesto Tarquinio. Durante l'assedio della città di Ardea,[1] i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo, tornando di nascosto a Roma, si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro assenza. Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà. Così portò con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a visitarla nel pieno della notte: poterono constatare che Lucrezia stava tessendo la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertivano in banchetti e orge. Tito Livio racconta che Sesto Tarquinio, invitato a cena da Collatino, conobbe la nobildonna, se ne invaghì per la bellezza e la provata castità, e fu preso dal desiderio di averla a tutti i costi. [3] Qualche giorno più tardi, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a Collatia da Lucrezia che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accolse in modo ospitale. Terminata la cena, andò a coricarsi nella stanza degli ospiti. Nel pieno della notte si recò nella stanza di Lucrezia con la spada e la immobilizzò, dicendole: [4] «Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 58.) Mentre Sesto le dichiarava il suo amore, alternando suppliche a minacce, la povera donna, colta da terrore, capì che rischiava la morte. Vedendo che Lucrezia era irremovibile, Sesto minacciò di ucciderla e di disonorarla: avrebbe infatti sgozzato un servo e glielo avrebbe accostato nudo accanto, facendo credere che avesse avuto un rapporto adulterino vergognoso. Lucrezia cedette e Sesto ripartì soddisfatto.[4] Lucrezia inviò un messaggero al padre a Roma e al marito ad Ardea, pregandoli di raggiungerla al più presto, insieme a un amico fidato, poiché era successa una cosa tremenda. Spurio Lucrezio giunse insieme a Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino insieme a Lucio Giunio Bruto.[4] In presenza dei suoi cari, Lucrezia in lacrime raccontò l'accaduto e si trafisse il petto con un pugnale, che nascondeva sotto la veste:[1][2][5] (LA) «Aduentu suorum lacrimae obortae, quaerentique viro "Satin salue?" "Minime" inquit; "quid enim salui est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed (IT) «Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: "Tutto bene?" Lei gli risponde: "Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il la potenza romana sembrava destinata, dopo la vittoria su Cartagine, a riprendere e dare concreta attuazione al programma di Alessandro Magno di unificazione del mondo abitato. Ne era profondamente convinto Polibio. Le conquiste romane realizzate in poco più di 50 anni rappresentavano un fatto straordinario senza precedenti nella storia umana e questa cosa può essere compresa tenendo conto non solo della storia degli avvenimenti ma anche le ragioni specifiche della sua potenza militare. Roma riesce ad avere questi successi grazie alla sua costituzione che garantiva disciplina mentre le polis greche, profondamente divise all’interno da partiti e fazioni in perenne lotta fra loro, manifestavano una irreparabile decadenza politica. Le comunità si costituiscono per un istinto che è proprio di tutti gli essere viventi che, nell’ambito della stessa specie, si uniscono per difendersi dai comuni pericolo; il gruppo riconosce come guida l’essere più dotato. La ragione che distingue l’uomo dagli animali si esprime come consapevolezza dei benefici che la vita sociale è in grado di procurare: per Polibio essa si manifesta anche come previdenza, cioè la capacità di ricavare da una serie di avvenimenti una previsione per analoghe situazioni future. La prima costituzione, generata dalla naturale formazione della società umana, è la monarchia. Dalla sua degenerazione per difetti o cause che ad essa sono connaturate deriva la tirannide; a questa subentra il governo dei ricchi e dei potenti contro il quale insorge il popolo per istaurare la democrazia ma anche questa, incapace di porre un freno alla moltitudine della popolazione, degenera in oclocrazia, dominio della moltitudine che determinano una lotta di partiti e di fazioni, vere e proprie guerre civili alle quali pone termine la monarchia. Si pone in tal modo il ciclo delle costituzioni detta anaclyclosis. Questa concezione ciclica si ispira al pensiero greco del movimento circolare delle costituzioni che anche le società politiche partecipano del movimento, del mutamento che caratterizza tutti i fenomeni. Più precisamente Polibio rileva che ogni costituzione ha in se stessa i principi, le cause della sua corruzione e quindi della sua decadenza e dissolvimento: come il ferro viene corroso dalla ruggine, come il legno viene ridotto in polvere dal tarlo, ogni costituzione retta ha in se il suo corrispondente negativo che è il principio del suo interno mutamento e quindi monarchia/tirannide, tirannide/aristocrazia, aristocrazia/oligarchia, oligarchia/democrazia, democrazia/oclocrazia, oclocrazia/monarchia. Per Polibio nelle costituzioni rette il potere si fonda sul consenso dei governati, in quelle degenerate sulla forza e sulla paura. Nell’analisi delle cause che determinano il passaggio dalla democrazia alla oclocrazia Polibio descrive il processo di invecchiamento di una costituzione a seguito del succedersi delle generazioni che, per non aver fatto esperienza delle esigenze che imposero la costituzione democratica e per considerare ormai la libertà di parola e la garanzia dei diritti come acquisizioni del tutto ovvie e scontate, non danno più alcuna importanza a questi due essenziali principi sui quali si fonda la democrazia. Con il passare delle generazioni si modificano inevitabilmente i sentimenti, le convinzioni, gli stessi caratteri, si che i presupposti etici della democrazia non hanno più alcun riscontro nell’animo dei cittadini e il popolo decade a poco a poco a livello della plebe, della moltitudine e si confonde con essa. Il potere passa così dal popolo alla moltitudine che diventa il dispotico signore dello Stato: a motivo della mutevolezza dei suoi umori, della instabilità delle sue opinioni, dell’incertezza dei suoi propositi, il potere si trasforma nell’arbitrio delle fazioni che si serve delle leggi e delle maggioranze per legittimare ogni forma di prevaricazione. La costituzione mista e l’ordine politico di Roma: come si è visto la successione delle forme di governo dipende dalla evoluzione/involuzione delle società politiche. Ma ciò non toglie che si possano studiare degli accorgimenti per rendere la costituzione quanto più duratura possibile, per garantirne la stabilità. La legge della rotazione ci consente di rilevare la intrinseca debolezza delle così dette costituzioni perfette: monarchia, aristocrazia, democrazia. Esse tendono a rovesciarsi nel loro opposto perché non sussiste alcun principio che si contrapponga a tale tendenza che nelle tre forme perfette di governo e determinata dalla naturale assolutizzazione del potere. Occorre quindi predisporre un limite al potere, e cioè un altro potere che lo freni, che gli impedisca di diventare assoluto e di mutarsi quindi nella corrispondente forma di governo imperfetta. In conclusione per garantire la stabilità e la durata del potere, le tre costituzioni perfette debbono limitarsi e controllarsi a vicenda: la migliore forma di governo deve essere riconosciuta nella costituzione mista che riesce a comporre in un armonico sistema i principi delle cosi dette costituzioni perfette. I romani nel corso della loro esperienza politica sono riusciti a istituire la migliore forma di governo che contempla le tre costituzioni perfette.  Monarchia: i consoli (potere esecutivo, comando militare, governo della repubblica)  Aristocrazia: senato (gruppi gentilizi con incarico a vita, potere amministrativo)  Democrazia: comizi (potere legislativo, stabilire gli onori, potere giudiziario). Ma anche questa costituzione è destinata alla decadenza: le pressanti richieste da parte della plebe per una più equa distribuzione delle terre pubbliche ed una riforma agraria di ispirazione egualitaria (i gracchi) molto probabilmente furono all’origine del pessimismo di Polibio sul futuro della costituzione romana. Cicerone: gli scritti politici più importanti sono De Re Publica, De Legibus, De Officiis. Essi scaturirono dall’esigenza di indicare una soluzione alla gravissima crisi politica in cui versava l’ordinamento repubblicano a motivo dei contrasti e delle lotte sociali degenerate in vere e proprie guerre civili. Cicerone fu il teorico della libertà repubblicana di contro agli ordinamenti politici impersonati da Cesare che ritenevano essere possibile garantire l’ordine, la pace sociale, il dominio e la potenza di Roma con una radicale riforma della costituzione sul modello della monarchia ellenistica. Egli vuole richiamare l’attenzione sul fatto che la teoria politica deve realizzarsi, farsi concreta attività di governo. Cicerone riconosce un nesso intimo fra teoria e pratica nel senso che l’opera dell’uomo di Stato non è altro che l’attuazione di quei principi di quei valori che vengono professati in sede teorica. Cicerone si rifà molto al protagonista del De Re Publica, Scipione l’Africano, uomo d’azione con un interesse vivissimo per la filosofia e la teoria politica. Cicerone rifiuta l’idea utilitaristica e pattizia della società; accogliendo la concezione stoica, in particolare quella di Panezio, egli ritiene che sussista una naturale predisposizione degli uomini a vivere in società: la prima vera causa di aggregazione non è la necessità, il fatto che l’uomo può sopravvivere solamente se allevato dai suoi simili, quanto il fatto che c’è un desiderio di partecipare ai suoi simili. Per ciò non ama vivere in solitudine. L’uomo è quindi per natura un essere sociale ed infatti partecipa alla società universale del genere umano; il legame è costituito dalla ragione e dal linguaggio che con l’insegnamento e l’apprendimento, con la comunicazione, la discussione e il giudizio unisce gli uomini tra di loro. Esistono tante società quanti sono i tipi di solidarietà umana e i fini che l’uomo vuole raggiungere: la famiglia, il gruppo parentale, le aggregazioni e le associazioni particolari. Particolare importanza riveste la società politica, la Res publica. Lo Stato è fondato sulla società degli uomini ma nello stesso tempo se distingue per una specifica autonomia, una propria organizzazione: il diritto consente allo Stato di partecipare della società ma allo stesso tempo di esserne distinto. Per Cicerone il diritto promana dalla natura dell’uomo ed è connesso ai valori oggettivi che formano l’onesto: nella sua intrinseca umanità e razionalità il diritto ritrova il suo più valido collegamento con la giustizia che garantisce la sua efficacia di vincolo sociale che fa di una pluralità di uomini un unità reale. Con questa avvertenza il diritto diventa potere cioè l’attività che fa sussistere qualsiasi forma di vita associata: nulla inoltre è tanto consentaneo col diritto e con la disposizione della natura quanto il potere; senza di esso infatti, ne la famiglia, ne lo Stato, ne la nazione, ne la natura tutta, ne il mondo stesso potrebbero sussistere. La definizione dello Stato in Cicerone è respublica e indica l’organizzazione politica in quanto tale, intimamente connessa col diritto. Lo Stato per Cicerone è la respublica, la cosa pubblica che appartiene allo Stato: res publica diventa quindi l’equivalente di Stato quando intendiamo sottolineare l’inerenza del popolo allo Stato, il cui ordinamento è caratterizzato dal rapporto diretto con il popolo. Il popolo non è un qualsiasi insieme di individui, ma è quella moltitudine che si è associata per una comune utilità e mediante il vincolo del diritto; sia il principio di respublica che di popolo sono sconosciuti al mondo greco che non riesce a riconoscere i molti come unità. Al di fuori del diritto il popolo diventa moltitudine, massa, principio di disgregazione dello Stato. Cicerone non nasconde le sue simpatie per il partito degli ottimati: egli è convinto che solamente la classe aristocratica (in cui è vivo il culto delle tradizioni, del mos maiorum) è in grado di esprimere gli uomini di governo della repubblica e di svolgere le ineliminabili funzioni di tutela nei confronti del popolo. Ciononostante Cicerone riconosce la funzione insostituibile del popolo nel contenere e nel limitare l’eccessivo potere dei consoli e del senato , nel garantire dunque la libertà. La libertà è un concetto schiettamente romano e per Cicerone la libertà è essenzialmente repubblicana con riconoscimento al popolo della summa potestas, della sovranità popolare. Cicerone ritiene che tutti debbano avere pari diritti e nel caso venisse meno questo la costituzione si trasformerebbe in tirannia , che, eliminando la libertà politica, distrugge il vincolo giuridico che mantiene unita la società. La vittoria di Ottaviano su Antonio nel 31 a.C. pose fine alla repubblica. L’odio e il disprezzo per la monarchia erano ancora vivi a Roma e la repubblica era finita, dunque ci si preoccupò di collegare il vecchio al nuovo e si diede vita ad una nuova magistratura. Quest’ultima presupponeva le magistrature del precedente ordinamento ma era qualificata in modo eminente dalla dignità del princeps senatus; con tale ruolo Ottaviano aveva una situazione di primato in confronto agli altri senatori. Di fatto dunque Ottaviano rivestiva i poteri di un re, ma dal punto di vista giuridico-costituzionale gli stessi poteri gli pervenivano dal senato e dal popolo romano. In sostanza i poteri conferiti ad Ottaviano avevano instaurato il principato , una nuova forma di organizzazione politica della respublica, in cui la cura e l’amministrazione dello Stato dipendeva dalla volontà del princeps. Il titolo di Augusto, che viene attribuito ad Ottaviano, sancisce la sacralità della sua persona e riveste il princeps di una specie di investitura divina, avvalorata dal culto ufficiale del Genius Augusti. La designazione di Imperator Caesar Augustus indica la nuova realtà politica che è implicitamente contenuta nel principato.
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