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La Espansione Europea del Sec. XVI: Cultura, Economia e Industrializzazione, Sintesi del corso di Storia Economica

Storia dell'IndustriaStoria delle finanzeStoria dell'EuropaStoria dell'agricolturaStoria Economica

Gli europei portarono la loro cultura nel Nuovo Mondo, influenzando le culture locali. Gli italiani furono importanti intermediari finanziari e commerciali nelle fiere europee. L'industrializzazione iniziò in Inghilterra con l'espansione agricola e la produzione manifatturiera. La banca d'Inghilterra nacque nel 1694 e sfruttò il debito pubblico per lo sviluppo e gli investimenti. Nel Sec. XVI, il mercantilismo e le calamità naturali causarono selezione e cambiamenti economici. La dieta si basò sempre più su carne e prodotti zootecnici, alimentando una popolazione crescente. La rivoluzione dei trasporti limitò la concorrenza di nuovi Paesi e della Russia. La rivoluzione industriale coinvolse gli altri Paesi europei, incluso l'Italia che imitò il modello bancario tedesco.

Cosa imparerai

  • Quali furono le principali produzioni agrarie in Europa all'inizio del XVI secolo?
  • Quali furono le principali attività di trasformazione nel corso del XVII secolo?
  • Quali furono le principali istituzioni creditizie pubbliche che si svilupparono in Europa nel XV secolo?
  • Come si sviluppò il credito su pegno in Europa nel XV secolo?
  • Quali furono le principali cause della crisi dell'agricoltura in Europa a partire dal 1870?

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 28/12/2015

lellozoo
lellozoo 🇮🇹

4.3

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Scarica La Espansione Europea del Sec. XVI: Cultura, Economia e Industrializzazione e più Sintesi del corso in PDF di Storia Economica solo su Docsity! 1 Storia Economica L’economia del XV secolo - 1400 Un sistema economico Integrato 1. Il territorio L’Europa, il cosiddetto “vecchio continente”, è una grande e frastagliatissima penisola protesa per migliaia di chilometri nel mare, che ha influenzato le scelte di vita dei suoi abitanti che li ha spinti a navigare a conoscere e colonizzare nuove terre. Nel corso dei secoli il territorio interno all’Europa ha subito notevoli variazioni, per eventi bellici e mutamenti politici ed appunto nel XV secolo possiamo parlare di Europa in un ottica unitaria, come una comunità di soggetti legati da interessi simili, anche in presenza di un frazionamento politico. Fernand Braudel applica un modello di sviluppo economico unitario definito “economia mondo”: esso presuppone, all’interno dello spazio territoriale, prima di tutto un’autosufficienza nel soddisfacimento dei bisogni della popolazione in riferimento ad una domanda di beni e manufatti differenziata; in secondo luogo, la possibilità di ottenere un adeguato livello di profitto nell’effettuare scambi con altre realtà al di fuori dei propri confini; e terzo, l’allargamento della dimensione territoriale-economica dell’Europa fino a comprendere non solo tutto il mediterraneo ed i suoi traffici, ma anche i paesi dell’Africa settentrionale. Un idea di Europa non tradizionale, ma prendendo in considerazione una realtà economica i cui confini fisici vanno dal Polo Nord al deserto africano. 2. Poli urbani di sviluppo e mercati Sempre secondo il teorico francese, grazie all’azione trainante di alcuni centri urbani (definiti “poli”) si attua un’azione di spinta e di aggregazione dei vari settori dell’economia. Fino alla metà del ‘400, accanto allo sviluppo tessile (fabbricazione di panni di lana), vi sono i traffici commerciali che permettono di ottenere ottimi guadagni: si può parlare di capitalismo commerciale, consistente “nell’interporsi del mercante tra produttore e consumatore”, sfruttando l’enorme distanza spaziale e temporale che separava i luoghi di approvvigionamento da quelli di vendita. I mercanti sono dotati di cospicui mezzi finanziari e di credito oltre che di competenze merceologiche e tecniche, sia in campo commerciale sia in campo giuridico e contabile. Assistiamo alla nascita di due protagonisti nei traffici commerciali, il primo si identifica nelle città italiane del Mediterraneo (ovvero le repubbliche marinare: Genova, Venezia, Pisa, Amalfi, le quattro più note; ma troviamo anche: Ancona, Napoli, Messina, Siena e Lucca) specializzate nel commercio con l’Oriente, fornendo al Vecchio Continente prodotti indispensabili come: le spezie, i cereali ed altre materie prime. Il secondo si colloca nel complesso dei centri portuali del mar Baltico riuniti dalla metà del Duecento nell’Ansa germanica (ovvero: Burges e Anversa, ma anche Amburgo ed altri paesi…), le navi dell’Ansa collegano il Baltico con il Mare del Nord e da esse dipendono i rifornimenti di tutti i paesi dell’Europa settentrionale, Inghilterra compresa. I fattori politici contribuiscono a complicare gli equilibri socio-economici preesistenti (infatti la Guerra dei Cento Anni, tra il Regno d'Inghilterra e il Regno di Francia (1337-1453) 116anni, rende difficile gli scambi) e Anversa fu una delle prime sedi delle Borse merci operanti sui mercati internazionali. 2 3. Merci, vie e mezzi di trasporto Per tutto il ‘400 i settori economici più importanti riguardavano gli scambi commerciali e le produzioni tessili: sono migliaia le pezze di tessuti di lana e di seta che vengono commercializzate dalle “città della seta” italiane (le repubbliche marinare: Lucca, Firenze, Venezia, Genova, ecc). I traffici marittimi riguardano soprattutto merci ingombranti come il frumento, il sale ed il legname. Dal Mare del Nord sono trasportate importanti materie prime, come: ferro, piombo, stagno, rame, cuoio, cera, ma anche pellicce, segale, avena e orzo; in senso inverso il carico è composto da prodotti asiatici e mediterranei: olio, vino, spezie, riso, lana, materie tintorie e tessuti. Per altri beni ad alto valore unitario e di minore ingombro, le fiere internazionali sono per lungo tempo punto di incontro dei mercanti provenienti dai principali Paesi, che riunendosi ogni tre mesi cercano e trovano occasioni di scambio e commercio nelle città di: Champagne, Ginevra e Lione. Le vie terrestri da percorrere non sono certo agevoli, essendo necessario attraversare le Alpi e passi innevati con carovane di muli, carichi di merci e persone. All’interno dell’Europa vi è pure una forte presenza di fiumi e canali con non pochi ostacoli: dazi, pedaggi e servizi monopolizzati da gruppi corporativi. La via preferita rimane quindi il mare, che permette un trasporto lento, rischioso, ma meno costoso. Si iniziano a percorrere distanze più lunghe realizzando alti profitti trasportando non solo le merci ricche, ma anche quelle relativamente povere e voluminose grazie al progressivo aumento del tonnellaggio delle navi: con un aumento del numero degli alberi, timone di poppa, intenso uso delle vele. Alla galera (navi da guerra e da commercio, spinta dai remi e talvolta dal vento, ideate dagli antichi greci ed usate per oltre tremila anni nel Mediterraneo, entrò in disuso con l’invenzione dei velieri) si affiancano le cocche (nave di forma più rotonda, dotata di vele e remi quindi a propulsione mista, potendo raggiungere un carico di 1000 tonnellate) e successivamente le caravelle (due o tre alberi con vele quadrate, adatta a viaggi di lunga durata, carico di 150 tonnellate). Il perfezionamento degli strumenti ed il sempre maggiore sviluppo della cartografia riducono sempre di più i margini di errore e di rischio durante la navigazione. 4. Il lento formarsi di un efficiente mercato monetario Nella tradizione medievale (medioevo: periodo che và dal V al XV secolo, si divide in Alto medioevo (dal 475 al 1000) Basso Medio Evo (dal 1000 al 1492); inizia con la caduta dell’Impero Romano (476) e termina con la scoperta dell’America (1492) dove inizia il Rinascimento, così chiamato perchè l'uomo conosce una rinascita) tra i diritti tradizionalmente riservati al fisco, vi è quello di battere moneta, considerata il simbolo della sovranità, infatti la zecca è una fonte fondamentale di entrate e speculazioni finanziarie da parte del fisco stesso. L’unica moneta che circola effettivamente, nell’Alto Medioevo, è il denaro d’argento con una tendenza alla diminuzione per la scarsità del metallo stesso. L’oro è usato come mezzo di pagamento, attraverso l’oggettistica (valutazione a peso) e in forma di monete bizantine o arabe. Le prime forme di commercio, antecedenti alla moneta, erano: l’autoconsumo, che comprende lo scambio di beni che il nucleo familiare ha prodotto per se ed è presente nelle campagne e nelle economie chiuse; il baratto, effettuato soprattutto sui mercati regionali e internazionali (il sale era uno dei beni che aveva maggior valore perche durava più a lungo); i consumi gratuiti, all’epoca assai più diffusi, anche per l’opera della chiesa (utilizzazione dell’acqua). Dalla metà del XIII secolo, la moneta penetra nella vita economica, la prima moneta d’oro è il genovino 5 all’aumentare del reddito. Cereali (grano, segale, orzo, avena, farro, castagne,ecc.) e bevande energetiche (vino e birra) sono alla base della dieta delle classi povere, sale e spezie hanno una domanda rigida e limitata a ridotte quantità pro-capite. Le differenze socio-economiche si riflettono sull’apporto calorico, nella diversificazione degli alimenti, tra città e campagna, ma anche nei paesi del Nord Europa che consumano più carne e grassi animali da quelli del Sud Europa, in particolare del Mediterraneo, che consumano più oli, vegetali e pesce. 3. Il settore primario. Varietà di colture e innovazioni Il settore primario comprende quelle attività i cui prodotti sono ottenuti direttamente dalla natura: agricoltura, silvicoltura e pesca. L’agricoltura è stata per secoli l’occupazione principale della popolazione. Alla fine del medioevo la risorsa principale dell’economia europea è ancora la terra, a seconda del clima e della posizione geografica, abbiamo diverse aree e tipologie produttive: • Europa Mediterranea accomuna ai cereali alcune colture specialistiche come la vite, ulivo, gelso, agrumi, fino alla canna da zucchero e al cotone nelle zone più meridionali; • Nelle terre settentrionali e atlantiche si seminano prevalentemente avena, orzo e segale e si coltivano piante tessili come il lino e la canapa; • Nell’Europa centrale e orientale si coltivano soprattutto cereali. Il disboscamento nella seconda metà del ‘400 consente l’estensione della superficie coltivata, in un momento in cui tutti i terreni disponibili sono messi a cultura; incominciano le prime bonifiche, a fine secolo viene introdotta la mezzadria in Toscana e sviluppate le risaie nella Pianura Padana. Si tratta di indicatori che permettono di considerare il 1400 periodo non di crisi ma di transizione positiva. L’innovazione più importante nella pratica agricola è l’introduzione della rotazione ternaria che sostituisce la rotazione binaria, con la quale, ad anni alterni, i campi venivano parzialmente lasciati a maggese (riposo). I vantaggi erano l’accresciuta produttività del terreno (1/3 in più) e una più equa distribuzione del lavoro agricolo, con la semina autunnale e primaverile, dando più sicurezza nei confronti delle carestie. Altre due innovazioni , alla nuova forma di rotazione, furono l’introduzione dell’aratro pesante (di ferro e non più di legno) a ruote e l’uso dei cavalli come animali da tiro (ogni cavallo poteva svolgere il lavoro di 3 o 4 buoi, il suo mantenimento costava il triplo e la sua utilizzazione era richiesta anche per i mezzi di trasporto e per uso militare). 4. Il settore secondario I beni ed i manufatti richiesti dalla popolazione, oltre a quelli prodotti per autoconsumo, danno origine ad una serie di attività di trasformazione delle materie prime. Nel XV secolo si è nel pieno dell’epoca preindustriale (ovvero periodo che precede la rivoluzione industriale e l’industrializzazione stessa). Già nel ‘400 possiamo parlare di industria, limitando il significato alla tecnologia dell’epoca, poiché i prodotti del suolo sono oggetto di importanti lavorazioni: quelli agricoli, come i cereali; il legname, dalla cantieristica fino agli utensili quotidiani; il cuoio, la carta prodotta da fibre ricche di cellulosa, ecc… Ma la fabbricazione tessile e laniera impiega, fin dai secoli precedenti, il maggior numero di addetti: le zone di produzione più importanti sono l’Inghilterra e la Spagna ma i centri di trasformazione vedono al primo posto le Fiandre e l’Italia Centro settentrionale. I prodotti di alto pregio sono richiesti dal mercato internazionale ed oggetto di contrattazione nelle fiere e nei porti. L’industria estrattiva e quella metallurgica, soprattutto nell’Europa centro-occidentale, forniscono attrezzi da lavoro, aratri, materiale da costruzione, armi e una vasta serie di metalli (preziosi e non). Il mare offre risorse in abbondanza, a cui sono collegate attività di trasformazione e occasioni di lavoro per le popolazioni più vicine ad esso: corallo, pesce e sale. Quest’ultimo oltre all’uso quotidiano, serve alle popolazioni di montagna per nutrire gli animali, per conservare le carni, conciare le 6 pelli, in particolare per le popolazioni del Nord Europa (bagnate da mari poco salati) per conservare il pesce. Questo è uno degli esempi più illuminanti di interscambio europeo: i popoli del Mediterraneo producono sale marino e lo esportano in notevole quantità verso i paesi del Nord Europa; i paesi dell’Europa centrale forniscono il salgemma (sale di miniera); i pescatori del Nord inviano in questi paesi il prodotto pescato e conservato con il sale ricevuto. 5. Le importazioni dal continente asiatico All’interno di “un’economia mondo”, cosi come ipotizzata da F. Braudel cioè autosufficiente nelle proprie produzioni, esiste un particolare gruppo di beni - le spezie - per il quale gli europei sono stati per secoli dipendenti dall’Asia. Si tratta di un notevole squilibrio della bilancia commerciale del Vecchio Continente, che acquista le spezie in cambio di metalli preziosi, l’unica forma di pagamento accettata dai mercati dell’oriente (prima dell’arrivo dei portoghesi). Si tratta di spezie vere e proprie: pepe, noce moscata, zenzero, cannella, chiodi di garofano, ecc. ma anche profumi, erbe e radici medicinali, coloranti, armi, seterie, tappeti, cotone, pietre preziose, avorio che alimentano uno dei più floridi e antichi commerci internazionali. Questi commerci si attuano in due fasi: la prima vede i mercanti asiatici consegnare i loro prodotti sulle rive dell’Oceano Indiano agli arabi, che ne curano il trasporto fino al Mediterraneo (via mare e/o via terra). La seconda fase vede i veneziani e genovesi, e in misura minore provenzali e catalani, che sono stati e continuano ad essere nel ‘400 i principali intermediari tra Oriente ed Occidente nel Mediterraneo. Tra il XII e il XVI secolo Venezia in particolare occupa la posizione di massimo mercato europeo delle spezie, ma anche gli altri centri marittimi traggono da questi traffici straordinarie fortune. Si tratta di beni di lusso, molto costosi, ma che oramai nella società europea costituiscono un bisogno, la cui curva di domanda è tendenzialmente rigida. Non tutti gli storici sono d’accordo, c’è chi ritiene si tratti di una moda, di un desiderio ostentazione di ricchezza a chi ritiene che all’epoca venivano attribuite alle spezie qualità terapeutiche e afrodisiache; per questo venivano vendute ad alto prezzo ai malati ed ai cuochi. Il pepe, in particolare, supera da solo come quantità commercializzata tutte le altre spezie messe insieme: si calcola che nel ‘400 la produzione asiatica superi i 100.000 quintali e prenda quasi totalmente la via dell’Europa. Commercializzate sono anche le droghe che svolgono dichiarate funzioni terapeutiche, come: il betel, l’oppio, l’ambra e il muschio. È grazie alla loro redditività che questi traffici internazionali, dopo un lungo periodo di depressione successivo alla peste nera, la caduta Costantinopoli e la successiva conquista turca dell’Egitto, che costituiscono per almeno due secoli il motore dell’economia. Organizzazione e tecniche di lavoro 1. L’organizzazione della manodopera • Industria domestica rurale: la famiglia agricola per lungo tempo produce al proprio interno, per sé, attraverso la trasformazione di materie prime realizzando manufatti specialmente tessili e utensili in legno e in ferro non rivolgendosi quindi al mercato. Si tratta di produzioni di sussistenza, che occupano il nucleo familiare specialmente nei lunghi periodi di riposo del ciclo agrario. • Artigiani e corporazioni: nell’Europa urbana, fin dal medioevo, le principali attività economiche sono organizzate in gruppi di mestiere, alla base di due principi comuni: l’eguaglianza e la solidarietà dei soci. Il coordinamento delle singole produzioni arriva anche più in profondità, prevedendo gli acquisti collettivi di materie prime; il divieto della concorrenza interna; procedure prefissate per l’ingresso e l’apprendimento 7 dei singoli mestieri; misure assistenziali per gli iscritti al gruppo e forme di culto religioso da svolgersi in comune (ogni mestiere ha un santo protettore). Si tratta di raggruppamenti che prendono il nome di corporazioni o Arti in Italia, di gilde o mestieri in altre zone dell’Europa. Titolari delle botteghe o laboratori, spesso concentrati in determinati quartieri della città, sono i maestri artigiani affiancati da apprendisti e garzoni ai quali viene insegnato il mestiere, il cui ingresso nelle corporazioni è controllato dall’elite dirigente. Il periodo da trascorrere in bottega prima di riuscire ad autonomizzarsi è molto lungo e prevede un difficile esame dal quale sono esentati i familiari del maestro già entrato nel gruppo. Questo sistema su cui si basa la produzione artigianale dura per alcuni secolo e nel ‘400 costituisce ancora un pilastro della manodopera urbana. Le corporazioni garantiscono una qualità stabile del prodotto, guardando con diffidenza qualsiasi innovazione, al punto da ritardare lo sviluppo tecnologico ottenendo un vero e proprio protezionismo doganale. Si impegnano però alla salvaguardia del sapere tecnico, con pesanti punizioni per coloro che lasciano la città per divulgare fuori dai confini i segreti del mestiere. L’unità di produzione è la bottega del maestro e gli orari di lavoro sono pesanti (dall’alba al tramonto). Di norma, l’artigiano produce per il mercato o su commessa, difficilmente per il magazzino assumendosi comunque un minimo rischio di impresa. I settori cui si dedicano questi maestri vanno dal tessile all’abbigliamento, dall’edilizia alla lavorazione del legno, dei metalli e del cuoio. Tuttavia quando queste forme di autogoverno d’impresa inizieranno a diventare strumenti per l’ottenimento di privilegi, le corporazioni inizieranno ad essere mal tollerate dalla società urbana. • Industria a domicilio: In molte regioni d’Europa gli artigiani collaborano a produzioni complesse, che comportano molti passaggi di semilavorati. L’artigiano viene ad essere dominato dal mercante- imprenditore: materie prime, strumenti di lavorazione e prodotto finito sono di sua proprietà; ha alle sue dipendenze più artigiani, sui quali esercita anche un controllo tecnico, questi ultimi vengono retribuiti a cottimo e finiscono per assumere la figura di lavoranti a domicilio, in una rete di botteghe indipendenti tutte coordinate tra loro. Si tratta di un sistema abbastanza flessibile, che richiede però da parte del mercante-imprenditore una buona conoscenza dei mercati (spesso internazionali, per l’ampiezza del suo giro d’affari). Le retribuzioni vengono pagate con anticipi periodici e trasformano l’artigiano in salariato, quindi il rapporto col datore di lavoro diventa esclusivo. La struttura dell’industria a domicilio non muta nella sostanza quando la sua localizzazione diventa in parte o del tutto rurale. Questo cambiamento si manifesterà in gran parte dell’Europa nei secoli successivi, dando la possibilità di rifornirsi di beni di prima necessità a prezzi più bassi sfuggendo alla fiscalità dei centri urbani e delle corporazioni. 2. Le innovazioni di processo Il ‘400 vede fiorire in Europa una serie di miglioramenti tecnici in diversi settori produttivi di importanza non trascurabile. Una delle più importanti innovazioni del XV secolo è la stampa a caratteri mobili, processo che tecnicamente rimane invariato fino al ‘700. Questo permette l’aumento del commercio libraio, aiuta enormemente la crescita della cultura con la diffusione di notizie, con il rispettivo aumento della domanda e produzione di carta. La superiorità della carta, rispetto ai precedenti materiali come la pergamena, sta nel minor costo; e grazie a tutta questa domanda di cultura nel XV secolo iniziano a nascere i primi laboratori di stamperia. 10 in apposite stazioni di pedaggio, collocate in punti strategici). La lana è una merce di valore che genera denaro contante grazie alle esportazioni e alle tassazioni, quindi si incentivava il pascolo illimitato sulle terre comuni tutto a svantaggio dell’agricoltura. L’espansione spagnola, però, è forse più casuale di quella portoghese e meno legata alla ricerca di nuovi territori. Mentre gli equipaggi di Giovanni II stanno ancora esplorando la costa africana, un genovese di nome Colombo, che aveva servito nella marina portoghese e sposato una portoghese, chiese al re di finanziare una spedizione attraverso l’Atlantico per raggiungere l’oriente viaggiano verso Ovest (all’epoca si era già giunti al concetto che la terra fosse tonda); ma le risorse del re erano, in quel periodo, concentrate su un progetto più verosimile di circumnavigazione dell’Africa, e bocciò la proposta di Colombo. Questi non si dà per vinto e si rivolge ai sovrani spagnoli, Ferdinando e Isabella, i quali impegnati all’epoca nella guerra contro gli Arabi, non ritengono realistica l’impresa. Lo stesso atteggiamento lo avranno il sovrano inglese e quello francese. Alla fine, nel 1492, la reggina Isabella per celebrare la conquista del regno di Granada finanzia la spedizione di Colombo, che dopo due mesi di navigazione con la flotta composta dalle 3 caravelle: la Nina, la Pinta e la Santa Maria (in ordine di stazza; in ordine di navigazione abbiamo: la Pinta, la Nina e la Santa Maria ) il 12 Ottobre 1492 giunge nelle isole note come Indie Occidentali, poiché egli crede in realtà di aver raggiunto l’Asia. Pur sgomentato dalla loro evidente povertà, Colombo chiama infatti indiani gli indigeni. Dopo aver fatto ritorno in Spagna, l’anno successivo torna con una spedizione molto più numerosa e attrezzata con cui inizia una vera e propria opera di colonizzazione. Lo stesso anno della “reconquista” del regno di Granada e della scoperta dell’America, gli spagnoli ordinano l’espulsione dal regno di tutti gli ebrei (abili artigiani e commercianti), allo stesso tempo molti musulmani si allontanano dal paese. 4. Una nuova conflittualità sui mari ed il Trattato di Tordesillas Alla fine del ‘400 ci si trova con due Stati che si fronteggiano sul mare, convinti probabilmente di essere arrivati sugli stessi ricchi mercati orientali, seguendo però due strade opposte. Subito dopo il rientro della prima spedizione, Ferdinando e Isabella si rivolgono al Papa Alessandro VI affinché stabilisca una “linea di demarcazione” che confermi i diritti spagnoli sulle terre appena scoperte. Questa linea ideale avrebbe dovuto essere tracciata tra i due poli a circa 330 miglia a Ovest delle Azzorre e di Capo Verde, dividendo il mondo cristiano in due metà: la parte occidentale agli spagnoli e quella orientale ai portoghesi. Nel 1494, nel Trattato di Tordesillas, il Re del Portogallo convince gli Spagnoli a tracciare una nuova linea circa 210 miglia più a ovest di quella precedente del 1493 (lascerebbe pensare che i portoghesi conoscessero già l’esistenza del Nuovo Mondo, poiché così facendo il Brasile risulta collocato nell’emisfero portoghese). Nel 1500, durante la prima grande spedizione commerciale portoghese successiva al ritorno di Vasco De Gama, Pedro De Cabral fa vela direttamente verso questa zona e rivendica il territorio su cui approda il Portogallo prima di proseguire per l’India. Nel frattempo esploratori di altri Paesi seguono le orme di Colombo, tra cui Giovanni Caboto genovese al servizio della corte d’Inghilterra; compie un viaggio che lo porta all’isola di Terranova ed alla Nuova Scozia. L’anno dopo esplora con il fratello la costa settentrionale del Nord America, ma i loro risultati sono giudicati economicamente insignificanti ed inducono il re a compensarli con solo 10 sterline. Era solo l’inizio di un lungo processo che in breve avrebbe ampliato le conoscenze medievali e proiettato verso un nuovo assetto geografico ed economico conosciuto come Nuovo Mondo. Gli europei, per fini economici, trapiantano la loro cultura nel Nuovo Mondo con la modificazione o talvolta l’estinzione delle culture autoctone, questo rappresenta l’aspetto più drammatico ed importante dell’espansione europea del XV secolo. 11 L’economia del XVI secolo – 1500 La demografia 1. L’andamento della popolazione europea Nel XVI secolo l’economia europea è in piena espansione grazie all’arrivo degli europei in ogni angolo del Mondo. A livello demografico la popolazione europea inizia a crescere, ovviamente non sono disponibili all’epoca i classici censimenti, ma iniziano a diffondersi in molte aree europee registri parrocchiali dei battesimi, matrimoni, sepolture all’interno delle chiese cattoliche e non. L’Italia e l’Inghilterra (Chiesa Anglicana) furono le 2 aree nelle quali questi registri presero fortemente piede nel corso del ‘500, mentre gli altri paesi di tradizione cristiana seguirono più avanti. Con il XVI secolo la popolazione europea recupera totalmente le enormi perdite della pandemia (grande epidemia) di peste nera del XIV secolo e supera il limite precedente, oscillando intorno ai 100 milioni di individui. Tuttavia nonostante la crescita della popolazione prevalgono di piccoli centri, rispetto a quelle che potremmo definire grandi città. Alcune stime restringono a 4 le città con una popolazione uguale o superiore ai 100.000 abitanti: Milano, Napoli e Venezia in Italia e Parigi in Francia; a cui a fine secolo si aggiungono Roma, Palermo, Londra e Lisbona. L’evoluzione della popolazione nelle diverse aree geografiche fu inevitabilmente differenziata e risentì degli eventi politici e militari che travagliarono i paesi europei. I 3 mali fondamentali : carestie, guerre ed epidemie nel corso del secolo manifestarono ancora i loro effetti nefasti, ma incominciarono a diffondere dei miglioramenti nelle condizioni alimentari e interventi sanitari, mentre le guerre ebbero un peso sugli eventi demografici provocando trasferimenti delle popolazioni fra i territori. 2. Le migrazioni, fra vecchio e nuovo mondo La popolazione europea appare in movimento nel corso del ‘500. Dalla campagna alla città nel fenomeno dell’urbanizzazione, fu pragmatico il caso inglese: con la realizzazione delle recinzioni nelle campagne (il fenomeno dell’enclousure) e la conseguente crescita di Londra, che quintuplica la sua popolazione. Diverso fu il comportamento degli italiani, i quali nella prima parte del secolo paiono disperdersi nei piccoli centri, salvo riprendere il flusso dell’urbanizzazione nella seconda metà del secolo. Nel movimento fra città e campagna (secondo ritmi stagionali) si assiste inoltre ad un fenomeno tipico dell’economia agricola, che riguarda i soggetti sprovvisti di mezzi di sussistenza definiti come poveri, i quali si muovevano fra i centri urbani alla ricerca dei luoghi dove la carenza di risorse fosse meno sentita. Da paese a paese la migrazione avvenne secondo schemi differenziati, ad esempio gli svizzeri migrarono come militari al servizio delle diverse corti europee. Le politiche mercantilistiche degli stati europei favorirono, inoltre, il trasferimento dei tecnici delle diverse arti e produzioni. Da continente a continente le migrazioni offrono caratteristiche particolari. Il richiamo verso i nuovi territori era forte, ma c’erano numerosi ostacoli da affrontare: viaggi lunghi e disagiati, bisognava vivere seguendo uno spirito d’avventura almeno fino a quando non incominciarono ad essere disponibili nuove città. L’emigrazione verso le Americhe fu alimentata soprattutto da uomini che ricercavano occasioni d’affari con il commercio d’oltre Mare. Uomini di mare, mercanti, rappresentanti delle burocrazie delle monarchie detentrici delle colonie, costituirono il nucleo fondamentale dell’emigrazione europea. Occorre distinguere fra migrazione definitiva e temporanea: molti che decisero di intraprendere la strada dell’avventura ritornarono al luogo di origine, ma solo successivamente ed in maniera molto lenta venne a formarsi una popolazione definitiva, alimentata anche dalle nuove nascite. L’emigrazione fra i continenti 12 contribuì in modo determinante a creare una nuova classe di imprenditori che sostituirono le tradizionali classi corrispondenti. Fra le migrazioni occorre considerare anche gli schiavi, prelevati per lo più dall’Africa per soddisfare le esigenze del lavoro nelle nuove piantagioni di canna da zucchero. Verso l’Asia e l’Africa, invece, non si svilupparono correnti di migrazione vera e propria; nei due continenti si recarono gli uomini indispensabili alla gestione delle basi commerciali e militari che i paesi europei, il Portogallo soprattutto, organizzarono come punti di riferimento dei loro traffici. 3. La qualità della vita Se nel XIV secolo l’Europa aveva vissuto la spaventosa tragedia della peste nera, che aveva falcidiato i suoi abitanti, nel corso del XVI secolo si può dire che le malattie contagiose contrassegnarono il quotidiano: epidemie di peste, e non solo, si ripetono con frequenza colpendo vari territori. La peste è ormai saldamente presente in Europa, i luoghi più colpiti sono i centri urbani dove si addensano numerosi individui in condizioni igieniche pessime, infatti, al primo posto fra le cause delle epidemie si trovano le scarse condizioni igieniche. Si è osservato che gli individui che venivano colpiti dalle epidemie dovevano ritrovarsi in situazioni di debilitazione fisica, tale da ridurre le difese dell’organismo, provocate dalle carestie che portarono in evidenza il problema dell’approvvigionamento dei grani. A tal proposito le città furono obbligate a gestire i problemi di approvvigionamento alimentare, ed il commercio dei grani fu occasione di grandi operazioni commerciali con esborsi onerosi da parte delle amministrazioni pubbliche. Mercanti di grani e navi da trasporto percorrono tutti i mari d’Europa, organizzando una complessa rete di trasporti. Ma le carestie, a loro volta, trovavano origine in cause diverse, ossia: nella scarsa produttività delle terre, scarsa germinabilità dei semi rovinati dai parassiti e dalle difficoltà di conservazione nei magazzini, carenza di concimi, e dalle guerre con il passaggio degli eserciti che vivevano delle risorse dei territori dove venivano a trovarsi (amici o nemici che fossero). I corpi militari sarebbero stati appunto i diffusori di germi e parassiti, che alimentarono le numerose epidemie. Un ruolo non secondario nella diffusione delle malattie lo svolsero gli uomini europei a causa della loro espansione verso altre aree del globo, trasmettendo in altri continenti le loro malattie che erano sconosciute ad altri popoli e viceversa, venendo contagiati da malattie a loro sconosciute. L’agricoltura 1. I rapporti con la terra Il mondo agricolo del ‘500 si presenta estremamente variegato, infatti in passato i territori erano divisi tra: terre feudali, ecclesiastiche, comuni, libere che si combinavano fra loro sul territorio con un grande bagaglio di usi e consuetudini. Nel XVI secolo si verifica lo sgretolamento del potere feudale, la crisi delle istituzioni ecclesiastiche ed il consolidarsi delle terre libere e di proprietà privata che ebbero il loro effetto sull’organizzazione dello sfruttamento agrario delle terre. In Inghilterra si verifica la confisca delle terre della Chiesa Cattolica da parte di Enrico VIII, processo simile viene svolto in Svezia dai Vasa. Nel corso del secolo furono riorganizzati e addirittura fondati ex novo, alcuni Ordini cavallereschi, che non facevano riferimento al passato ma che esaltarono l’organizzazione di aziende agrarie in termini di nuove facilitazioni nei rapporti con i poteri sovrani. Uno dei principali problemi per l’agricoltura dei secoli precedenti la caduta demografica indotta dalla peste nera del XIV secolo, era appunto la scarsa disponibilità di terre coltivabili. Nel XVI secolo invece si diede inizio a pratiche di dissodamento delle terre vergini con lo scopo di acquisire appunto nuove terre. Il vecchio sistema feudale ormai è stato rotto in gran parte dell’Europa, il suolo fornisce il necessario per l’alimentazione e per i prodotti manufatti di base, ma senza una revisione profonda delle tecniche agrarie. La coltivazione dei campi diventa un occasione di 15 una nuova tecnica di navigazione, infatti, nel ‘500 l’evoluzione delle navi a vela fu esplosiva. Furono sperimentati nuovi tipi di nave, con nuove chiglie, aumento delle stazze dei legni e velature differenziate, sempre alla ricerca della sicurezza durante la navigazione e l’economicità nei trasporti; nel ’400 il rapporto equipaggio-carico era in media di un marinaio ogni 4-5 tonnellate di stazza, nel ‘500 arrivò a 7 tonnellate. Portoghesi, spagnoli e inglesi furono i maggiori costruttori di grandi navi da guerra, con il galeone simbolo del ‘500 giungendo a stazzare 1.000 tonnellate. Il tradizionale settore tessile trova nel secolo alcune occasioni fondamentali di sviluppo, soprattutto nella lana. 2. L’organizzazione della produzione e del lavoro Gli europei si trovarono a garantire nel corso del ‘500 produzioni di beni e servizi per soddisfare la domanda e l’espansione dell’offerta. La tradizionale occupazione nei diversi settori economici non fu stravolta, ma affiancata da un lento processo di trasformazione innescato dalle nuove opportunità che si vennero a creare. La richiesta di prodotti alimentari e di materie prime, tessili e minerali, ha imposto un aumento della produzione e una diversa organizzazione del lavoro, sia nei campi che nelle miniere. In agricoltura l’attività non è più limitata alla sussistenza ma si cercano di soddisfare le esigenze di mercato, ricorrendo al lavoro salariato, superando gli schemi feudali, e permettendo la nascita di aziende agrarie. Nel Nuovo Mondo il lavoro dei campi diede origine ad alcuni problemi, quali: le difficoltà nelle condizioni ambientali e nelle tipologie delle colture possibili. L’emigrazione dei coltivatori europei non fu sufficiente a colmare il fabbisogno americano e le risorse di manodopera si esaurirono in poco tempo; per questo motivo non fu possibile organizzare un consistente afflusso di coloni dall’Europa e né derivò il ricorso agli schiavi africani. Il lavoro degli schiavi parve essere rinato anche in Europa, dalle esperienze dei portoghesi nella penisola iberica. Per lo sfruttamento delle miniere si ha un processo analogo, se non maggiore, a causa dell’aumento della richiesta di minerali (rame, argento, ferro, salgemma, ecc.). I capitali dei ricchi mercanti banchieri furono attirati dalle opportunità dell’impiego nell’attività mineraria, poiché c’era richiesta di enormi risorse finanziarie mai viste prima, e questo determinò le prime grandi concentrazioni di lavoratori in zone ristrette; una zona particolarmente sfruttata per la sua concentrazione di miniere fu l’Europa centro- orientale, che permette a questo settore di crescere continuamente. Il settore secondario appare in grande movimento, il lavoro nelle botteghe artigianali svolge un ruolo determinante, anche se il ruolo delle corporazioni è ancora forte facendo diffondere le innovazioni con forti ritardi. Alcuni settori richiedono notevoli quantità di manodopera, come i cantieri navali e gli arsenali marittimi, con strutture ed impianti di grandi dimensioni; infatti in essi si articolano tutte le specializzazioni connesse, come: la lavorazione del legname, del cordame, della teleria, strumenti per la navigazione, cartografia, armi. Molta parte della produzione manifatturiera fu garantita dal lavoro degli uomini nei campi e siccome le lavorazioni agricole sono stagionali, lasciarono ampi spazi di tempo per varie attività; in questo modo si sviluppò il lavoro a domicilio, nelle case degli agricoltori. In generale, nell’Europa del ‘500, troviamo tutte le tipologie organizzative del lavoro che erano già state sperimentate nei secoli precedenti con organizzazioni più consistenti nella cantieristica, nelle miniere e nelle aziende agrarie. Possiamo parlare di “protoindustria” e/o “preindustria”, in una società nella quale la richiesta di energia aumenta, ottenuta soprattutto attraverso l’utilizzo dei mulini (ad acqua o a vento) con un loro miglioramento nei meccanismi di trasformazione. 16 Gli scambi internazionali 1. I flussi Le esplorazioni geografiche provocarono mutamenti profondi nella struttura degli scambi internazionali, sia dal punto di vista della quantità che delle linee di traffico. Le due tradizionali aree forti del commercio, I’Europa mediterranea – con l’Italia – e l’Europa settentrionale – con l’Ansa germanica e Paesi Bassi – si ritrovarono a rivedere il loro schemi d’azione. Il bacino del Mediterraneo perde il suo ruolo centrale, non perché diminuiscono le correnti di traffico tradizionali, ma per il venir meno di una parte delle merci dell’Asia e dell’Africa che potevano ormai passare attraverso la rotta del capo di Buona Speranza, giungendo direttamente alle regioni centrali e settentrionali dell’Europa senza l’intermediazione del Mediterraneo. I traffici si ritrovarono a privilegiare sempre più i trasporti per via marittima, grazie alle trasformazioni apportate alle navi con le quali era possibile movimentare merci povere e di grandi volumi, che non era stato possibile sino ad allora. La crescita dei commerci determinò nuovi centri di attrazione e nuovi collegamenti. Infatti il fenomeno dell’urbanizzazione si sviluppò principalmente nelle città poste sul mare o ad esso collegate, con fiumi o canali. Il XV secolo chiusosi con il trattato di Tordesillas (1494), consentì agli spagnoli nel 1503 di creare a Siviglia una istituzione, la Casa de La Contrataciòn, con il preciso intento di riservare alla Spagna il monopolio di tutti i traffici con le Americhe garantendo il controllo su tutto quanto si muoveva verso l’Atlantico e ne arrivava. Siviglia conobbe uno sviluppo prodigioso, tenendo apposite annotazioni i “registros”, contenenti tutti i dati per identificare: il nome dell’imbarcazione, il nome del capitano, armamento di bordo, il carico ed il suo valore, dazi pagati. I “registros” di Siviglia avevano uno scopo fiscale e di controllo politico. Per quasi tutto il ‘500 i commerci ed i traffici ufficiali con le Americhe furono praticamente monopolizzati dalla Spagna, con la sola eccezione del Portogallo con il Brasile. In una prima fase, per pochi decenni, vi fu una prevalenza di invii dall’Europa, soprattutto di manufatti e di generi alimentari, per sostenere l’insediamento dei colonizzatori. Poco dopo incominciarono a prevalere negli scambi i prodotti americani, soprattutto l’argento. Inizialmente tali metalli furono il frutto delle depredazioni attuate nei confronti degli Imperi degli Indios, in seguito vennero dallo sfruttamento delle miniere d’argento messicane e boliviane, utilizzando un nuovo metodo di estrazione basato sull’amalgama con il mercurio. Le esportazioni del vecchio continente aumentarono in maniera proporzionata alla presenza degli europei, che necessitavano di un gran numero di manufatti; fu in questo periodo che gli Europei (soprattutto portoghesi) iniziarono l’esportazione degli schiavi che vide ben presto l’intervento di negrieri soprattutto inglesi e olandesi. Il ‘500 dovette confrontarsi con la riduzione delle vie tradizionali, delle correnti di commerci e di traffici con l’Asia. Dopo la circumnavigazione dell’Africa attuata dai portoghesi (1497), il viaggio di Magellano (1519-1521) e molti scontri violenti come la battaglia di Lepanto (1571, storico scontro tra l’impero ottomano e le flotte cristiane riunite nella Lega Santa – repubbliche italiane e l’impero spagnolo – per determinare l’egemonia sui mari durante la guerra di Cipro); a tal punto le vecchie strade attraverso i continenti furono rese molto difficoltose e sostituite dalle vie attraverso gli Oceani, contribuendo a modificare le precedenti vie commerciali attraverso il Mediterraneo. Alcuni prodotti asiatici, come lo zucchero e le materie tintorie furono sostituiti dai rifornimenti americani; ma in Asia si stabilirono nuovi operatori, soprattutto olandesi e inglesi, che alla fine del XVI secolo diedero vita alle compagnie commerciali: la East India Company e le Compagnie Olandesi. Più tardi sarebbero arrivati nuovi prodotti come il tè. La bilancia commerciale 17 dell’Europa con l’Oriente si mantenne negativa, ma poté usufruire dell’argento americano per saldare i deficit. 2. La moneta Sino al XV secolo la scarsa disponibilità di metalli preziosi per la coniazione di monete aveva rappresentato un ostacolo notevole alla creazione di un sistema monetario efficiente. Verso la fine del XV secolo incominciarono a percepirsi gli effetti dei nuovi afflussi di oro africano, garantito dai portoghesi, e dei primi arrivi di tale metallo dall’America colombiana. All’oro si affiancano nel Vecchio Continente le principali produzioni d’argento dalle miniere tedesche, tirolesi e ungheresi. Lo sviluppo economico però richiedeva sempre maggiori quantità di moneta. Esisteva in Europa un sistema estremamente variegato nella coniazione e nella circolazione delle monete, che, da un lato dipendevano dalla disponibilità di metallo, dall’altro rappresentava uno strumento di politica economica come metodo di regolamentazione del mercato. In queste condizioni risultava obbligatorio operare distinguendo fra monete reali coniate e monete di conto, sulla base di rapporti stabiliti da apposite norme. I sistemi monetari europei dovettero confrontarsi con i rapporti di valore fra oro e argento e argento e rame, aprendosi, con la loro variazione, occasioni di speculazione in cui era possibile sfruttare i ritardi di adeguamento o il persistere di sfasamenti fra il valore di mercato e i rapporti stabiliti ufficialmente. Del resto l’afflusso sui mercati europei dei metalli preziosi non poteva essere omogeneo: l’oro africano provocò un primo squilibrio e l’argento americano esaltò lo squilibrio. Ma si può pensare che ulteriori ed importanti quantità di metalli preziosi siano sfuggite ai controlli ufficiali attraverso il contrabbando e la pirateria. Le monete e i metalli preziosi nel ‘500 invadono l’economia europea, infatti è in questo periodo che si ritrovano le enunciazioni delle cosiddette leggi monetarie, con la formulazione della teoria quantitativa della moneta (la quale afferma che: il potere d’acquisto dipende dalla quantità di moneta in circolazione, in pratica, un aumento della quantità di moneta in circolazione determina un aumento dei prezzi). Le conseguenze delle grandi variazioni nelle quantità di monete coniate e nel metallo impiegato, dipendono dalla disponibilità del metallo stesso: in pratica una sottovalutazione dell’oro facilitava la presenza delle monete di argento e di rame, determinando una circolazione monetaria difficoltosa nel caso opposto ovvero di carenza di monete d’oro. L’evoluzione delle monete nel corso del ‘500 avviene secondo un certo disordine, assunsero importante rilievo il cruzado portoghese e il pezzo da otto reales spagnolo che divennero vere monete di riferimento. Si può definire il ‘500 come il periodo della rivoluzione dei prezzi, con riferimento alla teoria quantitativa della moneta, un aumento della quantità di moneta può portare ad una modifica del livello dei prezzi; con un probabile sfasamento fra l’andamento dei prezzi e quello dei salari. Ma il fenomeno non pare aver interessato tutta l’Europa, perché l’aumento della quantità di metallo coincise con i momenti in cui le attività economiche si trovavano in una fase espansiva. La finanza 1. La necessità del pubblico Le fonti di entrata dei sovrani si basavano sull’imposizione fiscale, sul reddito dei domini della Corona, sull’eventuale alienazione di beni e privilegi e sull’indebitamento. Non molto diverse erano le fonti delle autorità locali. L’imposizione fiscale della Corona trovava la sua maggiore consistenza nella forma indiretta, come imposte sui consumi, dazi ed imposte doganali sia di importazione che di esportazione. A livello locale prevalevano le imposte dirette reali, sui beni mobili ed immobili. 20 africani divenne una fonte di guadagno per i portoghesi, che approfittando del loro monopolio con i traffici della costa atlantica africana, divennero i fornitori degli spagnoli d’America. Ben diversa fu la complessa vicenda dell’espansione americana degli spagnoli. Grandi ricchezze furono trovate, insieme con grandi civiltà, con un lungo periodo di scontri e conquiste. Se i portoghesi avevano dovuto programmare la loro presenza in Africa e in Asia attraverso la costruzione di teste di ponte (collegamenti tra città), gli spagnoli si trovarono a realizzare un’opera di conquista e colonizzazione dei territori, che li portarono nel corso del secolo alla costruzione di un impero che occupava la gran parte del nuovo continente. Nel primo decennio lo sforzo spagnolo fu la colonizzazione, mentre i primi prodotti, oltre l’oro e l’argento, furono ottenuti soprattutto dalle Antille (prima area di insediamento dei coloni spagnoli). Per garantire l’insediamento e l’opera di colonizzazione dalla Spagna furono inviate partite di semi di cereali, piante alimentari, canna da zucchero, agrumi, ulivi, viti, strumenti per la lavorazione dei campi e animali sconosciti in America, come equini, bovini e ovini. Dalle Antille le pratiche della coltivazione e dell’allevamento si trasferirono nel Continente. Dopo le vicende traumatiche della conquista militare, gli spagnoli dovettero confrontarsi con la necessità di arrivare ad un’organizzazione strutturata dei nuovi domini, con la creazione di due vicereami e la costituzione di una classe dirigente, sull’esempio dei modelli spagnoli. I primi europei arrivati con le navi spagnole erano uomini attirati dalla speranza di fare fortuna, infatti dopo essere svanito in tutto o in parte il miraggio dell’oro venne data loro la possibilità di acquisire domini fondiari. In parte si riprodusse in America lo schema della grande proprietà castigliana, determinando l’impiego della manodopera, che in un primo momento dovette essere garantita dagli abitanti originari e dopo dagli schiavi africani. Il controllo rigido dei traffici con le Americhe messo in atto dalla Spagna con la Casa della Contrataciòn, impedì un afflusso massiccio e indiscriminato di mercanti utilizzando lo strumento delle licenze, riservate a mercanti amici come genovesi e tedeschi, da cui la Corona dipendeva finanziariamente. Il controllo fu attuato anche nei porti americani, cioè Vera Cruz, Porto Bello e Cartagena, che erano i soli autorizzati ai rapporti con Siviglia. Gli spagnoli crearono rotte navali comuni in flotte che godevano della protezione delle navi da guerra, per contrastare contrabbando e pirateria che si diffusero fra le due sponde dell’Atlantico. 2. Le aree in bilico: gli Stati italiani L’andamento delle attività economiche nella penisola italiana nel corso del ‘500, tende a dividere il secolo in due periodi abbastanza distinti. La prima metà del ‘500 sarebbe stata segnata dalle crisi indotte dalle guerre combattute sul suo territorio con la caduta dei parametri produttivi nei settori che erano stati i suoi tradizionali punti di forza, come il tessile e quello manifatturiero. La seconda parte, invece, avrebbe visto una sorta di ripresa, scontrandosi con le modificazioni intervenute a livello europeo, sia nelle produzioni che nello smercio dei prodotti che erano stati sottratti agli italiani. Questo risultava il quadro economico globale, tuttavia la realtà dell’economia italiana del ‘500 si presenta estremamente diversificata, cosi come variegato era il quadro degli Stati fra i quali la penisola era divisa. La distribuzione della popolazione era diminuita nei centri cittadini, con una diminuzione del numero delle botteghe specializzate, al punto che non si riuscivano a soddisfare né i consumi interni e né le esportazioni. Nelle difficoltà generali, inoltre, si dovevano fare i conti con le spese belliche determinando un aumento del carico fiscale e dei costi di produzione, innescando così un circolo pericoloso che tendeva ad un aumento delle produzioni concorrenti. La crisi non toccò però più di tanto la capacità di iniziative degli uomini di affari, i quali si inserirono e si adattarono in modo significativo al processo di espansione europea per il mondo. Mentre l’Italia era praticamente messa a ferro e fuoco dagli eserciti stranieri, gli uomini d’affari 21 italiani si ritrovarono ad operare in tutto il mondo mettendo a frutto le loro consolidate tecniche d’affari. Non per nulla ancora all’inizio del ‘500 si veniva in Italia ad imparare l’arte della contabilità e della mercanzia. Gli italiani occupano ancora un posto di primo piano nelle grandi fiere europee, dove si scambiano merci, ma soprattutto dove si collocano come intermediatori di privilegio per le grandi iniziative finanziarie, per il commercio e la collocazione dei titoli del debito pubblico dei vari stati europei, soprattutto spagnoli e francesi. Nel ‘500 notiamo una specializzazione degli uomini d’affari italiani, che da mercanti quali erano sempre stati iniziano a preferire le attività finanziarie, grazie anche al mutato atteggiamento restìo della Chiesa verso questo tipo di attività. Nel ‘500 i flussi di merci attraverso il bacino del Mediterraneo vissero mutamenti significativi, dai prodotti locali come gli alimenti: cereali, olio e vino, sale, zucchero, lana grezza, cotone, pellami e ferro; a manufatti più elaborati, come: tessuti, armi, libri, vetri veneziani, carta. In particolare, nell’ultimo quarto del secolo le galee genovesi si trovarono a controllare un traffico tutto nuovo: il trasporto di ingenti quantità di metalli preziosi (soprattutto argento dalle Americhe) che dalla Spagna veniva trasportato in Italia come effetto di complessi regolamenti finanziari. In definitiva nell’Italia del ‘500 si manifestarono molte trasformazioni che toccarono tutti i settori della vita economica, e che generarono un diverso equilibrio fra le regioni. Genova conquista un grande sviluppo, grazie all’arrivo dei metalli preziosi per regolamentare le attività finanziarie; Venezia conservò un ruolo importante, con una crisi nel primo periodo per la diminuzione del commercio delle spezie gestito ormai dai portoghesi ma successivamente riprese contatti attraverso l’Egitto importando altri prodotti come i minerali. Mentre i porti meridionali, siciliani in particolare, si ritrovarono a gestire il commercio dei grani grazie all’aumentata richiesta per fronteggiare le carestie. Sicuramente le guerre della prima metà del secolo hanno messo in grande difficoltà il tessuto produttivo, ma i mutamenti istituzionali, con le nuove influenze spagnole, e i rapporti internazionali degli uomini d’affari italiani ebbero un ruolo fondamentale nel determinare un nuovo fattore di sviluppo. 3. Le aree emergenti: Inghilterra e Paesi Bassi L’Inghilterra e i Paesi Bassi settentrionali sono le due aree europee che manifestarono nel ‘500 forme e tempi di uno sviluppo originale. Già nei secoli precedenti si erano sviluppate nei Paesi Bassi, cosiddetti meridionali, Burges come centro ed Anversa come porto, uno dei poli forti dell’economia europea, confrontabile con quello italiano; mentre si erano affermati centri commerciali rilevanti come Amsterdam, Brama e Amburgo. La loro collocazione sul Mare del Nord aveva consentito di usufruire di due grandi linee di comunicazione: verso il mare e verso l’interno, usufruendo del corso dei fiumi come il Reno e l’Elba, mettendo in comunicazione il mare con le regioni interne dell’Europa centrale. Quando i portoghesi iniziarono la loro attività con l’Oriente, ritrovandosi Lisbona in una posizione decentrata, furono obbligati a fare riferimento ai porti del mare del Nord e trovarono in Anversa (ma anche Amsterdam e Amburgo) il mercato ottimale per la destinazione dei prodotti delle Indie Orientali, soprattutto pepe e spezie. L’attività marinara sulle coste dei Paesi Bassi assunse una notevole intensità, portando lavoro agli uomini che abitavano sul mare, venne così creandosi un insieme di centri ove erano disponibili quasi tutti i prodotti oggetto dei traffici internazionali; nei Paesi Bassi settentrionali ci si trovò a fare i conti con le ristrettezze del territorio e con la scarsità di risorse, a tal punto furono avviati intensi lavori di regolamentazione delle acque e fu trovata nei mulini a vento l’energia necessaria per ogni tipo di lavorazione, traendo dal mare uno sviluppo economico singolare. L’ultimo quarto del ‘500 vede così la decadenza di Anversa e la crescita di Amsterdam come centro principale delle attività economiche dei Paesi Bassi. Anversa era organizzata secondo la modalità antica dei vincoli imposti alle attività economiche. Amsterdam, invece, dava maggiori possibilità di azione con un 22 atteggiamento più permissivo, facilitando, se non incentivando, l’afflusso di uomini, attività e capitali. La riforma protestante, vincitrice in Olanda, permise di raccogliere tanti personaggi allontanati dai paesi di tradizione cattolica, molti dei quali erano portatori di preziose competenze professionali. Inoltre l’Olanda si trovò a godere dei vantaggi derivanti da alcune situazioni oggettive, in particolare, la definitiva rottura con la Spagna e il Portogallo e i conseguenti divieti di rapporti commerciali obbligarono gli olandesi a ricercare una loro via autonoma per procurarsi i prodotti provenienti dalle Americhe e dalle Indie. Gli ultimi anni del ‘500 vedono gli olandesi impegnati nell’organizzazione di consistenti spedizioni verso le indie orientali (più tardo sarebbe stato l’intervento diretto degli olandesi verso le Americhe), cercando un nuovo modello di espansione economica. Se i portoghesi avevano uno stretto controllo statale sulle spedizioni in Oriente, gli olandesi lasciarono spazio all’iniziativa privata. Gli olandesi a fine ‘500 erano in grado di intrattenere rapporti commerciali con ogni parte d’Europa, iniziare nuove lavorazioni per la trasformazione di materie prime, sviluppare tecniche mercantili e contabili evolute, muoversi in modo totalmente innovativo con la disponibilità di cospicui capitali. Le vicende economiche dell’Inghilterra nel corso del ‘500 presentano aspetti diversi dagli altri paesi europei. La produzione di lana, le trasformazioni dell’agricoltura, lo sviluppo delle manifatture, la disponibilità di materie prime, i trasporti marittimi, la monarchia assoluta, la riforma anglicana, sono un insieme di aspetti che si presentano in movimento nel corso del XVI secolo, contribuendo a costruire un quadro generale che portò l’Inghilterra ad affrontare con successo i secoli seguenti. La lana inglese era uno dei prodotti più presenti nel commercio estero, i dazi doganali sulle esportazioni garantivano gettiti consistenti. All’inizio del secolo le statistiche ufficiali testimoniano che ormai i panni di lana avevano largamente superato, in peso, le quantità della lana grezza, soprattutto nella forma delle pannine, che trovarono in Anversa il luogo ideale per diffondersi nel resto d’Europa; in questa diffusione dei panni inglesi si riscontra la crisi dei panni italiani, come conseguenza delle guerre combattute in Italia sfruttando i loro prezzi più competitivi ma con una qualità intrinseca molto diversa. L’aumento della produzione di lana provocò due conseguenze: da un lato le esigenze del pascolo avrebbero espanso il processo delle recinzioni (enclosures), che avrebbero procurato l’espulsione dei ceti più deboli dalle campagne, dall’altro, un aumento delle persone esposte ai rischi delle violente oscillazioni dell’occupazione delle attività manifatturiere. A questi elementi negativi, si sarebbero aggiunti la soppressione della proprietà ecclesiastica ed il mutamento dell’organizzazione delle aziende agrarie, con danno per i piccoli coltivatori. L’Inghilterra era legata al mare, ma era stata tagliata fuori dalle grandi scoperte geografiche dei portoghesi e degli spagnoli, anche se alla fine del ‘400 un viaggio era stato fatto dalle navi inglesi verso l’America del Nord, sotto il comando dell’italiano Giovanni Caboto, senza conseguenze apprezzabili. Per forza di cose i marinai inglesi furono obbligati a dedicarsi alla navigazione nel Mare del Nord e ad intraprendere tutta una serie di azioni per conquistare condizioni di agibilità negli altri mari europei, soprattutto nel Mediterraneo. Gli strumenti per la penetrazione in questi mari e la gestione dei traffici furono le Compagnie. Più tardi nacquero le organizzazioni stabili per i rapporti con l’Oriente e con le Americhe, dove fu necessario approfittare delle difficoltà dei portoghesi e attaccare le posizioni spagnole. Fu con Elisabetta I che gli inglesi intrapresero una vera e propria lotta contro la Spagna. La flotta inglese era cresciuta tanto da intaccare il valore della sterlina, che subì una svalutazione che esercitò un effetto positivo sulle esportazioni inglesi. Verso l’America gli inglesi si mossero cercando di acquisire nuovi territori, come avvenne con l’isola di Terranova imponendo alla regione il nome di Virginia in omaggio alla regina, ma da questi territori non vennero immediati vantaggi. Solo nel secolo seguente si sarebbe ripresa l’opera di colonizzazione del Nord America. Maggiori successi vennero dalla cosiddetta guerra di corsa, cioè dalla caccia alle navi spagnole che trasportavano le ricchezze americane, condotta da navi armate che operavano appunto al servizio della 25 secolare di crescita dei prezzi, avviando una fase di deflazione. Gli effetti della crisi, oltre a differenziarsi dal punto di vista geografico, si ripercossero sui vari strati della società. Se per braccianti e salariati si può parlare di miglioramenti, per quanto riguarda i piccoli proprietari terrieri, affittuari e mezzadri si può parlare di peggioramenti nelle condizioni di vita. Nel ‘600 i mercati erano meno recettivi e con il crollo dei prezzi, piccoli proprietari e coloni erano spesso costretti ad indebitarsi ed a vendere le proprietà o a trasformarsi in salariati. Tale processo andava tutto a vantaggio dei grandi proprietari terrieri. In ambito urbano il calo dei prezzi dei prodotti agricoli favorì i ceti meno abbienti. Tale miglioramento fu sostenuto anche dalla tendenza alla crescita dei salari nominali, che spingeva ancora più in alto quelli reali. Agricoltura e la proprietà terriera: si accentuano le differenze 1. Tecnologie e nuove colture In alcune regioni d’Europa i contadini continuavano a rappresentare per tutto il secolo anche il 90% della popolazione; piccoli proprietari, coloni, mezzadri, braccianti e, dove ancora esistevano, servi della gleba, erano le figure che componevano questo mondo. Il prodotto agricolo più importante era senz’altro il grano. Assicurare il pane era l’imperativo categorico, tutto doveva essere subordinato a questa necessità essenziale. In alcuni periodi di carestia e in alcune aree, come in Germania, i contadini ovviavano a questa carenza con altri cereali, come l’avena o la segale, ma per la stragrande maggioranza dei contadini l’unica coltivazione era sempre e solo il grano. Il XVII secolo non rappresentò, dal punto di vista tecnologico, un periodo di grandi progressi; lo dimostrano la carenza di opere e studi di agronomia rispetto al secolo precedente. Un economia agricola ripiegata su se stessa, non più alla ricerca dell’aumento della produttività, ma orientata alla difesa della rendita fondiaria. Ma dietro l’immagine di questa agricoltura immobile in realtà si intravedono segni di cambiamento. Se nel ‘500, sotto la pressione della crescita demografica, si sperimentavano nuove tecniche di aratura, concimazione e semina, nel ‘600 si registrò una ripresa dell’allevamento, della viticoltura e della coltivazione delle piante industriali, specialmente tessili. La viticoltura rappresentò sempre un settore importante per i redditi dei contadini, il consumo di vino era alto perché rappresentava un insostituibile apporto calorico, di sali minerali e di vitamine. Nel corso del secolo si ebbe un espansione di questa coltivazione, in Francia e in Italia le esportazioni di vino crebbero in maniera costante. L’allevamento del bestiame e la produzione di cereali erano inversamente proporzionali: se aumentava la domanda di cereali, si aravano anche i pascoli e si allevava meno. Il bestiame rappresentava in ogni caso fonte di energia sui campi, carne e materia prima conciaria. La crescita o il decremento del patrimonio zootecnico (soprattutto bovini) rappresentava un aspetto cruciale per l’economia agricola del ‘600, nelle regioni più colpite dalle guerre (come l’Europa centrale con la guerra dei Trent’anni) il bestiame fu decimato, con gravi ripercussioni per la concimazione dei campi determinando quindi una crisi profonda dell’agricoltura. Al contrario, nelle zone meno colpite dalle guerre (come in Inghilterra), l’allevamento si sviluppò di pari passo con l’agricoltura quindi con maggiori possibilità di concimazione dei terreni. In Olanda si iniziò un allevamento intensivo, che toglieva spazio alla cerealicoltura, ma la convenienza fu importare grano per esportare bestiame; l’esportazione dei bovini fu elevata per tutto il secolo, le cui carni e pelli venivano consumate e lavorate in Italia, Francia, Germania e Spagna. Dal punto di vista tecnologico non si registrarono effettivi progressi nel corso del secolo, l’aratro rimaneva uno strumento rudimentale incapace di perforare profondamente il suolo e che richiedeva una quantità 26 elevata di energia (umana ed animale); anche il raccolto e la battitura dei cereali si eseguivano con sistemi rudimentali e poco efficienti. Dominava ancora la rotazione biennale, che alternava il frumento ed il maggese, non garantendo quindi una buona rigenerazione del terreno. Tra il ‘500 ed il ‘600 si sperimentò il sistema della rotazione triennale, se nella rotazione biennale si coltivava la metà del terreno e la restante si lasciava a maggese, con quella triennale si ripartiva per tre la terra coltivabile: in una parte si seminava frumento, in un’altra cereali minori e/o leguminose (producendo un duplice vantaggio, arricchire il terreno e fornire nuovi prodotti sul mercato), l’ultima veniva lasciata a riposo. La carenza di innovazioni fu mitigata dall’introduzione del mais dall’America che poteva garantire rese nettamente superiori a quelle del frumento, sia per l’alimentazione umana ed animale, e poteva essere introdotto nella rotazione triennale, come cereale minore. Malauguratamente la pianta richiedeva particolari condizioni di terreno e clima, che finirono per contenerne la diffusione a poche zone, in particolare Francia e Pianura padana. Un caso particolare fu l’Inghilterra, in questo Paese si ampliarono le superfici coltivate con l’uso di aratri diversi a seconda del terreno, fertilizzanti sempre più efficaci, facendo fare un notevole passo avanti all’agricoltura inglese (non è escluso che tali processi si svilupparono anche in altri Paesi europei). Sappiamo che l’agricoltura forniva anche una serie di materie prime con la canapa ed il lino, la produzione della lana beneficiò dell’estendersi del pascolo (terra non messa a coltura) soprattutto in Spagna e nell’Italia meridionale, mentre il primato della bachicoltura rimase in Italia che fu la maggior produttrice europea di seta del XVII secolo. N.B.: La seta è una fibra prodotta come bozzolo dal baco da seta ed utilizzata per filati e tessuti di pregio. Sebbene molti insetti (bachi e ragni) producano bozzoli essi si nutrono delle foglie del gelso. La seta è una delle fibre tessili più antiche ed è originaria della Cina; secondo la tradizione cinese, era utilizzata già da 3.000 anni a.C. La tradizione vuole che sia stata un imperatrice cinese a scoprire le potenzialità del bozzolo, poiché accidentalmente cadde nella sua tazzina da te. La Cina riuscì a mantenere il segreto della sua lavorazione fino al 300 d.C. quando i giapponesi, e poco più tardi gli indiani, lo scoprirono, per poi arrivare in Europa con Marco Polo tramite la famosa “via della seta”. Il baco, è figlio di una falena (cioè una grossa farfalla). La falena depone tra i rami di gelso (delle cui foglie i bachi vanno matti), 300 o 400 uova. Dopo una decina di giorni le uova cominciano ad aprirsi e ne vengono fuori dei piccolissimi bachi lunghi circa mezzo centimetro. Appena nati, i piccoli si attaccano subito alle foglie e nel giro di sei settimane diventano abbastanza da produrre una specie di saliva molto viscosa che emettono dalla bocca e che a contatto con l'aria diventa solida, formando un filo. Con questo filo i piccoli bachi si avvolgono completamente: alla fine ne ottengono un bozzolo ovale, una specie di casa che gli consente di crescere. Finito il periodo di crescita, i bachi si trasformano in falene ed escono dal bozzolo, spezzandolo. Ed è dal bozzolo che si ricava la seta, un processo molto complicato e lungo che un tempo si faceva manualmente mentre adesso è affidato ai macchinari delle industrie. Il bozzolo viene scaldato in acqua bollente, ripulito e filato in tante fibre che poi vengono intrecciate tra loro per rendere il filo più resistente. I fili vengono poi tessuti ottenendo la magnifica seta! Naturalmente la seta grezza è bianca, ma si può colorare secondo i propri gusti!!! 2. Il processo di concentrazione della terra in Occidente In primo luogo occorre sottolineare la presenza di enormi estensioni di terre poco o per nulla produttive, non arabili e con scarse possibilità di sfruttamento anche per la raccolta e la caccia. Vi erano poi le terre che 27 venivano utilizzare da comunità (come villaggi, famiglie, ecc.), terre di uso collettivo, ecc. Accanto a queste terre comuni, vi erano i campi di piena proprietà dei contadini e quelli del regime signorile. 1.I contadini proprietari non erano necessariamente benestanti, anzi erano spesso minacciati dalle fluttuazioni del mercato o dai capricci del clima. La caduta dei prezzi obbligò molti di loro ad indebitarsi e a vendere le loro terre; erano particolarmente diffusi in Inghilterra, nella Francia meridionale e nell’Europa Orientale. 2.Nelle stesse condizioni si trovavano quei contadini che, pur non avendo la piena proprietà dei campi che lavoravano, potevano trasmettere i loro diritti d’uso ai propri eredi. Questi contadini dovevano al proprietario della terra un versamento annuo che poteva essere circa un decimo del raccolto (decima), e spesso dovevano obbligatoriamente prestare alcune giornate di lavoro sulle terre direttamente condotte dal proprietario (corvèes). Erano diffusi nei Paesi Bassi e nella Francia settentrionale. 3.Non tutti i contadini erano così fortunati, in molte altre regioni l’ereditarietà dei fondi non costituiva né diritto né consuetudine, ma era sottoposta al pagamento di pesanti oneri; come in Inghilterra, Francia centrale e Germania. 4.Vi erano poi casi estremi, molto diffusi, nei quali i diritti dei contadini erano molto precari con un’elevata possibilità di essere cacciati dalle terre che lavoravano; come avveniva nell’Europa Orientale e nell’Italia meridionale. Le terre signorili potevano essere lavorate dai coloni sottoposti a corvèes o potevano essere affittate secondo modelli più moderni, come la locazione a canone fisso o la mazzadria. Questo era il quadro generale dei rapporti di proprietà, ma gli sconvolgimenti del XVII secolo provocarono una rapida evoluzione. Il calo dei prezzi mise in difficoltà i piccoli proprietari, che furono costretti ad indebitarsi e successivamente a vendere le proprietà, tutto ovviamente a vantaggio dei grandi proprietari, nobili, religiosi e borghesi. In questo modo la proprietà terriera si concentrò ulteriormente in poche mani, fenomeno che avvenne in tutta l’Europa Centrale. In Inghilterra, invece, l’appropriazione delle terre da parte dei ceti dominanti non avvenne solo a spese della piccola proprietà privata, ma anche a discapito dei campi aperti attraverso le cosiddette recinzioni (enclosures), che entrarono a far parte dei grandi possedimenti fondiari. In un periodo nel quale i prezzi e le rendite fondiarie calavano verso il basso, i ceti abbienti investivano nell’acquisto di terre; poiché essendo l’agricoltura l’attività prevalente, la terra diventò una merce e bene di rifugio per eccellenza. 3. La rifeudalizzazione L’Europa orientale era da secoli il “granaio” del continente. La bassa densità demografica permetteva di creare eccedenze che erano regolarmente esportate in Occidente. Di fronte alle difficoltà del mercato granario le classi dominanti allargarono i loro possedimenti e cercarono con tutti i mezzi di costringere a rimanere sulle loro terre i contadini. A metà del XVII secolo la Polonia, la Romania e la Russia avevano ristabilito per legge la servitù della gleba e in molte regioni vennero rimessi in uso diritti feudali, ormai decaduti. Quest’ultimo aspetto si presentò anche in Occidente, soprattutto nel mezzogiorno italiano e nell’Europa meridionale. Questo movimento fu definito di “rifeudalizzazione”. La definizione può apparire forzata per quanto riguarda l’Europa Occidentale, ma sicuramente appropriata per l’Europa Orientale. Questa fu la risposta alla crisi da parte della classe dominante, che non portò alcun progresso ma rappresentò soltanto un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini. 30 grado di far fronte alla domanda delle colonie, perciò furono altre nazioni ad approfittarne e l’oro e l’argento americani presero ben presto la via di Amsterdam, Firenze, Milano e Lione. Ad aggravare ulteriormente la situazione si era aggiunta la rivolta dei Paesi Bassi, che aveva costretto gli Asburgo (casa reale spagnola) ad un fortissimo incremento delle spese belliche per far fronte alle quali non esitarono ad indebitarsi con i banchieri europei. I Fugger tedeschi, i portoghesi Diaz, ma soprattutto i genovesi Doria, Spinola e Centurione: anticipavano al re di Spagna le paghe per le sue truppe mercenarie che combattevano nelle Fiandre; in cambio la Corona “girava” a questi banchieri i proventi delle loro tasse. Nel 1609 l’80% delle entrate fiscali spagnole era già stato ipotecato; 10 anni dopo, Filippo IV, scoprì che tutte le tasse erano in mano a banchieri stranieri. Questa gestione della finanza pubblica in Spagna, fu frutto di una politica estera molto dispendiosa che non poteva durare a lungo. In effetti periodicamente il re di Spagna era costretto a dichiarare bancarotta, che in realtà, era un modo per rinegoziare i tassi di interesse sui debiti; pero queste bancarotte avevano gravi ripercussioni sul sistema finanziario europeo. L’Europa non asburgica beneficiò della grande liquidità proveniente dall’America e godette di tassi di interesse sui titoli di debito pubblico molto bassi: soprattutto in Olanda e Inghilterra i tassi tendevano al ribasso intorno al 4-6%, rispetto al forte indebitamento spagnolo del 80% fino ad arrivare, appunto, al totale del gettito fiscale. Il mercantilismo e la formazione dello Stato moderno Nel corso del XVII secolo cominciarono faticosamente a formarsi quelli che noi oggi chiamiamo Stati nazionali. Solo paesi con dimensioni territoriali adeguate potevano permettersi il lusso di mantenere una burocrazia stabile con lo scopo di amministrare lo Stato, ma soprattutto di esigere le tasse, e solo con entrate adeguate gli Stati potevano mantenere eserciti e flotte sempre più grandi e sempre più costosi. Il 1600 segnò la definitiva affermazione del mercantilismo. Olanda, Inghilterra e Francia furono i primi paesi a sperimentare nuove forme di amministrazione pubblica, di rappresentanza degli interessi e di intervento statale nell’economia. Le 3 diverse esperienze identificano 3 diversi modelli di Stato e 3 livelli diversi di performance economica. L’Olanda 1. Dall’indipendenza al primato nel commercio internazionale I Paesi Bassi avevano conosciuto una crescita economica molto forte già a partire dal basso medioevo. Ma i protagonisti di questo sviluppo furono i Paesi Bassi meridionali (l’attuale Belgio più il Lussemburgo), mentre le provincie del Nord (gli attuali Paesi Bassi settentrionali) erano rimasti indietro. Il centro finanziario e manifatturiero di maggiore importanza fu Bruges, fino al XV secolo e in quello successivo la leadership passò ad Anversa. Nella seconda metà del ‘500 i Paesi Bassi iniziarono una lunga lotta per l’indipendenza dall’immenso impero spagnolo; le cause furono per motivi religiosi, divisi tra cattolici (spagnoli) e protestanti, e la difesa di antiche autonomie municipali, minacciate dal dirigismo spagnolo. L’azione repressiva sempre più energica inasprì la lotta e portò, nel 1581, alla divisione dei Paesi Bassi. La regione meridionale rimase sotto il controllo spagnolo, mentre le provincie settentrionali (da allora Province Unite) dichiararono la loro indipendenza. Il successo delle Province Unite nella loro lotta per l’indipendenza, fu grazie al decisivo appoggio dell’Inghilterra e la superiorità in mare che segnò l’inizio del declino spagnolo. Il conflitto, molto costoso soprattutto per la Spagna, era destinato a durare ancora: la prima tregua sancì il 31 riconoscimento delle Provincie Unite, ma dopo 40 anni di guerra, l’economia delle Province Unite si mostrava vivace e dinamica e questa giovane nazione era la più sviluppata d’Europa; uno dei fattori che ne favorì il successo fu il grande esodo di protestanti dalle province meridionali, rimaste sotto il controllo spagnolo e quindi cattoliche, verso le province settentrionali (infatti tra i grandi capitalisti di Amsterdam troviamo spesso proprio gli abitanti del Sud). Amsterdam e l’intera Olanda, approfittando della decadenza di Anversa, divenne il centro propulsivo dello sviluppo, tanto che si iniziò a denominare le Province Unite semplicemente con il nome di Olanda. La decadenza di Anversa fu voluta dai governanti olandesi, che durante il conflitto con la Spagna ne bloccarono il porto. La flotta olandese era superiore, in qualità e quantità, a quella spagnola, alla pari con quella inglese. La cantieristica olandese era all’avanguardia, poichè era in grado di costruire navi migliori a minor costo, circa il 50% in meno, ai rivali inglesi e spagnoli. Con questo vantaggio tecnologico e con avanzate conoscenze in campo finanziario e commerciale gli olandesi assunsero il controllo del commercio internazionale e Amsterdam divenne il centro della più ampia rete di commerci che il mondo avesse mai conosciuto. Ai consueti scambi con il Mar Baltico e con il Mare del Nord si aggiunsero le sete italiane, i vini francesi, il caffè, il cacao, lo zucchero e l’argento americani. Dal Nord America arrivavano pellicce e legname, ma il vero salto di qualità avvenne quando gli Olandesi si inserirono nei commerci con l’Oriente. La Compagnia Olandese delle Indie Orientali: VOC, fondata nel 1602, si realizzò quando la penetrazione in questi ricchi mercati era già ben avviata ed il predominio portoghese era già stato scalzato. Da quel momento, per tutta la durata del secolo, il commercio di spezie e di tutti gli altri prodotti orientali richiestissimi sui mercati europei, fu in mano agli olandesi. Il successo olandese non fu legato solo al commercio, ma anche al grande sviluppo manifatturiero di città come Rotterdam e delle aree agricole. I Paesi Bassi seppero infatti differenziare la loro offerta manifatturiera, coprendo così un ampia fascia di mercato; infatti, oltre all’importanza dell’industria tessile, rappresentata da tessuti di lana pettinata, rasi e tessuti meno pregiati, conobbero grande sviluppo anche altre attività, come l’industria saccarifera e la cantieristica. L’agricoltura era molto avanzata, basata su efficienti sistemi di canalizzazione ed irrigazione, oltre che su razionali metodi di concimazione e rotazione. A ciò si aggiunse un grandioso sistema di dighe e idrovore che allargò di parecchio la superficie coltivabile. 2. La supremazia sui mari e un colonialismo nuovo Sono molte le ricerche degli studiosi volte a scoprire le ragioni di questo “miracolo economico olandese”; c’è chi pensa che il dinamismo economico delle Province Unite sarebbe derivato dallo spirito capitalistico proveniente dall’etica protestante, o sia stato determinato dalla tecnologia: si pensi alla torba (in grado di produrre calore ad un costo nettamente inferiore al legno), allo sfruttamento del energia del vento grazie all’energia eolica (l’Olanda è la terra dei mulini a vento), alla disposizione della più avanzata tecnologia dell’epoca (permettendo di coniugare vantaggi competitivi in termini di costi di produzione e trasformazione), o anche all’assenza dei vincoli giuridici ed istituzionali che invece esistevano nelle altre regioni. La mancanza di un potere centrale e la scarsa importanza delle corporazioni permisero il libero sviluppo di nuove attività, a differenza di quanto avvenne, ad esempio, in Francia governata dal mercantilismo o nell’Italia soffocata dalle corporazioni. In ogni caso: religione, tecnologia e forma di governo contribuirono senz’altro ad avviare il processo di sviluppo, che durò per 150 anni ridimensionandosi solo all’inizio della rivoluzione industriale. I Paesi Bassi, quando a causa della guerra con la Spagna, non poterono più contare sul sale portoghese per conservare il pesce del nord che trasportavano in tutta Europa, non esitarono a gettarsi nell’avventura coloniale, soprattutto in Asia. 32 Nel ‘600 il numero di navi con l’insegna degli Orange, che solcavano l’Oceano Indiano, era già pari a quello portoghese, dieci anni dopo il rapporto era di 4 a 1. Per spiegare un’espansione così spettacolare bisogna analizzare il cosiddetto “sistema” olandese. Le navi portoghesi partivano da Lisbona praticamente vuote, con a bordo solo l’argento necessario per acquistare i prodotti che poi avrebbero rivenduto in Europa; le olandesi erano, al contrario, erano sempre cariche, sia all’andata che al ritorno. Gli olandesi, ripetendo l’esperienza che già avevano fatto i veneziani nei secoli precedenti nel Mediterraneo, usavano come merce di scambio i manufatti e non solo i metalli preziosi. Amsterdam divenne così un grande centro di import-export, ma per svolgere un ruolo così rilevante nei traffici transoceanici occorreva una struttura di coordinamento, fortemente radicata nella società olandese. L’Olanda, a partire dal 1602, disponeva di questa straordinaria risorsa: la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (la V.O.C.). Grazie alla V.O.C., l’Olanda aveva a disposizione più denaro e più navi di quanto non potessero fare Portogallo e Inghilterra messi insieme. La V.O.C., fondata nel 1602, derivava dalla fusione di preesistenti compagnie. La sua struttura risulta abbastanza complessa, era infatti divisa in sei camere (Amsterdam, Zelanda, Rotterdam, ecc.), ogni camera partecipava al capitale sociale (Amsterdam, ad esempio, vi contribuiva da sola per la metà). Le singole camere rilasciavano poi delle azioni di valore nominale variabile fino al raggiungimento delle proprie quote. In realtà la ripartizione del capitale in quote e la loro offerta erano elementi già presenti nella Compagnia Inglese “gemella”, la vera innovazione risedeva nel tempo di immobilizzo del capitale. Fino ad allora la sottoscrizione di azioni era limitata a ciascun viaggio, mentre, per la prima volta le azioni della V.O.C. impegnavano investimenti per un periodo di dieci anni, conferendo stabilità e continuità nel tempo alla Compagnia. Poiché le azioni erano al portatore, si creò immediatamente un mercato dei titoli legato al fatto che qualche investitore voleva smobilizzare prima della scadenza il proprio capitale e che qualcun altro era disposto a pagare più del valore nominale. Quando, poi, alla scadenza di dieci anni la compagnia si rifiutò di liquidare le azioni, che valevano già il doppio del loro valore nominale, la V.O.C. divenne a tutti gli effetti una s.p.a. in senso moderno. Il suo capitale non aveva più una scadenza e divenne oggetto di stabili contrattazioni alla borsa di Amsterdam. Il colonialismo olandese era basato sulla costruzione di basi commerciali sul mare attraverso le quali controllare l’economia dei territori circostanti; la politica olandese nei confronti delle colonie fu di tipo feudale, controllando la produzione di spezie ed esigendo prestazioni lavorative da parte degli indigeni. In cambio gli olandesi assicuravano l’appoggio militare, ma non si impegnavano mai in campagne militari di conquista nell’entroterra. Così facendo si conciliava la massimizzazione dei profitti con un contenimento estremo dei costi di gestione. L’esempio della VOC venne ben presto imitato anche in Inghilterra e in Francia, pur con differenti risultati economici. Nacque la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, che si differenziò quasi subito dalla sua omologa orientale, perché cercò di costituire colonie più radicate e consistenti in Brasile, nelle Antille, costruendo anche la Nuova Olanda. Quattro anni dopo la sua capitale, Nuova Amsterdam, dovette essere ceduta agli inglesi, che la ribattezzarono New York. Lo sviluppo manifatturiero olandese è stato letto per molti anni come il trionfo della libertà individuale svincolata dal controllo corporativo. Numerose attività nacquero e si affermarono al di fuori del controllo operativo, legate al commercio e alla navigazione; ma allo stesso tempo, le tradizionali attività tessili, conobbero una crescita vertiginosa e vennero massicciamente dislocate nelle campagne con l’avvallo delle corporazioni stesse. 35 le due compagnie principali, quella delle Indie Orientali e quella delle Indie Occidentali ad una radicale ristrutturazione. Vennero rifondare con nuovi soci ed amministratori, scelti dal governo, nuovi capitali di provenienza statale e navi della marina regia. In Nord America venne ampliato il commercio di pellicce e venne fondata una nuova colonia, la Louisiana, che collegava il Golfo del Messico con i possedimenti canadesi. In Oriente i risultati furono meno spettacolari a causa dell’accanita concorrenza degli olandesi e inglesi, inseriti in maniera stabile. Complessivamente l’avventura coloniale francese, considerando i costi di una partenza ritardata, diede risultati importanti. L’espansione oltreoceano stimolò una consistente domanda per l’industria. 2. La patria del mercantilismo Lo sviluppo economico francese non conobbe i ritmi di quello olandese e non fu solido come quello inglese, in più ebbe la particolarità di vedere come grande protagonista lo Stato. Il ruolo del governo fu quello di farsi promotore di iniziative importanti, come le manifatture reali e le compagnie coloniali, e una politica di protezione doganale delle produzioni interne. Tutte queste iniziative prendono il nome di Mercantilismo. Nota: Il mercantilismo aveva come obiettivo principale il raggiungimento dell’attivo nella bilancia commerciale. Era indispensabile aumentare la capacità produttiva del paese, incoraggiare le produzioni destinate all’esportazione e scoraggiare l’importazione di merci estere eccetto le materie prime; ma il mercantilismo si occupò poco dell’agricoltura, ritenendola poco idonea a produrre ricchezza come il commercio e l’industria. Il giudizio degli economisti (soprattutto liberisti, da Smith in poi) su questo tipo di politica è spesso negativo, anche se al giorno d’oggi il nostro giudizio sarebbe meno negativo. Gli economisti del XVII secolo avevano individuato che tramite il commercio internazionale era possibile accumulare capitali secondo la teoria quantitativa della moneta, con la volontà di accrescere la propria potenza (soprattutto militare) i grandi Stati nazionali che si andavano formando cercarono tutti i modi per sviluppare il commercio e la produzione del proprio Paese. La Francia perseguì queste politiche in maniera più sistematica di altri Paesi; fu Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV, la maggiore figura del mercantilismo francese. Colbert si trovò ad affrontare due problemi opposti: da un lato cercò di sanare le finanze pubbliche in grave deficit a causa delle guerre, dall’altro di dotare la Francia di un settore manifatturiero e di una marina in grado di competere nel commercio internazionale e nella lotta coloniale. Per quanto riguarda il primo problema, Colbert istituì la Chambre de Justice con lo scopo di spezzare la rete di finanzieri che speculavano sul debito della Corona. La Chambre, oltre a comminare multe salatissime e ad abbassare arbitrariamente gli interessi sui prestiti, arrivò a condannare a morte alcuni speculatori e all’ergastolo l’ex ministro delle finanze (precedente a Colbert, Fouquet). Grazie a questi sistemi gli interessi da pagare annualmente passarono da 27 milioni a meno di 8; contemporaneamente Colbert riorganizzò l’apparato burocratico preposto alla riscossione delle tasse fondiarie, la famigerata taille. Lo scopo di questa riforma era quello di evitare soprusi, frodi e appropriazioni indebite da parte dei funzionari preposti alla riscossione. Questo fu senz’altro uno dei maggiori successi di Colber: nel giro di 10 anni, le frodi diminuirono consentendo una diminuzione del carico fiscale del 20%, e le entrate fiscali raddoppiarono consentendo di investire il denaro ricavato nell’industria. Il sistema di incentivi che il ministro escogitò era molto vario, andava dalla semplice esenzione fiscale all’assegnazione di privative (forma di monopolio, temporaneo o perpetuo), dalla concessione di prestiti a tassi agevolati alle commesse pubbliche; il titolo di “Manifatture Reali” inizialmente venne concesso solo alle fabbriche di proprietà regia, successivamente venne esteso a tutte quelle imprese che si distinguevano per la qualità dei loro prodotti, tutto questo all’interno di un sistema doganale fortemente protettivo 36 (protezionismo). Per quanto riguarda il secondo problema, i francesi erano in forte ritardo dal punto di vista commerciale, uno dei motivi principali era la debolezza della flotta formata da navi vecchie. Il sistema degli incentivi e dei premi alla costruzione navale, e il contemporaneo inasprimento dei dazi che le navi straniere dovevano pagare per attraccare nei porti francesi, portò a raddoppiare il tonnellaggio della marina mercantile in meno di vent’anni; ma il vantaggio olandese ed inglese sulle principali rotte commerciali era troppo altro per essere colmato in così poco tempo. Sotto il profilo quantitativo i risultati della politica di Colbert e del mercantilismo, appaiono certamente brillanti: si sviluppò la produzione manifatturiera, la partecipazione del Paese al commercio internazionale, il ruolo della Francia come paese coloniale; senza, tuttavia, mai raggiungere il livello di crescita economica di Inghilterra ed Olanda. 3. I costi e i benefici della burocratizzazione I risultati del colbertismo vennero in gran parte vanificati tra la fine del ‘600 ed i primi decenni del ‘700, quando Luigi XIV si lanciò di nuovo in dispendiose guerre sia in Europa sia in America; portando il debito pubblico francese alla cifra astronomica di due miliardi di livres, creando le premesse per l’ennesima bancarotta. Tra i benefici ed i costi della burocratizzazione, abbiamo: Benefici: ↑ Colbert creò un canale informativo, valido sia dal centro verso la periferia che viceversa, in grado rendere immediatamente attuabile ogni decisione amministrativa presa a Parigi, ma anche di portare al governo centrale le istanze locali; ↑ Tutti gli aspetti positivi di cui beneficiò l’economia, dalle manifatture ai commerci; ↑ A ciò va aggiunto il ruolo del Conseil d’Etat, che era il supremo organo di giustizia amministrativa nelle controversie tra contribuenti ed esattori. Costi: ↑ Il sistema di Colbert era nel profondo estremamente dirigista, tanto che le libertà locali ed individuali in campo economico erano fortemente limitate, infatti, la capacità imprenditoriale ed organizzativa né risultò atrofizzata; ↑ le protezioni doganali tagliarono fuori dalla competizione internazionale quei pochi centri in grado di combattere ad armi pari con le grandi potenze mondiali; ↑ Lo stesso discorso vale per i precettori di redditi agricoli, che si vedevano oppressi da imposte, i cui introiti andavano tutto a vantaggio delle manifatture e dei commerci; ↑ Ma il limite del mercantilismo colbertista non stava forse né nei risultati né nei metodi, ma nelle sue motivazioni. L’obiettivo, infatti, non era quello di creare uno Stato con un’organizzazione solida e nel quale tutti i cittadini fossero chiamati a partecipare alle decisioni politiche, ma più semplicemente creare uno Stato “finanziario” per finanziare le guerre di Luigi XIV. Sintetizzando possiamo affermare che il dirigismo colbertista diede effetti limitati dal punto di vista economico, ma dotò la Francia di un sistema burocratico e istituzionale in grado di sostenere una futura evoluzione in senso capitalistico dell’economia nazionale. 37 L’Inghilterra 1. Tra rivoluzioni ed espansione economica Il 1600 nella storia inglese è un secolo di forti conflitti e di nuovi assetti costituzionali, nel quale nuove classi sociali prendono in mano le redini dell’economia e della politica. Sullo sfondo c’erano anche forti conflitti religiosi, che agirono da catalizzatore di tutti i contrasti interni; analogamente a quanto avvenuto in Olanda, tali sconvolgimenti non rallentarono la crescita economica che questo Paese aveva avviato nel secolo precedente, anzi si può affermare che tutti questi disordini furono un sintomo della grande metamorfosi che stavano subendo l’economia e la società inglese già a partire dal secolo precedente. Nel XVI secolo l’Inghilterra si trasformò da Paese esportatore di materia prima (lana greggia), a Paese esportatore di prodotti finiti (tessuti di lana). Questa evoluzione era indice di un indiscutibile salto di qualità nell’economia di questo Paese. L’industria della lana richiese sempre più materia prima e di conseguenza si ampliò la quota di terreno dedicata ai pascoli, le manifatture cominciarono a trasferirsi nelle campagne, soprattutto quando si imposero definitivamente le new draperies, tessuti meno pregiati ma molto più richiesti dal mercato. Tali tessuti conobbero un crescente successo, aprendo agli inglesi nuovi mercati nel Nord Europa, America e nel Mediterraneo. Nella prima metà del ‘600 quindi l’Inghilterra aveva già una solida struttura manifatturiera, che aveva in parte modificato il paesaggio agriario e una marina in grado di sostenere una rete commerciale in rapida evoluzione, seconda però solo a quella olandese. Tra i settori trainanti vi fu anche l’industria siderurgica, sfruttando una materia prima ampiamente disponibile, il ferro, raddoppiando la produzione di ghisa. Carlo Cipolla ritiene che l’incremento sia avvenuto grazie alla capacità degli inglesi di superare la carenza di combustibile d’origine vegetale, sostituendolo con il “carbon fossile” una fonte energetica poco costosa e abbondantemente presente nel sottosuolo nazionale. Così come per l’Olanda, il settore che conobbe la crescita più ampia fu il commercio internazionale. La marina inglese era una delle più potenti al mondo e alla fine del secolo divenne la prima in assoluto. La crescita si concentrò nella seconda metà del secolo, il tonnellaggio complessivo passò da 90.000 tonnellate a 260.000 tonnellate alla fine del ‘600. Con queste solide basi l’Inghilterra poté lanciarsi nell’avventura coloniale. Nel 1602 venne fondata la Compagnia Inglese delle Indie Orientali, che divenne ben presto l’unica in grado di competere con la VOC olandese. Gli inglesi avevano già assunto il predominio in India (i portoghesi conservavano Goa), ma la posizione degli olandesi in Asia sarà messa in pericolo sono nel secolo successivo; ma se in Asia l’Inghilterra non riuscì ad avere il sopravvento sull’Olanda, nell’America settentrionale le cose andarono diversamente. Si iniziò la coltivazione del tabacco in Virginia e visto il successo delle coltivazioni americane, giunsero sulle coste del nuovo mondo 80.000 inglesi attratti dalle potenzialità di questa terra, che non produceva solo tabacco ma anche cotone e zucchero. Inizia il colonialismo inglese in America, che fu diverso sia da quello spagnolo sia da quello portoghese. La Virginia Company era la compagnia che gestiva la colonizzazione nel Nord America e che portò oltre oceano agricoltori e commercianti, facendo diventare il trasporto di beni prodotti dalle nuove colonie il nuovo fulcro dello sviluppo economico. In Centro e Sud America la penetrazione fu più difficile, ma riuscì ugualmente a conseguire importanti successi, soprattutto nei Caraibi: da queste basi partivano i contrabbandieri che commerciavano con l’America Spagnola e i corsari; contrabbando e pirateria divennero così due voci importantissime nell’economia inglese. Nell’Oceano Atlantico la marina inglese riuscì, inoltre, a conquistare il primato nei due commerci più lucrosi: quello degli schiavi e quello dello zucchero. Londra divenne così il “centro direzionale”, e come Amsterdam, la capitale inglese si specializzò nel commercio import-export. L’Inghilterra scambiava i prodotti tropicali, che si procurava nelle colonie, con una grande quantità di merci provenienti dall’Europa, come ferro, canapa, seta e vino. La crescita demografica di Londra fu spettacolare, nel giro di un secolo la sua popolazione triplicò, passando 40 economico. All’interno del Parlamento esistevano profonde divisioni in materia di religione, mentre in campo economico si registrava una grande convergenza: dal punto di vista religioso molti furono costretti a fuggire in America per professare il proprio credo, mentre dal punto di vista economico gli inglesi seppero sempre imparare, in particolare dagli olandesi, tutto quello che poteva tornare a proprio vantaggio. Nel 1694 nacque la banca d’Inghilterra, che riuscì a sfruttare a pieno le potenzialità di sviluppo ed investimento di un ben regolato debito pubblico. Uno sguardo d’insieme – Sintetizzando il ‘600 Due sono i temi che rivestono un ruolo centrale nell’economia del ‘600: il mercantilismo, con il superamento dell’eredità medievale si ragione in termini nuovi secondo una scala più ampia, i mercati sono nazionali ed internazionali, con l’affermazione dello Stato dotato di un forte potere centrale; e il processo selettivo, causato da pesti, guerre, carestie, cattivi raccolti, modificando le economie dei Paesi europei. Se inizialmente il cuore dell’economia pulsava in Italia e nel Mediterraneo, durante il ‘600 si sposta in Olanda prima e in Inghilterra poi avendo come cuore pulsante gli Oceani. 41 L’economia del XVIII secolo – 1700 Nuove prospettive sulla modernizzazione economica e le molte strade percorse dall’Europa verso il XX secolo Il XVIII secolo è noto come l’era dell’Illuminismo, la Guerra Americana di Indipendenza, la Rivoluzione Francese e la crisi delle monarchie europee dell’Ancien Regime. Ma dal punto di vista economico è il secolo della prima Rivoluzione Industriale, in Inghilterra. Un economista e storico americano di nome Rostow, nei suoi numerosi studi, considerò la Rivoluzione Industriale inglese come un modello generale di sviluppo economico moderno; che credeva fosse applicabile a tutte le economie in ogni luogo ed in ogni tempo. L’industrializzazione fu definita come il “decollo industriale” (take-off), verso una crescita economica autosostenuta ed infinita. In realtà tale “decollo” fu il risultato di una serie di cambiamenti o rivoluzioni, che avvennero prima della Rivoluzione Industriale stessa, costituendo le basi del processo di industrializzazione. La Rivoluzione Industriale fu l’apice e il punto di arrivo, mentre i cambiamenti che permisero di arrivare all’industrializzazione furono le rivoluzioni: 1. Agricola, che permise la liberazione di notevoli quantità di manodopera dal settore primario, creando le basi per una nuova forza lavoro industriale; 2. Demografica, che incrementò l’offerta di manodopera e la domanda; 3. dei Trasporti, che avrebbe reso possibile l’espansione del commercio locale ed interregionale; 4. nel Credito, attraverso la costituzione di nuove istituzioni bancarie; 5. Commerciale, generando nuova ricchezza ampliando le frontiere del commercio. Il modello di Rostow aveva forti sfumature ideologiche, ma fu accettato persino dai suoi più accaniti oppositori (ovvero Karl Marx). I critici marxisti non mettevano i dubbio le origini della Rivoluzione Industriale, ma davano una diversa interpretazione al capitalismo. Per Rostow, il capitalismo industriale era il prodotto di un’impresa libera capace di generare ricchezza, potenzialmente infinita e senza termine. Secondo i critici marxisti di Rostow il capitalismo era, invece, un sistema di sfruttamento dei ricchi a svantaggio dei poveri, un sistema che sarebbe stato sempre più contraddittorio man mano che si andava evolvendo. Un'altra critica al modello di Rostow, derivava dal fatto che non si può considerare il modello inglese, un modello unico da poter applicare indistintamente ad ogni Stato; poiché ogni Stato aveva caratteristiche specifiche che differenziavano gli uni dagli altri, caratteristiche che gli distinguevano anche a livello regionale. Quindi il “decollo industriale” non avvenne allo stesso modo e allo stesso tempo in ogni parte d’Europa, poiché le economie nazionali, al pari dello “Stato nazione”, stavano appena cominciando a prendere forma nel XVIII secolo, un secolo ancora dominato dalla politica di uno Stato dinastico, non di uno Stato “nazione”. Ciò significa che il divario cronologico tra l’Inghilterra e i suoi concorrenti europei sta nei diversi modelli di crescita economica; ciò non significa che il modello inglese sia stato il migliore , poiché molti storici hanno sostenuto che sia i Paesi Bassi Meridionali che la Francia hanno sperimentato nel XVIII secolo una crescita economica più dinamica della Gran Bretagna, e lo sviluppo dei primi settori industriali inglesi furono stimolati per stare al passo dei concorrenti. “L’economia globale” sarebbe stata un prodotto del XIX e XX secolo, ma un “economia mondiale” era esistita da molto tempo prima e subì importanti cambiamenti nel corso del XVIII secolo. Lo sviluppo economico europeo nel XVIII secolo: i temi centrali Il tema centrale nell’Europa del XVIII secolo fu la crisi e il collasso definitivo della struttura istituzionale, culturale, politica ed economica dell’Ancien Règime (termine inventato dopo il 1789 dai sostenitori della Rivoluzione Francese). Il XVIII secolo è anche il “periodo dell’Illuminismo” dove si ha la supremazia della ragione sulla fede e sulla tradizione, erede della grande rivoluzione scientifica del secolo precedente. La storia economica d’Europa nel XVIII secolo fu contraddistinta da una nuova fase di espansione coloniale, 42 che portò gli europei non solo in terre ancora non sfruttate del Nord America (dalle piantagioni coloniali del Sud, Centro America e Caraibi, alle nuove colonie europee della Louisiana, Maryland, Carolina, Virginia, ecc.), ma anche verso Est, in particolare nel sub-continente Indiano, Giappone e Cina. Questa espansione fu accompagnata da intense rivalità fra i colonizzatori europei, facendo diventare l’Europa teatro di una belligeranza quasi continua. Queste lotte generano guerre incessanti tra le monarchie rivali di Francia, Spagna e Gran Bretagna, in una lotta incessante per l’egemonia navale e commerciale sia in Atlantico che in India. Ma dopo la metà del secolo questa belligeranza si attenuò, creando nuove possibilità per il commercio e la produzione. L’epicentro dell’innovazione e dell’espansione, inizialmente interessò solo i “centri” e non le “periferie” europee; geograficamente è stato sempre difficile distinguere esattamente tra periferia e centro dell’Europa, ma successivamente anche le cosiddette “periferie” furono coinvolte nei nuovi processi di trasformazione economica. Un indicatore molto importante di queste nuove realtà europee fu il numero, rapidamente crescente, di benestanti europei settentrionali, che si manifestò attraverso i viaggi. Nacque così il turismo contemporaneo, con i viaggi del “Grand Tour”, un viaggio di istruzione per riscoprire i luoghi classici dell’antichità, sinonimo di una cultura consumistica. Strettamente collegato a quella che noi oggi chiamiamo “Società dei Consumi”, il “Gran Tour” interessò inizialmente le classi aristocratiche per poi estendersi ad altre classi sociali comunque ricche come i borghesi; tale capacità rifletteva anche la cresciuta stabilità politica del continente europeo, che aveva reso possibile e relativamente sicuri i viaggi, anche se i viaggiatori erano desiderosi di animare i loro viaggi con strade scomode, locande infestate da insetti e incontri con briganti e banditi. Tutto ciò fu possibile grazie ai primi tentativi di riorganizzazione amministrativa, poiché l’idea illuministica era quella che la pubblica amministrazione si sarebbe dovuta basare sui principi della ragione; e trovò sbocco in Europa soprattutto dopo la Dichiarazione Americana di Indipendenza (1776), esplicitamente fondata sulle idee razionali dell’Illuminismo europeo. Si giunse alla concezione che un governo razionale era possibile solo quando la pubblica amministrazione possedeva informazioni concrete sulle condizioni della società e dell’economia; a tal punto con lo sviluppo della matematica, furono introdotte la statistica e l’economia politica, che trovò la sua formulazione nella “Wealth of Nations” di Adam Smith. Tali conoscenze diedero agli amministratori nuovi principi sui quali basare le loro politiche economiche, al cuore delle quali vi era la libertà d’impresa. Ma bisognava fare i conti con le più antiche realtà economiche europee, che portavano ancora tracce delle istituzioni feudali e dei regimi corporativi (ad eccezione di Gran Bretagna e Repubblica Olandese). Si cercò appunto di cambiare mettendo in crisi e spazzando via l’Ancien Règime. L’Europa agraria Agli inizi del XVIII secolo la schiacciante maggioranza degli europei era ancora occupata nell’agricoltura, poiché: ↑ Vi erano regioni dove i metodi di allevamento e coltivazione cambiarono poco nel corso del secolo con una produzione orientata all’autoconsumo e alla sussistenza, e nessun surplus veniva distribuito sul mercato; ↑ Vi erano anche regioni dove l’agricoltura era fortemente orientata verso il commercio, nella Germania orientale, in Polonia e in Francia, si coltivavano un enorme quantità di cereali per l’esportazione nelle grandi proprietà terriere; 45 nella Spagna e nell’Italia Meridionale a causa della scarsa caduta annuale di piogge i terreni erano sottili ed aridi. La naturale fertilità della terra era limitata, ma la presenza di greggi brucanti nelle pianure nei mesi invernali forniva una straordinaria risorsa di arricchimento a questi terreni sterili, e il letame lasciato dalle pecore permetteva la coltivazione del grano dopo che le greggi erano ritornate alle montagne. Ma quando le rotte della migrazione stagionale furono chiuse, fu messo in crisi l’intero sistema. 5. Agricoltura Intensiva e Innovazioni Si assiste alla nascita di una “agricoltura intensiva” vale a dire lo sviluppo di vaste aziende agricole destinate a massimizzare la produzione per il mercato. Non è ancora chiaro quale impatto possano aver avuto sulla produttività agricola i famosi esperimenti per migliorare l’allevamento del bestiame, per introdurre nuove piante azotate (trifoglio e rape), lo sviluppo di rotazioni per raccolti più intensivi e nuove tecniche di arricchimento del suolo. I pionieri di queste innovazioni conquistarono fama internazionale per il modo innovativo con cui affrontarono i problemi dell’agricoltura, mentre per tutta l’Europa cominciarono a discutere di questi nuovi sviluppi associazioni di gentiluomini agricoltori, come i Geofili di Firenze. Le recinzioni dell’Inghilterra, i proprietari terrieri innovativi e i sostenitori della nuova scienza dell’agronomia, erano chiari segnali dei nuovi metodi e principi dell’agricoltura capitalistica. “Nel XVIII secolo si assiste alla nascita della prima Rivoluzione agricola. L'agricoltura basata sulla rotazione triennale e sul maggese rimase predominante fino al XVII secolo. Il progressivo sviluppo dei commerci, tuttavia, stimolò gradualmente l'adozione di nuove tecniche produttive. In particolare, nelle Fiandre e nel Brabante il terreno era poco fertile, ma il notevole sviluppo del commercio marittimo fece aumentare notevolmente la domanda di prodotti quali il lino per le tele, i coloranti per il panno, l'orzo e il luppolo per la birra, la canapa per le funi, il tabacco ecc. La densità della popolazione, inoltre, favoriva lo sviluppo dell'orticoltura e della frutticoltura. Si adottarono quindi nuove tecniche basate sulla rotazione pluriennale e sulla sostituzione del maggese con i pascoli per il bestiame anche per ottenerne concime naturale. La nuova agricoltura oltre alla rotazione e alla concimazione naturale gode di altri aspetti (recinzioni, grandi aziende, lunghe affittanze, aratro in metallo tirato da cavalli ecc.); tali innovazioni consentirono all'Inghilterra di esportare grandi quantità di grano e farine, aumentando la sua produttività. Secondo molti, il notevole sviluppo dell'agricoltura stimolò la successiva rivoluzione industriale grazie alla domanda di aratri e altri attrezzi in metallo.” In sintesi l’agricoltura dell’Europa del XVIII secolo fu un mosaico di realtà regionali contrastanti: ↑ I Paesi Bassi con i suoi “polders” recuperati dal mare, con uno dei sistemi agricoli più intensivi d’Europa riuscirono a combinare l’allevamento del bestiame e la produzione casearia con la produzione di terreno arativo estensiva; ↑ Francia, Normandia e Pianura Padana, furono tutti esempi di regioni agricole altamente produttive. Lo sviluppo della viticoltura nella Francia Meridionale ed in Catalogna, la produzione di piante di lino e di canapa negli Stati Germanici, la produzione crescente di bachi da seta e di seta grezza nelle fattorie contadine del Nord Italia. I prodotti in crescita erano: lana, vino, seta, lino,legname, canapa e pece (questi ultimi quattro grazie alla crescente domanda di forniture navali). Dietro un apparente esteriore immobilità, esisteva un complesso mosaico formato delle varie economie agrarie dell’Europa del XVIII secolo. 46 L’enigma del XVIII secolo: la Rivoluzione Demografica Durante la prima metà del secolo i prezzi dei cereali continuarono a cadere nonostante la rapida ripresa dei livelli di popolazione dalla terribile crisi demografica del secolo precedente. Ciò indicava che la produzione agricola poteva non solo sostenere, ma persino superare la domanda, raggiunta mediante una produzione più intensiva della produttività agricola. Ma ciò che causò l’espansione demografica europea nel XVIII secolo rimane uno dei grandi enigmi irrisolti della storia economica europea. L’espansione demografica aveva seguito nei secoli precedenti ciò che i demografi chiamano “un grafico con taglio a sega”: ovvero non appena la popolazione cominciava a crescere, sarebbe stata vittima di crisi di sussistenza, carestie, malattie e di morte. Questa volta, invece, non fu così. Nel XVIII secolo si registrarono importanti crisi di sussistenza, tuttavia la ripresa fu rapida; le grandi epidemie che avevano devastato le precedenti generazioni di europei parvero quasi scomparire, sebbene gli ultimi scoppi di peste nera possano essere continuati fino al XIX secolo. Non è chiaro perché ciò sia potuto accadere, certo non fu il risultato di un miglioramento dell’igiene o della medicina, ad aumentare l’aspettativa di vita (poiché la mortalità infantile rimase estremamente alta, anche nelle classi più agiate). Lo sviluppo del famoso vaccino contro il vaiolo migliorò l’aspetto degli europei, ma non allungò la loro vita. A questo punto gli storici riconducono questa espansione demografica grazie a una tendenza verso i matrimoni precoci; spesso erano proprio i più poveri, i cui figli avevano le minori possibilità di sopravvivenza, a sposarsi giovanissimi e a fare più figli. Quindi in assenza di miglioramenti della salute o dell’aspettativa di vita, la più probabile spiegazione dell’espansione demografica europea nel XVIII secolo era la tendenza a matrimoni in età più giovane, e perciò a più altri tassi di natalità, tra le classi sociali intermedie. La “crisi maltusiana” (secondo Malthus, economista e demografo inglese, la crescita della popolazione tende a sopravanzare la crescita dei mezzi di sussistenza, concezione che vede un limite nella crescita economica mondiale per l’esaurimento di risorse non riproducibili, quali i minerali) non si ripeté per il ‘700 . Una tra le spiegazioni di questo cambiamento fu che il prezzo dei cereali continuò a scendere, grazie soprattutto alle produzioni intensive. Possiamo concludere, tuttavia, che la tendenza a sposarsi in età più giovane fu la vera ragione dell’aumento della natalità. La crescita del commercio 1. Interno La continua espansione del commercio locale ed intraregionale fu uno dei segnali più importanti dell’espansione economica del ‘700; in parte si doveva al fatto che un crescente numero di europei viveva nelle città, il che implicava che le aziende agricole dovevano soddisfare i bisogni di un numero crescente di individui non direttamente occupati nell’agricoltura, infatti, l’impulso alla crescita economica era quasi direttamente proporzionale alla vitalità dei centri urbani. Negli Stati Germanici vi erano solo due città con popolazione superiore al 100.000 abitanti, ovvero Berlino e Amburgo, per il resto la vita economica ruotava intorno ai piccoli centri; situazione analoga in Spagna, eccetto Siviglia, Madrid e Barcellona; e in Italia ad eccezione di Milano, mentre Napoli con i suoi 400.000 abitanti rifletteva la sua grandezza grazie alle ampie opportunità di lavoro offerte dalla commercializzazione dei prodotti agricoli. Quindi l’espansione si ebbe più nei centri rurali che in quelli urbani. Ma i tassi più veloci di espansione demografica si ebbero in quelle regioni dove la crescita economica era più dinamica: Paesi Bassi Meridionali, e in misura minore la Repubblica Olandese, numerose regioni francesi, la Bassa Renania, ma soprattutto Regno Unito. Ancora una volta geografia e politica avevano importati ruoli da giocare. Molti governi europei tentarono di promuovere il commercio interno migliorando le comunicazioni: la Francia produsse una notevole estensione del sistema di canali, soprattutto nella regione di Parigi; in Gran Bretagna si sviluppò un sistema efficace per attrarre gli 47 investimenti privati nella costruzione di strade pubbliche grazie ai “Turnpike Trusts”, associazioni fondate dai proprietari terrieri (dietro concessione parlamentare) che riscuotevano successivamente il pedaggio, recuperando così i loro investimenti. Ma tranne questi pochi esempi ed iniziative, nella gran parte delle regioni europee, scarse vie di comunicazione ed isolamento dei mercati locali erano le condizioni più diffuse. La maggior parte dei circuiti commerciali restava localizzata, mentre la crescente domanda premiava i circuiti commerciali favoriti dalle condizioni geografiche, come l’accesso a porti marittimi o a corsi d’acqua navigabili; senza dubbio, una parte importante in questa espansione la ebbe la rapida crescita della navigazione costiera e del commercio marittimo a breve distanza. Le piccole imbarcazioni ebbero un ruolo fondamentale per i produttori locali, nel convogliare una vasta gamma di merci verso i principali porti del commercio internazionale; e comparvero numerosi piccoli porti riuscendo a collegare anche gli angoli più remoti del continente. 2. Il commercio internazionale Il commercio marittimo su lunghe distanza costituì una percentuale sicuramente inferiore rispetto al più modesto naviglio costiero, anche se la sensazionale espansione del commercio d’oltremare (in particolare transatlantico) fu uno degli indicatori più sorprendenti dell’espansione economica europea. Nonostante le grandi risorse disponibili nel Nuovo Mondo, per tutto il secolo, nessuna potenza europea aveva le risorse o la manodopera necessarie per monopolizzare i vasti territori americani, che ebbero poche opportunità commerciali. All’inizio del ’700 queste nuove colonie europee erano ancora precariamente situate lungo la costa atlantica, penetrando nell’entroterra solo là dove vi erano vie d’acqua interne navigabili; più a sud la coltivazione del tabacco permise lo sviluppo delle economie da piantagioni. In tutte queste regioni: l’Inghilterra, la Repubblica Olandese, la Francia e la Spagna si destreggiarono continuamente durante tutto il secolo per raggiungere una posizione vantaggiosa; nonostante l’immensità geografica dei territori americani scarse erano le loro popolazioni e limitati i loro bisogni commerciali. Mercanti europei ottenevano da questi territori preziose materie prime che rivendevano sui mercati europei. La competitività dei mercanti inglesi ed olandesi nel commercio internazionale era dovuta alla loro abilità. Nel caso degli olandesi ciò era dovuto alla capacità tecnica delle loro navi (FluitShip), che trasportavano carichi più grossi più velocemente delle navi concorrenti. La navigazione fu un fattore chiave per l’impero commerciale olandese, ed era anche rafforzata dalla capacità dei produttori olandesi di fornire merci più competitive di quelle dei loro concorrenti. Nel 1700 Amsterdam era la città commerciale e il centro finanziario più importante del mondo. Tuttavia nel XVIII secolo si assiste alla graduale discesa del commercio internazionale olandese, sebbene le sue dimensioni rimanessero sostanziose fino alla fine del secolo. L’economia interna olandese cominciava a perdere slancio, in parte a causa dei pesanti costi di investimento per il prosciugamento e la difesa della terra, causando problemi inflazionistici e diminuendo la capacità del governo di difendere gli interessi commerciali d’oltremare; ciò illustra come la vitalità dell’economia interna nazionale fosse una condizione essenziale per l’espansione del commercio internazionale. Alla fine del XVII secolo gli inglesi ed i francesi cominciarono a soppiantare gli olandesi nel commercio col Nord America, questo perché entrambi avevano adottato una legislazione monopolistica (l’Inghilterra con gli Atti di Navigazione, la Francia con il protezionismo di Colbert), per escludere gli stranieri dal proprio commercio coloniale richiedendo che tutte le merci sbarcate nei porti coloniali fossero trasportate su vascelli metropolitani e caricate da porti metropolitani, usufruendo quindi anche del declino commerciale olandese. 50 nell’industria mineraria, usata principalmente dopo il 1800 per azionare i congegni di avvolgimento che portavano il carbone in superficie; inoltre, la facilità con cui si poteva estrarre il carbone dal sottosuolo attenuava la necessità di investire in costose pompe a vapore, grazie ad un buon drenaggio naturale (a differenza di altre aree europee, come in Inghilterra ⇒pompe a vapore di Newcomen). La produzione di carbone e di metalli lavorati in Belgio si espanse rapidamente, tanto che si iniziarono a costituire le prime imprese minerarie cooperative formate da gruppi di imprenditori, che non abbandonarono le tecniche tradizionali. Le piccole fornaci e le industrie, principalmente familiari, incominciarono a spostarsi principalmente in Vallonia dove vi era un migliore accesso ai mercati, con nuove possibilità di specializzazione. Le città di Bruxelles e Anversa cominciarono a rivestire un nuovo ruolo. Mentre Bruxelles era soprattutto un centro amministrativo, cominciò da allora ad assumere nuova importanza anche come centro finanziario e commerciale. Anversa era stata sin dai tempi della Rivolta Olandese il principale porto dei Paesi Bassi, il suo declino commerciale avvenne quando gli olandesi ne bloccarono il porto, chiudendo unilateralmente la Schelda (fiume che collega Anversa al Mare del Nord); ma la Schelda rimase chiusa anche al tempo dell’invasione francese, nonostante tutto ciò Anversa continuò a crescere d’importanza come centro finanziario e commerciale, rivale diretta di Amsterdam. Oltre all’importanza dei centri di lavorazione dei metalli e delle miniere di carbone, i Paesi Bassi Meridionali possedevano molti ed importanti centri dell’industria tessile europea. Anche in questo settore avvennero importanti cambiamenti, a fine secolo l’imprenditore inglese Cockerill introdusse le prime macchine a vapore, come: i filatoi intermittenti e multipli, che venivano già utilizzati da due decenni in Inghilterra, e si diffusero rapidamente tra i manifatturieri tessili belgi nei primi anni del nuovo secolo. Tra i centri più importanti della manifattura tessile belga troviamo la città di Gand nelle Fiandre, famosa per i suoi fini tessuti di lana e di lino; nel XVIII secolo i produttori di Gand subiscono un cambiamento, le sue tradizionali stoffe di alta qualità furono rimpiazzate da nuovi, economici e più leggeri tessuti di cotone, che trovarono dei mercati pronti in Sud America. Tuttavia l’industria tessile belga non utilizzò fino al secolo precedente le nuove tecnologie offerte dalle macchine a vapore, che acceleravano la produzione e riducevano il costo della filatura. In generale il Belgio godeva di tutte le risorse materiali e condizioni infrastrutturali per sostenere l’industrializzazione, ma sostanzialmente non vi era nel ‘700 la necessità di rimpiazzare la forza lavoro umana con le macchine; la ragione era l’abbondante offerta di manodopera, ed il suo basso costo, pari al 60-70% in meno rispetto alla Gran Bretagna. Poiché la manodopera era relativamente a buon mercato l’incentivo alla meccanizzazione in termini di costi fu debole rispetto ad altri Paesi (es. Gran Bretagna). Al contrario le province olandesi (Paesi Bassi Settentrionali) presentavano un cambiamento molto inferiore, esse non godevano delle stesse risorse per l’industria e gran parte della terra recuperata dal mare mediante dighe e polders era votata all’agricoltura intensiva. Rispetto ai Paesi Bassi Meridionali dove la popolazione era abbondante e diffusa nelle campagne, in Olanda le terre recuperate dal mare erano scarsamente popolate e la maggior parte delle industrie rimaneva urbana. L’altra grande industria dell’Olanda era quella navale, aveva sede ad Amsterdam e continuava a prosperare senza richiedere significativi cambiamenti tecnologici. 51 2. La proto-industrializzazione La diffusione delle industrie fuori dalle città e nelle regioni prevalentemente agricole, prende il nome di “proto-industrializzazione”. Differenti forme di produzione domestica si andavano espandendo in diverse parti d’Europa, ma principalmente nelle aree rurali soprattutto dove erano precarie le condizioni di coltivazione (nelle regioni più povere delle Fiandre, nei distretti montani, in Inghilterra, nei Cantoni Svizzeri, in Germania, Francia, Italia e altrove). Le famiglie contadine naturalmente erano sempre impegnate in una varietà di forme di produzione artigianale ed agricola, sia per le proprie necessità, sia per soddisfare la domanda locale. La “proto-industrializzazione” aveva forti sfumature “verdi” e attraeva soprattutto quelli che credevano che “piccolo è bello”. L’innovazione stava nel fatto che utilizzando il lavoro rurale, che era più a buon mercato di quello cittadino, i mercanti cittadini potevano ridurre così i costi di produzione quindi aumentare la concorrenza dei loro prodotti sui mercati locali ed esterni. Per le famiglie contadine il lavoro manifatturiero dava una fonte supplementare di reddito, che si combinava ai profitti dell’agricoltura. Molto di questo lavoro supplementare era svolto dalle donne e dai bambini, ed erano proprio le donne che organizzavano il lavoro all’interno della famiglia. Nelle comunità rurali, dove predominanti erano le attività proto-industriali, vi erano forti spinte all’incremento del tasso di natalità; poiché la necessità di lavoro addizionale all’interno del nucleo familiare, insieme all’aumento dei guadagni, incoraggiò i matrimoni precoci contribuendo all’espansione demografica. Quando la produzione proto-industriale si ampliò e si diffuse, l’incremento della produzione tessile provocò la caduta dei prezzi e la riduzione dei livelli di redditività, sia per i produttori contadini che per i mercanti capitalisti. Questi ultimi notarono che era sempre più difficile controllare questa forma di produzione, svolgendosi senza supervisione all’interno delle famiglie contadine ed eccessivamente lunga, a causa dei molti passaggi. Vi erano, infatti, molti ritardi prima che i mercanti ricevessero i prodotti e li vendessero sui mercati, recuperando così il capitale iniziale. Al contrario, il sistema centralizzato aziendale offriva economie di scala, con cicli produttivi più rapidi, un maggior controllo sulla qualità e quantità, quindi recuperi più veloci del capitale e maggior flessibilità sul mercato. Si assiste quindi alla diffusione di nuove manifatture al di fuori dei centri urbani, che fu un'altra sfida radicale alla struttura del Ancien Règime. Allo stesso tempo si accelerò in tutta Europa il declino delle città con insediamento tessile più antico. Dall’Inghilterra al Nord Italia, tessuti nuovi e meno costosi sostituivano le più antiche stoffe per tendaggi e le pesanti stoffe di lusso, su cui si erano basate le più antiche industrie tessili; il loro declino non dipendeva soltanto dalla concorrenza dei prezzi, ma anche dal cambiamento dei gusti con lo sviluppo del nuovo mercato della moda, e la scomparsa delle èlites tradizionali. Inoltre, per soddisfare le necessità delle piantagioni coloniali dove cibo e vestiario erano gli unici beni acquistati per soddisfare le esigenze degli schiavi, i mercanti europei si fecero strada per rifornire i vasti mercati del Sud America, e anche dell’India e dell’Asia, dove per riuscire dovevano essere competitivi nei costi; fu per questa ragione che il sub- Continente Indiano, appena in un secolo, dall’essere uno dei più grandi produttori tessili del mondo divenne un importatore netto di tessuti e filati occidentali. 3. Altri centri europei dell’attività manifatturiera pre-industriale Oltre ai Paesi Bassi Meridionali, l’Europa del XVIII secolo era un mosaico di vecchie e nuove regioni manifatturiere, molte delle quali mostrarono segni di rapida espansione e dinamismo. In Germania, si pensi alla Renania costellata di centri manifatturieri di lavorazione di metalli e minerari, vi era anche un importante industria serica a Berlino, ma in tutti questi casi la produzione era quasi del tutto artigianale e familiare. Nelle terre sotto gli Asburgo vi erano numerose industrie minerarie, di lavorazione di metalli e 52 soprattutto tessili nelle provincie apline e nella Lombardia austriaca. Ma i livelli più alti di attività manifatturiera ed industriale si trovavano in Boemia (parte della Repubblica Ceca, Polonia e Germania del Sud) e in Moravia (parte più orientale della Repubblica Ceca). Più di 400.000 lavoratori erano occupati nel tessile, soprattutto lavoratori in casa, impegnati nella filatura della lana, del cotone e del lino, con altri 125.000 che lavoravano nelle fabbriche centralizzate. La Boemia aveva anche un importante industria di lavorazione di metalli e miniere, nonché un industria vetraria in importante espansione. Le nuove tecnologie, che avevano meccanizzato la filatura, furono introdotte rapidamente anche in Boemia da ingegneri belgi e inglesi, sebbene la loro diffusione fosse abbastanza lenta a causa della persistente prevalenza della produzione domestica. In verità, Boemia e Moravia godevano di estese risorse naturali e di una buona offerta di manodopera, che avrebbe facilitato la prima industrializzazione. Un’altra area significativa dello sviluppo manifatturiero nel ‘700 era la Catalogna, che sviluppò un fiorente nuovo settore manifatturiero basato sulla stampatura e tintura della tela di cotone (detta cotonina). Le cotonine stampate catalane erano riesportate nelle Americhe e nelle altre parti d’Europa e del Mediterraneo. Questo breve elenco delle attività manifatturiere europee (ad eccezione della Francia e Gran Bretagna) serve a dimostrare i cambiamenti avvenuti in Europa, persino in assenza della diffusione di nuove tecnologie. In molti casi l’assenza di mercati elastici o accessibili era uno degli ostacoli più critici all’espansione. Cominciavano anche ad emergere forme di organizzazione della produzione, sebbene nella quasi maggioranza dei casi l’aumento di produzione fosse raggiunto usando metodi sperimentati e tecniche utilizzate da tempo. 4. La Francia ed il Regno Unito Perché la prima Rivoluzione Industriale avvenne prima in Inghilterra, anziché in altri Paesi? Per spiegarlo occorre mettere a confronto le economie dei vari Paesi, per spiegare quali siano state le cause che hanno determinato tale sviluppo. Nonostante gli sforzi dei Governi volti ad impedire che le tecnologie oltrepassassero le proprie frontiere, queste viaggiavano con poca difficoltà. La Francia nel XVIII secolo aveva industrie tessili estese e altamente specializzate; convertì la sua produzione dai tradizionali tessuti di lana alla produzione di tessuti più leggeri di cotone e lino, e nel secolo successivo furono introdotte le innovazioni inglesi come il filatoio intermittente, per la filatura del cotone. Allo stesso tempo Lione emergeva come uno dei principali centri d’Europa per la produzione di tessuti di seta superando le città del Nord Italia, che fino ad allora erano i leader nella produzione di tessuti di qualità. Questi erano tutti segnali della capacità delle industrie francesi di adattarsi alle mutevoli condizioni del mercato. Inoltre, la Francia, al pari del Belgio, possedeva un ricco patrimonio di risorse economiche naturali: con ricchi depositi di minerali e di carbone, abbondanza di legname e fiumi e vie d’acqua navigabili; la manodopera era anche abbondante e soprattutto a buon mercato. Presi insieme, questi fattori spiegano perché la propensione verso la meccanizzazione fosse sentita molto meno nelle industrie e nelle manifatture francesi e belghe, piuttosto che in Inghilterra. L’Inghilterra, invece, dovette affrontare numerosi ostacoli; di questi quello avvertito per prima fu la scarsità, e quindi l’alto prezzo del legname e della carbonella. La scarsità di alberi rifletteva l’intensità dell’agricoltura, dell’espansione urbana, della marina militare e della flotta mercantile; nonché il consumo del legname per ottenere la carbonella, da far fondere con il ferro per ottenere la ghisa. Nel caso delle costruzioni di case, i mattoni sostituirono il legno, ma per le costruzioni navali i britannici divennero sempre più dipendenti dalle forniture dei Paesi Baltici. Abraham Darby sviluppò un processo di fusione del ferro sostituendo alla carbonella il carbone coke, a questo seguì il processo di “puddellaggio” di Henry Cort, che permetteva l’uso del carbone coke anche negli 55 l’autoconsumo; mentre, i produttori francesi badavano a conservare i mercati di qualità, dove i volumi minori di produzione erano compensati dal maggiore valore aggiunto, continuando su questa strada senza l’aiuto della meccanizzazione fin quando si poté trovare manodopera specializzata con salari tali da non ridurre i profitti. N.B. in Inghilterra la produzione meccanizzata e l’uso della forza vapore furono graduali, e molto più lenti di quanto spesso si può pensare!!! In Inghilterra nel XVIII secolo esistevano in realtà più laboratori artigiani/industriali che fabbriche di massa!!! Le realtà più antiche di produzione sopravvissero in Europa fino alla metà del XIX secolo!!! Queste nuove forme di produzione furono oggetto di studi ed idee di nuovi teorici economici, come Adam Smith, che avrebbero ispirato l’era del capitalismo industriale: il ruolo centrale e di guida dell’imprenditore padrone della fabbrica, il trasferimento fisico della produzione dal laboratorio artigiano alla fabbrica centralizzata, trasformando il lavoratore specializzato indipendente in una semplice unità dentro il processo di produzione. Tali fabbriche rappresenteranno la nuova era del capitalismo industriale e furono rapidamente imitate da imprenditori che operavano nelle economie di altre nazioni. Il ruolo dello Stato Il ruolo dello Stato nello sviluppo economico del XVIII secolo resta estremamente difficile da misurare, anche perché lo “Stato” non è per niente facile da definire. Tutti gli Stati europei continuavano a seguire politiche mercantilistiche commerciali ed economiche elaborate nella seconda metà del XVII secolo. Il mercantilismo era basato sul presupposto che il volume del commercio era finito, e che ogni Stato avrebbe dovuto adottare misure protettive per assicurare che la propria quota commerciale non diminuisse, che le importazioni fossero mantenute al minimo e che le industrie interne fossero difese dalla concorrenza estera. In quanto al commercio estero, questi principi non furono mai messi seriamente in discussione nel XVIII secolo, pensiamo ai Navigation Acts inglesi o al colbertismo francese. Nel ‘700 i governanti delle dinastie europee tentarono di trasformarsi in monarchi assoluti e di sviluppare nuove forme di amministrazione centralizzata e burocratica; il principale motivo stava nei costi crescenti del governo e nella necessità di incrementare gli introiti, a causa soprattutto dell’aumento dei costi per il mantenimento degli eserciti e delle marine militari, da cui dipendeva in definitiva l’autonomia dinastica. In altre parole, la politica statale non era determinata da una visione generale dell’economia, ma si concentrava esclusivamente all'aumento delle entrate fiscali; questi due obiettivi avrebbero potuto coincidere, con un programma statale più ampio volto ad incoraggiare lo sviluppo economico. Per esempio, nel caso della Prussia, l’ossessione della monarchia per l’espansione del suo esercito comportò che l’80% di tutte le entrate statali fu devoluto alla spesa militare; mentre l’Austria, fu attiva nei Paesi Bassi Meridionali e in Lombardia nel promuovere miglioramenti nell’agricoltura, nuove industrie, istruzione popolare, ma gli effetti positivi dovevano fare i conti con la politica protezionistica e fiscale degli Asburgo, che limitava severamente le opportunità commerciali esterne. In Francia venne a crearsi una combinazione di liberismo economico per il commercio interno con il protezionismo per il commercio estero. Un esempio sono le manifatture reali, la più famosa fu la fabbrica di porcellana di Meissen fatta costruire e funzionare in assoluta segretezza dal re di Sassonia; molti altri governanti europei imitarono questo modello, incluso il re di Napoli che sposò la figlia del re di Sassonia e impiantò una propria fabbrica di porcellana, sul modello di Meissen, nel palazzo reale di Capodimonte. Questi interventi erano semplicemente delle manifestazioni dello splendore regale, il cui obiettivo era riflettere la gloria e la creatività del sovrano, piuttosto che dare un contributo significativo all’economia. 56 Tuttavia, il ruolo dello Stato nello sviluppo economico va posto in un contesto più ampio; fu varia la sua capacità di proteggere e promuovere gli interessi economici al fine di creare condizioni di stabilità e di ordine, in cui potessero prosperare l’impresa e il commercio. La monarchia spagnola e portoghese erano deboli e la loro vulnerabilità si rifletteva sul commercio estero, inoltre, vi erano molte regioni in Europa, inclusi i Paesi Bassi Meridionali, che non avevano nessuna voce in capitolo sul loro destino economico e politico. Al contrario, Francia e Gran Bretagna erano pronte ad agire vigorosamente per proteggere ed estendere i loro interessi commerciali; un esempio, sono le numerose guerre combattute tra i due Paesi, tra cui la Guerra dei Sette Anni (per impedire alla Francia di congiungere la Louisiana con il Quebec, formando un sistema coloniale rivale a quello Britannico, nel Nord America) e la Guerra dei Duecento Anni (iniziata nel XVII secolo e conclusasi solo con la battaglia di Waterloo nel 1815). Lo scopo di questi conflitti era sempre quello di assicurarsi gli interessi commerciali sul commercio Atlantico e coloniale, e in questo contesto si vede la Gran Bretagna uscire come vincitore; la chiave di questo successo derivò principalmente dalla capacità dello Stato inglese di imporre tasse ed ottenere prestiti senza cadere nelle crisi finanziarie che sommersero le altre monarchie europee, tale stabilità finanziaria fu accresciuta dalla fondazione della Banca d’Inghilterra che permise al Governo di ottenere prestiti garantiti. La Banca d’Inghilterra non ebbe un corrispettivo europeo se non in seguito, nel XIX secolo, essa rispondeva non al re ma al Parlamento; questa indipendenza istituzionale diede un senso di sicurezza a coloro che investivano nel debito pubblico inglese. Tutti questi fattori permisero ai governi inglesi di far fronte a spese militari e navali che si sarebbero mostrate rovinose per i loro concorrenti, l’esempio fu che l’Inghilterra riuscì a saldare nel giro di due decenni gli enormi debiti contatti per la Guerra Americana di Indipendenza, mentre i debiti, di gran lunga inferiori, contratti dalla Francia provocarono la crisi finanziaria della monarchia francese, che fu la causa della Rivoluzione Francese. L’era napoleonica Il giovane generale francese Napoleone Bonaparte, a seguito della campagna d’Italia sconfigge gli austriaci nel 1797 (pace di Campoformio). A seguito del colpo di Stato di Napoleone nel 1799 (18 Brumaio) diventa console, e vennero sempre più alla ribalta e si inasprirono le vecchie rivalità commerciali ed economiche tra Francia e Gran Bretagna. Nel 1805 avvenne la dichiarazione del nuovo Impero Francese, proclamandosi imperatore, l’idea era di creare un sistema economico continentale europeo sotto la sovranità francese. In realtà sia questo progetto che l’Impero erano una diretta conseguenza della vittoria britannica sul versante Atlantico (nella battaglia di Trafalgar), che dopo due secoli assicurò definitivamente l’egemonia marittima della Gran Bretagna, privando la Spagna e la Francia delle loro colonie atlantiche incoraggiando quindi Napoleone a creare un sistema coloniale europeo. La logica della subordinazione coloniale, era articolata suddividendo l’impero in: territorio francese e repubbliche satelliti francesi; man mano che gli eserciti guadagnavano terreno si estendeva, dai Paesi Bassi all’Italia, dalla Renania all’Elba, quindi anche Spagna e Austria. Il progetto economico continentale mirò ad escludere permanentemente la Gran Bretagna dal commercio con gli Stati dell’Europa continentale, e questo fu il vero e proprio obiettivo dell’impero, lo dimostra l’occupazione di alcuni Stati di nessuna importanza strategica, come il Regno di Napoli, gli Stati Papali, il Granducato di Toscana, la Spagna; soprattutto per assicurarsi che i loro porti non fossero accessibili alle navi inglesi. I trattati commerciali imposti dall’Imperatore, erano studiati per garantire alle manifatture francesi materie prime e mercati. Questo sistema fu definito “Blocco Continentale”, ovvero un modo particolare di condurre la guerra, che in futuro si sarebbe dovuto fondare sul dominio economico del continente. In realtà il progetto continentale fu impossibile da realizzare, sia perché incoraggiò il commercio di 57 contrabbando (da parte degli inglesi), sia per via della resistenza degli Stati conquistati. Gli sforzi di Napoleone di rendere più severe le condizioni del Blocco furono impossibili da realizzare. L’aspetto più positivo del retaggio napoleonico fu l’abolizione del feudalesimo; i Paesi che vennero sotto il diretto controllo del governo francese, vennero riorganizzati secondo i principi della Rivoluzione Francese: lo Stato riguadagnò completa sovranità, si riorganizzarono le tasse, furono messe in atto una serie di riforme sui principi che la proprietà e l’impresa individuale erano le chiavi per lo sviluppo economico, venne data maggiore importanza all’istruzione e furono costruite infrastrutture, strade, canali e progetti di bonifica del territorio. I nuovi ruoli assunti dallo Stato erano in forte contrasto con le pratiche dell’Ancien Regime. E anche in quegli Stati che non vennero sotto il diretto controllo del governo francese fu avvertita la spinta riformista, come nella confederazione tedesca. L’aspetto negativo del retaggio napoleonico fu che tali riforme implicarono che le monarchie costituzionali dell’Ancien Règime furono rimpiazzate da nuove forme di assolutismo burocratico, con tutti i costi ad essi collegati. In termini economici l’impatto del governo napoleonico fu eterogeneo, con conseguenze sia positive sia negative; ad esempio, nell’Italia Settentrionale si ebbe l’espansione della produzione di bachi da seta e di seta grezza per soddisfare la crescente domanda dell’industria tessile di Lione, cambiando l’assetto della penisola italiana da principale produttore di stoffa e tessuti di seta in principale fornitore di materie prime. Un altro esempio, fu, che il Blocco Continentale privò i mercati europei delle forniture di stoffe di cotone (che provenivano dall’America), incoraggiando la filatura meccanizzata nei Paesi Bassi Meridionali (che vennero annessi alla Francia) e nelle industrie tessili francesi; ma la mancanza di cotone importato mandò alla rovina altri produttori europei, soprattutto nella Renania e nella Svizzera, che si trasferirono in altre parti dell’Impero (come il Regno di Napoli) dove i sovrani satelliti della Francia erano impazienti di costruire industrie tessili locali ed incoraggiavano la coltivazione del cotone. Tuttavia, le condizioni dei trattati commerciali erano studiati con cura e proteggevano ed andavano a vantaggio dei produttori francesi. Con la perdita per la Francia delle sue colonie atlantiche, si assiste al rapido declino di città come Bordeaux, Nantes, Rouen, (che erano state i centri più dinamici) che scivolarono in un esistenza più agricola; mentre i centri industriali si consolidarono nel Nord. Il declino dei porti occidentali fu in parte compensato dalla crescente importanza di Marsiglia, in quanto principale porto della Francia nel Mediterraneo. Ma l’economia francese non ricavò vantaggi considerevoli dai privilegi del Blocco Continentale, poiché i mercati erano sovra-forniti e gli imprenditori lamentavano la natura statica e inelastica dei mercati interni, a causa del persistere delle famiglie contadine nella società rurale (in grado di auto-rifornirsi). Il punto debole della formula napoleonica stava nel fatto che si era concentrata esclusivamente sull’offerta e non aveva fatto niente per rafforzare la domanda. Con il collasso dell’impero napoleonico a Waterloo, dopo il 1815 l’economia francese divenne più inflazionistica e chiusa nelle proprie frontiere, ritornando alle politiche protezionistiche del secolo precedente. Nel frattempo, il divario tra l’economia britannica e quella europea in termini di industrializzazione e di crescita si era ingrandito in misura notevole. Il risultato fu che l’Europa entrò nel secolo post-napoleonico ancora come un mosaico economico di regioni più o meno sviluppate, nonostante i tentativi fatti da Napoleone di integrare il tessuto economico europeo. Tale mosaico durerà fino a quando il boom ferroviario degli anni Trenta dell’800 segnò una nuova fase di crescita. Le nuove economie industriali divennero una realtà, nuove forme di produzione si andavano diffondendo rapidamente, dal tessile alla costruzione di macchinari, dalla metallurgia ai prodotti chimici, dalle industrie estrattive alla locomozione a vapore. Le regole del gioco cambiarono: se nel XVIII secolo l’industrializzazione era ancora uno tra i tanti modi per raggiungere la crescita economica, nel XIX secolo fu una componente necessaria. Tuttavia, questo processo di unificazione delle economie europee creò nuove rivalità, cambiando le relazioni economiche e politiche tra l’Europa, presto seguita dal Nord America, e il resto del mondo. 60 le stime del reddito degli anni precedenti si possono calcolare solo estrapolando all’indietro il tasso di crescita fornito dalle statistiche nazionali. 2. I cambiamenti strutturali Alla crescita economica nel XIX secolo seguirono vari cambiamenti strutturali. Anche se i dati sono molto approssimativi, nell’800 si registra il passaggio da una società rurale e agricola ad una civiltà industriale e urbana, con una diminuzione del settore primario (agricoltura, caccia e pesca), espansione del secondario (industrie estrattive e manifatture) e del terziario (specie nei settori più moderni, pubblica amministrazione, banche, attività professionali, ecc). Per questo si tende a far coincidere i concetti di industrializzazione e di sviluppo economico moderno. Il processo ebbe ritmi diversi, fu più accentuato in alcuni Paesi e più moderato in altri; in genere il declino dell’agricoltura è stato tanto più veloce quanto più precoce era la crescita. Tale passaggio dall’agricoltura all’industria e ai servizi era legato all’incremento del reddito nazionale e pro-capite, al quale seguì un calo della fertilità (numero dei figli per famiglia), del tasso di natalità e di mortalità e crescita dei tassi di urbanizzazione. Crebbero anche le percentuali di risparmio, investimenti e consumi. 3. Ritmi, fasi e modelli di crescita: l’Inghilterra e gli altri a) L’Inghilterra e gli altri In termini di PIL fino al 1890 dominò la Gran Bretagna, successivamente subentrarono gli Stati Uniti. Sulla crescita della Gran Bretagna e del mondo occidentale basarono le loro analisi i fondatori della scuola classica dell’economia politica da Adam Smith a Mill, come pure Marx. Le fasi della crescita impegnarono filosofi, storici ed economisti, che cercarono di scomporre il processo di sviluppo storico in stadi, creano delle “leggi universali”. Ma la “scuola storica” di economisti tedeschi, rifiutò l’esistenza di leggi universali sostenendo che le leggi dell’economia sono relative, perche legate a condizioni storiche, geografiche, ambientali ed istituzionali; giungendo così alla concezione della teoria degli stadi di sviluppo. Cicli, fluttuazioni e attività innovativa In ogni caso possiamo affermare che la crescita non è mai stata lineare, anzi è contraddistinta dal suo andamento ciclico che alterna fasi di crescita a fasi di recessione. Per quanto concerne le crisi e sui modi per evitarle, sono state formulate varie teorie cercando nella storia delle regolarità empiriche che permettessero di prevederne l’andamento futuro e quindi di evitarle. In tale studio, Schumpeter individuò 3 cicli principali: ↑ il ciclo classico, di durata compresa tra i 7 e gli 11 anni, ripartito in 4 fasi: recessione, depressione, ripresa e boom (a metà di questo ciclo scoppiano generalmente le classiche crisi di sovrapproduzione); ↑ il ciclo minore, mostra un adattamento sostanzialmente simile a quello delle scorte di prodotti finiti tenute dagli operatori; ↑ i movimenti di lungo periodo o onde lunghe, durano circa 50 anni e sono composti da 2 fasi: una ascendente ed una discendente. Per Schumpeter l’andamento ciclico costituisce l’essenza stessa del processo di sviluppo capitalistico. Egli sottolinea che “lo sviluppo è ciclico” ed è “il progresso che rende instabile il mondo economico”; le fluttuazioni sono dunque un conseguenza necessaria. Determinante nello sviluppo è “l’attività innovativa”, 61 distinguendo invenzioni e innovazioni: le prime procedono in modo autonomo poiché hanno una genesi scientifica, mentre le seconde scaturiscono dall’iniziativa degli “imprenditori innovatori”, che conquistano nuovi mercati e raggiungono una posizione monopolistica. Il rischio iniziale è ripagato dai maggiori profitti derivanti dalla posizione di rendita monopolistica che l’innovazione temporaneamente assicura (per l’impresa first mover o leader): perché ben presto l’innovazione tenderà ad essere “imitata” dalla concorrenza (impresa follower, quella che si adegua), portando alla graduale eliminazione del guadagno differenziale, riconducendo il sistema sulla strada dell’equilibrio, finché una nuova innovazione non riaprirà il ciclo. b) Le teorie della storia economica: gli stadi di Rostow e il take off Nello studio delle fasi di sviluppo si è passati da considerare il caso inglese come un modello, ad analizzare importanti differenze tra i vari casi europei. L’intento era di studiare i cambiamenti economici dell’Europa, analizzandoli in maniera comparativa, mostrando come nessuna nazione potesse considerarsi un caso unico, ma rientrasse nello spettro di un modello. Nella costruzione di questi modelli si distinsero, durante il 1960, Rostow e Gerschenkron che non accettarono il modello dei cicli proponendo un’interpretazione incrementale dello sviluppo. Rostow, nel suo “Stages of Economic Growth”, elabora la sua “teoria degli stadi” proponendo un processo di crescita basato su 5 stadi, attraverso i quali ogni nazione sarebbe dovuta passare per raggiungere uno sviluppo economico completo: 1. La società tradizionale. Il punto di partenza è una situazione pre-industriale, le cui caratteristiche sono una debole produttività del lavoro umano, una preponderanza dell’agricoltura, società chiusa ed esposta ad epidemie e carestie; dove il tasso di investimento = tasso di incremento demografico; 2. La transizione (il pre-decollo o proto-industrializzazione). E’ un periodo di cambiamento nel quale si ha un incremento della produzione agricola e delle miniere, permettendo di indirizzare lavoro e capitali dalla campagna alle industrie. Inizia un processo di accumulazione di capitale economico (infrastrutture), capitale sociale (educazione, know-how, lavoratori specializzati, imprenditorialità), in questi esempi lo Stato gioca un ruolo essenziale dato che l’iniziativa privata ha una quantità limitata di capitali; si sviluppano le industrie di servizio in particolare con il sistema bancario, efficienza nell’utilizzo di materie prime locali e sviluppo del sistema di import/export; 3. Il decollo (take off).E’ il processo di accelerazione economica spontaneo o indotto, che, nel giro di 30 anni trasforma permanentemente l’economia portandola ad un livello produttivo molto più elevato di quello di partenza, con tassi di crescita della produzione e del reddito mai conosciuti prima. Un cambiamento rapido e decisivo, che si caratterizza per: un innalzamento del tasso di investimenti pari a circa il 10% del PIL, la costituzione di un quadro politico ed istituzionale, lo sviluppo di settori-guida dell’economia (questi punti di forza trascineranno l’intera economia del Paese), lo sviluppo delle industrie sussidiarie, infine l’industria subentra all’agricoltura in maniera definitiva; 4. Maturità. Il processo di crescita si estende, le innovazioni tecnologiche si diffondono a settori sempre più numerosi, nuove industrie di punta trasmettono il loro dinamismo quando rallenta la crescita dei settori trainanti. Il volume degli investimenti arriva fino al 20% del PIL, la produzione supera l’incremento demografico e aumenta il reddito pro-capite; 5. L’età dei consumi di massa. E’ la fase in cui il forte potere d’acquisto spinge le imprese ad abbassare i costi e allargare il mercato dei beni di consumo, il che diventa fondamentale per il mantenimento del tasso di crescita del sistema. 62 Il modello di Rostow ha incontrato tanta fortuna quante critiche. Esso presenta una visione a 360 gradi dell’economia europea, analizzando importanti concetti come il decollo e l’età dei consumi di massa. Ma tale modello resta discutibile, poiché in realtà la crescita avviene con un processo lento. I suoi difetti sono: 1. Rostow pone come soglia di take off l’investimento del 10% del prodotto nazionale netto, il che non trova riscontro storico; 2. Non spiega i meccanismi di passaggio da uno stadio all’altro; 3. Attribuisce eccessiva importanza ad alcuni settori trainanti dell’economia, senza una visione d’insieme (molto più intricata); 4. Non considera le diverse dimensioni del fenomeno: regionale, nazionale, internazionale; In definitiva, la sua teoria sintetizza le varie fasi di un processo molto complesso e fornisce la base di studio per i vari ricercatori. c) Gerschenkron e i vantaggi dell’arretratezza Nel modello di Rostow i fattori di ciascuno stadio sono fissi, ciò ha condotto Gerschenkron a formulare (sempre negli anni sessanta) una nuova teoria che si focalizza non tanto sulle dinamiche di lungo periodo ma sui due più importanti stadi della teoria di Rostow: quello della transizione e quello del decollo. Gerschnkron ha focalizzato la sua analisi sui meccanismi che permettono ai paesi ritardatari di svilupparsi; fondamentale è il concetto di arretratezza relativa rispetto al paese leader, la Gran Bretagna. Siccome ci sono diversi livelli di arretratezza relativa, questo spiega i diversi percorsi nazionali di industrializzazione sperimentati dai Paesi europei. Qualora i prerequisiti manchino, si possono cercare dei fattori sostitutivi. Si tratta di stimolare i processi naturali al fine di raggiungere un recupero o un agganciamento veloce (catching up). La rapidità dell’industrializzazione dei Paesi ritardatari rispetto alla Gran Bretagna deriva per Gerschenkron dai cosiddetti ventaggi dell’arretratezza: chi arriva dopo, infatti, può imitare le tecnologie altrui senza bisogno di un processo di perfezionamento e dell’impiego di risorse finanziari per ricerca e sviluppo. In questa teoria maggiore è il livello di arretratezza: 1. Più rapido sarà lo sviluppo industriale, quindi lo sviluppo della grande industria; 2. Maggiore sarà la produzione di beni strumentali anziché di beni di consumo; 3. Migliore istituzionalizzazione; 5. Minore sarà la crescita agricola; 6. Maggiore sarà l’importazione di conoscenze tecniche e capitali stranieri. Chi parte per primo non è dunque sicuro di rimanere primo, come dimostrato dal declino della Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento o i cambiamenti nella leadership economica dal medioevo ad oggi. Chi è più vicino al leader può subentrarvi (come l’Inghilterra nei confronti dell’Olanda, Catching up), come chi è decaduto può recuperare posizioni di testa (come il caso dell’Italia). Altro elemento importante dall’analisi di Gerschenkron è il fatto che i settori trainanti lo sviluppo dei Paesi ritardatari, non sono gli stessi della rivoluzione industriale inglese, ma variano da nazione a nazione. Tale teoria approfondirà l’analisi che fino a quel momento aveva interessato un ristretto nucleo di nazioni (Inghilterra, Francia e Germania), che fino a quel momento erano state al centro dell’attenzione, dando importanza all’industrializzazione italiana come un caso in cui lo Stato ed il sistema bancario hanno assunto un ruolo chiave nel catching up. In sostanza, di qui si giunse a negare che vi sia stato un solo modello di rivoluzione industriale, quello inglese, ma piuttosto a qualificare il caso inglese non come un modello ma come un’eccezione. 65 crescita produttiva e questa provoca un ulteriore crescita demografica (esattamente l’opposto della “trappola mathusiana”). Rivoluzione agricola e industriale consentono di migliorare in quantità e qualità il cibo, rivoluzione dei trasporti e il progressivo allargamento dei mercati ruppero l’isolamento di molti territori limitando gli effetti delle crisi di sussistenza. La vita media degli occidentali, che per innumerevoli secoli era rimasta ferma intorno ai 30’anni, salì rapidamente verso i 40-50 crescendo maggiormente nei Paesi che beneficiavano del progresso materiale e scientifico, consentendo anche alla mortalità infantile di diminuire lentamente. Un altro importante elemento riguardava la distribuzione sociale della mortalità. Le aspettative di vita variavano vistosamente a seconda del mestiere esercitato o dello status di appartenenza, colpendo pesantemente proprio le città delle regioni industriali più avanzate. A metà ‘800 le probabilità di vita degli inglesi erano arrivate intorno ai 40’anni, ma in alcuni quartieri poveri di Manchester restavano ferme ai 20; così come la mortalità infantile nei quartieri operai di York era tre volte superiore a quella delle famiglie benestanti. Nelle grandi città, il tasso di mortalità dei quartieri agiati era molto inferiore rispetto ai quartieri popolari: malnutrizione, mancanza di igiene nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro, la mancanza di cure diminuivano la resistenza fisica dei ceti popolari, lavoratori urbani, ma anche di quelli agricoli, esponendoli maggiormente alle calamità che seppure meno devastanti erano in parte ancora presenti. Nella prima metà del XIX secolo, con l’aumento del tasso di natalità, le opportunità di lavoro crescevano; con il lavoro minorile i figli diventavano più remunerativi, la maggiore disponibilità alimentare incentivava a sposarsi e a procreare, facendo registrare l’abbassamento dell’età matrimoniale. Nella seconda metà del XIX secolo, le famiglie vinsero le resistenze culturali e religiose (stretta correlazione tra matrimonio e fertilità) pianificando il controllo delle nascite. Il numero dei figli venne sempre più messo in rapporto con il problema dei consumi e dello Stato sociale, tenendo sempre presente le differenze tra le varie classi sociali: nell’800 il tasso di fecondità era inversamente proporzionale al livello di reddito, in generale nella società borghese ottocentesca meno figli significava maggiore garanzia di fronte al bisogno, migliore istruzione, carriere più agevoli e remunerative, mentre i tassi di natalità restavano alti tra le classi popolari. 3. Urbanesimo, migrazioni e colonizzazioni L’industrializzazione procedette di pari passo con l’urbanizzazione. La crescente domanda di manodopera da parte delle industrie poteva essere soddisfatta solo con l’inurbamento di popolazione proveniente dalla campagna. L’inurbamento si deve anche alla crisi dell’industria a domicilio e dell’artigianato rurale, a causa della concorrenza delle fabbriche. La città attirò e concentrò nelle fabbriche e nelle case borghesi i tessitori, lavoratori agricoli, domestici, stagionali e lavoratori ambulanti. La ferrovia favorì uno spostamento massiccio verso gli agglomerati urbani. L’urbanizzazione fu uno dei fenomeni più evidenti della trasformazione dei modi di vita. L’Europa contava 46 milioni di persone contro i 5,5 milioni di un secolo prima. Con la Rivoluzione Industriale il fenomeno che investì l’Inghilterra non aveva precedenti, se si considera la sua intensità; le città più attive sono Liverpool e Manchester che quadruplicarono la loro popolazione, altri esempi sono i centri come Oxford, Brighton, ecc. Col procedere dell’industrializzazione il medesimo trend investì anche Germania e Austria. Sotto la spinta dell’industrializzazione e della rivoluzione dei trasporti si svilupparono sia i piccoli centri sia le grandi città, ma soprattutto si formarono grandi metropoli, come Londra e Parigi. Con l’industrializzazione si assiste a quello che è lo sviluppo tecnologico degli agglomerati urbani: si pensi al perfezionamento di sistemi idraulici e gasdotti per l’illuminazione urbana, grandi città che inglobarono le periferie, città che si svilupparono in altezza usando tecniche e materiali costruttivi che permettevano 66 l’ottimizzazione dello spazio disponibile. Larghe masse di lavoratori trovarono impiego in nuovi settori produttivi e dovettero muoversi fisicamente verso le città. Per questo l’industrializzazione da un lato rappresentò la formazione di quartieri dormitorio senz’acqua, luce o servizi igenici e si accompagnò a durissimi ritmi ed orari di lavoro di uomini, donne e bambini in ambienti promiscui e malsani; d’altra parte determinò il superamento si carestie e miseria, con nuove opportunità di miglioramento sociale e culturale (le conseguenze sono un miglioramento/peggioramento degli standard di vita, a seconda delle varie prospettive). Il passaggio da una società rurale e agricola ad una civiltà industriale e urbana, comportò a livello professionale: il regresso del settore primario (agricoltura, pesca e foreste) ed espansione del secondario (industria) e terziario (trasporti, commercio, servizi pubblici e privati, libere professioni). Ciò nonostante, ad eccezione della Gran Bretagna, tutte le società restarono a predominanza rurale per buona parte dell’800, come in Francia, Russia, Italia ed anche Stati Uniti. In una parte del mondo rurale permaneva il fenomeno delle migrazioni stagionali, dunque di migrazioni continentali e temporanee; si pensi alla regione alpina dove le persone si spostavano stagionalmente verso le pianure e le città, coprendo grandi distanze, per praticare il commercio e l’artigianato. Ma la popolazione rurale, sotto la spinta della pressione demografica, dalla metà dell’800 in poi divenne protagonista di un fenomeno migratorio che assunse proporzioni mai sperimentate prima. Non si trattò di un fenomeno soltanto europeo, ma si tratto della “più grande migrazione di popoli nella storia”. Furono gli europei gli attori principali delle grandi migrazioni, che si verificarono dall’Asia (India e Cina) all’America (California). Nei secoli precedenti i maggiori movimenti migratori erano stati quelli degli emigranti inglesi verso le colonie del Nord America e la tratta degli schiavi verso le piantagioni di cotone americane. L’Africa subì il popolamento francese, gli inglesi per evitare il sovraffollamento nelle prigioni modificarono la demografia dell’Australia. Si svilupparono migrazioni interne all’Europa, la popolazione dalle aree a bassa dinamicità economica come Germania del Sud, Irlanda, Scozia, Scandinavia, si mossero verso are ad alta dinamicità economica come il Nord della Francia, Sassonia, Valle del Reno. Le migrazioni interne all’Europa si intrecciarono coi movimenti verso il Nord e Sud America. Si passò quindi al fenomeno dell’emigrazione extracontinentale e permanente. A ciò contribuì anche l’attrazione esercitata dai Paesi di accoglienza, le prospettive reali o propagandate di immensa espansione, il gusto personale di avventura, il desiderio di fare fortuna, ecc. A fine ‘800, 51 milioni di persone lasciarono l’Europa verso altri continenti: la maggior parte emigrò negli USA, il resto in Australia, Nuova Zelanda, Canada, Brasile e Argentina. I russi, invece, emigrarono in massa in Siberia. La migrazione fu favorita dalla rivoluzione dei trasporti marittimi, e dalla maggiore accessibilità di questi; i viaggi erano incoraggiati dai governi o anche dalle associazioni professionali, come nel caso dei sindacati britannici, allo scopo di alleggerire il mercato del lavoro nazionale e garantire il livello dei salari. Il Governo inglese incoraggiò attivamente l’emigrazione, stanziando dei fondi. I flussi migratori provenivano soprattutto dalla Germania, Scandinavia, ma anche dall’Europa centro meridionale, tra cui Spagna e Italia. La Spagna perse un terzo dell’incremento naturale della sua popolazione, l’Impero asburgico circa 1/6 e l’Italia più di metà. Gli effetti di spostamenti di tali dimensioni furono di grande portata sia nei Paesi di partenza che in quelli di arrivo; l’emigrazione italiana, esplosa a fine ‘800, divenne uno strumento per decongestionare le campagne con l’emigrazione di contadini, braccianti, affittuari ed artigiani, permettendo di equilibrare i conti dell’Italia con l’estero con uno slancio verso l’industrializzazione a cavallo tra ‘800 e ‘900 (la maggior parte degli emigranti italiani proveniva dalle regioni del Sud). Per contro, le economie del Nuovo Mondo ricevettero grandi vantaggi dall’esodo del Vecchio Mondo. Mentre le partenze dei più giovani ed intraprendenti lasciarono in patria vuoti demografici, che si sarebbero colmati solo successivamente, più di 28 milioni di europei espatriarono negli USA; nei Paesi di 67 accoglienza essi contribuirono in modo decisivo all’urbanizzazione e all’industrializzazione, modificando i caratteri sociali e culturali, fondando comunità etnico-nazionali (es. Little Italy) che avrebbero avuto un ruolo importante nella storia nord-americana. Tedeschi e scandinavi formarono comunità nel Middlewest, mentre italiani, russi, polacchi austro-ungarici si stabilirono sulla costa nord-atlantica. Queste comunità si diffusero lentamente nella massa. Per decine di milioni di contadini europei, con la dura scelta dell’emigrazione, essi si mescolarono con altre culture, con nuove regole di vita e di lavoro. Il melting-pot (la mescolanza delle razze) si rivelò una delle chiavi dello sviluppo statunitense, si creò così “l’imprenditoria etnica” tipicamente rappresentata dagli italiani, che con l’espansione economica della madrepatria alimenterà nel ‘900 le reti della business comunity italiana nel mondo. 4. Le trasformazioni del settore agricolo Nel XIX secolo si assiste al progressivo ridimensionamento del settore agricolo, ma nonostante questo l’agricoltura ha continuato a giocare un ruolo fondamentale nel processo di crescita economica moderna. Contrariamente alle previsione malthusiane, l’incremento della produzione agricola consentì che la popolazione crescesse senza che il suo tenore di vita diminuisse. Sin dalle prime fasi della crescita economica i consumi alimentari cambiarono: da una dieta basata su cereali e vegetali, si passò ad una dieta basata su carni e prodotti zootecnici; permettendo di alimentare una popolazione sempre più numerosa e urbanizzata, fornendo capitale e lavoro agli altri settori dell’economia, crearono correnti di esportazione e domanda sui nuovi mercati. La domanda di materie prime industriali, quali la lana ed il cotone, diminuì a causa dell’impiego dei sostituti sintetici; in ogni caso i dati che si hanno a disposizione non sono molto attendibili da questo punto di vista, poiché bisogna considerare che la produzione agricola nell’800 ebbe un notevole incremento a livello estensivo ed intensivo. Ricerca Agricoltura intensiva ed estensiva: “L’agricoltura intensiva permette di sfruttare al massimo la capacità produttiva del terreno, facendo ricorso alle nuove tecnologie delle rivoluzioni agrarie per rendere più rapidi i processi di lavorazione. L’agricoltura estensiva è l’insieme delle tecniche agronomiche attraverso le quali si tende ad ottenere il massimo di produzione per unità di persona impiegata; per questo motivo le rese per unità possono essere basse, ma il profitto è assicurato dalla vastità dei terreni messi a cultura. ⇒Culture generalmente praticate: cereali, erba; ⇒Paesaggio tipico: piantagione.” L’agricoltura estensiva, si poteva praticare dove esisteva terra disponibile a basso costo o quasi nullo. Nel XIX secolo queste terre comprendevano le superfici coltivate che si estesero nei margini del continente europeo, Scandinavia, Ungheria, Russia, Prussia e soprattutto negli immensi spazi delle terre vergini d’America, Oceania e Siberia; la rivoluzione dei trasporti marittimi e terrestri inserì queste terre nel circuito degli scambi internazionali, facendo assumere a questi Paesi il ruolo di fornitori di prodotti alimentari e di materie prime alle regioni urbane e industriali. In gran parte dei Paesi europei, invece, un aumento significativo della superficie agraria era possibile solo attraverso un agricoltura intensiva. Le bonifiche e le opere di sottrazione di terra al mare (effettuata dagli olandesi), furono un esempio della differente forma di crescita agricola europea, nella quale si distinse l’Italia. Gli incrementi di produttività avvennero anche grazie ai lavori di irrigazione dei terreni aridi e di calcinatura di quelli acidi. L’aumento della produttività globale fu il risultato delle innovazioni finalizzate ad aumentare i rendimenti della terra (land saving) e di quelle finalizzate ad aumentare la produttività del lavoro (labour saving). Essendo la terra il fattore più scarso, le prime innovazioni furono di tipo land saving. Durante la rivoluzione agraria (inglese del XVIII secolo) venne reintrodotta e perfezionata la rotazione 70 Nel’800 si assiste alla nascita della seconda rivoluzione agricola; nel corso del XIX secolo vengono apportate una serie di migliorie, poiché l’agricoltura diventa una vera e propria scienza:  Il maggese (terra coltivabile lasciata a riposo) è progressivamente soppresso: la rigenerazione del suolo viene realizzata attraverso un alternarsi di colture (foraggere che consentono di rigenerare il suolo) e attraverso l’introduzione dei concimi chimici; inoltre, il suolo viene concimato più abbondantemente grazie all'incremento dell'allevamento, favorito dalle piante foraggere introdotte nella rotazione delle colture, infatti tali piante sono destinate all’alimentazione del bestiame;  Vennero effettuate una serie bonifiche del suolo e continue opere di sottrazione di terra al mare, tra le quali si distinse l’Italia. Gli incrementi di produttività avvennero anche grazie ai lavori di irrigazione dei terreni aridi e di calcinatura di quelli acidi, e attraverso una serie di operazioni “land saving” e “labour saving”;  Cambiarono le varietà di piante coltivate e le razze di animali allevate, introducendo specie più adatte ai diversi tipi di clima e di terreni; vengono introdotte in Europa nuove colture: rispondendo all'esigenza della rotazione che impone l'introduzione nei cicli di piante diverse, alcune nuove, soprattutto derivanti dalle americane. Fra le tante ricordiamo la rapa, il trifoglio, il luppolo, il mais, la carota, il cavolo e, soprattutto, la patata. Rispetto ai cereali tradizionali, spesso si tratta di alimenti con scarso valore energetico che però consentono di fronteggiare le conseguenze dei periodici cattivi raccolti di cereali;  Vengono introdotte nuovi attrezzi in ferro (falci, aratri, ecc), aumentando notevolmente la produttività; comparvero le prime macchine sostitutrici del lavoro umano (trebbiatrice del grano, sgranatrice di cotone, mietitrice di cereali, poi a fine secolo la mietitrebbiatrice). L’invenzione del trattore, alla fine dell’800, permise l’accelerazione e la diffusione della meccanizzazione agricola. I progressi tecnici aumentarono i rendimenti e la produttività per lavoratore. Nei secoli successivi, e sino a tempi recenti, l'agricoltura ha avuto sempre primaria importanza per lo sviluppo dei popoli, poichè fonte primaria di sussistenza e perno dello sviluppo economico dei paesi più poveri ed arretrati. Al giorno d’oggi lo dimostra il fatto di essere diventata una vera e propria scienza e di essere ormai al confine con numerose altre scienze come la genetica e la biologia sia animale che vegetale. I governi dei paesi industrializzati tra il 1960 e fine anni novanta hanno indotto la cosiddetta rivoluzione verde, ossia hanno investito in maniera consistente nella ricerca agricola, direttamente sui campi degli agricoltori, cercando altri sistemi per incrementare la produzione alimentare con lo sviluppo di prodotti pesticidi e fertilizzanti, incoraggiandoli ad utilizzare queste nuove tecnologie e rivoluzionando le tradizionali pratiche agrarie con l'abbandono e l'estinzione di molte varietà locali e tradizionali. L'agricoltura moderna si basa sempre più sull'immissione di energia esterna al sistema sotto forma di fitofarmaci, meccanizzazione, fertilizzanti, ingegneria genetica, tecnologia; si parla quindi di agricoltura intensiva, in contrapposizione all'agricoltura estensiva.” 71 Il processo di industrializzazione europea 1. L’Inghilterra e l’Europa Continentale La rivoluzione industriale segnò l’apertura di una nuova era nella storia dell’uomo. Essa fu frutto di una serie di innovazioni nate nell’agricoltura, nel commercio, nei trasporti e soprattutto nell’industria, che agirono cumulativamente. L’incremento della capacità produttiva si ebbe grazie all’utilizzo di tecniche sempre più perfezionate a allo sfruttamento di nuovi fonti energetiche. Con l’industrializzazione i beni aumentarono più rapidamente degli uomini, gli standard di vita migliorarono e la vita economica conobbe continue trasformazioni ed accelerazioni tuttora in atto. Il PIL dei Paesi attualmente industrializzati è cresciuto di 60 volte, l’industrializzazione si è imposta come la condizione necessaria per la crescita. Ma tutto ciò ha interessato solo un’area limitata del globo: mentre la ricchezza è cresciuta nei Paesi coinvolti nella rivoluzione industriale, essa non ha subito cambiamenti di rilievo per la maggior parte degli abitanti della Terra. Si sono determinati così divari di reddito come mai era accaduto nei secoli passati. A fronte di tutto ciò, si pensa che la rivoluzione industriale sia stata “la più straordinaria avventura che l’umanita ha conosciuto nel corso della sua storia”, dando luogo a una società dominata sempre più dai progressi dell’industria, della scienza e della tecnica. Il primo Paese in cui partì quest’esperienza fu l’Inghilterra, per poi estendersi alle altre regioni dell’Europa e del Mondo. Alcuni ritengono che si debba usare l’espressione rivoluzione industriale solo in riferimento all’Inghilterra e industrializzazione per le altre regioni; ma industrializzazione e sviluppo, come già accennato, finirono col fondersi. Molti studiosi hanno cercato di capire quale sia stato l’elemento decisivo che ha contribuito alla nascita di questa nuova era: per alcuni la prima rivoluzione industriale fu l’insieme di svariate rivoluzioni: agraria, demografica, commerciale e dei trasporti; per altri al centro del processo vi fu l’abbondanza e lo sfruttamento del carbon fossile, capace di fornire energia a buon mercato e su vasta scala, che permise di vendere più a prezzi inferiori; per poi passare alla ricerca di fonti di energia sempre più potenti e macchine sempre più automatizzate per aumentare la produttività e contenere i costi (processo strettamente collegato con l’ingrandimento dei mercati). Tale processo era ormai in grado di autoalimentarsi e autosostenersi. Questo processo, dopo l’Inghilterra, coinvolse gli altri Paesi europei al punto che si dovrebbe parlare di rivoluzione industriale europea: poiché ciascun Paese cresce in modo differente ed indipendente fino a diventare una società definibile come industrializzata, secondo un codice genetico proprio differente, appunto, da Paese a Paese. N.B. Il carattere fondamentale della Rivoluzione Industriale inglese non fu la velocità delle trasformazioni, quanto la loro durata!!! Nel XIX secolo la tecnologia associata con lo sfruttamento di nuove fonti di energia divenne il fattore chiave dell’eccezionale cambiamento europeo. Molte importanti innovazioni erano state fatte nelle industrie tradizionali dell’Europa, tra queste: le lavorazioni della porcellana nell’industria ceramica, il processo di produzione della soda nel settore chimico, nel tessile fu l’industria italiana della seta a creare le prime filatrici automatiche azionate ad energia idraulica; infatti gli inglesi furono bravi ad imitare con successo le tecnologie introdotte in altri Paesi. L’Europa consolidò la sua superiorità tecnologica, lasciando indietro gli imperi orientali, dal Bosforo al Giappone. La produzione di fabbrica non soppiantò il sistema domestico, che per secoli era stato alla base del sistema manifatturiero. In questo processo le macchine ebbero un ruolo chiave che consentì di aumentare notevolmente la produttività, infatti erano sempre suscettibili a perfezionamenti stimolando ingegneri, tecnici o semplici artigiani. Il progresso assumeva così un 72 espansione illimitata. Si spiega in questo modo la comparsa di innovazioni solo in determinati momenti, quando invece le conoscenze scientifiche e tecniche avrebbero teoricamente permesso di scoprirle prima. 2. L’età delle macchine, del carbone e del vapore (prima rivoluzione) a) Uno sforzo convergente e cumulativo: il tessile Nel tessile fu l’industria italiana della seta a creare le prime macchine automatiche per la filatura azionate ad energia idraulica, infatti gli inglesi furono bravi ad imitare con successo le tecnologie introdotte in altri Paesi. Per il settore tessile l’innovazione tecnologica fu la meccanizzazione della filatura. Il primo passo fu il brevetto di rulli che si sostituivano alle dita umane di Lewis Paul, ma l’inventore del filatoio meccanico venne considerato Richard Arkwright. Seguirono nuove invenzioni, quali: la filatrice a più fusi (jenny), la mule (1779) un filatoio che combinava le migliori caratteristiche dei filatoi precedenti, alla quale successivamente fu aggiunta la macchina a vapore aumentando ulteriormente l’efficienza della produzione (self-acting mule). Si trattava, tuttavia, di macchine costose, che molti imprenditori non erano in grado di acquistare. Solo nel 1815 la filatura divenne veramente meccanizzata. Mentre, nella tessitura, rimase in uso a lungo il telaio a mano dell’industria a domicilio. Il telaio di Cartwright, messo a punto nel 1787, si diffuse solo dopo il 1820 quando i progressi della filatura imposero di meccanizzare anche la tessitura. La spettacolare affermazione del cotone fu dovuta alla facilità di colorazione e di lavaggio, alla grande offerta di materia prima, all’adattabilità della fibra ai processi di meccanizzazione. Nell’industria della lana, la materia prima più delicata da lavorare rispetto al cotone, rese più lenta la meccanizzazione. b) Il paradigma del carbone A segnare l’”età del cambiamento” fu il passaggio dal legno al paradigma del carbone. La buona ripartizione del manto forestale era stata una delle ragioni della potenza europea. Prima dell’utilizzo dei combustibili fossili, si consumavano in Europa circa 200 Mt (milioni di tonnellate) di legna l’anno. Le attività industriali basate sull’energia termica erano autentiche divoratrici di foreste. A fine ‘700 in alcune regioni francesi la deforestazione raggiunse livelli altissimi, provocando forti rincari del combustibile e gravi ripercussioni sull’ambiente. L’Inghilterra, ricordiamo, dipendeva dai paesi baltici per le forniture di legname, e già dal ‘600 l’alto costo della materia prima condusse alla progressiva adozione del carbone nelle lavorazioni in cui si richiedeva semplice energia termica, ad eccezione della siderurgia; con la vicinanza dei giacimenti al mare, le vie navigabili, permisero di distribuire il carbone con relativa facilità. L’incremento della domanda spinse la produzione di carbone verso strati sempre più profondi dai quali occorreva eliminare l’acqua: Thomas Savery brevettò un congegno per eliminare l’acqua dalle miniere, chiamato “amico del minatore”; ma l’invenzione rivoluzionaria fu quella di Thomas Newcomen, il quale realizzò una pompa a vapore che utilizzava la pressione atmosferica per estrarre l’acqua, la quale ebbe un gran successo commerciale tanto che in breve si diffuse anche all’estero. Abrahan Darby, proprietario di una ferriera, riuscì a lavorare il ferro utilizzando il carbone coke (da lui stesso creato, mediante un processo di riscaldamento in assenza d’aria) producendo buona ghisa e successivamente l’acciaio mediante il puddellaggio; non solo liberandosi dalla dipendenza del sempre più scarso carbone di legna, ma anche producendo un prodotto più affabile e resistente. Queste erano le due fondamentali innovazioni destinate a rendere decisivo il ruolo del carbone nello sviluppo economico. 75 b) Chimica ed energia elettrica L’era dell’acciaio fu anche quella della chimica, i cui prodotti si moltiplicarono man mano che le ricerche di laboratorio progredivano, prima nella chimica di base (acido solforico), poi nella chimica organica (coloranti artificiali, fertilizzanti, ecc). In questo settore la ricerca scientifica era maggiore che in tutti gli altri ed ebbe il suo centro propulsore in Germania, Paese che aveva la più antica tradizione di ricerca sistematica basata su un’istruzione scientifica formale e sull’istruzione tecnica. Essi divennero i leader incontrastati in tutte le produzioni sintetiche come quella di ammoniaca e dei nitrati. Nel campo dell’elettricità gli esperimenti ai fini commerciali erano iniziati fin dai primi anni dell’800. Perché l’energia elettrica potesse diventare di uso comune, fu necessario risolvere problemi che andavano: dalla produzione alla trasmissione a distanza. Il principio dell’autoeccitazione fu scoperto verso la metà degli anni 60 dell’800 da Varley e Werner von Simens. Paciotti e Gramme costruirono la loro dinamo, basata sull’architettura ad anello. L’energia elettrica trasformò la vita quotidiana degli abitanti delle città, cambiò la struttura delle officine, fece apparire nuovi prodotti come l’alluminio, aprendo la strada alle centrali idroelettriche e le centrali termiche. Edison e Swan costruirono le prime lampadine, che permisero la diffusione dell’illuminazione elettrica anche nelle case; e fu promotore diffondendo la corrente continua. Non bisogna dimenticare il grande apporto scientifico del cosiddetto “genio incompreso” Nikola Tesla, scopritore di tante innovazioni tecnologiche inventate nell’800 ma che ancora oggi utilizziamo, semplificando la nostra vita: dalla corrente alternata, alla lampada a risparmio energetico, ecc. Chimica ed elettricità rappresentarono i campi di maggiore correlazione tra scienza ed industria. In campo energetico successivamente si aprì la strada ad un ulteriore passaggio di “paradigma”, entrando nell’”era del petrolio”, che tuttavia prima del 1914 non fece realmente concorrenza al carbone poiché dopo la sua “scoperta” in Pennsylvania servì soprattutto all’illuminazione e alla lubrificazione. N.B. Il petrolio era già noto fin dai tempi dei romani poiché sgorgava naturalmente in superficie, e veniva utilizzato sottoforma di pece come combustibile delle torce!!! c) Dai congelatori alla macchina da scrivere Importanti innovazioni vennero introdotte anche in altri settori. L’agricoltura europea, per le sue caratteristiche, beneficiò più dei fertilizzanti (nitrato, potassio, fosfati) che delle macchine intodotte negli Stati Uniti da McCornick. Fino all’invenzione del motore a scoppio la meccanizzazione fu limitata. Importanti innovazioni vennero introdotte nelle tecniche di preparazione e conservazione dei cibi, come quella di Pasteur (sterilizzazione del latte) che scoprì i batteri ed aprì la strada alle tecniche di preparazione dei cibi; la centrifuga che permise di separare il siero del latte avviando il settore caseario; le tecniche di refrigerazione permisero il trasporto delle carni congelate di tutto il mondo verso i centri di consumo europei. Cambiamenti fondamentali investirono anche il mondo dell’informazione, in forte crescita. L’innovazione più celebre fu la macchina da scrivere, con l’innovazione più famosa della tastiera QWERTY, che introdusse la soluzione all’accavallamento dei martelletti; fino ad arrivare alla rotativa. Così fu per la fotografia, dal dagherrotipo alla macchina fotografica kodak. Ritmi e modalità di adozione delle nuove tecnologia dipesero, oltre che da ragioni economiche, dal funzionamento dei sistemi sociali nel loro insieme, dalle istituzioni e dai valori. 76 4. Gli attori dell’industrializzazione a) Imprenditori e imprese Il vero motore del sistema capitalistico è l’imprenditore. L’imprenditore è definibile come l’individuo o l’insieme di individui che sono in possesso dei mezzi di produzione (capitale fisso e capitale circolante). Si assume il rischio d’impresa e l’utile è il premio che lo compensa. Il reinvestimento dell’utile nell’impresa (o autofinanziamento o accumulazione di capitale) gli permette la crescita. L’obiettivo dell’imprenditore è la massimizzazione del profitto. Sulle origini dei vari mercati si è discusso a lungo. Durante la fase di avvio all’industrializzazione lo sviluppo delle imprese si è realizzato più con il ricorso all’autofinanziamento che con il ricorso al mercato dei capitali: il mercato era contraddistinto da un universo di piccole aziende, incapaci di esercitare un influenza decisiva sui prezzi, concorrendo tra loro (concorrenza perfetta). Nel corso del XIX secolo, tuttavia, comparvero imprese di grandi dimensioni che tendevano a conquistare posizioni dominanti, potendo imporre facilmente le loro decisioni (concorrenza imperfetta). Successivamente vennero a configurarsi situazioni di (oligopolio) e/o (monopolio), a seconda che poche o un azienda dominassero il mercato. Inizialmente (fino al 1860) la maggior parte della produzione proveniva da imprese di piccole o medie dimensioni, il cui capitale apparteneva ad un individuo solo o con qualche socio; si trattava, in forma giuridica, di una società di persone (società in nome collettivo) caratterizzata dalla responsabilità solidale e illimitata dei soci. Gli imprenditori potevano essere commercianti, artigiani, o inventori dotati di senso di affari, allo scopo di realizzare i loro brevetti; il successo dipese, oltre che dalla fortuna, dalla loro intraprendenza e dalla capacità di adeguarsi ai mutamenti del mercato. Il connubio famiglia-impresa rimase una costante del XIX secolo. Ma le imprese familiari, seppur in abbondanza, non potevano finanziare gli investimenti richiesti dalle nuove tecnologie, e cominciarono così a diffondersi le società anonime per azioni. Gli inizi furono ostacolati dalle restrizioni legislative, poiché gli azionisti erano responsabili solo per le somme che avevano sottoscritto, ma successivamente Inghilterra, Francia, Germania ed Italia accolsero il principio della (società a responsabilità limitata) che, nonostante le difficoltà, assunse un ruolo fondamentale. Parallelamente allo sviluppo delle società per azioni si rafforzarono le concentrazioni industriali: ovvero, una parte della produzione dipendeva da un ristretto numero di imprese soprattutto nei settori ad alta concentrazione di capitali; il fenomeno della crescita dimensionale per realizzare sempre e maggiori economie di scala (riduzione del costo medio di produzione, conseguibile con l’aumento delle dimensioni aziendali), riguardò tutti i settori da quelli nuovi a quelli tradizionali, dalle filature alle imprese siderurgiche. Da qui si diffusero vari atteggiamenti per contrastare la concorrenza: dato il forte peso dei costi fissi su quelli variabili le grandi imprese avevano interesse a continuare la produzione per minimizzare le perdite, questo però fece nascere la reazione contro la concorrenza anarchica. Aziende legate da contratti che fissavano i volumi produttivi, prezzi di vendita e ripartizione degli utili, erano più presenti nell’industria carbonifera e metallurgica soprattutto in Germania, mentre nell’industria elettrica e chimica prevalevano le fusioni di imprese; l’iniziativa si sviluppò soprattutto nell’industria petrolifera americana con una spietata guerra di tariffe, in cui ebbe un ruolo di primo piano la Standard Oil di William Rockfeller che giunse a controllare più del 90% della capacità di raffinazione degli Stati Uniti, sconvolgendo le regole del gioco economico, minando i fondamenti della libera impresa ⇒ di qui la legge Antitrust. Esistevano due atteggiamenti in contrasto: uno che voleva la regolamentazione dei monopoli da parte del Governo, l’altro che puntava al ripristino della concorrenza perfetta (legge Clayton antitrust, 1914). 77 b) Le banche All’inizio della rivoluzione industriale le banche ebbero un ruolo limitato. Il sistema bancario si fondava su banche centrali (Banca di Inghilterra, Banca di Francia) e su banche private. Le prime, controllate da pochi ricchi azionisti, praticavano il commercio internazionale e finanziavano o prestiti governativi; le banche private erano suddivise in banche provinciali, che scontavano le tratte di commercianti e piccoli industriali, e grandi banche private, poco attratte dal credito commerciale dedicandosi alla sottoscrizione dei prestiti pubblici. Col procedere dell’industrializzazione il crescente bisogno di credito commerciale e industriale non potè più essere soddisfatto da un sistema di questo genere. Nacquero nuove istituzioni bancarie, distinguendosi in banche di deposito (es.: il Credit Lyonnais) e banche d’affari (es.: Banque de Paris et des Pays Bas). Rispetto alle risorse (passivo), le banche di deposito avevano ingenti mezzi, dati dai depositi a vista, poiché si occupavano di investimenti a breve termine grazie ad una rete di filiali; le banche d’affari non avevano filiali e le sue risorse provenivano da depositi a medio e lungo termine di ricchi capitalisti. Negli impieghi (attivo), la banca di deposito si dedicava soprattutto alle operazioni ordinarie (sconto, anticipi sui titoli, conti correnti), mentre la banca d’affari assumeva molti più rischi occupandosi quasi soltanto di investimenti a lungo termine, partecipazioni al capitale, prestiti ai governi, ecc. L’evoluzione dei sistemi bancari variò a seconda dei Paesi. L’Inghilterra aveva poche banche d’affari, la forza del suo mercato bancario era costituita da banche di deposito; nell’800 si potevano creare banche per azioni, poco per volta le banche private vennero assorbite dalle banche per azioni o si fusero tra loro, così le cinque banche di Londra “le Big Five” spesso di origine provinciale controllavano la maggior parte dei sistemi finanziari, dove le banche erano molto specializzate nei diversi settori. In Francia la specializzazione era meno pronunciata. Le banche di deposito dopo qualche insuccesso nel credito industriale, si limitarono al credito a breve termine e parteciparono, insieme a banche private e d’affari, alla sottoscrizione di prestiti governativi. I fratelli Pereire, fondatori del Crèdit mobilier, puntarono su una banca che controllasse tutti i capitali investiti in certi settori (ferrovie, compagnie marittime, miniere, industrie pesanti, ecc), ma il disegno venne vanificato in occasione della crisi del 1866-67, che portò al fallimento della banca a causa della forte immobilizzazione delle sue fonti a lunga scadenza. In Germania il legame tra banca e industria fu molto più stretto, nacquero le cosiddette banche miste (ad es.: la Deutsche Bank) che sostennero fortemente le società industriali nella loro formazione e in occasione degli aumenti di capitale, favorendo la collocazione delle loro azioni ed obbligazioni presso il pubblico. Esse effettuavano interventi di salvataggio delle imprese e possedevano anche pacchetti azionari per poterle controllare dall’interno, proteggendo il mercato interno e costruendo cartelli tra imprese. Esse davano sia credito a breve termine, sia a medio-lungo, superando il limite della specializzazione anglosassone e contribuendo alla nascita del cosiddetto modello “renano”. In un Paese relativamente povero di capitali furono le banche il principale “agente” della trasformazione. Il modo tedesco di fare banca trovò imitazione della maggior parte dei Paesi europei, Italia inclusa. c) Le istituzioni pubbliche La crescita economica del XIX secolo, pur basandosi in gran parte sullo spirito d’iniziativa dei singoli individui, ebbe tra i suoi protagonisti anche lo Stato. Paesi a forte autonomia locale, come la Gran Bretagna e gli USA, si affidarono maggiormente allo spirito dell’iniziativa privata; nei grandi Paesi dove da tempo si erano sviluppati più potenti apparati statali, come la Francia o la Prussia, videro un maggiore intervento statale; Paesi che iniziarono più tardi il loro sviluppo, come la Russia zarista o il Giappone ebbero nello Stato un essenziale “agente sostitutivo” alla debolezza della borghesia e alla scarsità di capitali. 80 d) La Germania Fu la Germania il concorrente continentale più temibile per l’Inghilterra. La Germania seguì un percorso di sviluppo che si differenziava fortemente da quello inglese. Esso si fondò sull’attiva partecipazione dello Stato e su uno stretto rapporto tra banche e imprese, in particolare della banca mista, raggiungendo e mantenendo la leadership in Europa e nel Mondo. Dai colossi della chimica (Bayer, Basf e Hoechst) si sviluppò la carbochimica, da cui vennero derivati i coloranti artificiali, una grande quantità di farmaci (tra cui l’aspirina, 1899) e gli esplosivi. A suo modo, come quello inglese, anche il “modello” tedesco fu unico ed irripetibile, definendosi “capitalismo organizzato”. La crescita tedesca fu impressionante: il PIL triplicò grazie all’industria, si affermò il ruolo della grande impresa e l’affermazione di pratiche di cooperazione fra imprese attraverso accordi di cartello, con un forte legame tra scienza ed industria. Queste caratteristiche furono particolarmente evidenti nei tre settori portanti: la meccanica industriale pesante, la metallurgia e la chimica. Essi richiedevano forti investimenti iniziali (di qui il legame con le banche) e nella loro crescita sfruttavano i vantaggi derivanti dalle economie di diversificazione (come nella chimica e nella meccanica) o i vantaggi di costo derivanti dalle economie di scale (come nella metallurgia). La tendenza verso il big business accumunò l’esperienza tedesca a quella degli Stati Uniti. Ciò che le differenziò fu il diverso approccio istituzionale e legislativo verso gli accordi tra imprese. I cartelli tedeschi avevano lo scopo di limitare la concorrenza, a differenza di quanto accadeva negli USA (es. legge antitrust). Alla vigilia della prima guerra mondiale la Germania copriva i ¾ di tutte le esportazioni chimiche nel mondo; nell’elettricità, la Siemens e la AEG competevano direttamente con le due grandi imprese americane, la General Electic e la Westinghouse. e) L’Impero Asburgico, la Russia e la Spagna Il sistema finanziario tedesco venne imitato dall’Impero Asburgico; impegnato nei settori degli armamenti, dell’acciaio, della meccanica, petrolio, zucchero e settore alimentare. La situazione dell’economia era però ben diversa, aveva un grado di apertura molto basso e un industria prevalentemente leggera (alimentare, tessile, vetro, carta). Notevoli erano le differenze territoriali a causa dei suoi vastissimi confini, in termini economici, culturali ed infrastrutturali. Solo l’Austria, la Boemia e l’Italia del nord erano regioni avanzate, mentre il resto dell’Impero era arretrato. L’enorme estensione territoriale della Russia “annegava” i significativi progressi industriali compiuti; aveva raggiunto dei significativi progressi, soprattutto nelle ferrovie (col maggior chilometraggio del mondo). Tuttavia aveva un reddito pro capite pari ad 1/3 di quello inglese, il 75% della forza lavoro era occupata nell’agricoltura, un altissimo tasso di analfabetizzazione e solo una minoranza della popolazione residente nelle aree urbane. Lo zar, inoltre, aveva abolito per ultimo la servitù della gleba e solo successivamente (nel ‘900) avvenne la privatizzazione delle terre. Lo Stato svolse un ruolo molto attivo: introdusse il gold standard per attirare gli investimenti stranieri, protesse le industrie strategiche, ordinò gli armamenti, dando sussidi agli imprenditori (specie stranieri). Il capitale straniero svolse una funzione fondamentale finanziando metà del debito pubblico russo, in gran parte utilizzato per le ferrovie, inoltre, tassò ulteriormente i redditi già bassi restringendo ulteriormente la domanda privata, penalizzando le industrie produttrici di beni di consumo (tessili, alimentari, ecc.). Fu la domanda pubblica a far decollare l’industria pesante (carbone, acciaio, macchine), che fece progressi molto rapidi non solo nelle are industriali di Mosca e San Pietroburgo, ma anche negli Urali, Ucraina e nelle regioni polacche. Profondi dualismi affliggevano anche l’economia della Spagna, condizionata da un agricoltura generalmente arretrata e da un livello di istruzione gravemente carente. Si distinguevano la Catalogna, specie nell’industria cotoniera e quella meccanica dei mezzi di trasporto, e i Paesi Baschi, che svilupparono 81 l’industria siderurgica sfruttando le miniere di ferro. Nel ‘800 la crescita della Spagna fu dunque lenta e limitata ad alcune regioni. f) L’Italia L’Italia conservava nel suo impianto urbano e nella ricchezza del suo patrimonio storico-artistico le testimonianze più evidenti della sua migliore stagione, quella tardo medioevale e rinascimentale, in cui aveva primeggiato nei commerci, nelle manifatture e nella banca. Nell’800 concentrò nell’area centro- settentrionale, tra la Pianura padana e le Valli prealpine, le proprie attività industriali, data la ricchezza di energia idraulica e di materie prime. Si trattava di attività tessili, tra le quali spiccava la produzione di seta greggia e semilavorata, in crescita graduale si presentava il cotoniero, mentre la meccanica e la siderurgia erano molto arretrate; prevalevano il settore agricolo, le piccole unità e l’artigianato. Il vero problema fu la frammentazione degli Stati pre-unitari, che da sempre erano stati sotto il dominio di diversi imperi, rendendo difficile l’opera dei governi di porre le basi di un nuovo Stato Unitario. Pur gravati da un debito pubblico molto elevato, in gran parte ereditato dagli Stati preunitari, tali governi effettuarono una vasta opera di modernizzazione istituzionale ed infrastrutturale, adottando una legislazione commerciale liberista ed una delle più avanzate leggi europee sull’istruzione (per ovviare al problema delle differenze socio-culturali tra le varie parti della penisola). Vennero costruite reti ferroviarie, stradali e porti, estendendo le infrastrutture educative, alienando beni demaniali ed ecclesiastici, e facendo largo uso della leva fiscale (compresa la famigerata “tassa sul macinato”), per procurarsi le necessarie risorse. La moneta venne legata al gold standard: l’ex banca nazionale degli Stati Sardi diventò la Banca nazionale nel Regno d’Italia, con poche altre banche tra cui il Credito mobiliare e la Banca generale. Successivamente con la pesante crisi bancaria degli anni 90 del ‘800, provocata dalla speculazione edilizia, si registra il fallimento del Credito mobiliare e della Banca generale, portando alla costituzione della Banca d’Italia che condivideva il potere di emissione con altri due istituiti: il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Nel sistema bancario italiano crebbe il ruolo delle banche miste alla tedesca, ebbero un ruolo fondamentale: la Banca commerciale italiana, il Credito italiano e il Banco di Roma. A sostegno delle piccole attività, invece, operavano a livello locale casse di risparmio ma soprattutto una rete di banche popolari. Sotto il profilo industriale l’Italia era penalizzata dalla mancanza di carbone, dalla ristrettezza del mercato interno, dai sistemi di autofinanziamento, dal basso livello di istruzione e da un quadro culturale non favorevole. Lo Stato ebbe un ruolo fondamentale nel porre le precondizioni allo sviluppo; a fine secolo tutti i settori industriali decollarono, con la preminenza del tessile ma con importanti sviluppi nella cantieristica, nella siderurgia, nella produzione di materiale ferroviario e negli armamenti. Promettenti iniziative vennero avviate anche nella chimica, mentre l’industria idroelettrica sostituì la dipendenza dal carbone. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Italia produceva tanta elettricità quanto la Francia e la Russia, e prese piede anche l’industria automobilistica (FIAT, 1899), quella della gomma (Pirelli, 1872, che divenne la prima multinazionale italiana). Dunque la forza produttiva italiana si concentrava, tuttavia, nel cosiddetto “triangolo industriale” (Piemonte-Liguria-Lombardia), evidenziando i forti squilibri regionali. 82 La rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni 1. Strade e canali All’origine della rivoluzione dei trasporti (di merci, persone e informazioni), vi erano vere e proprie invenzioni. Alla fine del ‘700 la velocità di spostamento era vincolata dall’uso della forza animale o dalla navigazione lungo i fiumi, i canali e le coste. La ferrovia, la nave a vapore e il telegrafo aprirono una nuova era tanto nei trasporti via terra e via mare quanto nelle comunicazioni. I nuovi mezzi di trasporto non determinarono la rivoluzione industriale, che era già iniziata, ma ne produssero una forte accelerazione. Al posto dei pesanti velieri condizionati dalla forza dei venti, che partivano quando decideva il comandante, nella seconda metà dell’800 regolari linee a vapore trasportavano molto più velocemente persone e merci pregiate nei diversi continenti. Grazie al telegrafo e alle rete dei cavi sottomarini gli operatori economici ebbero la possibilità di comunicare in tempo “quasi reale” da un emisfero all’altro della Terra. Dopo il trionfo del treno e l’affermazione delle navi a vapore, tra 800 e 900 l’automobile avrebbe preannunciato la “rinascita della grande strada”, mentre nel 1914 l’aviazione “si preparava ad uscire dall’era delle imprese sportive”. La rivoluzione dei trasporti permise di distribuire materie prime e prodotti finiti ovunque, il trasporto non fu più soltanto “uno strumento” ma divenne un “mezzo di produzione”. La rivoluzione dei mezzi di trasporto trasformò il tradizionale rapporto dell’uomo con lo spazio e le dimensioni stesse del Pianeta. Uno dei principali prerequisiti della rivoluzione industriale inglese fu, la costruzione di un fitto sistema di canali che permetteva di abbattere i costi di trasporto di circa ¾ rispetto al trasporto via terra. I principali investimenti per le vie di comunicazione erano rappresentate da strade e canali, infatti, in Inghilterra la rete stradale raggiungeva, nelle sue ramificazioni, anche il più lontano villaggio. La manutenzione stradale passò dalle parrocchie, che si avvalevano di corvées, ai consorzi di pedaggio; ma i capitali erano privati e le entrate dei consorzi locali spesso non bastavano a coprire le spese, infatti, all’inizio dell’800 solo il 6% delle strade era tenuto in buono stato. In molte parti d’Europa solo le strade maggiori venivano tenute in buone condizioni, per il facile spostamento delle truppe. Il resto della rete stradale era affidato alle autorità locali, che non disponevano delle risorse finanziarie necessarie per le continue manutenzioni. La Francia era il Paese europeo con la migliore rete di comunicazioni; i finanziamenti erano pubblici e si fecero notevoli progressi nella costruzione di nuove strade per consentire il continuo spostamento degli eserciti, costruendo le routes impériales anche nel Nord Italia, nel Belgio e in Germania. In Italia, salvo gli Stati del Nord, si dovette attendere l’unità per il potenziamento della rete viaria. La costruzione di strade continuò fino a metà secolo per poi subire un arresto dopo la metà dell’800, e solo dopo l’invenzione dell’automobile iniziò una nuova fase di investimento. Il costo dei trasporti terrestri diminuì grazie all’aumento della forza di trazione del cavallo, e alla costruzione di diligenze più leggere rispetto alle pesanti carrozze. Con l’avvento della ferrovia il trasporto a cavallo cadde in disuso sulle lunghe distanze, mentre per gli spostamenti brevi restò il mezzo principale fino al primo ‘900. Fiumi e acque interne costituivano da sempre la più comoda e meno onerosa via commerciale. Lo sviluppo dei trasporti ebbe una forte spinta, da un lato grazie all’aumento dei traffici marittimi grazie alla riduzione dei costi di trasporto e alla maggiore sicurezza delle rotte, dall’altro dall’incremento della popolazione (soprattutto urbana). Una domanda che si poteva soddisfare solo migliorando la navigazione interna: grandi canali furono realizzati all’epoca del mercantilismo in Francia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Svezia e soprattutto Inghilterra, dove la navigazione fluviale si affiancava a quella stradale e a quella costiera. La costruzione di canali venne intensificata nella prima metà dell’800, in tutta l’Europa ma soprattutto in 85 ferrovia transiberiana consentirono la colonizzazione di nuovi territori e il consolidamento della presenza zarista in funzione anticinese. Sull’onda dell’espansione coloniale e imperialista europea e con il supporto di capitali europei, le ferrovie cominciarono a percorrere l’America Latina, la Cina, l’Africa e il Medio Oriente. Quindi, nell’immaginario collettivo ottocentesco le potenti e veloci locomotive crearono uno sconvolgimento nella precedente “visione” del Mondo. N.B. La rete ferroviaria era sostanzialmente divisa tra pubblico e privati, con % che variavano da Stato a Stato. All’inizio del XX secolo, il 70% del chilometraggio mondiale apparteneva a compagnie capitalistiche, il restante 30% allo Stato. In Europa le linee secondarie ridussero considerevolmente la redditività degli investimenti fatti, favorendo all’inizio del secolo la statalizzazione delle ferrovie!!! 3. I trasporti marittimi L’affermazione della nave a vapore fu molto più graduale rispetto alla ferrovia. La causa non fu solo la lenta evoluzione della nuova tecnologia nel ridurre consumi e carico di combustibile, ma anche la competitività della marineria a vela che aveva fortemente accresciuto velocità e manovrabilità. Dall’evoluzione delle “golette” prese forma il clipper a quattro alberi, massima espressione della tecnologia della vela: aveva una minore capacità di tonnellaggio rispetto agli altri velieri, ma era più veloce (raggiungeva i 15 nodi) e dunque utile sulle lunghe distanze. Venne impiegato nelle rotte dell’India, Pacifico e Australia senza temere la concorrenza dei vapori, attraversando l’Atlantico in 12-14 giorni; ma il clipper risentì dell’apertura del canale di Suez (1869), che abbreviò i percorsi verso l’Oceano Indiano spostando le rotte verso mari meno ventosi. Alcuni velieri cominciarono poi ad adottare le innovazioni introdotte sui piroscafi: scafo in ferro e piccole macchine a vapore per meccanizzare i servizi di bordo. Il piroscafo operò inizialmente nella navigazione a corto raggio, trasportando posta e passeggeri, ma successivamente effettuò la prima traversata dell’Atlantico interamente a vapore. N.B. Fino a metà secolo la nave a vapore era ancora dotata di vele ed aveva una propulsione mista per navigare in caso di guasto alle macchine. Solo dopo la metà del secolo si verificarono progressi decisivi: il ferro e l’acciaio sostituirono il legno nella costruzione degli scafi (diminuendo spese di manutenzione e usura), l’elica eliminò definitivamente la ruota a pale, le macchine a vapore a duplice e a triplice espansione abbassarono drasticamente i costi di trasporto e le quantità di carbone da ammassare nelle stive, mentre aumentò lo spazio riservato ai viaggiatori e alle merci. Le caldaie a triplice espansione assicurarono una convenienza sempre maggiore e consentirono di aumentare il tonnellaggio delle navi in ferro e la loro velocità, riducendo il n° degli equipaggi!!! Il tonnellaggio dei piroscafi arrivò a superare quello dei velieri, ed ebbero il monopolio del traffico dei passeggeri e degli emigranti verso gli Stati Uniti ed anche quello del trasporto delle merci pregiate. I primi piroscafi erano costruiti in maniera promiscua per il trasporto di merci e passeggeri, ma successivamente si specializzarono, acquisendo all’inizio del XX secolo una definitiva supremazia. Nacquero navi dedicate a trasporti particolari, come petrolio e carne congelata. In particolare, le prime petroliere collegarono Stati Uniti ed Europa assumendo un ruolo importante nei traffici internazionali. La predominanza inglese in materia di costruzione navale rimase un elemento chiave della supremazia economica britannica almeno fino alla prima guerra mondiale, nonostante la concorrenza tedesca e francese, la flotta commerciale inglese restava una delle principali fonti di entrata del Regno Unito; se alla fine dei ‘700 la Gran Bretagna possedeva un quarto del patrimonio navale europeo, nell’800 costruiva più della metà delle navi europee. Nuove imprese, fondate sull’esercizio di linee con navi a vapore, si specializzarono nella sola funzione di 86 trasporto. Prima del XIX secolo non esisteva un servizio regolare di navigazione oceanica, ma agli inizi dell’800 per la prima volta armatori americani istituirono una linea i cui velieri partivano da New York e da Liverpool a giorni fissi introducendo un servizio regolare e puntuale che riduceva l’incertezza negli affari; tale sistema venne imitato dalle compagnie delle navi a vapore. La navigazione marittima fu l’origine di importanti investimenti nella sistemazione dei porti e nell’apertura di canali infraoceanici. Una delle opere fondamentali del XIX secolo fu l’apertura del Canale di Suez, progettato da Ferdinand de Lesseps, realizzato tra il 1859-1869 superando un’infinità di problemi tecnici, finanziari e diplomatici, ma mise in comunicazione il Mediterraneo e il Mar Rosso (riducendo notevolmente la durata del viaggio tra i vari Paesi). Lesseps progettò anche il canale di Panama, ma l’impresa (1881-1889) si interruppe, e venne ripresa dagli Stati Uniti con finanziamenti governativi e portata a termine nel 1914. 4. Le conseguenze economiche I mezzi di trasporto possono svolgere una funzione “passiva” (trasferimento spaziale di beni e persone) ed una “attiva” (promotori e moltiplicatori dello sviluppo). Il costo del trasporto costituisce un fondamentale elemento ostativo/sollecitativo nella circolazione dei beni. Le maggiori conseguenze della rivoluzione dei trasporti furono i ribassi dei prezzi dei noli marittimi e la discesa costante delle tariffe ferroviarie. Il trasporto marittimo diminuì grazie all’intensificarsi della concorrenza e diminuirono anche le tariffe ferroviarie, aumentando la possibilità di movimento delle persone, degli scambi e delle interdipendenze economiche e sociali. L’agricoltura poté rivolgersi al mercato e specializzarsi, la manifattura ebbe approvvigionamenti più regolari e meno costosi ,quindi le città poterono rifornirsi più facilmente di derrate alimentari, energia e beni di consumo. La geografia economica venne cambiata. In generale, le ferrovie facilitarono l’integrazione dei mercati nazionali ed internazionali e una più razionale allocazione di risorse economiche. Inoltre a livello economico, la costruzione delle reti ferroviarie nazionali innescò una catena di connessioni con altri settori del sistema economico (backward e forward linkages). 1.La mobilitazione del credito per finanziare gli investimenti: essendo un settore ad alta intensità di capitale stimolò forme di cooperazione internazionale tra banchieri e finanzieri. Quelli delle ferrovie, infatti, furono i principali titoli speculativi per i mercati borsistici, il mercato parigino era animato dalla rivalità fra i Pereire e i Rothshild, che si contendevano le costruzioni nei Paesi Mediterranei (Italia) e Balcanici. 2.La ferrovia giocò il ruolo di motore dello sviluppo economico: diede stimolo all’industria edilizia (infrastrutture), siderurgica, meccanica e al settore dei servizi. Cambiò il mercato del lavoro e l’organizzazione aziendale, infatti, nella realizzazione delle linee nazionali lavorarono centinaia di migliaia di uomini e con prime grandi imprese di tipo capitalistico. Cambiò anche l’organizzazione aziendale dando impiego ai primi manager professionisti, creando imprese a struttura multidivisionale articolata in una gerarchia ad organigramma. 5. Il telegrafo e la globalizzazione dell’informazione L’800 vide importanti miglioramenti anche nel sistema di trasmissione delle notizie e delle informazioni. In passato le informazioni viaggiavano tramite posta, sostanzialmente alla velocità dei cavalli. Con l’invenzione del telegrafo ottico (sistema di trasmissione di segnali tra postazioni in contatto visivo), presentato durante la rivoluzione francese (1792) dal fisico Claude Chappe, si potevano trasmettere più di 8.000 parole in codice: in buone condizioni di visibilità, un segnale impiegava 12 minuti per percorrere 300 km. Utilizzato inizialmente per scopi militari e di polizia, dal 1830 il suo uso si aprì anche alla comunicazione commerciale 87 contribuendo alla propaganda dei “sistemi di rete”. Ma con l’avvento di sistemi di trasporto veloci come le ferrovie, le informazioni dovevano viaggiare con tempi ancora più celeri. Vi si dedicarono diversi ricercatori, ma il contributo più originale venne dall’americano Morse (1835) che, con successivi perfezionamenti del suo apparecchio telegrafico, consentì di mettere in comunicazione in tempo “quasi reale” città e continenti diversi, unificando il mercato mondiale da quando i fondali marini vennero percorsi da cavi. Le compagnie inglesi, private o pubbliche, controllavano circa la metà del kilometraggio mondiale di cavi sottomarini (il primo fu posto sotto la manica e successivamente attraverso l’Atlantico e nei principali Mari del Mondo, consentendo di unificare i vari continenti); ciò costituì un potente fattore di consolidamento della capitale inglese quale centro del mercato mondiale. La simbiosi telegrafo/ferrovia estese così i suoi effetti anche al mercato finanziario, ampliando l’attività della Borsa di Londra. La comunicazione telegrafica fu la prima a richiedere, anticipando quella ferroviaria e postale, interventi di armonizzazione normativa e standardizzazione tecnica, infatti, una volta adottato universalmente il codice Morse nacque “l’unione telegrafica internazionale” , primo organismo sovranazionale a carattere tecnico amministrativo. Il passaggio di informazioni divenne ancora più rapido ed intenso mezzo secolo dopo con l’avvento del telefono, inventato da Meucci (1876) e reso “noto e commercializzato” da Bell (1877). Il telefono trasmetteva 100-200 parole al minuto in confronto alle 15-20 del telegrafo, senza alcun operatore presso gli utenti. Per tutto l’800 rimase un’innovazione esclusivamente americana, circoscritta al mondo degli affari; solo a fine secolo l’uso si estese alla comunicazione privata. Infine le prime trasmissioni radio di Guglielmo Marconi nel 1896 aprirono la strada per l’invenzione della radio e la creazione di un sistema di comunicazione di massa. Inoltre i fratelli Lumière con l’invenzione del cinematografo (1895), consentirono la nascita del cinema. Scambi internazionali e sistemi monetari 1. L’Europa e l’economia mondiale Nel corso dell’Ottocento il commercio internazionale conobbe un incremento prodigioso. Con la rivoluzione dei trasporti il mondo intero divenne un mercato unico in cui uomini, merci, capitali ed idee conobbero una mobilità mai vista prima. L’Europa dominava gli scambi internazionali, protagonista assoluto era il Regno Unito, la Francia si collocò al secondo posto ma a parecchia distanza dal Paese leader, superata poi dalla Germania e dagli Stati Uniti. Con lo sviluppo degli scambi si creò un economia internazionale sempre più complessa: le relazioni già esistenti si consolidarono, mentre si formavano nuovi legami e nuovi equilibri nei diversi scacchieri. Nel periodo compreso tra il 1815 e la prima guerra influirono in maniera decisiva alcuni fattori: 1. il progresso tecnologico: grazie alla rivoluzione industriale e all’industrializzazione del continente; 2. il forte aumento delle risorse naturali: impiegate nei processi di trasformazione, grazie ai flussi di importazione ed esportazione; 3. la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni: si pensi ai canali (Suez, Panama, Rotterdam) che ridussero i costi di trasporto, e alle invenzioni che rivoluzionarono il modo di comunicare; 4. la crescita della popolazione mondiale: con il passaggio da 0,9 a 1,6 miliardi di abitanti, le emigrazioni stabilirono legami culturali ed economici (ad esempio, l’uniformarsi di salari e stipendi dei diversi continenti); 5. l’accumulazione di capitali: l’unica nazione in grado di autofinanziarsi inizialmente fu l’Inghilterra, ma successivamente molti Paesi followers accelerarono tale performance. 90 6. L’abbandono di posizioni liberiste da parte di importanti nazioni produsse effetti a catena e vere e proprie rincorse al protezionismo. Questi elementi diedero nuova linfa ad interessi protezionistici che non erano mai scomparsi. Il motivo più importante fu che dal 1870 la crisi dell’agricoltura, nata a causa della concorrenza dei grani americani e russi arrivati sui mercati europei con il diffondersi della navigazione a vapore, fu tra i principali fattori che indussero i Paesi europei all’adozione del protezionismo nella quale concordarono i proprietari fondiari, penalizzati dal ribasso dei prezzi agricoli, e gli industriali, colpiti dalla caduta dei consumi. La Germania sotto il Governo Bismarck, a seguito di vari accordi commerciali si assicurò il predominio economico sui Paesi agricoli dell’Europa centro-orientale. L’Italia seguì la stessa strada, nel periodo pre- unitario all’esportazione di materie prime agricole e di prodotti semilavorati (seta) corrispondevano manufatti industriali, con bilance commerciali in passivo. La Francia era il partner commerciale per eccellenza dell’Italia esportando verso l’Italia prodotti industriali ed importando agrumi, bachi da seta e svariati prodotti ortofrutticoli. Mentre a fine ‘800 ebbe luogo fra l’Italia e la Francia la cosiddetta guerra delle tariffe, un gioco al rialzo tariffario; ma la Francia riuscì a stabilizzare i propri dazi favorendo anche della clausola della nazione più favorita eliminando le discriminazioni. Prima del 1914 tutta l’Europa ritornò su posizioni più o meno protezioniste, ad eccezione della Gran Bretagna che mantenne un sistema economico di libero scambio, beneficiando della sua posizione di economia consolidata. L’economia inglese divenne così il perno dell’intero sistema economico e di scambio internazionale. 4. Il Colonialismo Il ritorno al protezionismo s’accompagno a cambiamenti politici di rilievo. Paesi come l’Inghilterra, Francia, Portogallo e Spagna avevano avuto importanti precedenti coloniali. La Gran Bretagna inaugurò un nuovo tipo di imperialismo basato sull’occupazione di vaste aree del globo. Alla fine dell’800 il suo impero si estendeva dalla Nigeria al Sud Africa, dall’India, Burma, all’Australia e al Canada. Altre nazioni europee si posero sulla stessa strada: la Francia occupò Algeria, Tunisia, Marocco, Africa Equatoriale, Madagascar e Indocina. Più contenuto fu invece il colonialismo tedesco e belga, mentre declinava il dominio portoghese e spagnolo. Destinato all’insuccesso fu quello italiano con l’occupazione dell’Eritrea, Somalia e Libia. Il colonialismo fu un fenomeno di lunga durata, molto complesso e dalle molteplici dimensioni. Le colonie potevano essere viste come mercati di merci, di capitali, di materie prime e come valvole di sfogo per popolazioni crescenti. Questi elementi non sono applicabili indistintamente a tutte le colonie, poiché bisogna considerare le varie tipologie coloniali, estremamente diversificate. L’unico Paese europeo con uno stretto legame economico con le proprie colonie era la Gran Bretagna. L’Inghilterra investì ingenti risorse per il suo sviluppo coloniale, creando una vera e propria economia coloniale (a differenza di altri Paesi); questo spiega il perché l’Inghilterra ebbe così minori interessi a convertire le proprie produzioni in quelle tipiche della seconda rivoluzione industriale: nel lungo periodo il legame coloniale avrebbe destinato verso le colonie non solo capitali, consentendo un rinnovamento tecnologico interno, ma anche produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale grazie alla possibilità di assorbimento di questi prodotti da parte dei mercati coloniali, ovvero mercati poco sofisticati. 5. L’economia internazionale Il commercio europeo ebbe quindi uno sviluppo senza precedenti sia nell’ambito dei Paesi sviluppati sia con i Paesi extraeuropei. La netta supremazia inglese si consolidò durante tutto l’800, nonostante a fine secolo nuove potenze come la Germania e gli Stati Uniti avessero raggiunto notevoli livelli di industrializzazione 91 (nel caso tedesco addirittura superato la Gran Bretagna); ma il ruolo commerciale inglese rimaneva preponderante, nel 1914 la Gran Bretagna controllava ancora il 14% del commercio mondiale che era costituito da cotone, zucchero, lana, cacao, indaco, legno, grano, gomma etc., ma era in forte decrescita. L’Europa contava circa i 2/3 di tutte le esportazioni ed importazioni mondiali di materie prime e prodotti finiti, un flusso che divenne sempre meno dipendente dalla Gran Bretagna, quindi si videro affermarsi nuovi Paesi; un nuovo produttore non europeo stava inoltre prendendo piede: gli Stati Uniti (che avranno un ruolo fondamentale nel XX secolo, ma all’epoca non era ancora chiaramente visibile). Il sistema di relazioni internazionali può essere ricondotto ad un modello centro-periferia, in cui l’Europa (attore dominante, centro) vide la gran parte dei propri commerci svilupparsi all’interno dei propri confini. Circa l’80% delle esportazioni di Stati europei trovarono mercati d’acquisto all’interno dell’Europa stessa, diventando centro di produzione e di consumo. Era in questo caso la periferia ad aver bisogno dell’Europa per avviare processi di sviluppo commerciale ed industriale. Per quanto concerne le relazioni finanziarie fino al 1850 per la costruzione del sistema ferroviario, l’investimento della maggior parte degli Stati europei avveniva all’interno del continente; nella seconda metà del secolo, invece, i capitali furono investiti su scala mondiale. L’industrializzazione europea aveva creato nuova ricchezza. Il grande sviluppo del commercio internazionale, di cui la Gran Bretagna era il leader indiscusso, non avrebbe potuto realizzarsi senza lo sviluppo dei sistemi di finanziamento, costituito da: mercati di titoli, d’azioni, mercati di valuta estera, banche centrali, banche private e banche commerciali, brokers e altri agenti finanziari furono gli strumenti per una espansione finanziaria senza precedenti. Con l’800 Londra confermò un ruolo finanziario non solo a livello europeo, ma a livello mondiale. Né Parigi né Berlino disponevano di un mercato finanziario così specializzato e bene informato e la supremazia della sterlina rafforzò l’efficienza della piazza di Londra. Nell’800 cresce quindi lo straordinario fenomeno dell’investimento estero, i capitali investiti a breve e a lungo termine trovavano impiego in attività commerciali e di produzione di Paesi in via di industrializzazione o potevano essere investiti nel debito pubblico. Alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna deteneva ancora il 43% dell’investimento mondiale ed investiva all’estero una quota del 7-9% del suo PIL. A distanza seguivano la Francia con il 20% e poi Germania, Belgio, Olanda, Svizzera e Stati Uniti. Ma l’Europa non era solo il maggiore investitore al mondo era anche il maggiore ricettore di investimenti. Nel corso del secolo quasi tutte le nazioni d’Europa dipesero più o meno pesantemente dall’investimento di altri Paesi europei. Francia, Germania ed Olanda investirono nei Paesi Baltici, Russia e Turchia. Per la Russia ad esempio, i capitali stranieri furono fondamentali nella costruzione del sistema ferroviario, ma anche nel finanziamento delle politiche militari e navali del governo zarista. L’Inghilterra inviò investimenti sostanziosi in Nord e Sud America, Oceania (Australia, Nuova Zelanda), e in Asia (soprattutto Cina, India e Giappone), mentre in Africa gran parte dell’investimento era diretto verso il Sud Africa. 6. Le bilance dei pagamenti e il gold standard Con lo sviluppo dell’economia internazionale ogni Paese doveva prestare attenzione alla sua bilancia dei pagamenti, lo strumento contabile di confronto tra tutti i pagamenti da effettuare all’estero con tutti i pagamenti ricevuti dall’estero. Per definizione la bilancia dei pagamenti è in pareggio. Lo squilibrio (saldo positivo o negativo) si colloca a livello di bilancia delle partite correnti, che è la somma algebrica dei saldi della bilancia commerciale (importazioni ed esportazioni di merci), delle partite indivisibili (assicurazioni, turismo, commissioni bancarie), e le rimesse. Se il saldo è positivo si dovrà ricorrere ad esportazioni di capitali, se è negativo si dovrà ricorrere a riserve o prestiti. 92 Esaminando la bilancia commerciale del Regno Unito nel XIX secolo, si presentava costantemente in deficit: le importazioni (di manufatti) superavano le esportazioni, ma erano i servizi indivisibili (redditi della flotta mercantile, delle attività bancarie e delle assicurazioni) e l’aumento continuo degli investimenti all’estero che determinarono il saldo positivo complessivo delle entrate; infatti, non vi fu mai un deficit della bilancia dei pagamenti britannica durante l’800. Questo fu uno dei principali elementi di forza della sterlina, che divenne la moneta di riferimento nel sistema monetario internazionale definito gold standard (regime aureo), dove tutte le valute potevano essere convertite nel sistema aureo. In passato esistevano economie fondate sul monometallismo (oro, come in Gran Bretagna) e bimetallismo (oro e argento) ma era un sistema più instabile, date le fluttuazioni del valore dei due metalli. Durante l’800 si sostituirono progressivamente le monete metalliche con la moneta di banca. L’uso di monete d’oro o d’argento significava che il valore nominale della moneta era anche un valore reale. Il crescente utilizzo di banconote dissociò il valore nominale da quello reale, infatti, la banconota non aveva nessun valore reale ma l’autorità che l’aveva emessa si impegnava però a convertire il valore nominale in oro e argento. Bisognava quindi che la banca d’emissione si attrezzasse e disponesse delle riserve di metallo prezioso, sufficienti per assicurare la convertibilità. N.B.: Il sistema aureo (gold standard) fu necessario poiché l’estensione delle pratiche bancarie aveva dissociato il valore nominale ed il valore reale della moneta: non si commerciava più con monete d’oro e d’argento ma con le banconote, che non avevano valore intrinseco!!! Quindi per aumentare il circolante bisognava acquisire nuove riserve, mentre quando il metallo prezioso diminuiva occorreva ridurre il circolante. In ogni caso non vi era sufficiente oro per convertire tutte le monte, poiché il sistema si reggeva sulla fiducia; in caso contrario, la corsa agli sportelli avrebbe provocato il collasso del sistema. Perciò bisognava mantenere il corso forzoso della moneta, cioè l’obbligo di mantenere la moneta cartacea. Tale sistema richiedeva dunque una disciplina rigorosa sia nell’emissione della moneta sia nell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Un Paese deficitario, dovendo pagare il suo deficit in oro, doveva limitare la crescita o diminuire la massa monetaria provocando un ribasso dei prezzi ed un freno alla domanda, diminuivano così le importazioni ma potevano aumentare le esportazioni, tornando in questo modo all’equilibrio in maniera automatica. Al contrario, poteva capitare che i Paesi in avanzo preferissero aumentare le loro riserve, non rispettando le regole del gioco, imponendo di allargare la circolazione monetaria (sterilizzazione dell’oro). In questo caso l’onere del raggiustamento ricadeva interamente sul Paese deficitario costringendolo ad uscire dal gold standard e a lasciar fluttuare la propria moneta. Il sistema veniva messo in crisi dalle guerre e dalle difficoltà interne dei propri Paesi, alcuni studiosi sostengono che sono stati i periodi di grande stabilità internazionale a permettere il gold standard e non è stato il gold standard a generare stabilità, anche se né è stato uno dei punti di forza. Il sistema del gold standard per funzionare correttamente aveva bisogno di una leadership stabile e sicura a livello internazionale: questo ruolo fu assunto dalla sterlina, che ispirava e generava una fiducia incondizionata, molto più di altre valute. Si spiega così che alcuni Stati includessero sempre più nelle loro riserve di cambio divise straniere, essenzialmente sterline, preferite all’oro, dato che ne garantivano anche un interesse. Concludendo, all’inizio del XX secolo l’oro eliminò definitivamente l’argento, l’adozione del gold standard associò la supremazia inglese sui commerci internazionali; bisognava fissare il valore di tutte le valute rispetto all’oro e porre al centro del sistema la sterlina inglese, di fatto unità di conversione internazionale. 95 2. L’evoluzione demografica Durante il secolo i Paesi europei sono cresciuti di circa 300 milioni di abitanti, qualcosa di più del 60%. La situazione ante 1913, prima l’esplosione della grande guerra, era che in pochi Stati si concentrava il grosso della popolazione. I sette Paesi più popolati avevano l’88% della popolazione totale. Era l’epoca delle grandi potenze. Dal 1900 al 1913 la crescita fu elevata, ma nei “transwar years”, dal 1913 al 1950, la crescita demografica europea fu molto più lenta. Alcuni Paesi, con percorsi politici e militari particolarmente sfavorevoli soffrirono perdite di popolazione significative (Polonia e Cecoslovacchia), altri come la Germania, Austria, Irlanda e in modo particolare la Francia entrarono in un fase di stagnazione. Le varie periferie europee, la mediterranea e la settentrionale, ebbero maggiori incrementi; l’eccezione, in termini di “ottimismo demografico”, è l’Olanda che guida la graduatoria degli incrementi di popolazione. Dopo il 1950 e fino al 1998, il ritmo globale di crescita aumenta essenzialmente come il frutto dell’ottimismo del dopoguerra, ad eccezione dei Paesi del blocco sovietico. In realtà, l’alta crescita della seconda metà del ‘900 è concentrata nel terzo quarto del secolo, dal 1950 al 1973. Nel XX secolo i tassi di mortalità, specialmente quella infantile, declinarono fortemente e l’effetto più rilevante è stato quello di una speranza di vita alla nascita in costante aumento. Verso il 1900 rappresentava un’eccezione chi superava i 50 anni (come succedeva in Olanda, Svezia e Italia), un secolo dopo in tutti i Paesi europei esiste una speranza di vita alla nascita tra i 77 e i 79 anni. Ricordiamo che l’Europa fu, durante tutto il XIX secolo, un continente di emigrazione. Questa tendenza si invertì nel periodo tra le due guerre (gli “interwar years”), i Paesi dell’Europa occidentale cominciarono ad attrarre immigranti. La necessità di manodopera derivanti dalle enormi perdite di vite umane, dalle innumerevoli mutilazioni e dalle invalidità lavorative provocate durante la grande guerra, attrassero lavoratori dal Sud e dall’Est dell’Europa. I polacchi e gli italiani risposero rapidamente, spostandosi in Gran Bretagna, Belgio e Francia. Nel complesso le periferie meridionali ed orientali continuarono l’emigrazione verso l’America, trovando anche nuove destinazioni all’interno del continente europeo. Dopo la 2° guerra mondiale questa tendenza fu ancor più accentuata, a causa della ricostruzione. Durante gli anni ‘50/’60 l’Europa si trasforma in un continente di immigrazione netta, contando oltre 3 milioni di immigrati; venivano dal Sud e dall’Est dell’Europa e dalle ex colonie, specialmente dalle regioni più povere. 3. Il potenziale economico Il modo più rapido di misurare il potenziale economico è attraverso il PIL. Nel “The Rise and Fall of Big Powers”, Paul Kennedy (storico e saggista inglese) spiegò la competizione tra le grandi potenze facendo ricorso allo sviluppo del loro PIL. Nel 1913 le grandi potenze europee, considerando il loro PIL, erano: Russia, Germania, Regno Unito, Francia, Austria-Ungheria ed Italia. Le sei maggiori potenze cumulavano l’85% circa del PIL. Il PIL è il miglior indicatore della potenza economica, è il risultato della moltiplicazione della popolazione per il reddito pro capite. La potenza economica è quindi la capacità complessiva di mobilitare risorse di ogni tipo, comprese quelle militari. Nell’Europa del 1914 aveva importanza anche il PIL coloniale, che sommato al PIL metropolitano costituisce il PIL globale dell’economia di una nazione. Il PIL coloniale era nettamente inferiore a quello della madrepatria, eccetto per i domini inglesi, infatti, il peso dell’impero coloniale britannico continua a manifestarsi poderosamente in termini di potenziale economico (questo spiega la forte spinta che riceve l’economia britannica). 96 N.B.: se consideriamo il PIL coloniale il Regno Unito si colloca al primo posto, superando la Russia!!! E anche l’Olanda cresce molto, senza superare l’Italia!!! La situazione alla fine del XX secolo cambia, i grandi imperi coloniali sono spariti dopo la 1° guerra mondiale modificando il ranking delle potenze economiche. In questo momento Germania e Francia guidano la graduatoria, il Regno Unito e l’Italia sono praticamente allo stesso livello, seguono Federazione Russa, Spagna ed Olanda. 4. Il reddito pro capite Il PIL pro capite (misura della prosperità e del benessere di una popolazione) nel corso del ‘900 è cresciuto in media del 1,73% l’anno per tutta la popolazione europea. Nel complesso, la prosperità europea crebbe moderatamente tra il 1913 ed il 1950, ma tra il 1950 ed il 1973 (la cosiddetta “golden age”) si ha una crescita 4 volte superiore, per poi tornare tra il 1973 ed il 1998 ad una crescita moderata. Verso il 1913 il Paese più ricco d’Europa era, logicamente, il Regno Unito. Lo seguivano piccoli Paesi, molto prosperi, che commerciavano intensamente con il Regno Unito, o che gli somigliavano a livello industriale (Svizzera, Belgio, Olanda); ed i nemici della grande guerra: Germania, Francia e Austria. L’Italia, invece, era un gradino più in basso, superava i Paesi della periferia mediterranea, quelli dell’Europa centro – orientale e quelli scandinavi, ad eccezione della Svezia. La Russia chiudeva la lista delle grandi potenze, uno dei Paesi più poveri nel 1913 a livello procapite; la sua grandezza derivava dalla sua estensione e dalla sua popolazione, non dalla sua prosperità. La situazione nel 1998 è più irregolare. Il Paese occidentale più ricco è la Norvegia. Il nuovo divario appare tra i Paesi dell’Est e dell’Ovest dell’Europa. Tra i Paesi occidentali le differenze sono contenute. I quattro grandi Paesi – Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia – non si differenziano molto tra loro. Invece, l’ex Unione Sovietica è affondata completamente ed è relativamente molto più povera di quanto non lo era nel 1913. 5. Società con alti livelli di consumi Gli incrementi del reddito pro capite hanno permesso miglioramenti sostenuti dei livelli di consumo. In primo luogo il consumo alimentare, con il cambiamento nella quantità di calorie consumate e la diversificazione della dieta, integrando ai cereali e ai tuberi: i prodotti lattei, le proteine della carne e la frutta consentendo di migliorare i livelli di vita. Poi il vestiario, che si è mantenuto abbastanza stabile, e l’abitazione, che è aumentato nettamente durante il secolo. I consumi che più sono cresciuti sono stati quelli legati alle spese di trasporto, soprattutto quello individuale (l’automobile ed il suo mantenimento), per il tempo libero, la sanità e l’educazione. La diffusione di massa dell’automobile è stato il più grande processo di diffusione tecnologica del secolo. Nel periodo tra le due guerre, la Francia e la Gran Bretagna erano i Paesi più avanzati d’Europa. La maggiore prosperità della Gran Bretagna giustifica la sua leadership europea nell’impiego dei mezzi di trasporto su gomma, ruolo che si andrà perdendo durante la seconda metà del secolo. Verso il 1970 molti Paesi occidentali, guidati dalla Svezia, avevano superato il Regno Unito. Nel 1998, l’Italia è il Paese a più alta diffusione dell’automobile, a seguire i Paesi della periferia Orientale. In ogni caso, in tutta l’Europa l’automobile si trasformò nel bene di consumo durevole più desiderato. Degli altri oggetti che hanno avuto una forte capacità di sintetizzare i modelli di consumo ed i cambiamenti nei gusti, abbiamo gli apparecchi televisivi ed il personal computer. 97 Per quanto riguarda l’Europa occidentale, la diffusione degli apparecchi televisivi ha caratteristiche simili a quella delle automobili. Ed anche più accentuate, per il fatto che la Gran Bretagna era il Paese in cui è stata inventata la televisione. Le trasmissioni, che erano cominciate prima della guerra, rimasero interrotte e ripresero solo successivamente. Nel 1950 il Regno Unito, in effetti, era l’unico Paese europeo dotato di televisione; l’URSS aveva cominciato le trasmissioni, ma disponeva di un parco ricevitori molto ridotto. L’egemonia anglosassone appariva ancora più chiara nel 1955, quando solo nelle isole britanniche si poteva parlare di una vera diffusione degli apparecchi televisivi. Successivamente i Paesi dell’Est s’impegnarono in una corsa frenetica, identica a quella dei Paesi dell’Ovest, per diffondere la televisione; infatti, l’emissione centralizzata era un innovazione molto utile per i regimi dittatoriali. Nel 1960, solo Svezia e Danimarca riuscirono ad emulare il successo britannico del 1955, con più di un televisore per ogni dieci abitanti, e a seguire tutta l’Europa investì sulle nuove tecnologie di trasmissione dei dati, consentendo alla TV di diffondersi nelle case degli europei diventando sempre più un bene “essenziale”. Possiamo dire che la televisione ha teso ad uguagliare gli europei. È un prodotto relativamente a buon mercato, che fornisce un ampia gamma di servizi d’intrattenimento. I dati disponibili al 1999 sono interessanti, la massificazione nell’uso della televisione è un dato di fatto, Grecia e Portogallo arrivarono tardi all’appuntamento della trasmissione televisiva ma hanno recuperato il loro ritardo. Il leader nella diffusione nei Paesi dell’Est è la Lettonia, mentre i Paesi nordici hanno un’inclinazione favorevole all’uso della TV probabilmente dovuta a ragioni climatiche. Paragonare la diffusione degli apparecchi televisivi ai PC (personal computer) ha molto senso, difatti questi strumenti appartengono a due tecnologie molto distinte e di diversa generazione, ma con un elemento in comune: disporre di uno schermo. A differenza di quello che succede con altre tecnologie, fortemente collegate al PIL procapite, le nuove tecnologie dell’informazione sono legate alla diffusione culturale. I Paesi leader sono ancora una volta quelli scandinavi. Nei climi freddi del Nord e in quei Paesi con un cultura educativa molto forte, le nuove tecnologie dell’informazione (NTI) si sono diffuse a gran velocità. La diffusione risulta essere molto importante soprattutto in Svizzera e Irlanda, che si è convertita in sede delle grandi multinazionali dell’informatica. I Paesi latini sono in ritardo rispetto al loro reddito procapite, poiché il minore utilizzo delle tecnologie tradizionali si riflette nell’impiego di quelle nuove. In Europa esiste una forte differenziazione nella diffusione delle NTI. I Paesi che ne soffrono coincidono con quelli che mostrano enormi problemi di crescita: l’area balcanica e gran parte dell’ex Unione Sovietica. Per studiare anche la diffusione della tecnologia rispetto al PIL procapite, consideriamo il rapporto TV/PC, una posizione rilevante l’assume ancora l’Irlanda dove i PC hanno uguagliato la diffusione degli apparecchi TV, in rapporto uguale ad 1. Ed ancora una volta i Paesi fortemente arretrati risultano essere: la Federazione Russa, ed i Paesi dell’Europa dell’Est, Romania, Serbia e Montenegro, Bulgaria, Albania e Moldavia. 6. Il ruolo propulsore del progresso tecnologico Prima dell’esplosione della grande guerra, il mondo era dominato dalle tecnologie della prima rivoluzione industriale, basate sul carbone: la siderurgia, la macchina a vapore, la ferrovia e la nave a vapore. Dal ‘900 fino all’esplosione della grande guerra, si era assistito alla folgorante ascesa di nuove tecnologie: l’elettricità, il motore a combustione interna e la chimica industriale. Nel campo delle comunicazioni la telegrafia si era arricchita con la telefonia. Dopo la devastazione della guerra, la ricostruzione non accelerò il cambiamento tecnologico, piuttosto lo
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