Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto 1984 george orwell, Sintesi del corso di Acustica E Illuminotecnica

fbzdhtbzdtg

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 11/06/2015

merc
merc 🇮🇹

4.6

(14)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto 1984 george orwell e più Sintesi del corso in PDF di Acustica E Illuminotecnica solo su Docsity! GEORGE ORWELL 1984 Nuova traduzione a cura di Stefano Manferlotti (2000) La vita Eric Arthur Blair, vero nome di George Orwell, nasce il 25 giugno 1903 a Motihari, nel Bengala, dove il padre, d'origine angloindiana, è funzionario statale presso l'Opium Department. La sua famiglia appartiene alla borghesia «alto-bassa», come la definirà lo stesso scrittore con sarcastica contraddizione. Al ruolo dominante e privilegiato degli amministratori britannici nelle colonie non corrisponde, infatti, un analogo status in Inghilterra. In India, i Blair si destreggiano a conciliare effettiva scarsità di mezzi e salvaguardia delle apparenze quando, nel 1904, Eric torna in patria con la madre e le due sorelle e si stabilisce a Henley-on-Thames. Iscritto nell'esclusivo college St. Cyprian di Eastbourne, ne esce con una borsa di studio e un opprimente complesso d'inferiorità, come racconta nel saggio autobiografico E tali, tali erano le gioie del 1947. Né riuscirà a integrarsi nel clima altrettanto snob, seppur meno gretto, di Eton, dove è ammesso nel 1917. Il senso di sradicamento è probabilmente alla base della sua decisione di seguire le orme paterne arruolandosi nel 1922 nella Polizia imperiale indiana a Mandalay, in Birmania. Pur se ispirerà il suo primo romanzo (in ordine di composizione, ma edito solo nel '34), Giorni in Birmania, l'esperienza si rivela traumatica. Diviso fra il crescente disgusto per l'arroganza imperialista e la funzione repressiva che il suo ruolo gli impone, Eric si dimette nel 1928. Nello stesso anno parte per Parigi. Il suo non è solo un pellegrinaggio nella capitale intellettuale, ma una vera e propria esplorazione dei bassifondi, dove sopravvive grazie alla carità dell'Esercito della Salvezza, sobbarcandosi lavori umilissimi. Un'avventura che continuerà subito dopo anche in patria e accenderà estro al romanzo d'esordio, Senza un soldo a Parigi e a Londra, pubblicato nel '33 con il nome di George Orwell. Tra il 1932 e il 1936 alterna alle fatiche di romanziere quelle di insegnante e di commesso di libreria, che entreranno nelle descrizioni d'ambiente dei due romanzi successivi, La figlia del reverendo del '35 e Fiorirà l'aspidistra del '36. Su commissione del Left Book Club, un'associazione culturale filosocialista, svolge un'indagine nelle zone più colpite dalla depressione economica, che lo porterà, nei primi mesi del '36 tra i minatori dell'Inghilterra settentrionale. Le loro misere condizioni saranno descritte in La strada di Wigan Pier (pubblicato nel '37). Sempre nel '36 sposa in giugno Eileen O'Shaughnessy, impiegata al ministero dell'Informazione, e parte in dicembre come volontario per la guerra di Spagna, raccontata nel diario-reportage edito nel '38, Omaggio alla Catalogna. A Barcellona si arruola nelle file del Poum (Partito operaio d'unificazione marxista, d'ispirazione trotzkista) ed è inviato sul fronte aragonese. Colpito alla gola da un cecchino franchista rientra a Barcellona. Ma il clima politico è mutato. Con il prevalere della linea del Fronte Popolare e del partito comunista nel governo repubblicano il Poum e gli anarchici sono dichiarati fuorilegge e Orwell deve lasciare la Spagna quasi clandestinamente. Del '39 è il romanzo Una boccata d'aria. Respinto come inabile allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruola nel '40 nelle milizie territoriali della Home Guard. Gli anni dal '41 al '46 lo trovano a Londra dove collabora a giornali e riviste («Partisan Review», «New Statesman and Nation», «Poetry London»), cura per la Bbc una serie di trasmissioni propagandistiche dirette all'India, è direttore letterario del settimanale socialista «Tribune», che gli affida una rubrica (As I please, A modo mio). Nel '45, anno in cui muore la moglie, è in Francia, Germania, Austria come corrispondente dell'«Observer». Sempre nel '45 appare il romanzo del successo, La fattoria degli animali. A metà aprile del '46, sospesa per sei mesi la collaborazione con i giornali, dà inizio alla stesura del libro che diventerà 1984. del prossimo millennio — dove, invece, s'ambientano gli altri campioni dell'escatologia negativa del '900, Il mondo nuovo di Huxley e Noi di Zamjatin — ma addirittura un anno del suo stesso secolo, ottenuto semplicemente invertendo le cifre finali della data di composizione, 1948, del romanzo. Quindi una lettura che insista sull'aspetto «profetico» di 1984 — inevitabile apogeo delle monumentali celebrazioni che sono state promosse dai media allo scoccare della data orwelliana — rischia d'essere sviante. La valutazione di 1984 sulla base dell'effettiva esistenza di stati totalitari, d'uno strapotere dei mezzi di comunicazione, d'una tecnologia alienante — o di quant'altro si è voluto identificare come la maggiore intuizione orwelliana — non dovrebbe oscurarne il carattere di monito, valido per ogni futuro. Bibliografia Prima edizione: Nineteen Eighty-Four, Londra 1949. Saggi su 1984 accessibili in italiano: E. Cecchi, Il «1984» di G. Orwell, in Scrittori Inglesi e Americani, vol. II, Milano 1964. A. Deidda, «1984». «Before we forget», in R. Bertinetti, A. Deidda, M. Domenichelli, L'infondazione di Babele. L'Antiutopia, Milano 1983. S. Manferlotti, Pozzo di Babele. Parola e morte in «1984», in «Belfagor», XXXIX, Firenze 1984, pp. 397-408. J.R. Sneyder, «1984»: antiutopia, linguaggio, storia, in «Alfabeta», 57, 1984. F. Marroni — C. Pagetti — O. Palusci (a cura di), George Orwell «1984». Un romanzo del nostro tempo, Pescara 1986. L. Russo (a cura di), Orwell: «1984», Palermo 1986. G. Bulla, Il muro di vetro. «Nineteen Eighty-Four» e l'ultimo Orwell, Roma 1989. Inoltre: l'introduzione George Orwell di A. Chiaruttini a 1984, Milano 1973; l'introduzione Orwell o dell'energia visionaria di U. Eco a 1984, Milano 1984. Saggi su George Orwell accessibili in italiano: M.L. Astaldi, George Orwell critico e saggista, in «Ulisse», giugno 1950. G. Pampaloni, Ritratto sentimentale di George Orwell, in «Il Ponte», VII, maggio 1951. A. Garosci, George Orwell, in Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Torino 1959. E. Cecchi, La fattoria degli animali e Conversazioni con G. Orwell, in Scrittori Inglesi e Americani, vol. II, Milano 1964. J. Gross, Questo è George Orwell, in «La Fiera Letteraria», 24 ottobre 1968. J. Gross, Antiquato sì, ma fedele alle mie idee, in «La Fiera Letteraria», 31 ottobre 1968. R. Runcini, George Orwell o l'inutile dilemma della salvezza, in Illusione e paura nel mondo borghese. Da Dickens a Orwell, Bari 1968. M.T. Chialant, Dickens, Gissing e Orwell, in «Annali dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli», sezione Germanica, 12, 1969. E. Croce, George Orwell, in «Settanta», 22, marzo 1972. G. Zanmarchi, Invito alla lettura di George Orwell, Milano 1975. F. Moretti, Letteratura e ideologie negli anni Trenta inglesi, Bari 1976. F. Marroni, The Road to Wigan Pier: fallimento di una ricerca, in «Studi inglesi», V, 1978. F. Livorsi, Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin, Torino 1979. S. Manferlotti, George Orwell, Firenze 1979. F. Ferrara, La lotta contro il leviatano. L'analisi dei sistemi culturali e dei conflitti fra individuo e potere nell'opera narrativa di George Orwell, Napoli 1981. R. Williams, Orwell, Milano 1990. B. Crick, George Orwell, Bologna 1991. Inoltre: la prefazione di G. Monicelli George Orwell, scrittore del nostro tempo per La fattoria degli animali, Milano 1947; la presentazione di G. Zanmarchi per Giorni in Birmania, Milano 1975; la prefazione di E. Giachino per la raccolta di saggi e scritti miscellanei Tra sdegno e passione, Milano 1977. 1984 PARTE PRIMA I Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui. L'ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini. A una delle estremità era attaccato un manifesto a colori, troppo grande per poter essere messo all'interno. Vi era raffigurato solo un volto enorme, grande più di un metro, il volto di un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli. Winston si diresse verso le scale. Tentare con l'ascensore, infatti, era inutile. Perfino nei giorni migliori funzionava raramente e al momento, in ossequio alla campagna economica in preparazione della Settimana dell'Odio, durante le ore diurne l'erogazione della corrente elettrica veniva interrotta. L'appartamento era al settimo piano e Winston, che aveva trentanove anni e un'ulcera varicosa alla caviglia destra, procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a riprendere fiato. Su ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell'ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo che, quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL grande fratello VI guarda, diceva la scritta in basso.1 All'interno dell'appartamento una voce pastosa leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa grezza. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio oscurato, incastrata nella parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò notevolmente, anche se le parole si potevano ancora distinguere. Il volume dell'apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato, ma non vi era modo di spegnerlo. Winston si avvicinò alla finestra: era una figura minuscola, fragile, la magrezza del corpo appena accentuata dalla tuta azzurra che costituiva l'uniforme del Partito. Aveva i capelli biondi, il colorito del volto naturalmente sanguigno, la pelle resa ruvida dal sapone grezzo, dalle lamette smussate e dal freddo dell'inverno appena trascorso. Fuori il mondo appariva freddo, perfino attraverso i vetri chiusi della finestra. Giù in strada piccoli mulinelli di vento facevano roteare spirali di polvere e di carta straccia e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse di un azzurro vivo, sembrava che non vi fosse colore nelle cose, se si eccettuavano i manifesti incollati per ogni dove. Il volto dai baffi neri guardava fisso da ogni cantone. Ve ne era uno proprio sulla facciata della casa di fronte. il grande fratello vi guarda, diceva la scritta, mentre gli occhi scuri guardavano in fondo a quelli di Winston. Più giù, a livello di strada, un altro manifesto, strappato a uno degli angoli, sbatteva al vento con ritmo irregolare, coprendo e scoprendo un'unica parola: SOcing. In lontananza un elicottero volava a bassa quota sui, tetti, si librava un istante come un moscone, poi sfrecciava via disegnando una curva. Era la pattuglia della polizia, che spiava nelle finestre della gente. Ma le pattuglie non avevano molta importanza. Solo la Per chi, si chiese a un tratto, scriveva quel diario? Per il futuro, per gli uomini non ancora nati. La sua mente indugiò per un attimo su quella data dubbia fissata sulla pagina, poi andò a cozzare contro la parola in neolingua bipensiero. Solo allora si rese pienamente conto di quanto fosse temerario ciò che aveva intrapreso. Come fare a comunicare col futuro? Era una cosa di per se stessa impossibile. O il futuro sarebbe stato uguale al presente, nel qual caso non l'avrebbe ascoltato, o sarebbe stato diverso, e allora le sue asserzioni non avrebbero avuto senso. Per qualche tempo restò come intontito a fissare la pagina, mentre dal teleschermo proveniva una stridula marcia militare. Era curioso che non solo avesse dimenticato come esprimersi, ma che non sapesse neanche più che cosa voleva dire originariamente. Erano settimane che si preparava a questo momento, e aveva sempre pensato che ci volesse solo del coraggio. L'atto della scrittura sarebbe stato facile. Non avrebbe dovuto fare altro che riportare sulla carta quel monologo diuturno e inquieto che da anni, letteralmente, gli scorreva nella mente. Ora, però, anch'esso si era prosciugato. L'ulcera varicosa, inoltre, aveva cominciato a prudergli in maniera insopportabile. Non osava grattarsela perché, a farlo, si sarebbe certamente infiammata. I secondi passavano. Aveva coscienza soltanto della pagina vuota davanti a sé, della pelle della caviglia che gli prudeva, dello strepitio della musica e di una leggera sonnolenza indotta dal gin. All'improvviso prese a scrivere, in preda al panico più puro, consapevole solo in parte di quello che stava buttando giù. La sua calligrafia piccola e infantile si muoveva in maniera disordinata per la pagina, dapprima trascurando le maiuscole, poi anche i punti fermi. 4 aprile 1984. Ieri sera al cinema. Solo film di guerra. Uno ottimo di una nave piena di rifugiati bombardata da qualche parte nel Mediterraneo. Il pubblico molto divertito dalla scena di un grassone grande e grosso che cercava di sfuggire a un elicottero che lo inseguiva. Lo si vedeva prima sguazzare nell'acqua come un delfino, poi attraverso i congegni di mira dell'elicottero, dopodiché era pieno di buchi e il mare attorno a lui diventava rosa ed egli affondava all'improvviso come se i buchi avessero fatto entrare l'acqua. il pubblico dette in grosse risate quando l'uomo affondò. poi si vedeva una scialuppa di salvataggio piena di bambini con un elicottero che le volteggiava sopra. c'era una donna di mezz'età forse un'ebrea seduta a prua con un bambino di tre anni fra le braccia. il bambino strillava dalla paura e nascondeva la testa fra i seni della madre come se volesse scavarsi un rifugio nel suo corpo e la donna lo abbracciava e lo confortava anche se era anch'essa folle di terrore, coprendolo per quanto poteva come se le sue braccia potessero allontanare da lui i proiettili. poi l'elicottero sganciò una bomba da 20 chili che li prese in pieno un bagliore terribile poi la barca volò in mille pezzi. poi ci fu una bellissima inquadratura del braccio di un bambino che andava su su su nell'aria doveva averlo seguito un elicottero con una cinepresa sul muso e uno scroscio di applausi si levò dai posti riservati ai membri del Partito ma una donna nel settore destinato ai prolet cominciò a fare un gran baccano gridando che non dovevano far vedere queste cose ai bambini no finché la polizia non l'ha buttata fuori credo che non le sia successo nulla nessuno si preoccupa di quello che dicono i prolet era stata una reazione tipica dei prolet loro non... Winston smise di scrivere, anche perché gli era venuto un crampo alla mano. Non sapeva che cosa lo avesse indotto a buttar giù quella robaccia, ma il fatto curioso era che mentre scriveva gli era affiorato alla mente un ricordo del tutto diverso, in maniera così nitida che quasi sentiva di poterlo descrivere con accuratezza. Anzi, ora si rendeva conto che era stato proprio quell'avvenimento a spingerlo a tornare a casa in anticipo e a dare inizio al suo diario. Era accaduto (sempre che si potesse dire che un qualcosa di così indistinto fosse realmente accaduto) quella mattina al Ministero. Erano quasi le undici e nell'Archivio dove lavorava Winston stavano tirando le sedie fuori dai cubicoli per raggnipparle al centro della sala, di fronte al grande teleschermo, in preparazione dei Due Minuti d'Odio. Winston stava giusto prendendo posto in una delle file centrali, quando inaspettatamente erano entrate due persone che lui conosceva di vista, ma a cui non aveva mai rivolto la parola. Una era una ragazza che aveva spesso incontrato nei corridoi. Ne ignorava il nome, ma sapeva che lavorava al Reparto Finzione. Forse (infatti l'aveva vista qualche volta con una chiave inglese in mano, le dita unte di grasso) aveva qualche incarico di natura puramente meccanica relativo a una di quelle macchine scrivi-romanzi. Era una ragazza dall'aria risoluta, di circa ventisette anni, folti capelli neri, la faccia punteggiata di lentiggini e movimenti rapidi, atletici. Una sottile fascia scarlatta, simbolo della Lega Giovanile Antisesso, le girava più volte intorno alla vita, sufficientemente stretta per mettere in mostra la forma armoniosa dei fianchi. Winston l'aveva detestata dal primo momento in cui l'aveva vista, e sapeva anche il perché: era a motivo di quell'aria da campi di hockey, bagni freddi, gite di gruppo e indefettibile rigore morale che emanava dalla sua persona. Detestava quasi tutte le donne, soprattutto quelle giovani e graziose. Erano infatti le donne — e specialmente le più giovani — a fornire al Partito i suoi affiliati più bigotti, pronte com'erano a ingoiare ogni slogan, a prestarsi a fare le spie dilettanti e le scopritrici dei comportamenti eterodossi. Questa ragazza, in particolare, gli dava l'impressione di essere più pericolosa delle altre. Una volta, mentre percorrevano il corridoio, lei gli aveva lanciato una rapida occhiata obliqua, come se volesse attraversarlo da parte a parte. Per un istante si era sentito prendere dal terrore. Aveva perfino pensato che potesse essere un'agente della Psicopolizia, anche se la cosa era assai improbabile. In ogni caso, tutte le volte che la ragazza si trovava nelle sue vicinanze, lui continuava ad avvertire un certo disagio, un misto di paura e ostilità. L'altra persona era un uomo di nome O'Brien, membro del Partito Interno e titolare di un qualche incarico così importante e inattingibile, che Winston se ne poteva fare solo un'idea vaga. Per un attimo, nel vedere l'uniforme nera di un membro del Partito Interno che si avvicinava, un mormorio percorse le file di quanti si affaccendavano attorno alle sedie. O'Brien era un uomo corpulento, tarchiato, con il collo largo, il volto tozzo e brutale, ma non privo di una certa arguzia. Malgrado l'aspetto terrificante, i suoi modi erano garbati. Aveva il vezzo di riaggiustarsi di continuo gli occhiali sul naso: un gesto curiosamente disarmante perché, per qualche strano motivo, lo si associava a una persona beneducata; un gesto che, se fosse stato possibile pensare in questi termini, avrebbe potuto evocare un gentiluomo del Settecento che offrisse una presa dalla sua tabacchiera. Winston lo aveva visto sì e no una dozzina di volte in altrettanti anni. Si sentiva profondamente attratto da lui, e non solo perché era incuriosito dal contrasto fra i modi urbani che esibiva e il suo fisico da pugile. Molto più lo affascinava la segreta convinzione (ma forse era una speranza, più che una convinzione) che l'ortodossia politica di O'Brien non fosse perfetta. Qualcosa nel suo volto pareva suggerirlo in maniera irresistibile. O forse a essergli stampata in faccia non era tanto l'eterodossia ma, semplicemente, l'intelligenza. In ogni caso, sembrava una persona con cui fosse possibile discutere, ammesso che si riuscisse a ingannare il teleschermo e trovarsi faccia a faccia con lui. Winston non aveva mai tentato, neanche minimamente, di verificare la veridicità della sua ipotesi. In realtà, non ce n'era neanche il modo. In quel momento O'Brien dette un'occhiata al suo orologio, vide che erano quasi le undici e fu chiaro che aveva deciso di trattenersi nell'Archivio fino alla fine dei Due Minuti d'Odio. Si sedette nella stessa fila di Winston, a un paio di posti di distanza da lui. Li divideva una donna minuta, dai capelli color sabbia, che lavorava nel cubicolo accanto a quello di Winston. La ragazza dai capelli neri era seduta proprio dietro di loro. Un attimo dopo, dal teleschermo in fondo alla sala esplose uno stridio lacerante, terribile, come se a produrlo fosse stata una qualche mostruosa macchina mal lubrificata, un rumore che allegava i denti e faceva rizzare i capelli in testa. L'Odio era cominciato. Come al solito, era apparso sullo schermo il volto di Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo. Dal pubblico venne qualche fischio. La donna dai capelli color sabbia emise una specie di gemito, nel quale si mescolavano paura e disgusto. Goldstein era l'apostata, il traditore che tanto, tanto tempo fa (nessuno ricordava quanto) era stato una personalità fra le più insigni del Partito, addirittura quasi allo stesso livello del Grande Fratello, ma poi si era impegnato in attività controrivoluzionarie ed era stato condannato a morte. Dopodiché era evaso e misteriosamente scomparso. Il programma dei Due Minuti d'Odio cambiava ogni giorno, ma Goldstein ne era sempre l'interprete principale. Era il traditore per antonomasia,3 il primo ad aver contaminato la purezza del Partito. Tutti i crimini commessi successivamente contro il Partito, tutti i tradimenti, gli atti di sabotaggio, le eresie, le deviazioni, erano un'emanazione diretta del suo credo. Egli era tuttora vivo in qualche parte del mondo, a tramare le sue cospirazioni. Forse si trovava in qualche Paese al di là del mare, al soldo e sotto la protezione dei suoi padroni stranieri. Forse, così correva talvolta voce, se ne stava nascosto nella stessa Oceania. Winston avvertì una stretta al diaframma. Non riusciva a guardare la faccia di Goldstein senza provare un miscuglio di emozioni che gli dava sofferenza. Goldstein aveva uno scarno volto da ebreo, incorniciato da un'ampia e crespa aureola di capelli bianchi e da una barbetta caprina: un volto intelligente e però in qualche modo spregevole, al quale il naso lungo e sottile, su cui poggiava un paio di occhiali, conferiva una certa aria di demenza senile. Sembrava la faccia di una pecora, e anche la voce somigliava a un belato. Ora Goldstein stava rivolgendo il solito attacco velenoso alle dottrine del Partito, un attacco così eccessivo e iniquo che non avrebbe tratto in inganno neanche un bambino e purtuttavia plausibile quanto bastava a trasmettere l'allarmante sensazione che potesse far presa su persone sufficientemente credule e ingenue. Insultava il Grande Fratello, denunciava la dittatura del Partito, esigeva la rottura immediata della pace con l'Eurasia, chiedeva a gran voce libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero, con toni isterici urlava che la Rivoluzione era stata tradita, parlando concitatamente ed esprimendosi in uno stile polisillabico che suonava come una parodia del modo di parlare tipico dei membri del Partito e nel quale non mancava, addirittura, qualche parola in neolingua. A dire il vero, ne conteneva più di quante un membro del Partito ne avrebbe usate normalmente. Nel frattempo sul teleschermo alle sue spalle, per sciogliere ogni dubbio sui fini reconditi del suo capzioso sproloquio, marciavano le sterminate colonne dell'esercito eurasiatico: una fila dopo l'altra di uomini massicci, con inespressive facce asiatiche, che passavano a ondate sulla superficie dello schermo e poi sparivano, solo per essere subito sostituiti da altri uomini perfettamente uguali a loro. Il passo battuto dagli stivali dei soldati, monotono e ritmato, faceva da sfondo sonoro alla voce belante di Goldstein. L'Odio era iniziato da meno di trenta secondi e già da una buona metà dei presenti prorompevano incontrollabili manifestazioni di collera. Quella tronfia faccia ovina sul teleschermo e la terribile possanza dell'esercito eurasiatico alle sue spalle andavano al di là di ogni limite di sopportazione. In aggiunta a ciò, la vista di Goldstein, o addirittura il solo pensare a lui, producevano automaticamente sentimenti di paura e di rabbia. Goldstein costituiva un oggetto costante d'odio, anche più dell'Eurasia o dell'Estasia, perché quando l'Oceania era in guerra con una di queste potenze, in genere era in pace con l'altra. E però era strano che, sebbene Goldstein fosse il bersaglio dell'odio e del disprezzo collettivo, sebbene ogni giorno e per migliaia di volte, dall'alto di un podio o da un teleschermo, in libri o giornali, le sue teorie venissero confutate, fatte a pezzi, ridicolizzate ed esposte al pubblico ludibrio per quella spazzatura che erano, malgrado tutto ciò, la sua influenza non sembrava subire colpi. Vi erano sempre dei gonzi nuovi in attesa di essere sedotti da lui, né passava giorno senza che la Psicopolizia smascherasse spie e sabotatori che agivano sotto le sue direttive. Era il comandante in capo di un enorme esercito ombra, di una rete sotterranea di cospiratori votati al sovvertimento dello Stato. Pare che si chiamasse la Confraternita. Si mormorava anche dell'esistenza di un libro terribile, una sorta di compendio di tutte le eresie, di cui Goldstein era l'autore e che circolava in copie clandestine. Non aveva titolo. Per la gente era, semplicemente, il libro. Ma queste cose erano soltanto il frutto di dicerie indistinte: a meno che non fosse impossibile evitarlo, tanto la Confraternita che il libro erano argomenti che nessun membro ordinario del Partito avrebbe mai menzionato. Nel secondo minuto, l'Odio raggiunse il parossismo. I presenti si sedevano e balzavano in piedi di continuo, urlando con tutte le loro forze nel tentativo di coprire l'esasperante belato che proveniva dal teleschermo; la donna dai capelli color sabbia si era fatta tutta rossa in faccia, mentre la bocca le si apriva e chiudeva come quella di un pesce tirato fuori dall'acqua. Perfino il tozzo volto di O'Brien si era infiammato. Sedeva ben dritto al suo posto, col petto poderoso che si gonfiava e fremeva come se dovesse reggere l'impatto di un'onda. La ragazza dai capelli neri che sedeva alle spalle di Winston aveva cominciato a urlare: «Porco! Porco! Porco!». A un tratto afferrò un pesante dizionario di neolingua e lo scagliò contro lo schermo: il volume colpì il naso di Goldstein, poi rimbalzò via, mentre la voce seguitava inesorabilmente a farsi sentire. In un momento di lucidità Winston si rese conto che stava gridando come tutti gli altri, Non lo fece perché sapeva che era inutile. Che scrivesse o meno abbasso il grande fratello!, non faceva differenza alcuna. Che continuasse o meno a tenere il diario, non faceva differenza alcuna: la Psicopolizia lo avrebbe preso lo stesso. Aveva commesso (e l'avrebbe fatto anche se non l'avesse mai messo nero su bianco) quel reato fondamentale che conteneva dentro di sé tutti gli altri. Lo chiamavano psicoreato. Era un delitto che non si poteva tenere celato per sempre: potevate scamparla per un po', anche per anni, ma era sicuro al cento per cento che prima o poi vi avrebbero preso. Accadeva sempre di notte. Gli arresti venivano eseguiti sempre di notte: il risveglio improvviso e violento, una mano brutale che vi scuoteva la spalla, la luce delle torce elettriche che vi abbagliava gli occhi, il cerchio di facce dure intorno al letto. Nella gran parte dei casi non si celebravano processi, né si stendevano resoconti dell'arresto. La gente semplicemente spariva, e sempre di notte. Il nome dell'arrestato veniva cancellato dagli archivi, ogni traccia di quello che aveva fatto nel corso della sua vita veniva rimossa, la sua stessa esistenza di un tempo veniva prima negata, quindi dimenticata. L'arrestato era eliminato, annientato. La parola giusta era vaporizzato. Per un attimo lo prese una sorta di frenesia isterica. Cominciò a scrivere, scarabocchiando in fretta e alla bell'e meglio le seguenti parole: mi spareranno non me ne importa nulla mi tireranno un colpo alla nuca non me ne importa nulla abbasso il grande fratello ti tirano sempre un colpo alla nuca non me ne importa nulla abbasso il grande fratello... Si appoggiò allo schienale della sedia, un po' vergognandosi di se stesso, e posò la penna. Un attimo dopo trasalì violentemente. Qualcuno stava bussando alla porta. Erano già qui! Restò seduto, immobile come un topo, nella futile speranza che, chiunque fosse, potesse andare via dopo il primo tentativo. Ma non fu così, si udì di nuovo bussare. Indugiare sarebbe stata la cosa peggiore. Il cuore gli batteva in petto come un tamburo, ma probabilmente, in virtù della lunga abitudine, la faccia era rimasta priva di qualsiasi espressione. Si alzò, avviandosi a passi pesanti verso la porta. II Mentre stava per spingere la maniglia della porta, Winston si accorse di aver lasciato il diario aperto sul tavolo. Le parole abbasso il grande fratello! lo percorrevano in lungo e in largo e le lettere erano così grandi che potevano essere lette da un capo all'altro della stanza. Non avrebbe potuto fare una cosa più stupida. Tuttavia si rese conto che neanche il panico aveva potuto indurlo a imbrattare quella bella carta vellutata, chiudendo il quaderno quando l'inchiostro non si era ancora asciugato. Trattenne il respiro e aprì la porta. Immediatamente un'ondata di sollievo lo avvolse. Sulla soglia vi era una donnetta insignificante, dall'aria disfatta, i capelli troppo sottili e una faccia piena di rughe. «Compagno» cominciò a dire in un tono di voce monotono e lamentoso, «mi era parso di sentire che eri rientrato. Potresti venire a dare un'occhiata al lavello della cucina? Si è otturato e...» Era la signora Parsons, la moglie di un vicino che abitava sullo stesso piano. (Per la verità, il Partito non approvava l'uso della parola "signora". Nel rivolgersi agli altri si dovevano utilizzare gli appellativi "compagno" e "compagna", ma con alcune donne la parola "signora" si usava istintivamente.) Era una donna sui trent'anni, ma ne dimostrava molti di più. Si aveva l'impressione che le rughe del volto fossero piene di polvere. Winston la seguì sul ballatoio. Queste riparazioni estemporanee erano una seccatura quasi quotidiana. Gli Appartamenti Vittoria erano case vecchie, costruite prima del 1930, e cadevano a pezzi. L'intonaco si staccava continuamente dalle pareti, le condutture scoppiavano a ogni gelata, dal tetto colava acqua tutte le volte che nevicava, il riscaldamento funzionava a scartamento ridotto, sempre che per motivi di risparmio non fosse spento del tutto. Le riparazioni, nel caso non foste in grado di provvedere da soli, dovevano ricevere l'approvazione di commissioni misteriose, che potevano differire di un paio d'anni perfino la riparazione del vetro di una finestra. «Scusa se ti disturbo» disse la signora Parsons con una certa indecisione nella voce, «ma Tom non è in casa.» L'appartamento dei Parsons era più grande di quello di Winston, ma ciò che lo distingueva dal suo era un diverso tipo di squallore. Sembrava che ogni oggetto fosse stato battuto e calpestato, come se nella casa avesse imperversato un qualche grosso animale. Sul pavimento erano sparsi attrezzi e indumenti sportivi (bastoni da hockey, guanti da pugilato, un pallone sgonfio, un paio di calzoncini sudati e girati alla rovescia), mentre il tavolo ospitava, nella più grande confusione, una messe di piatti sporchi e quaderni sgualciti. Alle pareti, gli stendardi rossi della Lega della Gioventù e delle Spie, e un manifesto a grandezza naturale del Grande Fratello. Si respirava il solito fetore di cavolo bollito che avvolgeva l'intero fabbricato, ma a questo si sovrapponeva il lezzo del sudore di una persona che in quel momento era assente. Lo si avvertiva nelle narici, anche se non si riusciva a capire come fosse possibile una cosa del genere. In un'altra stanza qualcuno stava tentando, con un pettine e un pezzo di carta igienica, di andare a tempo con la musica militare proveniente dal teleschermo. «Sono i bambini» disse la signora Parsons, gettando uno sguardo leggermente inquieto alla porta. «Oggi non sono usciti, e allora...» Aveva l'abitudine di lasciare sempre le frasi a metà. Il lavello della cucina era pieno fin quasi all'orlo di una sporca acqua verdastra che puzzava perfino più del cavolo. Winston s'inginocchiò ed esaminò la giuntura ad angolo del tubo. Odiava usare le mani nude, odiava inginocchiarsi, perché questo lo faceva sempre tossire. La signora Parsons stava a guardare con aria impotente. «Se Tom fosse in casa, lo aggiusterebbe in un momento» disse. «Adora fare queste cose. Nei lavori manuali è bravissimo.» Parsons lavorava con Winston al Ministero della Verità. Era un uomo grassoccio ma dinamico, di una stupidità sconfortante, un concentrato di entusiasmo imbecille, uno di quegli sgobboni adoranti e votati alla più cieca obbedienza sui quali, più ancora che sulla Psicopolizia, si reggeva la stabilità del Partito. All'età di trentacinque anni l'avevano buttato fuori, recalcitrante, dalla Lega della Gioventù, ma prima di ricevere il suo bravo diploma era riuscito a restare nel corpo delle Spie per un anno in più di quelli previsti dallo statuto. Al Ministero era impiegato in qualche lavoro subordinato per il quale l'intelligenza non era requisito indispensabile. Era però una figura di primo piano nel Comitato Sportivo e in tutti quei comitati che organizzavano gite in comitiva, dimostrazioni spontanee, campagne per il risparmio dì questo o di quello e attività di volontariato in genere. Con sereno orgoglio, fra un tiro e l'altro di pipa, v'informava che negli ultimi quattro anni non aveva mai mancato di fare una puntatina, la sera, al Centro Sociale. Un invincibile lezzo di sudore, quasi un'inconscia testimonianza della sua indefessa attività, lo seguiva dovunque andasse e restava dietro di lui quando si allontanava. «Hai una chiave inglese?» domandò Winston, armeggiando col dado della giuntura. «Una chiave inglese?» replicò la signora Parsons, afflosciandosi. «Non sono sicura, non so, forse i bambini...» Uno scalpiccio di piedi e un'altra soffiata di pettine accompagnarono l'entrata dei bambini in soggiorno. La signora Parsons arrivò con la chiave inglese. Winston fece defluire l'acqua e con un moto di disgusto rimosse il gomitolo di capelli che aveva intasato il tubo. Si pulì alla meglio le mani sotto l'acqua corrente e tornò nell'altra stanza. «Mani in alto!» strillò una voce selvaggia. Un bel bambino di nove anni dall'aria minacciosa era balzato da dietro il tavolo, puntandogli contro una pistola giocattolo, mentre la sorellina, di un paio d'anni più piccola, faceva lo stesso gesto con un pezzo di legno. Indossavano entrambi l'uniforme delle Spie, vale a dire calzoncini azzurri, camicie grigie e fazzoletti rossi al collo. Winston alzò le mani sul capo, ma con un certo disagio: i modi del bambino erano così rabbiosi, che quasi non sembrava un gioco. «Sei un traditore!» urlò il bambino. «Sei uno psicocriminale, una spia eurasiatica! Ti sparo, ti vaporizzo, ti mando alle miniere di sale!» All'improvviso si misero a saltargli intorno, gridando: «Traditore», «Psicocriminale!», con la bambina che imitava tutti i movimenti del fratello. La scena incuteva un certo timore, come se si trattasse del ruzzare di cuccioli di tigre, destinati a crescere in fretta e a diventare mangiatori d'uomini. Nello sguardo del bambino si poteva scorgere una sorta di deliberata ferocia, il desiderio palese di colpire o prendere a calci Winston, unito alla consapevolezza che presto avrebbe avuto la corporatura giusta per compiere un'azione del genere. Fortuna, pensò Winston, che non aveva in mano una pistola vera. Lo sguardo della signora Parsons andava nervosamente da Winston ai bambini e dai bambini a Winston. Alla luce più intensa del soggiorno, Winston si accorse che nelle rughe del suo volto vi era davvero della polvere. «Stanno facendo tutto questo chiasso» disse «perché non sono potuti andare a vedere l'impiccagione. Io ho troppo da fare per accompagnarli, e Tom torna troppo tardi dal lavoro.» «Perché non possiamo andare a vedere l'impiccagione?» tuonò il bambino con la sua voce stentorea. «Vogliamo vedere l'impiccagione! Vogliamo vedere l'impiccagione!» cantilenava la bambina, continuando a saltellare. Winston ricordò che quella sera alcuni prigionieri eurasiatici, che si erano macchiati di crimini di guerra, sarebbero stati impiccati nel parco. La scena, che si ripeteva circa una volta al mese, costituiva un'attrazione popolare. I bambini continuavano a gridare che volevano vedere l'impiccagione. Winston salutò la signora Parsons e si diresse verso la porta. Aveva fatto sì e no sei passi sul ballatoio, che qualcosa lo colpì dietro la nuca, facendogli un male del diavolo, come se vi avessero conficcato un ferro arroventato. Si voltò di scatto, appena in tempo per vedere la signora Parsons che tirava dentro il figlio, mentre il bambino intascava una fionda. «Goldstein!» ruggì il bambino mentre la porta si chiudeva. Ciò che più colpì Winston, però, fu l'espressione di terrore inerme sul volto grigiastro della donna. Tornato nell'appartamento, passò velocemente davanti al teleschermo e si rimise a sedere al tavolo, continuando a sfregarsi il collo. La musica proveniente dal teleschermo si era interrotta, sostituita da una voce militare che descriveva, con una sorta di perverso piacere e biascicando le parole, l'armamento della nuova Fortezza Galleggiante, ora all'ancora fra l'Islanda e le isole Faroer. Con figli come quelli, pensò, la povera donna doveva vivere nel terrore. Un anno, al massimo due, e sarebbero stati a osservarla giorno e notte, per cogliere il benché minimo segno di eterodossia. Al giorno d'oggi quasi tutti i bambini erano orribili. La cosa peggiore era che organismi come le Spie li trasformavano sistematicamente in tanti piccoli selvaggi ingovernabili, eppure tutto ciò non aveva mai l'effetto di renderli indocili alla disciplina del Partito. Al contrario, adoravano il Partito e tutto quello che lo riguardava. I canti, i cortei, gli stendardi, le gite, le esercitazioni coi fucili giocattolo, gli slogan, il culto del Grande Fratello, tutto ciò costituiva per i bambini un gioco meraviglioso. La loro ferocia era tutta incanalata verso l'esterno, verso i nemici dello Stato, gli stranieri, i traditori, i sabotatori, gli psicocriminali. Era quasi normale che le persone di età superiore ai trent'anni avessero paura dei propri figli. Non passava settimana, infatti, che il «Times» non contenesse un articolo su qualche orecchiuto spioncello (l'espressione usata in questi casi era "bambino eroe") che aveva captato un'osservazione compromettente nella conversazione dei genitori e perciò li aveva denunciati alla Psicopolizia. Il dolore al collo causato dal proiettile della fionda era piano piano sparito. Un po' rinfrancato, Winston sollevò la penna, chiedendosi che cos'altro poteva scrivere nel diario. A un tratto i suoi pensieri tornarono a O'Brien. Anni prima (non ricordava quanti, forse sette), aveva fatto un sogno. Stava attraversando una stanza immersa nel buio e qualcuno, che era seduto non lontano da lui, gli aveva detto mentre passava: "Ci incontreremo là dove non c'è tenebra". Queste parole erano state pronunciate con una calma assoluta, quasi con noncuranza, una semplice affermazione, non un ordine. Winston aveva proseguito, senza fermarsi neanche un attimo. La cosa strana era che nel corso del sogno quelle parole non lo avevano particolarmente impressionato. Solo in seguito, e gradualmente, avevano assunto un loro significato. Non ricordava se avesse visto O'Brien per la prima volta prima o dopo l'acqua che si abbuiava. Vi era ancora aria nel salone, loro potevano vedere lui e lui poteva vedere loro, ma continuavano a inabissarsi in quelle acque verdi che fra un attimo le avrebbero nascoste alla vista per sempre. Mentre venivano risucchiate verso la morte, egli si trovava all'aria e alla luce, anzi loro si trovavano laggiù proprio perché lui era lassù. Era consapevole di questo fatto, così come lo erano loro: glielo poteva leggere in faccia. Non vi era segno alcuno di rimprovero nei loro volti, né nei loro cuori, ma solo la consapevolezza che dovevano morire perché lui vivesse, e che ciò faceva parte dell'ordine ineluttabile delle cose. Non riusciva a ricordare che cosa fosse successo, ma sapeva, nel sogno, che in qualche modo le vite della madre e della sorella erano state sacrificate per salvare la sua. Era uno di quei sogni che, pur conservando tutto ciò che caratterizza il sogno, sono una continuazione della nostra vita interiore, dandoci coscienza di fatti e idee che continuano ad apparirci nuovi e meritevoli della nostra attenzione anche quando siamo svegli. Il pensiero che ora colpì Winston fu che la morte della madre si era verificata, quasi trent'anni prima, in circostanze tragiche e dolorose che adesso sarebbero state impossibili. Si rese conto che il tragico apparteneva a un tempo remoto, a un tempo in cui ancora esistevano la vita privata, l'amore, l'amicizia, a un tempo in cui i membri di una famiglia vivevano l'uno accanto all'altro senza doversene chiedere il motivo. Il ricordo di sua madre gli straziava il cuore, perché sapeva che era morta amandolo, quando lui era troppo piccolo ed egoista per amarla a sua volta, e perché in un certo senso, che gli sfuggiva, aveva sacrificato se stessa a un ideale di devozione privato e inalterabile. Oggi cose simili non sarebbero potute accadere. Oggi la paura, l'odio e il dolore c'erano ancora, ma non esistevano più pene profonde e complesse, né la dignità data dall'emozione. Tutto ciò gli sembrava di vedere nei grandi occhi della madre e della sorella, che volgevano a lui lo sguardo da quell'acqua verde, a centinaia di tese nell'abisso, mentre ancora affondavano. D'un tratto era in piedi su un prato tagliato di fresco, elastico sotto il piede, in una sera estiva, quando i raggi del sole, cadendo obliquamente, indorano il suolo. Questo paesaggio compariva così spesso nei suoi sogni, che non riusciva mai a essere certo di non averlo già visto nella vita reale. Nei suoi pensieri, da sveglio, lo chiamava il Paese d'Oro. Era un vecchio pascolo mordicchiato dai conigli e attraversato da un sentiero serpeggiante, con rialzi del terreno qua e là che rivelavano le tane delle talpe. Nella siepe brulla all'altra estremità del campo, i rami degli olmi ondeggiavano lievemente nella brezza, le foglie fluttuanti in fitte masse, come tante chiome di donna. Da qualche parte lì vicino, sebbene fosse nascosto alla vista, scorreva lentamente un ruscello dalle acque limpide, e nelle pozze sovrastate dai salici nuotavano le lasche. La ragazza dai capelli neri attraversava il campo e gli veniva incontro. Con quello che sembrava un unico movimento, si strappava gli abiti, gettandoli via da sé con fare sdegnoso. Aveva un corpo morbido e bianco, che però non aveva destato in lui alcun desiderio. L'aveva guardato appena. Ciò che in quell'istante lo aveva riempito d'ammirazione fu il gesto con cui la ragazza aveva allontanato da sé i vestiti. Con la sua grazia e noncuranza era parsa annientare un'intera cultura, un intero sistema di pensiero: come se con un solo, splendido movimento del braccio, si potessero spazzare via il Grande Fratello, il Partito e la Psicopolizia, scaraventandoli nel nulla. Anche quello era un gesto che apparteneva a un tempo remoto. Winston si svegliò con la parola "Shakespeare" sulle labbra. Dal teleschermo prorompeva un fischio assordante, che continuò imperterrito per trenta secondi. Erano le sette e quindici minuti, l'ora della sveglia per chi lavorava in ufficio. Facendosi coraggio, Winston balzò fuori dal letto, completamente nudo (i membri del Partito Esterno ricevevano solo tremila tagliandi l'anno per l'abbigliamento, e per un paio di pigiama ce ne volevano seicento) e afferrò una lurida maglietta e un paio di mutande appoggiate di traverso su una sedia. Fra tre minuti sarebbero cominciati gli Esercizi Ginnici. Winston fu scosso da un violento attacco di tosse, che lo prendeva quasi sempre subito dopo che si era alzato e gli svuotava talmente i polmoni, che poteva riprendere a respirare solo stendendosi sul dorso e inspirando più volte profondamente. La tosse gli aveva fatto gonfiare le vene e l'ulcera varicosa aveva ricominciato a prudergli. «Gruppo dai trenta ai quaranta!» guaì un'acuta voce femminile. «Gruppo dai trenta ai quaranta, ai vostri posti, per favore! Dai trenta ai quaranta!» Winston si mise sull'attenti davanti al teleschermo, dov'era già comparsa l'immagine di una donna piuttosto giovane, in tuta e scarpe da ginnastica, magra come uno scheletro ma muscolosa. «Piegate e stendete le braccia!» urlò. «Andate a tempo con me. U-uno, due, tre e quattro! U- uno, due, tre e quattro! Su, compagni, un po' di impegno! U-uno, due, tre e quattro! U-uno, due, tre e quattro!...» La fitta per l'attacco di tosse non aveva cacciato del tutto dalla mente di Winston l'impressione indotta dal sogno, anzi i ritmici movimenti dell'esercizio la avevano in un certo senso riprodotta. Mentre gettava meccanicamente le braccia in fuori, continuando a mantenere sul volto quell'espressione di cupa allegria che si riteneva appropriata agli Esercizi Ginnici, si sforzava di riportare il pensiero al periodo indistinto della sua infanzia. Era estremamente difficile. Se si andava oltre la seconda metà degli anni Cinquanta tutto veniva avvolto dalla nebbia. In assenza di autentiche documentazioni, perfino i contorni della propria vita divenivano sfocati. Ricordavate avvenimenti che ritenevate importanti e che con ogni probabilità non si erano mai verificati, ricordavate i dettagli di certi eventi ma non il contesto in cui avevano avuto luogo, ma vi erano anche lunghi spazi vuoti nei quali non riuscivate a collocare nulla. A quel tempo tutto era diverso, erano diversi perfino i nomi dei vari Paesi e i loro confini sulle carte geografiche. A quel tempo, per esempio, Pista Uno non si chiamava così. Si chiamava Inghilterra o Gran Bretagna, anche se Londra aveva sempre avuto questo nome, ne era quasi certo. Winston non riusciva assolutamente a ricordare un periodo in cui il paese non fosse stato in guerra, ma di certo durante la sua infanzia vi era stato un periodo di pace abbastanza lungo, perché fra le sue prime memorie vi era un'incursione aerea che sembrò aver colto tutti di sorpresa. Si trattava forse della volta in cui su Colchester era caduta la bomba atomica. Non ricordava l'attacco aereo nei dettagli, ma ricordava perfettamente la mano di suo padre che teneva stretta la sua mentre scendevano di corsa in un posto imprecisato sottoterra, sempre più giù, per una scala a chiocciola che risuonava sotto i piedi e che a un certo punto gli fece talmente dolere le gambe, che lui cominciò a piagnucolare e dovettero fermarsi per un po'. La madre, per quel suo modo lento e sognante di camminare, era rimasta molto indietro. Teneva in braccio la sua sorellina, o forse si trattava solo di un fagotto di coperte. Non era sicuro, infatti, che la bambina fosse già nata. Infine erano emersi in un luogo rumoroso e affollato, nel quale aveva riconosciuto una stazione della metropolitana. Ovunque sul lastricato c'erano persone sedute, mentre altre se ne stavano ammassate su quelli che sembravano letti a castello in metallo. Winston e la madre avevano trovato posto per terra, accanto a una coppia di vecchi che sedevano invece su un lettino. Il vecchio indossava un vestito nero di buon taglio e un cappello di panno con la visiera, un po' calato all'indietro, sì da mostrare i capelli bianchissimi. Aveva la faccia paonazza, gli occhi azzurri e pieni di lacrime. Puzzava di gin. Pareva che il lezzo gli uscisse dai pori della pelle al posto del sudore: si poteva perfino immaginare che quelle lacrime fossero gin puro. E tuttavia, pur essendo alticcio, stava soffrendo di una qualche pena vera e insopportabile. Nella sua innocenza di bambino, Winston comprese che doveva trattarsi di qualcosa di terribile, di irrimediabile, qualcosa che non era possibile perdonare. Ebbe anche l'impressione di sapere che cosa fosse. Qualcuno che quel vecchio amava, forse una nipotina, era rimasto ucciso. L'uomo continuava a dire, senza quasi fermarsi: «Non ci dovevamo fidare di loro, te l'avevo detto. Ecco che ci abbiamo ricavato a fidarci di loro. Lo dicevo da tempo, che non dovevamo fidarci di quei bastardi.» Ma chi fossero i bastardi di cui non avrebbero dovuto fidarsi, ora Winston non riusciva a ricordarlo. Da allora in poi la guerra era stata, letteralmente, continua, anche se a voler essere precisi non si era trattato sempre della medesima guerra. Per parecchi mesi, durante la sua infanzia, per le strade della stessa Londra si era svolta una confusa guerriglia urbana, di cui egli serbava in qualche caso un vivo ricordo. Tracciare la storia di quel periodo, precisare chi fossero, di volta in volta, gli antagonisti, sarebbe stato assolutamente impossibile, perché non esistevano documenti scritti, né testimonianze orali, che facessero menzione di schieramenti diversi da quello ora al potere. In questo momento, per esempio, nel 1984 (sempre che si trattasse del 1984), l'Oceania era in guerra con l'Eurasia e alleata con l'Estasia. In nessun discorso pubblico o privato si faceva riferimento a momenti in cui le tre potenze fossero state allineate diversamente, eppure Winston sapeva bene che solo quattro anni prima l'Oceania era stata in guerra con l'Estasia e alleata con l'Eurasia. Si trattava, comunque, di una nozione casuale, furtiva, dovuta solo al fatto che la sua memoria non era del tutto sotto controllo. A livello ufficiale, il cambiamento nelle alleanze non si era mai verificato: l'Oceania era in guerra con l'Eurasia, quindi l'Oceania era stata sempre in guerra con l'Eurasia. Il nemico contingente incarnava sempre il male assoluto; ne conseguiva che qualsiasi intesa con lui era impossibile, tanto nel passato che nel futuro. La cosa terribile, pensò per la milionesima volta mentre spingeva dolorosamente le spalle all'indietro (le mani sui fianchi, stava ora ruotando il corpo attorno alla vita, un esercizio che si presupponeva giovasse ai muscoli della schiena), la cosa terribile era che poteva essere tutto vero. Se il Partito poteva ficcare le mani nel passato e dire di questo o quell'avvenimento che non era mai accaduto, ciò non era forse ancora più terribile della tortura o della morte? Il Partito diceva che l'Oceania non era mai stata alleata dell'Eurasia. Lui, Winston Smith, sapeva che appena quattro anni prima l'Oceania era stata alleata dell'Eurasia. Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all'interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. "Chi controlla il passato" diceva lo slogan del Partito "controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato." E però il passato, sebbene fosse per sua stessa natura modificabile, non era mai stato modificato. Quel che era vero adesso, lo era da sempre e per sempre. Era semplicissimo, bastava conseguire una serie infinita di vittorie sulla propria memoria. Lo chiamavano "controllo della realtà". La parola in neolingua era: "bipensiero". «Riposo!» sbraitò l'istruttrice, anche se con voce un po' più cordiale. Winston lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e inspirò piano. La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell'atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l'unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all'occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Soprattutto, saper applicare il medesimo procedimento al procedimento stesso. Era questa, la sottigliezza estrema: essere pienamente consapevoli nell'indurre l'inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto. Anche la sola comprensione della parola "bipensiero" ne implicava l'utilizzazione. Dall'istruttrice era venuto di nuovo l'ordine di mettersi sull'attenti. «E ora vediamo chi di noi riesce a toccarsi le punte dei piedi!» disse in tono entusiasta. «Su, compagni, senza piegare le ginocchia! U-uno, due! U-uno, due!...» Winston odiava quell'esercizio, che gli causava fitte di dolore dai talloni fino ai glutei e che spesso finiva per scatenare un altro accesso di tosse. Il piccolo senso di piacere che fino a quel momento aveva accompagnato le sue riflessioni scomparve. Il passato, rifletté, non era stato solo modificato, era stato distrutto completamente. E difatti, com'era possibile fissare perfino i fatti più evidenti quando ne esisteva traccia solo nella propria memoria? Cercò di ricordare in quale anno aveva sentito parlare per la prima volta del Grande Fratello. Doveva essere successo durante gli anni Sessanta, ma esserne certi era impossibile. Nelle cronache del Partito, ovviamente, il Grande Fratello figurava come il leader e il guardiano della Rivoluzione fin dai suoi primordi. A poco a poco le sue imprese erano state sempre più spostate indietro nel tempo ed erano ormai ascritte ai favolosi anni Trenta e Quaranta, quando i capitalisti, coi loro strani cappelli a cilindro, ancora percorrevano le strade di Londra in macchinoni sfolgoranti o in carrozze con gli sportelli di vetro. Non vi era modo di sapere quanto di questa leggenda fosse vero e quanto inventato. Winston non ricordava nemmeno l'anno in cui il Partito stesso aveva cominciato a esistere. Era convinto di non aver udito la parola Socing prima del 1960, ma poteva anche darsi che fosse stata di uso corrente già prima di quella data nella sua forma in archelingua, e cioè istruzioni scritte che Winston riceveva e delle quali si sbarazzava non appena non gli servivano più non affermavano mai, né lasciavano dedurre, che si dovesse compiere un qualsiasi atto di falsificazione: facevano puntualmente riferimento a lapsus, errori tecnici, citazioni imprecise, errori di stampa che dovevano essere corretti per amore della precisione. In realtà, pensò Winston mentre rimetteva a posto le cifre fornite dal Ministero dell'Abbondanza, non si trattava neanche di falsificazione, ma solo della sostituzione di un'assurdità con un'altra. La massima parte del materiale col quale avevate a che fare non aveva relazione di sorta con alcunché nel mondo reale, nemmeno quel tipo di rapporto che perfino la menzogna esplicita può vantare. Le statistiche, tanto nella loro versione originaria che in quella rettificata, erano un puro e semplice parto della fantasia. In molti casi ve le dovevate cavare dal cervello da soli. Le proiezioni fatte dal Ministero dell'Abbondanza, per esempio, avevano fissato a 145 milioni di paia la produzione di scarpe per il trimestre in corso. Era poi pervenuta la notifica che la produzione effettiva era stata di 62 milioni. Winston, tuttavia, nel riscrivere la proiezione, aveva ridimensionato la cifra portandola a 57 milioni, in modo che si potesse dire, come al solito, che si era andati oltre la cifra stabilita. In ogni caso, 62 milioni era una cifra che non si accostava alla verità più di 57 o 145 milioni. Con ogni probabilità, non era stato prodotto neanche un paio di scarpe. Con probabilità anche maggiore, nessuno sapeva, né gli importava granché saperlo, quante paia di scarpe fossero state prodotte. Quello che tutti sapevano era che ogni trimestre veniva prodotto sulla carta un quantitativo astronomico di scarpe, mentre una buona metà della popolazione dell'Oceania andava a piedi nudi. Lo stesso valeva per ogni tipo di dato, piccolo o grande, per il quale esistesse una qualsiasi documentazione. Tutto svaniva in un mondo fitto di ombre, nel quale diventava incerto perfino in che anno si fosse. Winston si guardò intorno. Nel cubicolo di fronte al suo, un uomo dall'aria meticolosa, minuto, il mento incorniciato da poca barba, un certo Tillotson, lavorava di gran lena, con un giornale appoggiato sulle ginocchia e la bocca vicinissima al microfono del parlascrivi. Dava l'impressione di considerare quel che stava dicendo un segreto fra lui e il teleschermo. Alzò gli occhi, e i suoi occhiali fecero balenare uno sguardo ostile diretto a Winston. Winston lo conosceva appena e non aveva la più pallida idea di quale fosse il suo compito. Gli impiegati dell'Archivio erano poco inclini a parlare del proprio lavoro. Nella sala lunga e priva di finestre, con la sua doppia fila di cubicoli, l'ininterrotto fruscio della carte e il continuo ronzio delle voci che parlavano ai parlascrivi, vi erano una buona dozzina di persone che Winston non conosceva neanche per nome, sebbene ogni giorno le vedesse correre avanti e indietro per i corridoi o gesticolare a più non posso durante i Due Minuti d'Odio. Sapeva che nel cubicolo accanto al suo la donna coi capelli color sabbia sgobbava tutti i santi giorni a rintracciare e cancellare dai giornali i nomi di quelli che erano stati vaporizzati e che perciò si teneva per fermo che non fossero mai esistiti. Si trattava di una persona particolarmente adatta a un compito del genere, visto che anche suo marito era stato vaporizzato un paio d'anni prima. A qualche cubicolo di distanza un personaggio mite, inoffensivo e sognante di nome Ampleforth, con le orecchie ispide di peli e un talento straordinario nel manipolare rime e ritmi, era impegnato nel comporre le versioni adulterate (le chiamavano "testi definitivi") di poesie divenute offensive da un punto di vista ideologico, ma che per un motivo o per l'altro dovevano restare nelle antologie. E questa sala, con la sua cinquantina di impiegati, era solo una sottosezione; era, per così dire, solo una celletta nell'immensa e complessa geometria dell'Archivio. Di sopra, di sotto, da ogni lato, altri sciami di impiegati erano impegnati in una quantità inimmaginabile di mansioni. Vi erano gli enormi magazzini per la stampa, coi loro redattori, tipografi e studi con macchine all'avanguardia per la falsificazione delle fotografie. Vi era la sezione dedicata ai programmi televisivi, coi suoi tecnici, i suoi direttori di produzione, i suoi attori selezionati in base alla loro abilità nell'imitare le voci. Vi erano eserciti di addetti alla consultazione, il cui compito consisteva semplicemente nel compilare liste di libri e riviste da sequestrare. C'erano gli immensi depositi che contenevano i documenti corretti, e le fornaci nascoste dove venivano distrutti gli originali. Da qualche parte stavano i cervelli pensanti, rigorosamente anonimi, che coordinavano il tutto e fissavano le linee politiche che imponevano di preservare, falsificare o distruggere un determinato frammento del passato. A sua volta, poi, l'Archivio non era che un ramo del Ministero della Verità, il cui scopo primario non consisteva nel rifabbricare il passato, ma nel fornire ai cittadini dell'Oceania giornali, film, libri di testo, programmi televisivi, opere teatrali, romanzi, insomma nel fornire loro informazione, istruzione e divertimenti di ogni genere: si andava dalla statua allo slogan, dal poema lirico al trattato di biologia, dall'abbecedario al dizionario di neolingua. Il Ministero non aveva solo il compito di rispondere alle svariate esigenze del Partito, ma doveva anche ripetere l'intero procedimento a un livello inferiore, specificamente rivolto al proletariato. Un'intera catena di dipartimenti autonomi si occupava di letteratura, musica, teatro e divertimenti in genere per il proletariato. Vi si producevano giornali-spazzatura che contenevano solo sport, fatti di cronaca nera, oroscopi, romanzetti rosa, film stracolmi di sesso e canzonette sentimentali composte da una specie di caleidoscopio detto "versificatore". Non mancava un'intera sottosezione (Pornosez, in neolingua) impegnata nella produzione di materiale pornografico della specie più infima, che veniva spedito in pacchi sigillati, inaccessibile — eccezion fatta per quelli che ci lavoravano — ai membri del Partito. Mentre Winston lavorava, il tubo pneumatico aveva lasciato cadere altri tre messaggi, questioni semplici, di cui si liberò prima dell'interruzione per i Due Minuti d'Odio. Quando la cerimonia fu finita, ritornò al suo cubicolo, prese il dizionario di neolingua dallo scaffale, spostò da una parte il parlascrivi, si pulì gli occhiali e si dispose a sbrigare la pratica più importante della mattinata. Nella vita di Winston, le uniche occasioni di piacere gli erano offerte dal lavoro. Si trattava in genere di noiosa routine, ma di tanto in tanto si presentava qualche questione così difficile e intricata, che vi ci potevate perdere come nelle profondità di un problema matematico: operazioni di falsificazione delicate, in cui potevate contare solo sulla vostra conoscenza dei principi del Socing e su quello che verosimilmente il Partito si attendeva da voi. Qualche volta gli era stata persino affidata la rettifica di articoli di fondo del «Times». Srotolò il messaggio che prima aveva messo da parte. Diceva: times 3.12.1983 relaz ordinegiorno granfrat arcipiùsbuono rifer at nonpersone riscrivere totalm anteregistr sottoporre autsup In archelingua, o inglese standard, poteva essere reso così: La riproduzione dell'Ordine del giorno del Grande Fratello nel «Times» del 3 dicembre 1983 è estremamente insoddisfacente e fa riferimento a persone inesistenti. Riscrivere da cima a fondo e prima di archiviare sottoporre la bozza all'autorità superiore. Winston lesse attentamente l'articolo incriminato. A quanto pare, l'Ordine del giorno del Grande Fratello conteneva soprattutto un elogio della sfv, un'organizzazione che riforniva di sigarette e altri beni di conforto i marinai delle Fortezze Galleggianti. Un certo compagno Withers, membro di spicco del Partito Interno, aveva ricevuto una menzione speciale e una decorazione, l'Ordine del Gran Merito, Seconda Classe. Tre mesi dopo la sfv era stata sciolta, senza apparente motivo. Si poteva dedurne che Withers e sodali fossero caduti in disgrazia, ma di tutto ciò non vi era stato resoconto alcuno, né sulla stampa né in televisione. Non c'era nulla di strano, perché non accadeva quasi mai che chi si macchiava di crimini politici venisse processato o denunciato alla pubblica opinione. Le grandi purghe che coinvolgevano migliaia di persone, i processi pubblici di traditori e psicocriminali che prima di essere giustiziati rendevano le più abiette confessioni, erano eventi spettacolari, che avevano luogo al massimo una volta ogni due anni. In genere succedeva che chi incorreva nella disapprovazione del Partito spariva e basta, e non se ne sentiva parlare più. Non si aveva la più pallida idea di quale fosse il suo destino. In qualche caso, forse, non era nemmeno morto. Lasciando da parte i suoi genitori, almeno una trentina di persone che lui conosceva personalmente erano scomparse, chi prima chi dopo. Winston si grattò il naso con una graffetta. Nel cubicolo di fronte al suo, il compagno Tillotson era ancora acquattato con aria furtiva sul suo parlascrivi. Alzò un istante la testa. Di nuovo quel riflesso ostile sui suoi occhiali. Winston si chiese se Tillotson non stesse lavorando allo stesso caso. Era possibilissimo. Un compito così infido non sarebbe mai stato affidato a una sola persona. D'altra parte, se lo si fosse affidato a una commissione, sarebbe stato come ammettere apertamente che un processo di falsificazione era in atto. Con ogni probabilità, in quel momento almeno una dozzina di persone stavano lavorando a versioni rivali di quello che il Grande Fratello aveva veramente detto. Dopodiché qualche testa pensante del Partito Interno avrebbe scelto questa o quella versione e l'avrebbe fatta ristampare, mettendo in moto i complessi processi di verifiche incrociate imposti dalla circostanza. A quel punto la menzogna prescelta sarebbe passata nell'archivio permanente e sarebbe diventata verità. Winston non sapeva per quale motivo Withers fosse caduto in disgrazia. Forse per corruzione, o incompetenza, o forse perché il Grande Fratello si stava semplicemente liberando di un subordinato divenuto troppo popolare. Poteva anche darsi che Withers o qualcuno vicino a lui fosse divenuto sospetto di tendenze eterodosse. Ancora più probabilmente, tutto ciò era dovuto al fatto che purghe e vaporizzazioni costituivano fenomeni indispensabili alla dinamica del Partito. L'unico indizio concreto era offerto dalle parole "rifer nonpersone", da cui si evinceva che Withers era già morto, una conclusione alla quale non si poteva giungere automaticamente quando le persone venivano arrestate. A volte, infatti, venivano rilasciate, consentendo loro uno o due anni di libertà prima di giustiziarle. In casi più rari qualcuno che si reputava morto da tempo riappariva, come un fantasma, in qualche pubblico processo in cui coinvolgeva centinaia di altre persone prima di sparire nuovamente, questa volta per sempre. Withers, comunque, era già una nonpersona: non esisteva, non era mai esistito. Winston decise che non sarebbe stato sufficiente capovolgere le direttrici del discorso del Grande Fratello. Era meglio dargli dei contenuti totalmente nuovi, che non avessero nulla a che fare col soggetto originario. Poteva far coincidere il discorso con la solita denuncia dei traditori e degli psicocriminali, ma era troppo ovvio. D'altra parte, l'invenzione di una vittoria militare o di risultati eccedenti qualsiasi ottimistica previsione nel Nono Piano Triennale avrebbe comportato troppe revisioni nei dati già archiviati. Ci voleva un pezzo di pura fantasia. All'improvviso gli venne alla mente, per così dire bell'e fatta, l'immagine di un certo Compagno Ogilvy, da poco morto eroicamente in battaglia. Di tanto in tanto il Grande Fratello dedicava il suo Ordine del giorno alla commemorazione di qualche oscuro e devoto membro del Partito la cui vita e la cui morte egli proponeva come esempio da seguire. Ebbene, oggi avrebbe commemorato il Compagno Ogilvy. Era vero che un personaggio come il Compagno Ogilvy non esisteva, ma fra poco qualche rigo di stampa e un paio di fotografie false gli avrebbero dato vita. Winston stette a pensare per un po', dopodiché tirò il parlascrivi verso di sé e cominciò a dettare nello stile tipico del Grande Fratello, uno stile al contempo militaresco e pedante e, in conseguenza del vezzo di formulare simultaneamente domande e risposte ("Quale lezione apprendiamo da questo fatto, compagni? La lezione, che costituisce anche uno dei principi basilari del Socing, che..."), facile da imitare. All'età di tre anni il Compagno Ogilvy aveva rifiutato ogni giocattolo, eccezion fatta per un tamburo, una pistola automatica e un modellino di elicottero. A sei anni (vale a dire con l'anticipo di un anno, in virtù di una speciale deroga alla norma) era entrato nelle Spie, a nove comandava un plotone. A undici anni, captata una conversazione che gli era parsa caratterizzata da orientamenti criminali, aveva denunciato lo zio alla Psicopolizia. A sedici era stato l'organizzatore della Lega Giovanile Antisesso di quartiere. A diciannove aveva progettato una bomba a mano che era stata adottata dal Ministero della Pace e che, al primo cimento, aveva ucciso trentuno prigionieri eurasiatici in un colpo solo. A ventitré anni era morto in guerra. Inseguito da caccia nemici mentre volava sull'Oceano Indiano trasportando importanti dispacci, si era zavorrato il corpo stringendo al petto la mitragliatrice e, balzato fuori dell'elicottero, si era lanciato in mare, dispacci e tutto: una fine, osservava il Grande Fratello, che era impossibile contemplare senza provare sentimenti d'invidia. Il Grande Fratello aggiungeva poi qualche considerazione sull'irreprensibilità e coerenza della vita del Compagno Ogilvy. Astemio, non fumatore, il suo unico divertimento consisteva in un'ora di palestra al giorno. Aveva fatto voto di celibato, ritenendo il matrimonio e la cura di una famiglia incompatibili con un attaccamento diuturno al dovere. Non aveva argomenti di conversazione al di fuori dei principi del Socing, né altri scopi nella vita che non fossero la sconfitta dell'Eurasia e la caccia serrata a spie, sabotatori, psicocriminali e traditori in genere. «l'idea iniziale è stata del Grande Fratello.» A sentir fare il nome del Grande Fratello, il volto di Winston fu attraversato da un tiepido moto d'interesse. Ciononostante, Syme colse in lui una certa mancanza d'entusiasmo. «Non hai ancora capito che cos'è la neolingua, Winston» disse in tono quasi triste. «Anche quando ne fai uso in quello che scrivi, continui a pensare in archelingua. Ho letto qualcuno degli articoli che ogni tanto pubblichi sul "Times". Non c'è male, ma sono traduzioni. Nel tuo cuore preferiresti ancora l'archelingua, con tutta la sua imprecisione e le sue inutili sfumature di senso. Non riesci a cogliere la bellezza insita nella distruzione delle parole. Lo sapevi che la neolingua è l'unico linguaggio al mondo il cui vocabolario si riduce giorno per giorno?» Winston lo sapeva, naturalmente. Non volendo correre il rischio di esprimere opinioni, si limitò a un sorriso che intendeva essere di assenso. Syme dette un altro morso al pezzo di pane nero, lo masticò, poi riprese: «Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d'azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari, che saranno stati cancellati e dimenticati. Nell'Undicesima Edizione saremo già abbastanza vicini al raggiungimento di questo obiettivo, ma il processo continuerà per lunghi anni, anche dopo la morte tua e mia. A ogni nuovo anno, una diminuzione nel numero delle parole e una contrazione ulteriore della coscienza. Anche ora, ovviamente, non esiste nulla che possa spiegare o scusare lo psicoreato. Tutto ciò che si richiede è l'autodisciplina, il controllo della realtà, ma alla fine del processo non ci sarà bisogno neanche di questo. La Rivoluzione trionferà quando la lingua avrà raggiunto la perfezione. La neolingua è il Socing, e il Socing è la neolingua» aggiunse con una sorta di estatica soddisfazione. «Hai mai pensato, Winston, che entro il 2050 al massimo nessun essere umano potrebbe capire una conversazione come quella che stiamo tenendo noi due adesso?» «Tranne...» cominciò a dire Winston con una certa esitazione, ma poi si fermò. Era stato sul punto di dire "i prolet"; poi si era controllato, perché non era sicuro dell'ortodossia della sua osservazione. Syme, però, aveva indovinato quello che lui stava per dire. «I prolet non sono esseri umani» disse con noncuranza. «Per l'anno 2050, forse anche prima, ogni nozione reale dell'archelingua sarà scomparsa. Tutta la letteratura del passato sarà stata distrutta: Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron, esisteranno solo nella loro versione in neolingua, vale a dire non semplicemente mutati in qualcosa di diverso, ma trasformati in qualcosa di opposto a ciò che erano prima. Anche la letteratura del Partito cambierà, anche gli slogan cambieranno. Si potrà mai avere uno slogan come "La libertà è schiavitù", quando il concetto stesso di libertà sarà stato abolito? Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all'attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.» Un giorno di questi, pensò Winston con improvvisa, profonda convinzione, Syme sarà vaporizzato. È troppo intelligente. Capisce troppe cose, parla con troppa chiarezza e al Partito questo tipo di persone non piace. Un giorno sparirà, ce l'ha scritto in faccia. Finito il suo pane e formaggio, Winston si spostò leggermente di lato sulla sedia per bere la sua tazza di caffè. Al tavolo alla sua sinistra l'uomo dalla voce stridula continuava a parlare, inesorabilmente. Una ragazza, forse la sua segretaria, che sedeva voltando le spalle a Winston, stava ad ascoltarlo e dava l'impressione di concordare entusiasticamente su tutto quello che l'uomo diceva. Ogni tanto Winston coglieva frasi come «Penso che tu abbia proprio ragione, sono perfettamente d'accordo con te» dette da una voce di donna giovanile quanto insulsa. L'altro, però, andava avanti imperterrito, anche quando la ragazza parlava. Winston lo conosceva di vista e non sapeva altro di lui se non che si trattava di un personaggio importante del Reparto Finzione. Era un uomo di circa trent'anni, con un collo muscoloso e una grossa bocca in continuo movimento. In quel momento teneva la testa leggermente inclinata all'indietro e ciò, unendosi alla posizione in cui si trovava il tavolo dove sedeva, faceva sì che la luce gli battesse sugli occhiali e che egli volgesse a Winston non gli occhi, ma due dischi vuoti. Particolarmente terrificante era il fatto che risultava quasi impossibile distinguere alcunché nel torrente di parole che gli usciva di bocca. Solo una volta a Winston riuscì di afferrare la frase «eliminazione totale e irreversibile del Goldsteinismo» sparata a raffica e senza pause, come un rigo di stampa composto senza spazi fra una parola e l'altra. Per il resto si trattava di puro rumore, un ininterrotto bla bla. E tuttavia, benché non fosse possibile distinguere le parole che stava dicendo, la natura del suo discorso non lasciava adito a dubbi. Forse si stava scagliando contro Goldstein, reclamando misure più energiche contro psicocriminali e sabotatori, forse stava lanciando fulmini contro le atrocità commesse dall'esercito eurasiatico, forse stava cantando le lodi del Grande Fratello o degli eroi del fronte di Malabar. Non faceva alcuna differenza: qualunque cosa fosse, si poteva esser certi che si trattava di ortodossia pura, di puro Socing. Guardando quella faccia senza occhi, quella mascella che si alzava e si abbassava rapidamente, Winston ebbe la curiosa sensazione che non si trattasse di un uomo ma di un fantoccio. A parlare non era il suo cervello, ma la laringe. Quelle che gli uscivano di bocca erano parole, ma non si trattava di un discorso nel vero senso della parola, erano rumori emessi meccanicamente, come lo starnazzare di un'anatra. Per un momento Syme era piombato nel silenzio e col manico del cucchiaio tracciava disegni nella pozza dello stufato. All'altro tavolo la voce continuava a strepitare a tutto spiano, coprendo agevolmente il fracasso circostante. «In neolingua c'è una parola che non so se ti è nota: anatrare, starnazzare come un'anatra. È una parola interessante, di quelle che hanno due significati contraddittori. Se la utilizzi contro un avversario, si tratta di un insulto; rivolta a qualcuno con cui sei d'accordo, è un complimento.» Syme sarebbe stato vaporizzato certamente, pensò di nuovo Winston. Lo pensò con una certa tristezza, anche se sapeva bene di non andargli tanto a genio, che Syme lo disprezzava e non avrebbe esitato a denunciarlo come psicocriminale se avesse creduto di averne motivo. Qualcosa non andava in Syme: gli mancavano la discrezione, la capacità di mantenere le distanze, gli mancava quella stupidità che fungeva da baluardo. Si poteva addirittura pensare che non fosse perfettamente ortodosso. Certo, credeva nei principi del Socing, venerava il Grande Fratello, gioiva delle vittorie, odiava gli eretici, e tutto ciò non solo sinceramente, ma animato da uno zelo instancabile, esibendo una capacità nel tenersi aggiornato che gli altri membri del Partito neanche si sognavano, eppure gli aleggiava intorno una dubbia fama. Diceva cose di cui sarebbe stato meglio tacere, leggeva troppi libri, frequentava il Bar del Castagno, ritrovo di pittori e musicisti. Non vi era alcuna legge, neanche non scritta, che vietasse di frequentare il Bar del Castagno, ma il posto non godeva di una buona reputazione. Prima che le purghe li spazzassero via, i vecchi e screditati capi del Partito avevano avuto l'abitudine di riunirsi in questo locale e si diceva che qualche volta, anni e anni prima, vi fosse stato visto Goldstein in persona. Non era difficile prevedere quale sarebbe stato il destino di Syme, eppure era un fatto incontestabile che se gli fosse capitato di cogliere, fosse anche per tre soli secondi, la natura delle opinioni più segrete di Winston, lo avrebbe denunciato immediatamente alla Psicopolizia. A dire il vero, lo avrebbero fatto tutti, ma Syme più degli altri. Il solo zelo non era sufficiente. L'ortodossia imponeva la mancanza di autocoscienza. Syme alzò gli occhi. «Ecco Parsons» disse. Dal tono della voce sembrava che volesse aggiungere, "quell'imbecille". Parsons, il coinquilino di Winston negli Appartamenti Vittoria, un uomo di media corporatura, pienotto, coi capelli chiari e una faccia da rana, stava effettivamente avanzando verso di loro. A trentacinque anni stava già mettendo rotoli di grasso attorno al collo e ai fianchi, ma aveva ancora movimenti scattanti e giovanili. L'impressione generale che dava era quella di un bambino malcresciuto, tanto che, sebbene indossasse la tuta regolamentare, era impossibile non immaginarlo con i calzoncini corti, la camicia grigia e il fazzoletto rosso delle Spie. Se pensavate a lui, immaginavate immancabilmente due ginocchia rotondette e un paio di maniche di camicia arrotolate su due tozze braccia. D'altra parte, Parsons indossava i calzoncini tutte le volte che una gita di gruppo o una qualsiasi attività fisica gliene offrivano il pretesto. Salutò entrambi con un caloroso «Ciao!» e si sedette al loro tavolo, emanando una poderosa zaffata del sudore che gli imperlava il volto acceso dal caldo. La sua traspirazione era strabiliante: al Centro Sociale, quando il manico della racchetta era tutto bagnato, voleva dire che Parsons aveva giocato a ping-pong. Intanto Syme aveva tirato fuori una striscia di carta con un lungo elenco di parole e la stava studiando stringendo una penna fra le dita. «Ma guardatelo come lavora anche all'ora di pranzo!» disse Parsons, dando di gomito a Winston. «Il senso del dovere, eh? Che tieni lì, vecchio mio? Certamente qualcosa di troppo intelligente per me. Winston, amico mio, ti stavo cercando. È per via di quella sottoscrizione che ti sei scordato.» «Quale sottoscrizione?» rispose Winston, tastando automaticamente il denaro che aveva in tasca. Circa un quarto della paga se ne andava in sottoscrizioni volontarie, tanto numerose che non si riusciva a tenerne il conto. «È per la Settimana dell'Odio... la colletta porta a porta. Io sono il tesoriere del nostro caseggiato. Stiamo facendo uno sforzo colossale. Vogliamo fare un figurone. Ti avverto, non sarà colpa mia se gli Appartamenti Vittoria non presenteranno il più bell'addobbo di bandiere dell'intera strada. Avevi promesso di darmi due dollari.» Winston si cercò in tasca, quindi gli porse due banconote sudice e spiegazzate, che Parsons registrò in un taccuino, con quella calligrafia chiarissima tipica degli incolti. «A proposito, vecchio mio» disse, «ho saputo che ieri quel diavoletto di mio figlio ti ha mollato un colpo di fionda. Gli ho dato il fatto suo, gli ho anche detto che se lo fa un'altra volta la fionda gliela sequestro.» «Penso che fosse un po' arrabbiato perché non era potuto andare a vedere l'impiccagione» disse Winston. «Adesso ho capito! È questo lo spirito giusto, no? Voglio dire, lui e la sorella sono due diavoletti, ma quanto al dovere! Non fanno che pensare alle Spie, e alla guerra, naturalmente. Lo sai che cos'ha fatto la mia piccina sabato scorso, quando è andata in gita a Berkhamstead con la sua squadra? Ha convinto altre due bambine a seguirla, se la sono svignata dal gruppo e si sono messe per l'intero pomeriggio alle calcagna di un tizio che ai loro occhi aveva un atteggiamento strano. Lo hanno pedinato per due ore, seguendolo anche nei boschi, e poi, una volta arrivati a Marsham, lo hanno consegnato alla pattuglia.» «E perché mai?» chiese Winston, un po' colto di sorpresa. Parsons continuò, con aria trionfante: «La mia piccina era certa che si trattasse di una specie di agente nemico, magari atterrato col paracadute; ma il bello deve ancora venire. Cosa credi che l'abbia insospettita? Si era accorta che quell'uomo indossava un bizzarro paio di scarpe, ha detto che non aveva mai visto scarpe simili. E così, poteva benissimo trattarsi di uno straniero. Niente male per una birichina di sette anni, vero?» «E che ne è stato dell'uomo?» chiese Winston. «Ah, non lo so, ma non sarei affatto sorpreso se...» Parsons fece il gesto di chi punta un fucile, poi fece schioccare la lingua per imitare uno sparo. «Bene» disse Syme senza scomporsi e senza alzare gli occhi dal suo pezzo di carta. «Penso anch'io che non possiamo correre rischi» disse Winston, senza palesare nulla che potesse apparire eccentrico. «Siamo in guerra» disse Parsons. Quasi a darne conferma, uno squillo di tromba proruppe dal teleschermo proprio sopra le loro teste. Stavolta non si trattava dell'annuncio di una vittoria militare, ma solo di un avviso del Ministero dell'Abbondanza. «Compagni» gridò una voce giovanile ed entusiasta, «compagni, attenzione! Abbiamo per voi notizie straordinarie. La battaglia per la produzione è stata vinta! Sono stati chiusi i rendiconti relativi alla produzione di tutti i beni di consumo, dai quali emerge che rispetto all'anno scorso il tenore di vita si è innalzato di almeno il 20 per cento. Stamattina in tutta l'Oceania si sono svolte irrefrenabili manifestazioni spontanee. I lavoratori sono usciti in massa dalle fabbriche e dagli uffici e sono sfilati per le strade, innalzando striscioni e gridando la loro gratitudine nei confronti del Grande Fratello per l'esistenza nuova e felice che la sua sapiente guida ci ha garantito. Diamo ora lettura di alcuni dati completi: generi alimentari...» L'espressione "esistenza nuova e felice" tornò più volte, un ritornello da qualche tempo caro al Ministero dell'Abbondanza. Parsons, catturato dallo squillo di tromba, se ne stava in ascolto con un'aria di stuporosa solennità e di nobilitato tedio dipinti sul volto. Aveva tirato fuori una grossa e sudicia pipa, già per metà piena di tabacco bruciacchiato (con la razione di tabacco fissata a cento grammi la settimana, raramente si riusciva a riempire una pipa fino all'orlo). Winston, invece, fumava una Sigaretta Vittoria, tenendola accuratamente in posizione orizzontale: la nuova razione non sarebbe stata distribuita prima dell'indomani e di sigarette gliene erano rimaste solo quattro. Al momento aveva smesso di porgere merito dell'addestramento che oggi ricevono nelle Spie, che è perfino migliore di quello impartito ai miei tempi. E che cosa credete che abbiano ora ricevuto in dotazione? Cornetti acustici da accostare alle serrature delle porte! Ieri sera la mia bambina ne ha portato uno a casa, l'ha provato sulla serratura del salotto e ha detto che, rispetto a quando ci metteva solo l'orecchio, poteva sentire due volte meglio. È solo un giocattolo, naturalmente, ma istruttivo, non vi pare?» In quell'istante dal teleschermo proruppe un fischio lacerante. Era il segnale che bisognava tornare al lavoro. Balzarono tutti e tre in piedi. Attorno agli ascensori si fece la solita ressa e nella generale baraonda quel poco di tabacco che restava nella sigaretta di Winston cadde per terra. VI Winston stava scrivendo nel diario: È accaduto tre anni fa. Era una serata buia, in un vicolo nei pressi di una delle grandi stazioni ferroviarie. Lei era in piedi accanto a un varco nel muro, sotto un lampione che illuminava appena. Aveva un volto giovanile, pesantemente truccato. E ad attrarmi furono proprio il belletto — il suo biancore, simile a quello di una maschera — e le labbra accese di rosso. Le donne del Partito non si truccano. La strada era deserta e non c'erano teleschermi. Lei disse due dollari. Io... Era difficile andare avanti, almeno per il momento. Chiuse gli occhi e vi premette sopra le dita, nel tentativo di strapparne via quella visione che puntualmente ritornava. Provava la tentazione irrefrenabile di urlare con quanto fiato aveva in gola le parole più sconce, o prendere il muro a testate, o dare un calcio al calamaio e farlo volare dalla finestra, di fare insomma un qualsiasi atto violento, rumoroso o doloroso che valesse a togliergli dalla mente quel ricordo che lo tormentava. Il peggior nemico, rifletté, è il proprio sistema nervoso. In qualsiasi momento la tensione poteva tradursi in un sintomo visibile. Si ricordò di un uomo che aveva incrociato per strada qualche settimana prima, una persona comunissima, membro del Partito, sui trentacinque- quarant'anni, piuttosto alto e sottile, con una cartella sotto il braccio. A pochi metri l'uno dall'altro, improvvisamente il volto dell'uomo si era contratto in una sorta di spasmo, e la cosa si era ripetuta quando si erano incrociati. Solo un tremito, una contrazione rapida come lo scatto dell'otturatore di una macchina fotografica, ma che in lui doveva essere abituale, senza alcun dubbio. Ricordava di aver pensato: Quel poveretto è spacciato. La cosa peggiore era che potevate compiere il gesto fatale in un modo del tutto inconscio. Addirittura letale era parlare nel sonno, un pericolo dal quale, in tutta evidenza, non vi era modo di guardarsi. Trasse un profondo respiro, quindi riprese a scrivere: Entrai con lei. Attraversato un cortiletto, giungemmo nella cucina di un seminterrato. C'era un letto messo contro il muro, e sul tavolo un lume che mandava una luce fioca. La donna... I denti gli si allegavano in bocca. Aveva voglia di sputare. Mentre si trovava in quella cucina con la donna, aveva pensato a Katharine, sua moglie. Winston era sposato o, per dir meglio, era stato sposato. Forse era ancora sposato perché, a quanto ne sapeva, sua moglie non era morta. Gli sembrava di avere ancora nelle narici l'aria soffocante del seminterrato, un fetore di cimici, indumenti sporchi e profumo da quattro soldi, e tuttavia seducente, perché nessuna donna del Partito usava profumi, era una cosa inconcepibile. Solo i prolet ne facevano uso. Nella sua mente, il profumo era legato indissolubilmente alla fornicazione. Quando era andato con quella donna, si era trattato della sua prima infrazione negli ultimi due anni o giù di lì. Frequentare prostitute era proibito, naturalmente, ma si trattava di uno di quei divieti che con un po' di coraggio si potevano infrangere. Pericoloso lo era certamente, ma non costituiva un delitto passibile di essere punito con la morte. Se vi sorprendevano con una prostituta e non vi erano altri crimini a vostro carico, il massimo della pena erano cinque anni di lavori forzati, e non era un'impresa difficile, purché riusciste a non farvi cogliere in flagrante. I quartieri poveri brulicavano di donne pronte a vendersi. Qualcuna lo faceva per una bottiglia di gin, interdetto ai prolet. Era verosimile che sotto sotto il Partito incoraggiasse la prostituzione, come valvola di sfogo per istinti impossibili da reprimere completamente. Un po' di dissolutezza non significava molto, purché fosse praticata di nascosto e senza gioia, e coinvolgesse solo le donne di una classe oppressa e disprezzata. L'unico peccato imperdonabile era la promiscuità fra membri del Partito, ma era arduo pensare che qualcosa del genere accadesse davvero, perché nelle grandi purghe non c'era accusato che non confessasse anche questo delitto. Lo scopo del Partito non era solo quello d'impedire la nascita, fra uomini e donne, di sodalizi che poi non sarebbe stato agevole controllare. Lo scopo vero, anche se non dichiarato, era quello di togliere ogni piacere all'atto sessuale. Il nemico numero uno, sia all'interno che all'esterno del matrimonio, non era tanto l'amore quanto l'erotismo. Tutti i matrimoni fra membri del Partito dovevano ricevere l'approvazione di un'apposita commissione e, anche se questo principio non era fissato da nessuna norma esplicita, il permesso veniva sempre negato se i richiedenti davano l'impressione di provare una reciproca attrazione fisica. Al matrimonio si riconosceva il solo scopo di procreare figli da mettere al servizio del Partito. Il rapporto sessuale doveva essere considerato un atto di scarsa importanza e vagamente disgustoso, come un clistere. Anche questo fatto non veniva mai espresso a chiare note, ma lo si inculcava in ogni membro del Partito fin dall'infanzia. Vi erano perfino associazioni, come la Lega Giovanile Antisesso, che propugnavano la totale castità per i membri di entrambi i sessi. I bambini dovevano essere generati per mezzo dell'inseminazione artificiale (insemart, in neolingua) e allevati dalle pubbliche istituzioni. Si trattava, come Winston sapeva bene, di poco più di un paradosso, ma era perfettamente in linea con l'ideologia complessiva del Partito, che si sforzava di distruggere l'istinto sessuale o, se un simile progetto si dimostrava impossibile, di stravolgerne il significato e insozzarlo. Winston non sapeva perché era così, ma gli sembrava naturale che così dovesse essere e, almeno per quanto riguardava le donne, gli sforzi del Partito erano coronati dal più completo successo. Pensò nuovamente a Katharine. Erano separati da nove, dieci... no, quasi undici anni. Era strano quanto poco pensasse a lei; c'erano anche giorni in cui si scordava perfino di avere avuto una moglie. Erano stati insieme per circa quindici mesi. Il Partito non consentiva il divorzio, ma incoraggiava la separazione quando non c'erano figli. Katharine era una ragazza alta, bionda, con un bel portamento e movimenti splendidi. Il suo volto ostentava disinvoltura e risolutezza, uno di quei volti che ci si arrischierebbe a definire nobili, fino a quando non si scopre che dietro non c'è praticamente nulla. Erano sposati solo da poco, ma egli aveva già maturato la convinzione, forse perché di nessun'altra persona aveva una conoscenza così intima, che si trattava al di là di ogni ragionevole dubbio della donna più stupida, volgare e inconcludente che avesse mai conosciuto. Pensava per slogan, e non c'era scempiaggine, assolutamente nessuna, che non mandasse giù senza esitazione se era il Partito a farsene promotore. Nella sua mente l'aveva soprannominata "il grammofono umano". Eppure avrebbe potuto anche continuare a stare con lei se non fosse stato per una cosa, il sesso. Non appena si accostava a Katharine, lei sembrava ritrarsi, irrigidirsi. Abbracciarla era come stringere una marionetta di legno con gli arti snodabili. Anche quando era allacciata a lui, Winston provava la strana sensazione che nello stesso tempo lo stesse respingendo con tutte le sue forze. Era la sua rigidità muscolare a trasmettergli una simile impressione. Se ne stava lì, con gli occhi chiusi, senza fare resistenza, senza collaborare: si sottometteva. Il tutto era estremamente imbarazzante e, dopo un po', orribile. Eppure, perfino così avrebbe potuto continuare a stare con lei, se, poniamo, si fosse convenuto fra loro di non avere rapporti intimi. Ma chi si opponeva era lei! Dovevano cercare di mettere al mondo un figlio, diceva. E così la farsa era andata avanti con perfetta regolarità, una volta la settimana, almeno quando era possibile. Giungeva a ricordarglielo la mattina per la sera, come un dovere da non dimenticare. Per definirlo usava due espressioni: la prima era "fare un bambino"; la seconda "fare il nostro dovere verso il Partito"; proprio così. Non passò molto che all'approssimarsi del fatidico giorno Winston cominciava ad avvertire sensazioni di schietto terrore. Per fortuna, bambini non ne vennero. Decisero infine di smettere coi loro tentativi e dopo un po' si separarono. Winston emise un impercettibile sospiro, poi sollevò di nuovo la penna e scrisse: La donna si buttò sul letto e subito, senza preliminari di sorta e nella maniera più volgare e orrenda che si possa immaginare, si alzò la gonna. Io... Si rivide in piedi in quella luce fioca, l'olezzo di cimici e di profumo dozzinale nelle narici, il cuore invaso da un senso di sconfitta e di astio che perfino allora si sovrapponeva al corpo bianco di Katharine che il potere ipnotico del Partito aveva trasformato, irreversibilmente, in ghiaccio. Perché doveva essere sempre così? Perché non poteva avere una donna sua, invece di quegli aggrovigliamenti sudici a distanza di anni? Ma una vera storia d'amore era pressoché inconcepibile. Le donne del Partito erano tutte uguali, a tutte era stata inculcata a fondo la convinzione che la castità e la lealtà verso il Partito fossero la stessa cosa. L'opera di condizionamento (attenta e posta in essere fin dall'infanzia), l'attività sportiva e le docce gelate, le porcherie con cui le rimbambivano a scuola, nelle Spie e nella Lega Giovanile, le conferenze, le sfilate, le canzoni, gli slogan, la musica marziale, avevano scacciato dal loro animo quel sentimento naturale. La ragione gli diceva che qualche eccezione doveva pur esserci, ma il cuore non ci credeva. Erano tutte inespugnabili, proprio come le voleva il Partito. E Winston desiderava, più ancora che essere amato, abbattere quel muro di virtù, fosse stato anche una sola volta in tutta la sua vita. L'atto sessuale, il vero atto sessuale, era un gesto di rivolta. Il desiderio era psicoreato. Se gli fosse riuscito di risvegliare i sensi di Katharine, che pure era sua moglie, si sarebbe trattato di una seduzione in piena regola. Ma il resto di quella storia andava scritto, in ogni caso. E così scrisse: Alzai il lume. Quando la vidi in piena luce... Dopo tutto quel buio, la luce della lampada a olio gli era sembrata vivissima. Per la prima volta poteva guardare bene quella donna. Aveva mosso un passo verso di lei, poi si era arrestato, pieno di libidine e di terrore allo stesso tempo. Era dolorosamente consapevole del rischio che aveva corso nel recarsi in quel luogo. Era possibilissimo che la polizia lo avrebbe arrestato quando fosse uscito: per quel che ne sapeva, poteva anche darsi che lo stessero aspettando fuori. E se fosse andato via senza neanche fare quello per cui era venuto? Lo doveva scrivere, doveva confessare. Alla luce del lume aveva visto che quella donna era vecchia. Sul suo volto il belletto era tanto spesso, che sembrava potesse rompersi in mille crepe, come una maschera di cartapesta. Molti capelli erano bianchi, ma il particolare più orrendo era che la bocca, nello schiudersi, gli aveva rivelato una caverna nera. Quella donna non aveva più neanche un dente. Scrisse in fretta, quasi scarabocchiando: Quando la vidi in piena luce, mi accorsi che era proprio vecchia, aveva almeno cinquant'anni. Ma non esitai e lo feci lo stesso. Si premette di nuovo le dita sulle palpebre. L'aveva scritto, finalmente, ma non era servito a nulla, la terapia non aveva funzionato. L'impulso di urlare parole oscene con quanto fiato aveva in gola non si era affievolito. code, il banchetto solenne di Sua Eccellenza il Sindaco, e il bacio al piede del Papa. C'era anche qualcosa che aveva il nome di jus primae noctis, ma forse non l'avevano messo in un libro per bambini: si trattava della legge in base alla quale i capitalisti avevano il diritto di dormire con tutte le donne che lavoravano nelle loro fabbriche. Come si faceva a sapere quanto c'era di vero e quanto di falso? Poteva perfino darsi che oggi l'uomo medio vivesse in condizioni migliori di quelle antecedenti la Rivoluzione. La sola prova contraria era offerta da quella muta protesta che si levava da ogni fibra del vostro essere, dall'impressione istintiva che la vostra esistenza si svolgeva in condizioni intollerabili e che in passato doveva essere stato diverso. Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso d'insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell'apatia incolore. A guardarsi intorno, ci si rendeva conto che la vita non aveva nulla in comune, non solo con quel torrente di menzogne che fluiva dai teleschermi, ma nemmeno con il programma ideale del Partito. Anche per un membro del Partito, infatti, gran parte della vita era un fatto puramente neutro, che non aveva in sé niente di politico: solo un mesto sgobbare, una lotta al coltello per un posto a sedere in metropolitana, un rammendare calzini consunti, un mendicare una pasticca di saccarina, un mettere da parte le cicche delle sigarette. L'ideale propagandato dal Partito era qualcosa di immenso, di terribile, di sfolgorante: un mondo di acciaio e di cemento armato, di macchine mostruose e di armi terrificanti, un popolo di fanatici guerrieri che marciavano in perfetta unità di intenti, tutti pensando allo stesso modo e tutti urlanti i medesimi slogan, impegnati dall'alba al tramonto a lavorare, lottare, trionfare, reprimere... trecento milioni di persone con la stessa, identica faccia. La realtà era fatta invece di città fatiscenti, squallide, in cui uomini e donne malnutriti si trascinavano avanti e indietro nelle loro scarpe sfondate e vivevano in case del secolo prima, rappezzate alla meglio, che esalavano un lezzo di cavolfiore e di cesso. E davanti ai suoi occhi si parò, come in una visione, la sterminata rovina di Londra, la città delle centomila pattumiere, sovrapposta all'immagine della signora Parsons, con le sue rughe e i suoi capelli color sabbia, che cercava invano di sturare uno scarico. Si portò di nuovo la mano alla caviglia e di nuovo si grattò l'ulcera. Giorno e notte i teleschermi vi riempivano le orecchie di statistiche comprovanti che adesso la gente aveva più cibo, più vestiti, case migliori, divertimenti migliori... che viveva più a lungo, che lavorava per un numero minore di ore, che, rispetto a cinquant'anni prima, era più in carne, più sana, più forte, più felice, più istruita. Non era possibile dimostrare o contestare nulla di tutto ciò. Il Partito sosteneva, per esempio, che oggi era alfabetizzato il 40 per cento dei prolet, di contro al 15 per cento del periodo antecedente la Rivoluzione. Il Partito sosteneva che il tasso di mortalità infantile era sceso al 160 per mille, rispetto al 300 per mille di prima della Rivoluzione eccetera eccetera. Era come un'equazione a due incognite. Poteva darsi benissimo che tutto ciò che era scritto nei libri di storia, perfino quelle cose che si accettavano senza discutere, fosse, letteralmente, pura immaginazione. Per quanto ne sapeva lui, poteva anche darsi che una legge come lo jus primae noctis non ci fosse mai stata, né che fossero esistiti i capitalisti e copricapo come i cappelli a cilindro. Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità. Una volta sola in vita sua aveva posseduto (dopo che l'evento si era verificato, ed era questo che contava) la prova materiale e incontrovertibile di un atto di falsificazione. L'aveva tenuta stretta fra le dita per ben trenta secondi. Doveva essere stato il 1973 o, in ogni caso, quando lui e Katharine si erano separati, anche se la data veramente rilevante risaliva a sette, forse otto anni prima. La vicenda aveva avuto inizio a metà degli anni Sessanta, vale a dire nel periodo delle grandi epurazioni, che avevano visto la liquidazione dei capi storici della Rivoluzione. A eccezione del Grande Fratello, nel 1970 non ne rimaneva più nessuno. Per quella data, tutti gli altri erano stati denunciati come traditori e controrivoluzionari. Goldstein era fuggito e si nascondeva chissà dove; quanto agli altri, alcuni erano scomparsi sic et simpliciter, mentre i più erano stati giustiziati dopo processi spettacolari, durante i quali avevano confessato i crimini commessi. Fra gli ultimi a essere sopravvissuti erano tre uomini di nome Jones, Aaronson e Rutherford. A quanto ricordava, erano stati arrestati intorno al 1965. Come accadeva spesso, erano poi scomparsi per un anno o poco più, sicché s'ignorava se erano vivi o morti, dopodiché, all'improvviso, erano stati trascinati in giudizio, dove si erano autoaccusati secondo le modalità ormai abituali. Si erano incolpati di collusione col nemico, che anche in quegli anni era l'Eurasia, di appropriazione indebita di fondi pubblici, di assassinio di numerosi e stimati membri del Partito, di congiure — risalenti a molti anni prima della Rivoluzione — contro la direzione del Grande Fratello, di atti di sabotaggio che avevano causato la morte di centinaia di migliaia di persone. Dopo tutte queste confessioni, erano stati perdonati e riammessi nel Partito. Gli erano anche state affidate delle mansioni, vere e proprie sinecure, ma che suonavano come incarichi importanti. Tutti e tre avevano scritto lunghi e umilianti articoli sul «Times», in cui analizzavano le ragioni dei loro tradimenti e promettevano di emendarsi. Un po' dopo il loro rilascio, Winston li aveva effettivamente visti tutti e tre al Bar del Castagno e ricordava bene da quale sorta di fascinazione sinistra si fosse sentito prendere quando era stato a guardarli con la coda dell'occhio. Erano di gran lunga più vecchi di lui, ciò che restava di un mondo remoto, forse gli ultimi sopravvissuti dai primi, eroici giorni della storia del Partito. Attorno a loro ancora aleggiava l'incanto della lotta clandestina e della guerra civile. Gli sembrava, anche se date e fatti cominciavano già a confondersi, di aver appreso i loro nomi anni prima che comparisse quello del Grande Fratello. Ora, però, erano dei fuorilegge, dei nemici, degli intoccabili destinati a essere liquidati, con certezza assoluta, entro un anno o due. Mai era successo che qualcuno, una volta caduto nelle mani della Psicopolizia, fosse infine scampato. Quei tre erano cadaveri che dovevano essere rispediti nella tomba. Nessuno era seduto ai tavoli intorno a loro: non era consigliabile farsi vedere nemmeno nelle vicinanze di persone simili. Se ne stavano seduti in silenzio davanti ai loro bicchieri di gin aromatizzato con chiodi di garofano, la specialità del locale. Dei tre, soprattutto Rutherford gli aveva fatto impressione. Era stato un tempo un caricaturista famoso, che con le sue vignette, rozze ma efficaci, aveva contribuito a infiammare l'opinione pubblica nel periodo che aveva preceduto e seguito la Rivoluzione. Anche ora, sia pure con lunghi intervalli, le sue vignette continuavano a comparire sul «Times», ma erano poco più di un'imitazione del suo stile di una volta, curiosamente fiacche, prive di vita, una riproposizione insistita dei temi di un tempo: quartieri poveri, bambini affamati, scene di guerriglia urbana, capitalisti in cappello a cilindro (perfino sulle barricate i capitalisti non riuscivano a rinunciare al cilindro), insomma uno sforzo continuo quanto disperato di resuscitare il passato. Era un autentico mostro, con una criniera di capelli grigi e unti, un volto tutto gonfiori, labbra grosse e sporgenti come quelle di un negro. Un tempo doveva essere stato un uomo di straordinaria possanza fisica, ma ora il suo grosso corpo cedeva, veniva giù, si dilatava, tracimava da tutte le parti. Sembrava sul punto di frantumarsi davanti ai vostri occhi, come una montagna che si sgretola. Era l'ora solitaria delle quindici. Winston non ricordava, adesso, come fosse capitato al Bar del Castagno proprio a quell'ora. Il posto era quasi vuoto, mentre dai teleschermi stillava una musica metallica. I tre se ne stavano al loro posto quasi immobili, senza parlare. Senza che lo chiamassero, il cameriere provvedeva a riempire di nuovo i bicchieri vuoti. Sul tavolo accanto a loro c'era una scacchiera con tutti i pezzi in ordine, ma nessuno li aveva mossi. Poi sui teleschermi accadde qualcosa che si prolungò per circa mezzo minuto. Il motivo che stavano suonando cambiò, e così la tonalità della musica. Vi si insinuava... era difficile a descriversi... visi insinuava una nota molto particolare, stridula, spezzata, in cui sembrava albergare un che di derisorio. In mente sua Winston la definì una nota ingiallita. E dal teleschermo una voce cominciò a cantare: Sotto il castagno, chissà perché, io ti ho venduto e tu hai venduto me: sotto i suoi rami, alti e forti, essi sono defunti e noi siam morti. I tre rimasero immobili, ma quando Winston guardò nuovamente il volto devastato di Rutherford, si accorse che aveva gli occhi pieni di lacrime. E per la prima volta notò, con una sorta di brivido interiore (anche se non sapeva il perché di quel brivido), che sia Aaronson sia Rutherford avevano il naso rotto. Dopo non molto i tre furono arrestati nuovamente. Risultò che sin dal giorno del loro rilascio si erano impegnati in nuovi complotti. Al loro secondo processo confessarono da capo tutti i crimini commessi in passato, ai quali aggiunsero tutta una serie di nuovi delitti. Furono giustiziati e le loro vicende registrate nelle cronache del Partito come monito per le future generazioni. Nel 1973, cinque anni dopo questi eventi, Winston stava srotolando un fascio di documenti che i tubi della posta pneumatica gli avevano appena rovesciato sul tavolo, allorché si accorse di un pezzo di carta che evidentemente era stato infilato per caso in mezzo ad altri documenti e poi dimenticato. Subito, non appena l'ebbe spiegato, si rese conto della sua importanza. Era una mezza pagina strappata da una copia del «Times» di quasi dieci anni prima (si trattava della parte superiore della pagina, quindi comprendeva anche la data) e conteneva una foto dei delegati a una qualche cerimonia del Partito che si era tenuta a New York. Nel bel mezzo del gruppo erano visibili Jones, Aaronson e Rutherford. Non c'erano dubbi, e comunque i loro nomi si potevano leggere nella didascalia che accompagnava la foto. Il punto era che a entrambi i processi tutti e tre gli uomini avevano confessato che in quella data si trovavano in territorio eurasiatico. Erano decollati da un aeroporto segreto nel Canada per recarsi in un posto imprecisato della Siberia, dove avevano incontrato dei rappresentanti dello Stato Maggiore eurasiatico, ai quali avevano passato importanti segreti militari. La data era rimasta impressa nella memoria di Winston perché si trattava del giorno di san Giovanni.4 In ogni caso, l'intera vicenda si trovava sicuramente registrata in un'infinità di altri luoghi. Si poteva trarre una conclusione sola: quelle confessioni erano false. Tutto ciò, era ovvio, non costituiva di per sé una scoperta. Perfino a quel tempo Winston non aveva mai creduto che le vittime delle epurazioni avessero compiuto veramente i crimini di cui erano accusate. Questa, però, era una prova concreta, era un frammento del passato abolito dal Partito, era come un osso fossile che compare all'interno di uno strato non previsto e distrugge tutta una teoria geologica. Se ci fosse stato il modo di pubblicarlo e di renderlo noto al mondo intero, chiarendone a pieno il significato, sarebbe stato sufficiente a mandare il Partito in mille pezzi. Aveva continuato a lavorare imperterrito. Non appena si era reso conto di quale fotografia si trattava, e della sua importanza, aveva coperto il ritaglio con un altro foglio di carta. Fortuna aveva voluto che, quando l'aveva srotolato, il foglio fosse capovolto rispetto al raggio d'azione del teleschermo. Si mise il taccuino degli appunti sulle ginocchia, poi spinse la sedia all'indietro, in modo da essere il più possibile lontano dal teleschermo. Non era difficile conservare un'espressione imperturbabile o addirittura controllare il respiro, ma dominare i battiti del cuore era impossibile, e il teleschermo era un apparecchio abbastanza sofisticato per captarli. Lasciò passare una decina di minuti, tormentato dalla paura che un qualsiasi incidente (per esempio, una folata d'aria che all'improvviso gli facesse volare le carte) potesse tradirlo. Poi, senza voltarla, lasciò cadere la fotografia nel buco della memoria, assieme ad altra carta straccia. Fra un minuto sarebbe stata ridotta in cenere. Era accaduto dieci, undici anni prima. Oggi, probabilmente, quella fotografia l'avrebbe conservata. Era curioso come, anche adesso che la fotografia e l'avvenimento a essa collegato erano solo un ricordo, gli sembrasse importante l'aver stretto fra le dita quel pezzo di carta. Voleva forse dire, si chiese, che la presa del Partito sul passato era meno forte per il solo fatto che una prova, che ora non c'era più, una volta era esistita? Oggi, in ogni caso, anche ammesso che si fosse riusciti a farla rinascere dalle ceneri, quella fotografia non avrebbe più costituito una prova. Già al tempo in cui aveva fatto la sua scoperta, l'Oceania non era più in guerra con l'Eurasia e pertanto, almeno per quanto riguardava il delitto di alto tradimento, i tre morti dovevano aver contattato gli agenti segreti dell'Estasia. Da allora, inoltre, erano stati incriminati ancora, non ricordava se due o tre volte ed era più che probabile che le loro confessioni fossero state scritte e riscritte finché le date e i fatti originali non avevano perso qualsiasi significato. Il passato non solo cambiava, ma cambiava in continuazione. Ciò che però gli dava la stessa angoscia di un incubo era il fatto di non essere mai riuscito a capire perché venisse messa su tutta quella impostura. I vantaggi immediati della falsificazione del passato erano evidenti, ma i fini ultimi restavano misteriosi. Prese di nuovo la penna e scrisse: Capisco come, ma non capisco perché. cadere. Winston si protesse la testa con le braccia. Ci fu uno scoppio che parve sollevare la strada e una pioggia di oggetti leggeri gli picchiettò sulla schiena. Quando si alzò, si accorse di essere ricoperto dalla testa ai piedi dai frammenti di vetro della finestra più vicina. Continuò a camminare. Più avanti, a duecento metri di distanza, la bomba aveva distrutto un gruppo di case. Un nero pennacchio di fumo stagnava nel cielo. Di sotto, una nuvola di polvere di calcinacci e rovine attorno alle quali si andava già assembrando una folla di gente. Sul marciapiede, dritto davanti a lui, c'era un pezzo di intonaco con una striscia color rosso vivo nel mezzo. Quando Winston si alzò, si accorse che si trattava di una mano recisa all'altezza del polso. Se si eccettuava il rosso del moncone, era talmente bianca da sembrare un calco in gesso. Diede un calcio a quella cosa, spingendola nel fossetto di scolo, dopodiché, per evitare la folla, s'inoltrò in una traversa sulla destra. Tre, forse quattro minuti di cammino e Winston si trovò fuori della zona in cui era caduta la bomba, in un punto in cui le strade presentavano di nuovo quel loro squallido brulichio, come se non fosse successo nulla. Erano quasi le venti e le mescite frequentate dai prolet (le chiamavano puh) erano stracolme di avventori. Dalle luride porte a vento, che si aprivano e chiudevano di continuo, promanava un fetore di urina, segatura e birra acida. Nell'angolo formato da un ingresso che aggettava sulla strada, vi erano tre uomini, in piedi e vicinissimi fra loro. Quello al centro aveva un giornale aperto davanti che gli altri due, standogli alle spalle, sembravano leggere con estrema attenzione. Prima ancora di essere abbastanza vicino da poter notare le espressioni dei loro volti, Winston si accorse che da ogni fibra dei loro corpi traspariva una concentrazione assoluta e ne dedusse che stavano leggendo qualche notizia di importanza fondamentale. Era ormai a pochi passi da loro, quando il gruppetto si aprì e due di essi cominciarono a litigare furiosamente. Per un attimo sembrarono perfino sul punto di venire alle mani. «Vuoi sentire o no che cazzo sto dicendo? Sto dicendo che negli ultimi quattordici mesi non ha mai vinto uno col numero che finiva col sette.» «Ha vinto, ha vinto!» «Ti dico di no! A casa tengo conservati tutti i risultati degli ultimi due anni, li tengo segnati su un foglio di carta. Te lo dico un'altra volta, un numero che finiva col sette non ha...» «Una volta uno col sette ha vinto, ti posso dire anche che cazzo di numero era, finiva con 407 ed era febbraio, la seconda settimana di febbraio.» «Ma che febbraio e febbraio! Tengo tutto scritto. Te lo dico un'altra volta, un numero...» Stavano parlando della Lotteria. Dopo aver proseguito per altri trenta metri, Winston si voltò a guardarli. Discutevano ancora appassionatamente, i volti accesi dalla disputa. La Lotteria, con le enormi cifre che corrispondeva settimanalmente, era il solo avvenimento pubblico per il quale i prolet nutrissero un serio interesse. In tutta probabilità, vi erano milioni di prolet per i quali la Lotteria costituiva la principale, se non unica, ragione di vita. Per loro era una delizia, una felice follia, un conforto, uno stimolante. Quando era in ballo la Lotteria, anche persone che sapevano a malapena leggere e scrivere dimostravano di riuscire a fare calcoli complicatissimi e di possedere una memoria stupefacente. Vi era poi tutta una cricca di persone che si guadagnavano da vivere vendendo amuleti, sistemi per vincere e pronostici. Winston non aveva nulla a che fare con l'organizzazione della Lotteria, che era gestita dal Ministero dell'Abbondanza, ma sapeva, come del resto sapevano tutti i membri del Partito, che i premi erano per la gran parte immaginari. A essere pagate veramente erano soltanto somme esigue, mentre i grossi premi erano attribuiti a persone inesistenti; un trucco che, in assenza di comunicazioni autentiche fra una parte e l'altra dell'Oceania, non era difficile da mettere in atto. Eppure, se una speranza c'era, questa risiedeva fra i prolet. Era necessario restare attaccati a un simile convincimento. Quando lo si metteva per iscritto, sembrava ragionevole: era quando guardavate quegli esseri umani che vi passavano davanti sul marciapiede, che si trasformava in un atto di fede. La strada in cui Winston si era immesso era in discesa. Aveva l'impressione di essere già stato da quelle parti e che non lontano ci fosse un'arteria principale. Da qualche parte più avanti giungeva un gran frastuono di voci. La strada s'interruppe all'improvviso, per dare su una rampa di scale che a loro volta immettevano in un vicoletto angusto, occupato da bancarelle che offrivano verdure appassite. Fu allora che Winston riconobbe il posto: il vicolo dava sulla strada principale e più giù, alla prima svolta e a non più di cinque minuti di cammino, c'era la bottega di rigattiere dove aveva comprato il quaderno che adesso era il suo diario. In un negozietto nelle immediate vicinanze aveva comprato la penna e la bottiglietta di inchiostro. Si arrestò per un attimo in cima alle scale. Nel vicolo, sul lato di fronte, vi era un pub piccolo e squallido, le cui finestre sembravano appannate per il freddo, ma in realtà erano ricoperte di polvere. Un uomo assai vecchio, con un paio di baffi bianchi arricciati come le antenne di un gambero, ricurvo ma ancora svelto nei movimenti, spinse la porta a vento ed entrò. Nel guardarlo, Winston si sorprese a pensare che quel vecchio, che ora dimostrava almeno ottant'anni, quando era scoppiata la Rivoluzione doveva essere un uomo di mezz'età. Lui e pochi altri rappresentavano l'unico legame che si potesse fissare tra il presente e il mondo estinto del capitalismo. Perfino nel Partito non erano molti coloro che si erano formati prima della Rivoluzione. La vecchia generazione era stata quasi tutta spazzata via dalle grandi purghe degli anni Cinquanta e Sessanta, e il terrore aveva indotto nei pochi che erano riusciti a sopravvivere una resa intellettuale assoluta. Solo fra i prolet, quindi, si poteva trovare qualcuno in grado di offrire un resoconto veritiero dello stato delle cose durante i primi decenni del secolo. D'un tratto Winston ricordò il passo del libro di storia che aveva ricopiato nel suo diario e gli venne l'impulso, folle, di parlare a quell'uomo. Sarebbe entrato nel pub, avrebbe fatto in modo di attaccare discorso, poi gli avrebbe rivolto delle domande. Gli avrebbe chiesto: "Raccontami di quando eri ragazzo. Com'era la vita, allora? Le cose andavano meglio o peggio di adesso?". In tutta fretta, prima che il terrore s'impadronisse di lui, Winston scese i gradini e attraversò la stradina. Naturalmente, si trattava di un gesto di pazzia pura. Come al solito, non esisteva alcuna norma specifica che vietasse di parlare coi prolet e di frequentare i loro locali, ma un'azione simile era troppo insolita perché potesse passare inosservata. Se fosse entrata una pattuglia di polizia, avrebbe potuto addurre a sua discolpa un malore, ma ben difficilmente gli avrebbero creduto. Aprì la porta, e un atroce lezzo di birra acida lo investì in piena faccia. Appena entrato, il baccano delle voci scese ad almeno la metà del volume. Poteva sentire, alle sue spalle, gli occhi di tutti fissi alla sua tuta azzurra. Alcuni, che stavano giocando a freccette all'estremità opposta della stanza, si fermarono per almeno trenta secondi. Il vecchio che Winston aveva seguito era davanti al banco, impegnato in una sorta di alterco col barista, un giovanotto grande e grosso, col naso adunco e un paio di bicipiti enormi. Un altro gruppetto di avventori faceva cerchio intorno coi bicchieri in mano, godendosi la scena. «Te l'ho chiesto educatamente, no?» chiese il vecchio, drizzando le spalle con aria spavalda. «E tu vuoi farmi credere che in questo locale di merda non c'è neanche un bicchiere da una pinta?» «E che diavolo sarebbe, questa pinta?» rispose il barista, appoggiando la punta delle dita sul banco. «Sentitelo, dice di essere un barista e non sa che cos'è una pinta! Ma ti debbo proprio insegnare l'alfabeto! Sta' a sentire, una pinta è la metà di un quarto e quattro quarti fanno un gallone.» «Mai sentiti» tagliò corto il barista. «Qui serviamo solo litri e mezzi litri. I bicchieri stanno sulla mensola davanti a te.» «Voglio una pinta» insistette il vecchio. «Che ci vuole, a darmi una pinta? Quand'ero giovane questi litri del cazzo non esistevano.» «Quando tu eri giovane, vivevamo ancora sugli alberi» disse il barista lanciando uno sguardo ai presenti. Tutti scoppiarono a ridere e il disagio causato dall'entrata di Winston sembrò dissolversi. La faccia del vecchio, sul cui mento si allungava una peluria bianca, si era fatta di fuoco. Si allontanò dal banco, continuando a borbottare fra sé, e andò a urtare contro Winston, che lo prese gentilmente per un braccio. «Posso offrirti da bere?» gli domandò. «Tu sì che sei un signore!» rispose il vecchio, raddrizzando di nuovo le spalle. Non sembrava essersi accorto della tuta azzurra di Winston. «Una pinta!» ordinò al barista con voce aggressiva, «una pinta di birra! Una birrazza da una pinta!» Il barista spillò due mezzi litri di una birra nerastra, versandola in un paio di grossi bicchieri che aveva sciacquato in un secchio dietro il bancone. Nei pub la birra era l'unica bevanda disponibile, perché il gin era vietato ai prolet, anche se potevano procurarselo senza troppe difficoltà. Il gioco delle freccette era nel frattempo ripreso tranquillamente e gli uomini al banco avevano iniziato a parlare dei biglietti della Lotteria. Per un attimo la presenza di Winston venne dimenticata. Sotto la finestra c'era un tavolo di abete, dove lui e il vecchio avrebbero potuto parlare senza il timore di essere sentiti. Era un'azione pericolosissima, ma in ogni caso, come Winston aveva avuto cura di assicurarsi appena entrato, nel locale non c'erano teleschermi. «Me la poteva dare, una pinta!» si lamentò il vecchio quando si fu seduto davanti al bicchiere. «Mezzo litro non va bene, non mi soddisfa. Un litro è troppo, mi mette subito in moto la vescica e costa un accidente.» «Ne devi aver visti di cambiamenti, da quando eri giovane» disse Winston, tastando il terreno. Gli occhi celesti del vecchio andarono dal tabellone delle freccette al bar e dal bar alla porta dei gabinetti, come se la domanda che gli era stata rivolta si riferisse ai cambiamenti avvenuti nel locale. «La birra era migliore» disse finalmente, «e costava meno! Quand'ero giovane la birra leggera — la chiamavamo wallop —5 costava quattro penny la pinta. Sto parlando di prima della guerra, è logico.» «Di quale guerra stai parlando?» chiese Winston. «Le guerre sono tutte uguali» fu la vaga risposta. Alzò il bicchiere, raddrizzando di nuovo le spalle. «Alla salute di vossignoria!» Nella sua gola scarna, l'aguzzo pomo d'Adamo si alzò e si abbassò con movimenti di una rapidità sconcertante, e la birra sparì. Winston andò al banco, ritornando con altri due mezzi litri e il vecchio parve scordarsi dell'effetto che, a quanto aveva detto, gli faceva un litro intero di birra. «Sei molto più vecchio di me» disse, Winston. «Dovevi essere già adulto quando io sono nato e forse ti ricordi com'era la vita a quel tempo, prima della Rivoluzione. Quelli della mia età non sanno nulla di quei tempi. Possiamo solo leggere quello che c'è nei libri, ma può anche darsi che i libri non dicano la verità. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione in proposito. I libri di storia dicono che prima della Rivoluzione tutto era diverso rispetto a oggi. C'erano la peggiore oppressione, ingiustizia, povertà... insomma il peggio che si possa immaginare. Qui a Londra, da quando nasceva fino alla morte, la gente non aveva cibo a sufficienza. La metà andava addirittura a piedi nudi. Lavoravano dodici ore al giorno, lasciavano la scuola a nove anni, dormivano in dieci in una stanza. Vi erano però pochissime persone, qualche migliaio in tutto, che si chiamavano capitalisti ed erano ricche e potenti. Possedevano tutto quello che c'era da possedere. Vivevano in case favolose con trenta servitori, andavano in automobile o in carrozze a quattro cavalli, bevevano champagne, indossavano cappelli a cilindro...» Il vecchio parve ravvivarsi. «Cappelli a cilindro!» disse. «È straordinario, ho pensato la stessa cosa ieri, non so perché. Sono anni, pensavo, che non vedo un cappello a cilindro. Sono scomparsi. L'ultima volta che ne ho messo uno è stato al funerale di mia cognata. È stato... be', la data non me la ricordo, ma deve essere stato quindici anni fa. Ovviamente, l'avevo affittato per l'occasione.» «I cappelli a cilindro non hanno molta importanza» disse Winston pazientemente. «Il punto è un altro. Questi capitalisti, loro e tutti quegli avvocati e preti e via dicendo che dipendevano da loro, erano i padroni della Terra. Tutto esisteva solo a loro beneficio e voi, il popolo, i lavoratori, eravate i loro schiavi. Potevano fare di voi quello che volevano. Vi potevano spedire in Canada per nave, come se foste bestiame. Potevano dormire con le vostre figlie, se volevano. Potevano farvi frustare col gatto a nove code. Vi dovevate scappellare davanti a loro. Ogni capitalista andava in giro con una banda di lacchè...» Il vecchio si rinfrancò nuovamente. «Lacchè!» disse. «È una parola che non sentivo da una vita. Lacchè... questa parola sì che mi riporta ai tempi andati! Mi ricordo, ma è stato proprio tantissimi anni fa, che a volte la domenica pomeriggio andavo a Hyde Park per sentire le parlate di quei tizi, quelli là, l'Esercito della Salvezza, i cattolici romani, gli ebrei, gli indiani... Be', il nome non me lo ricordo, ma era uno che parlava proprio bene. Gli dava il fatto loro! "Lacchè!" diceva "Lacchè della borghesia! Servi dei padroni!" Usava pure la parola "parassiti". Un'altra era "iene", sì, li chiamava proprio "iene". Si riferiva a quelli del Partito laburista, naturalmente.» Winston ebbe l'impressione che stessero parlando ognuno per i fatti suoi. «Quello che volevo sapere veramente» disse «è questo: pensi che oggi siate più liberi rispetto ad allora? Che vi trattino meglio, come veri esseri umani? A quei tempi i ricchi, le persone importanti...» «La Camera dei Lord» lo interruppe il vecchio, con l'aria di chi si ricorda desiderio. Ciò che lo affascinava non era tanto la sua bellezza, quanto l'impressione che trasmetteva di appartenere a un'epoca totalmente diversa da quella attuale. Quel vetro levigato, trasparente come può esserlo l'acqua piovana, non somigliava ad alcun vetro che lui avesse mai visto. La sua manifesta inutilità lo rendeva doppiamente attraente, anche se poteva supporre che un tempo fungesse da fermacarte. In tasca era molto pesante, ma per fortuna non creava rigonfiamenti visibili. Era un oggetto bizzarro a possedersi, per un membro del Partito poteva essere compromettente. Tutte le cose vecchie, nonché tutte le cose belle, erano sempre vagamente sospette. Intascati i quattro dollari, il vecchio era diventato visibilmente più allegro e Winston si rese conto che ne avrebbe accettati anche solo tre, o addirittura due. «Di sopra c'è un'altra stanza. Forse non vi dispiacerebbe darci un'occhiata» disse il vecchio. «Non che ci sia dentro granché, solo qualche cosetta. Se vogliamo andare di sopra, però, ci serve un po' di luce.» Accese un'altra lampada, poi, camminando ricurvo, lo precedette lentamente su per le scale ripide e consunte, quindi per uno stretto corridoio, fino a quando giunsero in una camera che non dava sulla strada ma su un cortiletto e su una selva di comignoli. Winston osservò che i mobili erano disposti come se la stanza fosse ancora abitata. Sul pavimento vi era una striscia di tappeto, alle pareti un quadro e, accostata al camino, una poltrona sfondata. Sulla mensola del caminetto ticchettava un vecchio orologio, il cui quadrante segnava le ore da uno a dodici. Sotto la finestra, occupando quasi un quarto della stanza, vi era un letto enorme, ancora provvisto di materasso. «Vivevamo qui» disse il vecchio quasi con aria di scusa, «prima che mia moglie morisse. Sto vendendo i mobili uno alla volta. Ecco, questo è proprio un bel letto di mogano, o almeno lo sarebbe se si riuscisse a scacciarne le cimici. Ma forse lo trovereste un po' scomodo.» Teneva la lampada ben sollevata, in modo da illuminare l'intera stanza, e in quella luce calda e diffusa il posto appariva stranamente invitante. A Winston balenò in mente che probabilmente non sarebbe stato troppo difficile prenderla in affitto per qualche dollaro la settimana, ammesso che avesse osato correre un simile rischio. Era un progetto assurdo, impossibile, al quale rinunciare all'istante, ma la stanza aveva destato in lui una specie di nostalgia, di atavica memoria. Aveva l'impressione di sapere perfettamente che cosa si provava a stare in una stanza come quella, seduti in poltrona, con i piedi sul parafuoco e il bricco per il tè sulla piastra: completamente solo, completamente al sicuro, senza nessuno che lo sorvegliasse, senza nessuna voce che lo perseguitasse, senza altri rumori che non fossero il fischio del bricco e l'amichevole ticchettio dell'orologio. «Ma non c'è il teleschermo!» non poté fare a meno di mormorare. «Ah» disse il vecchio, «mai avuta roba del genere. Costano troppo e, comunque, non ne ho mai sentito il bisogno. In quell'angolo c'è un bel tavolo a ribalta: naturalmente, se voleste usarlo in tutta la sua lunghezza, dovreste metterci dei cardini nuovi.» Nell'altro angolo c'era una piccola libreria, che aveva subito attratto l'attenzione di Winston. Non conteneva che robaccia: anche nei quartieri prolet la caccia ai libri e la loro successiva distruzione era stata condotta con accanimento feroce. Era improbabile che in tutta l'Oceania fosse sopravvissuta anche una sola copia di un libro stampato prima del 1960. Intanto il vecchio, che ancora reggeva la lampada, si era fermato davanti al quadro con la cornice in legno di palissandro, appeso all'altro lato del camino, proprio di fronte al letto. «Caso mai aveste un qualche interesse per le vecchie stampe...» cominciò a dire in tono garbato. Winston si avvicinò per osservare il quadro. Era un'incisione su acciaio, raffigurante un edificio ovoidale con finestre rettangolari e una torre bassa sul davanti. Dei binari correvano attorno alla costruzione, mentre sullo sfondo era visibile quella che sembrava una statua. Winston stette a guardarlo attentamente per alcuni istanti. La scena aveva un che di familiare, anche se la statua non se la ricordava proprio. «La cornice è fissata al muro» disse il vecchio, «ma se il quadro v'interessa posso svitarla...» «Conosco quell'edificio» disse infine Winston. «Adesso sono solo rovine. Si trova nel bel mezzo della strada, all'esterno del Palazzo di Giustizia.» «Esattamente, all'esterno del tribunale. È stato bombardato molti anni fa. Un tempo era una chiesa, la chiesa di San Clemente.» Sorrise come per scusarsi, quasi avesse detto qualcosa di leggermente ridicolo, e aggiunse: «"Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni!"». «Che cos'è?» chiese Winston. «Ah... "Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni"; è una filastrocca di quand'ero bambino. Non ricordo come continua, ma so come finisce: "Ecco la carrozza che ti porta alla festa, ecco la scure che ti taglia la testa!". Era una specie di danza. Bisognava passare sotto le mani tese degli altri bambini, e quando si arrivava a "Ecco la scure che ti taglia la testa" le mani si abbassavano per afferrarvi. Nella filastrocca c'erano i nomi di tutte le chiese di Londra, almeno di quelle più importanti, voglio dire.» Winston provò a chiedersi a quale secolo potesse appartenere la chiesa di San Clemente. Era sempre difficile stabilire l'età degli edifici londinesi. Nel caso di costruzioni grandi e imponenti, se apparivano ragionevolmente nuove all'aspetto, ne veniva attribuita automaticamente la costruzione al periodo successivo alla Rivoluzione. Invece, quando si trattava di edifici palesemente meno recenti, li si assegnava a un periodo oscuro e non meglio identificato, detto Medioevo. Si dava per certo che durante i secoli in cui aveva dominato, il capitalismo non avesse prodotto alcunché di notevole. Era impossibile imparare la storia dall'architettura così come lo era se ci si affidava ai libri di storia. Le statue, le iscrizioni, le lapidi, i nomi delle strade, insomma tutto ciò che potesse gettare luce sul passato, era stato sistematicamente alterato. «Non sapevo che un tempo fosse una chiesa» disse Winston. «Ne sono rimaste parecchie» disse il vecchio, «davvero parecchie, anche se ora sono adibite ad altri usi. Ma com'era la rima? Ah, ecco, ci sono: Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni. Mi devi un soldino, dicono quelli di San Martino... Non so andare oltre. Il soldino era una moneta di bronzo, del valore corrispondente a quello di un centesimo.» «Dove si trova la chiesa di San Martino?» chiese Winston. «San Martino? C'è ancora, si trova in Piazza Vittoria, di fianco alla pinacoteca. È un edificio con una specie di portico triangolare, colonne sulla facciata e un'alta scalinata.» Winston lo conosceva bene. Era un museo in cui erano esposti, a fini propagandistici, oggetti di vario tipo: modellini di bombe-razzo e di Fortezze Galleggianti, tableaux in cera che illustravano le atrocità commesse dal nemico eccetera eccetera. «La chiamavano chiesa di San Martino al Campo» aggiunse il vecchio, «anche se non ricordo che ci fossero campi da quelle parti.» Winston non comprò il quadro. A possederlo, sarebbe stato un oggetto ancora più stravagante del fermacarte di vetro. Oltretutto, portarlo a casa era impossibile, a meno di non levarlo dalla cornice. Tuttavia si trattenne per qualche minuto ancora col vecchio, che non si chiamava Weeks — come si sarebbe potuto dedurre dall'insegna del negozio — ma Charrington. A quanto era dato di capire, il signor Charrington era un vedovo di sessantatré anni e viveva in quella bottega da trenta. In tutti quegli anni aveva pensato spesso di cambiare il nome dipinto sulla vetrina, ma poi non ne aveva mai fatto nulla. Mentre conversavano, nella mente di Winston continuavano a rincorrersi le parole della filastrocca incompiuta. Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni. Mi devi un soldino, dicono quelli di San Martino! Era un fatto curioso, ma quando si ripetevano fra sé queste parole, si aveva l'illusione di sentire davvero un suono di campane, di cogliere il suono di una Londra ormai perduta, ma che ancora esisteva da qualche parte, camuffata e immersa nell'oblio. Gli parve di sentirle suonare a distesa, da un campanile immaginario all'altro. Eppure, per quanto riusciva a ricordare, in vita sua non aveva mai sentito il suono delle campane. Si congedò dal signor Charrington e scese le scale da solo, in modo che l'uomo non vedesse che, prima di uscire dalla porta, controllava la strada a destra e a sinistra. Aveva già deciso che dopo un lasso di tempo ragionevole, diciamo un mese, avrebbe corso l'azzardo di una nuova visita al negozio. Forse non era più pericoloso che saltare una sera al Centro Sociale. Il gesto di vera follia — una volta comprato il diario senza alcuna garanzia sull'affidabilità del proprietario — era stato quello di ritornarci, in quel negozio. Tuttavia... Sì, ci sarebbe tornato certamente. Avrebbe comprato un altro po' di quella splendida paccottiglia, avrebbe comprato l'incisione della chiesa di San Clemente, l'avrebbe tolta dalla cornice e nascosta sotto la giacca per portarsela a casa. Sarebbe riuscito a tirare fuori dalla memoria del signor Charrington il resto della filastrocca. Gli balenò di nuovo per la mente perfino il pazzesco progetto di prendere in affitto la stanza al piano di sopra. Per cinque secondi circa l'eccitazione lo rese imprudente ed egli si ritrovò in strada dopo aver gettato solo una fugace occhiata attraverso la vetrina. Aveva perfino cominciato a canticchiare fra sé, su un'aria improvvisata, le parole: Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni. Mi devi un soldino, dicono quelli... A un tratto il cuore gli si gelò in petto, mentre gli parve che le viscere si convertissero in acqua. Da una distanza inferiore ai dieci metri, una figura in tuta azzurra gli stava venendo incontro sul marciapiede. Era la ragazza del Reparto Finzione, la ragazza dai capelli neri. La luce languiva, ma non gli fu difficile riconoscerla. La donna lo guardò dritto in faccia, poi tirò innanzi a passi veloci, come se non lo avesse neanche visto. Per qualche secondo Winston restò come paralizzato, dopodiché girò a destra e si allontanò a passi pesanti, senza neanche rendersi conto che stava procedendo nella direzione sbagliata. In ogni caso, ora tutto era chiaro, non c'erano più dubbi sul fatto che quella ragazza lo stesse spiando. Doveva averlo seguito fin lì, perché non era verosimile che solo il caso l'avesse spinta a passeggiare per il medesimo oscuro vicoletto nella medesima serata, a chilometri di distanza dai quartieri dove abitavano i membri del Partito. Era una coincidènza troppo grande. Che poi si trattasse di un vero e proprio agente della Psicopolizia o di una spia dilettante, animata dall'eccessivo zelo, era un fatto irrilevante. Ciò che contava era che lo stava spiando. Con ogni probabilità lo aveva anche visto mentre entrava nel pub. Camminare era una tortura. A ogni passo il pesante oggetto di vetro che teneva in tasca gli batteva contro la coscia, e Winston provò perfino la tentazione di tirarlo fuori e gettarlo via. Soprattutto, il ventre sembrava sul punto di scoppiargli. Se non avesse trovato subito un gabinetto pubblico, sarebbe crepato, ma era difficile che in quei paraggi ce ne fossero. Poi lo spasmo passò, lasciando dietro di sé una specie di sordo indolenzimento. La strada era un vicolo cieco. Winston si fermò, esitò per diversi secondi, incerto sul da farsi, poi si voltò indietro, ritornando sui suoi passi. Nel farlo gli venne di pensare che la ragazza gli era passata davanti solo tre minuti prima e che, se avesse corso, sarebbe forse riuscito a raggiungerla. Senza farsi vedere, avrebbe potuto seguirla fino a un luogo solitario, quindi fracassarle il cranio con un sasso. Il blocco di vetro che aveva in tasca era sufficientemente pesante. Ma abbandonò subito quest'idea, perché il solo pensiero di compiere un qualsiasi sforzo fisico gli risultava insopportabile. Non ce la faceva a correre, non sapeva come si vibra un colpo del genere, per non parlare del fatto che la donna era giovane e robusta, e si sarebbe difesa. Pensò anche di dirigersi in tutta fretta al Centro Sociale e restarvi fino all'ora della chiusura, in modo da procurarsi almeno un alibi parziale per la serata, ma anche questo piano gli parve impraticabile. Una stanchezza mortale si era impadronita di lui. Desiderava solo tornare a casa il più presto possibile, mettersi a sedere e starsene in pace. Erano passate le ventidue quando fece ritorno al suo appartamento. Alle ventitré sarebbero state spente tutte le luci. Winston andò in cucina e mandò giù quasi una tazza intera di Gin Vittoria, dopodiché si sedette al tavolo del suo piccolo rifugio e tirò fuori il diario. Non lo aprì subito. Dal teleschermo proveniva una metallica voce di donna che starnazzava una canzone patriottica. Restò a guardare la copertina marmorizzata del quaderno, cercando inutilmente di non prestare attenzione a quella voce. Era di notte, sempre di notte, che vi venivano a prendere. La cosa migliore era uccidersi prima che vi arrestassero, e certamente molti lo facevano: diverse sparizioni misteriose erano in realtà altrettanti suicidi. Ci voleva però un coraggio disperato per uccidersi in un mondo in cui era impossibile procurarsi un'arma da fuoco o un veleno rapido e sicuro. Pensò, provando una sorta di stupore, all'inutilità biologica del dolore e della paura, e al tradimento del corpo, che puntualmente si immobilizza in un'accidia mortale tutte le volte in cui è necessario produrre uno sforzo Una volta finito con i documenti a cui stava lavorando, li arrotolò e li infilò nel tubo della posta pneumatica. Erano trascorsi otto minuti. Si riaggiustò gli occhiali sul naso, emise un sospiro e accostò a sé il blocco di carte successivo, che aveva in cima il foglietto di carta. Lo aprì. Vi era scritto, in grossi caratteri vergati con calligrafia incerta: TI AMO. Rimase stupefatto per diversi secondi, non riuscendo nemmeno a buttare l'oggetto incriminato nel buco della memoria. Quando infine lo fece, non riuscì a resistere alla tentazione di leggerlo prima un'altra volta, pur sapendo quanto fosse pericoloso mostrare un interesse eccessivo. Voleva essere sicuro che le parole fossero proprio quelle. Per il resto della mattinata lavorare gli riuscì difficilissimo. La necessità di non lasciar trapelare davanti al teleschermo la sua agitazione era perfino più gravosa del doversi concentrare su carte insignificanti. Era come se un fuoco gli ardesse nel ventre. Il pranzo nella mensa surriscaldata, affollata e rumorosissima fu un vero tormento. Aveva sperato di restare un po' solo durante quell'ora di pausa, ma sventura volle che quell'imbecille di Parsons si piazzasse proprio accanto a lui, trasudando un tanfo quasi più intenso dell'odore metallico dello stufato e riversandogli addosso un torrente di chiacchiere sui preparativi per la Settimana dell'Odio. Manifestava un particolare entusiasmo per una scultura in cartapesta, alta due metri, rappresentante la testa del Grande Fratello, che la squadra delle Spie di cui faceva parte la figlia stava costruendo per l'occasione. Winston era irritato soprattutto dal fatto che in quella babele di voci riusciva a malapena a sentire quello che Parsons stava dicendo e doveva chiedergli in continuazione di ripetere questo o quel particolare insignificante. Per un istante gettò lo sguardo in direzione della ragazza dai capelli neri, che se ne stava seduta all'estremità opposta della sala in compagnia di altre ragazze, ma lei parve non averlo visto, e lui stesso non guardò più in quella direzione. Nel pomeriggio le cose andarono meglio. Subito dopo la fine del pranzo gli pervenne del materiale delicato e difficile, che avrebbe richiesto parecchie ore di lavoro, con assoluta precedenza su tutto il resto. Consisteva nella falsificazione di una serie di rapporti sulla produzione risalenti a due anni prima, che andavano riscritti in modo da gettare discredito su un membro insigne del Partito Interno, ora caduto in disgrazia. Era il tipo di lavoro in cui Winston riusciva meglio, e per più di due ore riuscì a non pensare minimamente alla ragazza. Poi il ricordo del suo volto lo assalì di nuovo, e con esso un desiderio prepotente e insopprimibile di restare solo. Finché non fosse stato solo, sarebbe stato impossibile pensare ai nuovi sviluppi. Quella sera aveva preso l'impegno di andare al Centro Sociale. Trangugiò un altro pasto insapore alla mensa, si precipitò al Centro, partecipò a una di quelle solenni pagliacciate che chiamavano "discussioni di gruppo"; giocò un paio di partite a ping-pong, ingollò diversi bicchieri di gin e si sorbì per mezz'ora una conferenza dal titolo "Il Socing considerato in relazione al gioco degli scacchi". Il cuore gli si torceva per la noia, ma una volta tanto non aveva sentito l'impulso di sottrarsi alla serata al Centro. La vista delle parole Ti amo aveva fatto rinascere in lui il desiderio di vivere e perciò correre rischi su faccende di poca importanza gli era subito parso futile. Fu solo alle ventitré, quando ritornò a casa e si mise a letto, in quel buio nel quale si era al sicuro dal teleschermo finché si restava in silenzio, che gli riuscì di pensare in maniera consequenziale. C'era un problema pratico da risolvere: come contattare la ragazza e organizzare un incontro. Non prese più in considerazione l'ipotesi che volesse tendergli una trappola: l'evidente agitazione quando gli aveva messo in mano il foglietto di carta lo aveva rassicurato su questo punto. Era certamente atterrita fin nelle profondità del suo essere. Né gli passò per la mente l'idea di rifiutare le sue profferte. Solo cinque sere prima aveva contemplato l'ipotesi di fracassarle la testa a colpi di pietra, ma ora la cosa non aveva più importanza. Pensò al suo corpo giovane e nudo, così come lo aveva visto in sogno. L'aveva creduta una sciocca come tutte le altre, con la testa piena di odio e menzogne, e il ventre di ghiaccio. Il pensiero che potesse perderla, che quel corpo giovane e bianco potesse sfuggirgli lo prese come una febbre! Più di ogni altra cosa, lo spaventava l'idea che se non fosse riuscito a mettersi in contatto con lei, la ragazza avrebbe potuto cambiare idea. Ma le difficoltà pratiche che si frapponevano a un loro incontro erano enormi: come tentare di fare una mossa dopo aver già subito scacco matto. Da qualunque parte ci si voltasse c'erano teleschermi. Già i cinque minuti successivi al momento in cui aveva letto il biglietto gli erano bastati a esplorare le diverse possibilità d'incontrarla; ora, tuttavia, che aveva tempo a sufficienza per pensare, le ripercorse tutte, come se mettesse in bella fila sul tavolo degli strumenti di lavoro. Non era neanche pensabile che si potesse ripetere il tipo d'incontro che avevano avuto quella mattina. Se la ragazza fosse stata impiegata all'Archivio, sarebbe stato relativamente semplice, ma lui aveva solo una vaga idea di dove fosse ubicato, all'interno dell'edificio, il Reparto Finzione, né aveva una qualsiasi ragione che lo autorizzasse ad andarci. Se avesse saputo dove abitava e a che ora usciva dall'ufficio, avrebbe anche potuto fare in modo d'incontrarla "per caso" mentre ritornava a casa. D'altra parte, cercare di seguirla a fine lavoro sarebbe stato rischioso, perché avrebbe dovuto aggirarsi nei pressi del Ministero e ciò sarebbe stato rilevato certamente. Quanto a mandarle una lettera, non era neanche il caso di parlarne. Era infatti prassi corrente, e neanche segreta, che prima di essere inoltrate tutte le lettere venissero aperte. In realtà, erano ben pochi quelli che scrivevano lettere. Per quei messaggi che occasionalmente era necessario inviare, esistevano cartoline prestampate con lunghi elenchi di frasi, in cui bastava depennare quelle che non si applicavano al caso specifico. E in ogni caso Winston non solo ignorava l'indirizzo della ragazza, ma non sapeva neanche come si chiamasse. Infine stabilì che il posto più sicuro era la mensa. Se gli fosse riuscito di trovarla sola a un tavolo, più o meno al centro della sala, non troppo vicino ai teleschermi, con un vocio sufficientemente alto tutt'intorno — e se tutte queste condizioni fossero durate per almeno una trentina di secondi — sarebbe stato possibile scambiarsi qualche parola. Per una settimana intera dopo l'incidente, la vita fu un sogno inquieto. Il giorno dopo la ragazza fece la sua comparsa nella mensa quando si era già sentito il fischio e lui stava per uscire. Con ogni probabilità, le avevano cambiato il turno. Passarono l'uno davanti all'altra senza neanche guardarsi. Il giorno seguente era in mensa alla solita ora, ma in compagnia di altre tre ragazze e proprio sotto un teleschermo. Poi, per tre orribili giorni, non comparve affatto. Winston aveva l'impressione che tutta la sua mente e tutto il suo corpo fossero affetti da una ipersensibilità insopportabile, una sorta di trasparenza che gli rendeva angoscioso ogni movimento, ogni rumore, ogni contatto, ogni parola che gli venisse fatto di pronunciare o ascoltare. Perfino nel sonno l'immagine di lei lo perseguitava. Durante quei giorni non toccò neanche il diario. Trovava un po' di requie solo lavorando, quando riusciva, di tanto in tanto, a dimenticare se stesso per una decina di minuti di seguito. Non c'era assolutamente modo di sapere che cosa le fosse capitato, né poteva chiedere a chicchessia. Poteva darsi che fosse stata vaporizzata, che si fosse suicidata, che l'avessero trasferita in una località remota, ma poteva anche darsi — ed era l'ipotesi peggiore — che avesse semplicemente cambiato idea, decidendo quindi di evitarlo. Il giorno dopo riapparve. Non aveva più il braccio al collo, ma solo un cerotto attorno al polso. Il sollievo nel rivederla fu così grande, che Winston non poté evitare di guardarla fisso per alcuni secondi. Il giorno seguente riuscì quasi a rivolgerle la parola. Quando entrò nella mensa, vide che stava seduta a un tavolo a sufficiente distanza dalla parete, sola. Era presto e non c'era ancora molta gente. La fila in cui si trovava Winston procedette regolarmente finché non arrivò quasi al banco, poi si bloccò per un paio di minuti perché uno che si trovava più avanti sosteneva di non aver ricevuto la sua pasticca di saccarina. Comunque fosse, la ragazza era ancora sola quando Winston, riempito il vassoio, tentò di raggiungere il suo tavolo. Avanzò con fare noncurante in quella direzione, fingendo di volgere gli occhi, nella ricerca di un posto, a un tavolo un po' più in là rispetto a dove lei stava seduta. Era giunto ormai a soli tre metri. Altri due secondi e ce l'avrebbe fatta. Proprio in quel momento una voce alle sue spalle chiamò: «Smith!». Finse di non sentire. «Smith!» ripeté la voce, con più forza. Non c'era più nulla da fare. Si voltò. Un giovanotto dai capelli biondi e la faccia da ebete, di nome Wilsher, che lui conosceva appena, lo stava invitando con un largo sorriso a sedere a un posto vuoto al suo tavolo. Non era consigliabile rifiutare. Una volta invitato, non poteva andarsi a sedere al tavolo di una ragazza che non aveva compagnia. Il suo gesto avrebbe dato nell'occhio. Sorridendo amichevolmente, si sedette al tavolo di Wilsher, la cui faccia bionda e insignificante si aprì a sua volta in un largo sorriso. Winston sognò di spaccargliela con un bel colpo di piccone. Dopo qualche minuto, il tavolo a cui sedeva la ragazza era pieno. Tuttavia lei doveva averlo visto e forse aveva colto il messaggio. Il giorno dopo Winston fece in modo di arrivare per tempo. Manco a dirlo, la ragazza stava seduta più o meno allo stesso tavolo, sola. In fila lo precedeva un omuncolo assai svelto nei movimenti, una specie di scarafaggio con la faccia piatta e un paio di occhietti sospettosi. Mentre si stava allontanando dal banco col suo vassoio, Winston si accorse che l'omuncolo si stava dirigendo proprio verso il tavolo della ragazza. Si sentì nuovamente prendere dallo scoramento. C'era un posto vuoto anche a un tavolo più avanti, ma qualcosa nei movimenti dell'omuncolo lasciava capire che avrebbe scelto la soluzione per lui più comoda e si sarebbe seduto a quello dove si trovava la ragazza. Sconfortato, Winston lo seguì. Se non fosse riuscito a stare un momento solo con lei, tutto sarebbe stato inutile. Proprio in quel momento vi fu un tremendo fracasso. L'omuncolo era bocconi per terra e il suo vassoio era volato per aria, lasciando sul pavimento due rivoli di minestra e di caffè. Con uno scatto, fu di nuovo in piedi, lanciando un'occhiata cattiva a Winston, che evidentemente sospettava di averlo fatto inciampare. Ma la cosa finì lì. Cinque secondi dopo, col cuore che gli balzava in petto, Winston era seduto al tavolo della ragazza. Non la guardò in faccia. Liberò il vassoio e cominciò subito a mangiare. Era fondamentale parlare subito, prima che arrivasse qualcun altro, ma adesso una paura terribile si era impadronita di lui. Era passata una buona settimana da quando lei lo aveva contattato, e forse aveva cambiato idea, anzi aveva certamente cambiato idea. Era impossibile che questa storia giungesse a buon fine: cose del genere non accadevano nella vita reale. E forse avrebbe rinunciato una volta per tutte ad aprire bocca se proprio allora non avesse scorto Ampleforth, il poeta coi ciuffi di peli nelle orecchie, che veniva avanti lentamente, vassoio in mano, guardandosi intorno in cerca di un posto libero. A modo suo, Ampleforth provava una forte simpatia per Winston e se lo avesse visto si sarebbe certamente seduto al suo tavolo. Restava un solo minuto per agire. Intanto, sia lui che la ragazza continuavano a mangiare come se nulla fosse. La sbobba che avevano davanti era uno stufato molto diluito, in realtà una banale zuppa di fagioli bianchi. Winston cominciò a parlare in una specie di sussurro. Nessuno dei due alzò gli occhi. Continuarono a ingoiare quella brodaglia, ma fra una cucchiaiata e l'altra, e parlando a voce bassa e in tono inespressivo, riuscirono a comunicarsi l'indispensabile. «A che ora esci dall'ufficio?» «Alle diciotto e trenta.» «Dove ci possiamo vedere?» «In Piazza Vittoria, accanto al monumento.» «È pieno di teleschermi.» «Se c'è folla non ha importanza.» «Segni convenzionali?» «Nessuno. Non ti avvicinare a me se non mi vedi in mezzo a molte persone. E non mi guardare. Limitati a starmi nei pressi.» «A che ora?» «Alle diciannove.» «Va bene.» Ampleforth non vide Winston e si sedette a un altro tavolo. Lui e la ragazza non si rivolsero più la parola e, per quanto era possibile per due persone che stavano sedute l'una di fronte all'altra al medesimo tavolo, non si guardarono nemmeno. Lei finì rapidamente di mangiare e andò via, mentre lui restò a fumarsi una sigaretta. Winston arrivò in Piazza Vittoria prima dell'ora stabilita. Si mise a passeggiare avanti e indietro sotto l'enorme colonna scanalata, in cima alla quale la statua del Grande Fratello scrutava l'orizzonte rivolto a sud, là dove aveva debellato l'aviazione dell'Eurasia (fino a pochi anni prima si era trattato dell'aviazione dell'Estasia) nella Battaglia di Pista Uno. Nella strada di fronte vi era una statua equestre che avrebbe dovuto rappresentare Oliver Cromwell. Erano passati cinque minuti dall'ora stabilita, ma la ragazza non si era vista. Ancora una volta Winston si sentì prendere da una paura terribile. Non sarebbe venuta, aveva cambiato idea! Passeggiò lentamente verso il lato nord della piazza e provò una sorta di flebile piacere nel riconoscere la chiesa di San Martino le cui campane, finché c'erano state, avevano detto col loro suono: "Mi devi un soldino". Fu allora che la vide. In piedi sotto il monumento, leggeva o fingeva di leggere un manifesto che avvolgeva la colonna. Non era prudente accostarsi a lei fino a quando la piazza non fosse stata un po' più piena di gente. Vi erano teleschermi tutt'intorno al frontone. Proprio in quel momento si udirono, provenienti da sinistra, alte grida e un rombo di autoveicoli e parve che all'improvviso tutti si mettessero a correre in quella direzione. La ragazza girò velocemente intorno ai leoni collocati alla base del monumento e prese a correre come gli altri. Winston la seguì. Mentre correva, sentì gridare che stava passando un convoglio di prigionieri eurasiatici. Si era già radunata una gran folla che ostruiva tutto il lato sud della piazza. Winston, che sentito sollevato, ma ora, guardando il corpo snello e forte della donna che camminava davanti a lui, con la fascia scarlatta stretta quanto bastava a esaltare la curva dei fianchi, la consapevolezza della propria inferiorità gli comunicò un senso di angoscia. Perfino adesso gli sembrava più che probabile che, quando si fosse voltata a guardarlo, avrebbe finito col cambiare idea. Anche la soavità dell'aria e il verde delle foglie lo intimidivano. Già durante la passeggiata che aveva fatto quando era uscito dalla stazione, il sole di maggio l'aveva fatto sentire sporco e, per così dire, sbiadito, una creatura che viveva sempre al chiuso e aveva i pori della pelle impregnati della nera polvere di Londra. Si rese conto che forse fino a quel momento lei non lo aveva mai visto in piena luce e all'aperto. Giunsero all'albero caduto di cui gli aveva parlato. La ragazza lo superò d'un balzo e si aprì un varco fra i cespugli, in un punto in cui farlo sembrava impossibile. Winston le andò dietro e scoprì che si trovavano ora in una radura naturale, una collinetta circondata da alberelli alti, che la chiudevano completamente. La ragazza si fermò e si girò. «Eccoci qua» disse. Era di fronte a lui, a diversi passi di distanza, ma anche ora Winston non osava accostarsi a lei. «Non ho aperto bocca lungo il sentiero» proseguì la ragazza, «per paura di qualche microfono nascosto. Non credo che ce ne siano, ma non si può mai sapere. C'è sempre la possibilità che uno di quei porci riconosca la tua voce. Qui siamo al sicuro.» Winston ancora non osava avvicinarsi a lei. «Siamo al sicuro?» ripeté stupidamente. «Sì. Osserva gli alberi.» Erano frassini minuscoli, che qualche volta dovevano essere stati tagliati ma poi, ricrescendo, avevano dato vita a una sorta di foresta di pali sottili come il polso di una mano. «Piantarvi dei microfoni è impossibile. E poi, sono già stata qui.» Fino a quel momento, si erano limitati a parlare, ma Winston era riuscito ad andarle un po' più vicino. La ragazza gli stava davanti, quasi sull'attenti, con un sorriso vagamente ironico sulla bocca, come a chiedergli che cosa stesse aspettando. Le campanule erano adesso sparpagliate al suolo, quasi fossero cadute da sole. Winston le prese la mano. «Forse non ci crederai» disse, «ma fino a questo momento non sapevo nemmeno di che colore fossero i tuoi occhi.» Notò che erano marroni, di una tonalità piuttosto chiara, mentre le ciglia erano nere. «E tu, adesso che mi hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?» «Certo, che ci riesco.» «Ho trentanove anni, una moglie di cui non posso liberarmi, le vene varicose, cinque denti falsi.» «Per me tutto questo non ha la benché minima importanza» disse la ragazza. Un attimo dopo, senza che nemmeno si capisse di chi era stata la prima mossa, lei era fra le sue braccia. Al principio le sensazioni di Winston furono di pura e semplice incredulità. Quel bel corpo giovane era stretto contro il suo, ed egli poteva sentire sul volto la massa dei suoi capelli neri. Non era un sogno. Quando lei rialzò la testa, Winston prese a baciarle la bocca larga e rossa. La ragazza gli aveva stretto le braccia al collo, e ora lo chiamava tesoro, mio caro, amore mio. L'aveva tirata giù per terra: non opponeva alcuna resistenza, poteva davvero fare di lei quello che voleva. La verità, tuttavia, era che lui, se si esclude ciò che trasmetteva il mero contatto fisico, non provava sensazioni di sorta. Sentiva solo incredulità e orgoglio. Era felice di ciò che stava accadendo, ma non provava desiderio. Era troppo presto. La sua giovinezza e la sua bellezza l'avevano intimidito. Non sapeva neanche perché, ma era troppo abituato a stare senza una donna. La ragazza si ricompose, togliendosi una campanula dai capelli, poi sedette accanto a lui, passandogli un braccio attorno alla vita. «Non importa, caro, non c'è fretta. Abbiamo l'intero pomeriggio. Non è un rifugio splendido? L'ho scoperto una volta che mi sono persa durante una gita sociale. Se dovesse arrivare qualcuno, lo sentiremmo a cento metri di distanza.» «Come ti chiami?» le chiese Winston. «Julia. Il tuo nome invece lo conosco. Ti chiami Winston, Winston Smith.» «Come lo hai scoperto?» «A scoprire le cose sono molto più brava di quello che credi, mio caro. Dimmi, che ne pensavi di me prima del giorno in cui ti ho passato il biglietto?» Non gli venne neanche in mente di dirle bugie. Gli sembrò anzi un gesto d'amore non nasconderle il peggio. «Odiavo anche il solo vederti» rispose. «Avrei voluto violentarti e poi ucciderti. Due settimane fa ho pensato seriamente di fracassarti la testa a colpi di pietra. Se proprio lo vuoi sapere, pensavo che tu avessi a che fare con la Psicopolizia.» La ragazza rise divertita. Evidentemente scorgeva nelle parole di Winston un tributo alla perfezione del suo camuffamento. «La Psicopolizia, addirittura! Ma dici sul serio?» «Be', magari non è così, ma osservando il tuo aspetto, il tuo comportamento... capisci, tu sei giovane, fresca, sana... pensavo che probabilmente...» «Pensavi che fossi un bravo membro del Partito, pura nel pensiero e nell'azione. Striscioni, cortei, slogan, gite sociali, insomma la solita solfa. E hai pensato che alla prima occasione ti avrei denunciato come psicocriminale, così ti avrebbero fatto fuori.» «Sì, pensavo qualcosa del genere. Moltissime ragazze sono così.» «È tutta colpa di questa porcheria» disse la ragazza, strappandosi la fascia scarlatta della Lega Giovanile Antisesso e scaraventandola contro un ramo. Poi, come se nel toccarsi la vita si fosse ricordata di qualcosa, si frugò nella tasca della tuta e ne tirò fuori una barretta di cioccolato. La spezzò in due e ne diede metà a Winston. Prima ancora di toccarla, Winston aveva già capito dall'aroma che si trattava di un cioccolato molto particolare. Era molto scuro, lucido, avvolto in carta d'argento. Il cioccolato che conosceva era di un marrone opaco, si sfaldava fra le dita e al gusto ricordava, se si poteva arrischiare il paragone, il fumo che si sprigiona quando si da fuoco a un mucchio d'immondizia. Eppure, c'era stata una volta in cui egli aveva mangiato del cioccolato come quello che gli aveva dato la ragazza. Non appena ne aveva aspirato il profumo, gli si era ridestato nella mente un ricordo che non riusciva a fissare, e purtuttavia intenso e perturbante. «Dove l'hai preso?» le domandò. «Al mercato nero» rispose lei con noncuranza. «All'apparenza io sono proprio come quelle ragazze che dicevi. Riesco bene nelle attività sportive, sono stata caposquadra delle Spie, tre sere a settimana presto lavoro volontario per la Lega Giovanile Antisesso. Ho passato ore e ore a incollare sui muri di tutta Londra quella loro robaccia. Nei cortei sono quella che regge immancabilmente l'asta degli striscioni. Ho sempre l'aria giuliva, non mi tiro mai indietro quando c'è da fare e se sto in gruppo grido come tutti gli altri. Ecco tutto. È l'unico modo per non avere seccature.» Il primo frammento di cioccolato gli si era sciolto sulla lingua. Il sapore era delizioso, ma perdurava quel ricordo che pareva muoversi intorno ai margini della sua coscienza, una memoria intensa, ma alla quale non riusciva a dare una forma precisa, come accade quando si guarda un oggetto con la coda dell'occhio. Lo respinse via da sé, sicuro solo del fatto che si riferiva a un'azione già compiuta che avrebbe voluto — ma era impossibile — cancellare. «Sei molto giovane» disse. «Hai dieci o quindici anni meno di me. Che cosa ti attira in un uomo come me?» «Qualcosa nel tuo volto. Ho pensato che dovevo rischiare. Sono piuttosto brava a individuare quelli che non fanno parte del gregge. Ho capito subito, non appena ti ho visto, che eri contro di loro.» Loro, fu subito chiaro, si riferiva al Partito e ai membri del Partito Interno in specie, dei quali lei parlava con un odio schietto e con toni di scherno che trasmisero a Winston una certa inquietudine, anche se sapeva che non avrebbero potuto trovarsi in un luogo più sicuro. Una cosa di lei che lo lasciava stupefatto era la volgarità del linguaggio. Era ritenuto sconveniente che i membri del Partito usassero un linguaggio sboccato. Lo stesso Winston imprecava di rado, e comunque mai ad alta voce. Sembrava invece che Julia non riuscisse a nominare il Partito, e soprattutto il Partito Interno, senza ricorrere a quel tipo di parole che si vedono scritte col gesso sui muri scrostati dei vicoli. La cosa non gli dispiaceva, perché vi vedeva un segno della sua ribellione contro il Partito, e anche perché aveva un che di naturale, di sano, come lo starnuto di un cavallo che puzza di fieno vecchio. Si erano allontanati dalla radura e ora passeggiavano di nuovo nell'ombra maculata di luce, cingendosi la vita ogni qualvolta lo spazio era largo abbastanza per poter procedere fianco a fianco. Osservò che senza la fascia scarlatta i suoi fianchi sembravano assai più morbidi. Parlavano fra loro solo sussurrando. Fuori del recinto, spiegò Julia, era meglio essere prudenti. Avevano raggiunto l'estremità del boschetto. Julia lo fermò. «Non uscire allo scoperto, qualcuno potrebbe vederci. Se ci teniamo dietro i rami, saremo al sicuro.» Rimasero all'ombra di un folto di noccioli. Sentivano sul volto, ancora calda, la luce del sole, che s'infiltrava tra innumerevoli foglie. Winston guardò il campo che si stendeva davanti a loro e dopo un po' avvertì la curiosa e strana sensazione di averlo riconosciuto. Lo aveva già visto. Era un vecchio pascolo, ormai brullo, nel quale serpeggiava un sentiero. Qua e là potevano scorgersi i piccoli tumuli creati dalle tane delle talpe. All'estremità opposta, sul lembo frastagliato del campo, i rami degli olmi ondeggiavano nella brezza con un movimento quasi impercettibile, mentre le dense masse delle foglie, simili a chiome di donna, si agitavano appena. Chissà, forse non lontano, ma invisibile alla vista, scorreva un ruscello, con verdi pozze d'acqua in cui nuotavano le lasche.6 «C'è per caso un ruscello da queste parti?» mormorò. «Esatto, c'è un ruscello. È all'estremità del campo accanto a questo. Ci sono grossi pesci, li puoi vedere mentre nuotano nelle pozze sotto i salici, muovendo le code.» «È il Paese d'Oro... o quasi.» «Il Paese d'Oro?» «Oh, non è nulla, solo un paesaggio che a volte mi compare in sogno.» «Guarda!» mormorò Julia. A non più di cinque metri di distanza, un tordo si era appollaiato su un ramo, quasi all'altezza delle loro teste. Forse non si era accorto di loro. Il tordo era al sole, Winston e Julia all'ombra. L'uccello aprì le ali, le richiuse piano piano, chinò per un attimo il capo come se volesse rendere omaggio al sole, dopodiché proruppe in un canto a gola spiegata. Nella quiete del meriggio il volume di quel suono era sorprendente. Winston e Julia si strinsero, affascinati. Quella musica continuò per lunghi minuti, con variazioni stupefacenti e sempre nuove, come se l'uccello stesse offrendo volontariamente un saggio del suo virtuosismo. Di tanto in tanto si fermava per qualche secondo, apriva e chiudeva le ali, poi gonfiava il petto maculato e riprendeva il suo canto. Winston lo guardava con una certa deferenza. Per chi, per che cosa cantava quell'uccello? Non v'era una compagna, né un rivale che lo guardassero. Che cosa lo spingeva a starsene appollaiato all'estremità di quel bosco lontano da tutto, affidando la sua melodia al nulla? Si chiese se non c'era un microfono nascosto lì vicino. Lui e Julia avevano parlato a voce bassissima, e certamente un microfono non sarebbe riuscito a cogliere quel che avevano detto, ma avrebbe captato di sicuro il canto del tordo. Forse dall'altro capo del filo qualche omuncolo dalla faccia di scarafaggio era intento all'ascolto, forse stava ascoltando quella... cosa. Ma poi, poco alla volta, il flusso di quella melodia scacciò ogni altro pensiero dalla sua mente. Era come se sul corpo gli scorresse una sorta di liquido, mescolandosi alla luce del sole che filtrava tra le foglie. Smise di pensare e restò in ascolto. Nell'incavo della sua mano, il fianco della ragazza era morbido e caldo. La attirò a sé, di modo che fossero petto contro petto. Il corpo della ragazza parve fondersi nel suo e le sue mani, ovunque si poggiassero, non incontravano resistenza, come se s'immergessero nell'acqua. Le loro labbra si cercarono, e non furono più i baci impacciati che si erano scambiati prima. Quando i volti si staccarono, emisero entrambi un profondo sospiro. Il tordo si spaventò e volò via in un frullio d'ali. Winston le accostò le labbra all'orecchio. «Adesso» le sussurrò. «Non qui» sussurrò lei a sua volta. «Torniamo al nostro rifugio. È più sicuro.» Rapidamente, facendo di tanto in tanto crepitare qualche rametto, tornarono alla radura. Una volta che furono entro il cerchio tracciato dagli arbusti, Julia si volse verso di lui. Ansimavano tutti e due, ma il sorriso era tornato agli angoli della bocca della ragazza. Lo guardò per un istante, poi si portò la mano alla chiusura lampo della tuta. Fu quasi come nel sogno. Velocemente, quasi come lui l'aveva immaginato nelle sue fantasticherie, si era spogliata, gettando via gli abiti con quello stesso, magnifico gesto che nel sogno gli era parso annullare un'intera civiltà. Il suo bianco corpo splendeva al sole, ma per un attimo Winston non lo guardò, ammaliato da quel volto coperto di lentiggini e da quel sorriso appena accennato ma spavaldo. S'inginocchiò accanto a lei, prendendole le mani fra le sue. «Lo hai già fatto prima?» «Naturalmente. Centinaia di volte... dozzine di volte, diciamo.» «Con membri del Partito?» «Sì, sempre con membri del Partito.» «Con membri del Partito Interno?» «No, con quei porci no, ma ce ne sono a decine che lo farebbero eccome, se ne avessero l'occasione. Non sono così puri di spirito come vogliono fare intendere.» Il cuore di Winston ebbe un balzo. Dunque Julia lo aveva fatto dozzine di volte. Bene, avrebbe voluto che lo avesse fatto centinaia, migliaia di volte. Tutto ciò che lasciava trasparire corruzione gli trasmetteva una speranza sfrenata. Chissà, forse sotto la superficie il Partito era marcio, forse il suo culto della fermezza e della rinuncia era una mistificazione che serviva solo a occultare l'iniquità. Con quanta gioia, se ne avesse avuto i poteri, avrebbe inoculato la lebbra o la sifilide in tutto il Partito! Con quanta gioia ore, seduti sul pavimento ricoperto di polvere e di ramoscelli secchi. Di tanto in tanto uno dei due si alzava a dare un'occhiata attraverso le feritoie, per assicurarsi che non si avvicinasse nessuno. Julia aveva ventisei anni e viveva in un ostello con altre trenta ragazze («Sempre in mezzo agli odori delle donne! Non puoi immaginare quanto odio le donne!» gli aveva detto fra l'altro). Lavorava, proprio come lui aveva immaginato, alle macchine scrivi-romanzi nel Reparto Finzione. Le piaceva il suo lavoro, che consisteva principalmente nell'azionare un motore elettrico potente ma piuttosto complesso. Non era una "persona intelligente" ma amava il lavoro manuale e si trovava a suo agio con le macchine. Sapeva descrivere nei dettagli i vari procedimenti che confluivano nella composizione di un romanzo, a partire dalle direttive generali della Commissione Pianificatrice, fino agli ultimi ritocchi, che erano appannaggio della Squadra per la Revisione. Il prodotto finale, però, non le interessava. «Leggere non è il mio forte» diceva. I libri erano una merce qualsiasi, come la marmellata o i lacci per le scarpe. I ricordi di Julia non si spingevano oltre i primi anni Sessanta. L'unica persona che parlasse frequentemente dei giorni prima della Rivoluzione era un suo nonno, scomparso quando lei aveva otto anni. A scuola era stata capitano della squadra di hockey e aveva vinto per due anni di seguito il primo premio in ginnastica. Era stata anche caposquadra delle Spie e, prima di iscriversi alla Lega Antisesso, segretaria di sezione della Lega Giovanile. Aveva sempre avuto un ottimo carattere. Era stata anche selezionata (e si trattava di un chiarissimo riconoscimento della buona reputazione di cui godeva) perché lavorasse alla Pornosez, la sottosezione del Reparto Finzione che produceva e distribuiva fra i prolet materiale pornografico di infimo livello. Quelli che ci lavoravano, lo informò Julia, la chiamavano "il letamaio". Ci era rimasta per un anno, prestando la sua opera nella produzione di libretti — che venivano poi distribuiti in pacchi sigillati — con titoli come Racconti licenziosi o Una notte in un collegio femminile, che poi i giovani prolet avrebbero comprato di nascosto, con l'illusione di compiere un'azione illegale. «Ma che libri sono?» chiese Winston. «Ah, spazzatura della peggiore. E noiosi, per giunta. Hanno solo sei intrecci, che vengono però un po' rimescolati. Io ero solo addetta ai caleidoscopi, non ho mai fatto parte della Squadra per la Revisione. Te l'ho detto, tesoro, la letteratura non è il mio forte, neanche a questo livello.» Winston apprese, stupefatto, che — con l'unica eccezione rappresentata dal caporeparto — alla Pornosez lavoravano solo ragazze, in omaggio alla teoria secondo cui i maschi, i quali rispetto alle donne potevano vantare un minore controllo dei loro istinti sessuali, avrebbero più facilmente corso il rischio di essere corrotti dalla sporcizia che manipolavano. «Non ci vogliono nemmeno le donne sposate» aggiunse Julia. «Si pensa sempre che le ragazze siano creature immacolate. Qui, in ogni caso, ce n'è una che non lo è.» Aveva avuto la sua prima relazione a sedici anni, con un membro del Partito che ne aveva sessanta e che poi si era suicidato per evitare l'arresto. «E fece proprio bene» disse Julia, «altrimenti durante la confessione sarebbe saltato fuori il mio nome.» Da allora in poi ce n'erano stati diversi altri. Per come la vedeva lei, la vita era un fatto semplicissimo. Tu ti volevi divertire, loro (vale a dire il Partito) te lo volevano impedire, e allora tu facevi del tuo meglio per infrangere le regole. Le sembrava ovvio che loro tentassero di defraudarti del tuo piacere, così com'era naturale il tuo desiderio di non farti prendere in trappola. Julia odiava il Partito, e lo ribadiva facendo uso dei termini più sboccati, ma non formulava alcuna critica di carattere generale. Finché non toccava direttamente la sua personale esistenza, la dottrina del Partito non la interessava. Winston notò che non usava mai parole in neolingua, tranne quelle ormai entrate nel linguaggio comune. Non aveva mai sentito parlare della Confraternita e si rifiutava di credere nella sua esistenza. Una qualsiasi forma di rivolta organizzata contro il Partito le sembrava un'autentica stupidaggine, perché votata al fallimento sicuro. L'unica cosa intelligente da fare era infrangere le regole. Winston si chiese quante altre persone come lei potessero esserci nell'ultima generazione, persone che erano cresciute nell'era della Rivoluzione, che ignoravano tutto il resto, che vedevano nel Partito qualcosa di inalterabile, come il cielo, che non si ribellavano a esso ma lo eludevano, come fa un coniglio quando tenta di sfuggire a un cane. L'ipotesi di un matrimonio non era neanche da prendersi in considerazione. Anche ammesso che fosse possibile liberarsi di Katharine, la moglie di Winston, nessuna commissione avrebbe mai sancito una simile unione. Un progetto del genere aveva la stessa inconsistenza di un sogno a occhi aperti. «Che tipo era tua moglie?» chiese Julia. «Era... conosci la parola in neolingua buonpensante? Indica una persona ortodossa da capo a piedi, incapace di concepire alcunché di contrario alle regole.» «No, non conosco questa parola, ma conosco abbastanza bene il tipo di persona che hai descritto.» Winston cominciò a raccontarle la storia della sua vita matrimoniale, ma curiosamente Julia sembrava già conoscerne gli aspetti essenziali. Fu lei a descrivergli, quasi l'avesse visto o provato personalmente, come s'irrigidisse il corpo di Katharine quando lui la toccava, come sembrasse respingerlo con tutte le sue forze perfino quando aveva le braccia strette attorno a lui. Winston non trovò alcuna difficoltà a parlare di queste cose con Julia. In ogni caso, il ricordo di Katharine non era più doloroso, ma solo ripugnante. «Una situazione» disse Winston, «che avrei anche potuto sopportare, se non fosse stato per una cosa in particolare», e le raccontò del piccolo e frigido rituale a cui Katharine lo costringeva ogni settimana e sempre alla sera stabilita. «Odiava farlo, ma non ci avrebbe rinunciato per nessuna ragione al mondo. Lo chiamava, non ci crederai...» «Il nostro dovere verso il Partito» disse Julia prontamente. «Come fai a saperlo?» «Anch'io sono stata a scuola, tesoro. Corsi di educazione sessuale una volta al mese per studenti di età superiore ai sedici anni. E sono stata anche nel Movimento Giovanile. Te lo martellano in testa per anni, e devo ammettere che in molti casi funziona. Non si può mai dire, però. La gente è così ipocrita...» Cominciò a dilungarsi sull'argomento. Con lei tutto finiva per essere rapportato alla sua sessualità. Non appena si toccava un argomento del genere, dimostrava comunque di possedere una notevole perspicacia. A differenza di Winston, per esempio, aveva colto perfettamente il senso del puritanesimo del Partito in campo sessuale. Non si trattava solo del fatto che l'istinto sessuale dava forma a un mondo a sé, fuori del controllo del Partito, e quindi da distruggere — almeno nei limiti del possibile. Di gran lunga più rilevante era il fatto che la repressione sessuale produceva isteria, uno stato d'animo auspicabile, perché poteva essere indirizzato verso la psicosi bellica e verso il culto del capo. Lei la metteva in questi termini: «Quando fai l'amore, consumi energia. Dopo ti senti felice e te ne freghi di tutto il resto, e questo loro non possono permetterlo. Loro vogliono che tu stia sempre lì a scoppiare d'energia: tutte queste marce, queste grida di acclamazione, questo sventolio di bandiere, non sono altro che sesso andato a male. Se dentro di te ti senti felice, perché mai ti dovresti entusiasmare per il Grande Fratello, i Piani Triennali, i Due Minuti d'Odio e tutta quella merda?» Verissimo, pensò Winston. Esisteva un rapporto intimo e diretto fra castità e ortodossia politica. E difatti, come poteva il Partito mantenere i suoi membri al giusto livello di paura, odio e credulità fanatica, se non tenendo a freno un qualche potente istinto e usandolo poi come forza propulsiva? Gli stimoli sessuali costituivano un pericolo per il Partito, che quindi si era regolato di conseguenza. Anche con i sentimenti fra genitori e figli aveva fatto ricorso a uno stratagemma analogo. Ovviamente non era possibile abolire la famiglia, anzi la gente veniva incoraggiata ad amare i figli quasi come si usava un tempo, però si faceva in modo — sistematicamente — di mettere i figli contro i genitori, insegnando loro a spiarli e a denunciarne le deviazioni dall'ortodossia. In tal modo la famiglia era diventata a tutti gli effetti un'estensione della Psicopolizia: con questo sistema tutti vivevano circondati, notte e giorno, da informatori che li conoscevano fin nel profondo del loro essere. All'improvviso il suo pensiero tornò a Katharine. Se non fosse stata così stupida da non accorgersi delle sue opinioni eretiche, lo avrebbe senza alcun dubbio denunciato alla Psicopolizia. Ad avergliela riportata alla mente, però, era stato il caldo soffocante del pomeriggio, che gli aveva imperlato la fronte di sudore. Cominciò a raccontare a Julia un fatto che era accaduto (o che, per dir meglio, non era accaduto) undici anni prima, in un pomeriggio d'estate altrettanto afoso. Erano trascorsi tre o quattro mesi dal loro matrimonio e, durante una gita sociale in una località del Kent, si erano smarriti. Si erano attardati per un paio di minuti rispetto agli altri, ma avevano preso una direzione sbagliata e dopo un po' si erano ritrovati sul ciglio di una vecchia cava di gesso. Era un dislivello che scendeva a picco per venti o trenta metri, col fondo pieno di massi. Non c'era nessuno cui si potesse chiedere la strada. Non appena si rese conto che si erano perduti, Katharine cominciò ad agitarsi. Essere separata dalla rumorosa folla dei gitanti anche per un solo momento la faceva sentire in colpa. Voleva che tornassero subito indietro da dove erano venuti e cominciassero a cercare nella direzione opposta. Proprio in quel momento Winston si accorse che nelle crepe del dirupo crescevano ciuffi di primulacee. Un ciuffo, in particolare, era di due colori, cremisi e rosso mattone. I fiori, a quanto pareva, si erano sviluppati dalla stessa radice. Non aveva mai visto una cosa simile e chiamò Katharine perché venisse a vedere. «Guarda, Katharine, guarda quei fiori! Quella macchia laggiù, vicino al fondo, hai notato che sono di due diversi colori?» Katharine si era già voltata per tornare indietro, ma tornò accanto a lui, sia pure un po' contrariata. Si sporse perfino dal ciglio del dirupo per vedere che cosa le stesse indicando. In quel mentre Winston si rese conto che erano completamente soli. Non vi erano altri esseri umani, non si muoveva una foglia, non si sentiva un uccello. Il pericolo che ci fosse un microfono nascosto in un posto simile era pressoché nullo, e anche se ci fosse stato, non avrebbe colto che rumori. Era l'ora più calda e sonnolenta del giorno. Il sole dardeggiava su di loro e Winston sentiva il sudore pizzicargli la faccia. Fu allora che gli balenò in testa l'idea di... «Perché non le hai dato una bella spinta?» disse Julia. «Io l'avrei fatto.» «Lo so, tu l'avresti fatto, e l'avrei fatto anch'io se allora fossi stato la persona che sono oggi. O forse no, non lo so.» «Ti dispiace di non averlo fatto?» «Sì, tutto considerato mi dispiace.» Erano seduti l'uno accanto all'altra sul pavimento pieno di polvere. Winston attirò la ragazza a sé. Julia gli posò la testa sulla spalla, e il dolce profumo dei suoi capelli scacciò il tanfo dello sterco di piccione. È molto giovane, pensò Winston, ancora spera che la vita le doni qualcosa, non capisce che scaraventare giù per un dirupo una persona che ci è d'inciampo non risolve nulla. «In pratica, comunque, non avrebbe fatto una gran differenza.» «E allora perché ti dispiace di non averlo fatto?» «Solo perché qualcosa di positivo, secondo me, è sempre meglio di qualcosa di negativo. Noi siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.» La sentì alzare le spalle in segno di dissenso. Quando parlava di argomenti del genere lei lo contraddiceva sempre. Non voleva accettare che per legge di natura il singolo è destinato a essere sconfitto in ogni caso. Riusciva a capire che anche lei era condannata, che prima o poi la Psicopolizia le avrebbe messo le mani addosso e l'avrebbe uccisa, ma un'altra parte della sua mente era convinta che in qualche modo fosse possibile costruirsi un mondo segreto, nel quale vivere assecondando i propri desideri. Ci volevano solo fortuna, astuzia e coraggio. Non capiva che la felicità era qualcosa che non esisteva, che la vittoria poteva essere ottenuta solo in un futuro remoto, molto dopo la propria morte, che una volta dichiarata guerra al Partito era meglio sicuramente novantanove viene prima di cento. Se evitarlo era impossibile, si poteva almeno procrastinarlo: eppure, di tanto in tanto, per un atto consapevole della volontà, gli uomini scelgono di accorciare l'intervallo che ne precede la venuta. In quel momento sentì un rumore di passi che salivano velocemente le scale. Julia irruppe nella stanza. Aveva una borsa degli attrezzi in tela grezza marrone, simile a quelle che talvolta Winston le aveva visto portare avanti e indietro al Ministero. Le andò incontro e la strinse a sé, ma Julia si sciolse subito dal suo abbraccio, anche perché stringeva ancora in mano la borsa. «Aspetta un secondo» disse, «voglio farti vedere che cosa ho qui. Hai portato quel vomitevole Caffè Vittoria? Ne ero sicura. Bene, lo puoi pure buttare, perché non credo che ne avremo bisogno. Guarda!» S'inginocchiò, aprì la borsa e fece cadere sul pavimento alcune chiavi inglesi e un cacciavite che ne occupavano la parte superiore. Sotto vi erano alcuni pacchetti di carta accuratamente legati. Ne passò il primo a Winston che nel toccarlo provò una sensazione indefinita ma familiare. Era pieno di una sostanza pesante, che cedeva sotto le dita e aveva la stessa consistenza della sabbia. «Non mi dire che è zucchero!» esclamò Winston. «Proprio così. È zucchero, non saccarina. E qui c'è una pagnotta di pane... vero pane bianco, non quello schifo che ci fanno mangiare... un vasetto di marmellata... del latte in scatola. Qui, poi, c'è qualcosa di cui sono veramente orgogliosa. Ho dovuto avvolgerlo in un bel po' di carta perché...» Ma non ci fu bisogno di ulteriori spiegazioni. Già, infatti, l'aroma si stava diffondendo per tutta la stanza, un profumo intenso e fragrante che sembrava provenire dalla sua infanzia, ma nel quale era possibile imbattersi qualche volta perfino adesso, mentre si effondeva giù per un pianerottolo prima che una porta si chiudesse sbattendo, o s'insinuava misteriosamente in una strada affollata, lasciandosi annusare un attimo, prima di sparire. «Caffè...» mormorò Winston, «vero caffè!» «È caffè a uso del Partito Interno. Qui ce n'è un chilo intero» disse Julia. «Ma come hai fatto a mettere le mani su queste cose?» «Tutta roba del Partito Interno, quei porci non si fanno mancare nulla. Però i camerieri e la servitù riescono sempre a rubacchiare qualcosa... guarda, ho anche un pacchetto di tè.» Winston si era accovacciato accanto a lei. Aprì con uno strappo un angolo del pacchetto. «È tè vero, non foglie di more.» «Negli ultimi tempi di tè se ne è visto parecchio. Hanno conquistato l'India o qualcosa del genere» disse Julia con noncuranza. «Ma ascoltami, tesoro, voglio che mi volti le spalle per tre minuti. Siediti sull'altra sponda del letto. Non ti avvicinare alla finestra e non ti girare finché non te lo dico io.» Winston gettò uno sguardo distratto attraverso la tendina di mussola. Giù in cortile la donna dalle braccia arrossate continuava a marciare avanti e indietro, dalla tinozza del bucato alla fune distesa. Si tolse un altro paio di mollette dalla bocca e cominciò a cantare in tono appassionato: Dicono che il tempo sana tutto e che ogni cosa tu ti puoi scordar; ma gli anni se ne vanno, e il tuo sorriso ancora il cuore mi viene a straziar! A quanto pareva, conosceva a memoria l'intera lacrimevole storia. La voce, molto intonata, saliva insieme alla mite aria estiva, ricolma di una sorta di dolce malinconia. Si aveva l'impressione che se quella sera di giugno non fosse finita mai e mai si fosse esaurita la scorta dei panni e lei avesse potuto restare lì per mille anni a mettere pannolini ad asciugare e a cantare quelle stupidaggini, sarebbe stata la donna più felice del mondo. Lo colpì il fatto curioso che non aveva mai sentito un membro del Partito cantare da solo e spontaneamente. Una cosa del genere sarebbe parsa leggermente eversiva, un gesto pericolosamente eccentrico, come il parlare a se stessi. Evidentemente, era solo quando si trovava in una condizione sociale prossima alla fame che la gente si metteva a cantare. «Adesso ti puoi voltare» disse Julia. Winston si voltò e per un istante quasi non la riconobbe. A dire il vero, si era aspettato di vederla nuda. Ma non era nuda. Si trattava di un mutamento ben più sorprendente. Si era truccata. Doveva essersi infilata in qualche negozio dei quartieri prolet e aveva comprato tutto il necessario per il trucco. Le labbra erano infatti di un rosso vivo, le guance imbellettate, il naso incipriato, e sotto gli occhi s'intravedeva una specie di ombra che li faceva sembrare più splendenti. Non era un'opera perfetta, ma Winston non era poi tanto competente in materia. Non aveva mai visto né immaginato una donna del Partito col viso truccato. L'aspetto di Julia era migliorato in maniera stupefacente: qualche tocco di colore nei punti giusti, ed eccola non solo molto più graziosa, ma soprattutto molto più femminile. I capelli corti e la tuta da maschio che indossava miglioravano addirittura l'effetto complessivo. Quando la prese fra le braccia, un effluvio di violette sintetiche gli invase le narici. Gli ritornarono alla mente la penombra nella cucina di un seminterrato e la bocca cavernosa di una donna che aveva indosso lo stesso profumo. Ora, però, la cosa non aveva molta importanza. «Anche il profumo!» esclamò. «Sì, amore, anche il profumo. E sai che voglio fare, più avanti? Voglio procurarmi da qualche parte dei veri vestiti da donna e indossarli al posto di questi pantaloni di merda. Mi metterò calze di seta e scarpe coi tacchi alti. In questa stanza voglio essere una donna, non un membro del Partito!» Si spogliarono in gran fretta e si arrampicarono sull'enorme letto di mogano. Era la prima volta che Winston si denudava davanti a lei. Fino a quel momento si era troppo vergognato del suo corpo pallido e smagrito, con le vene varicose bene in vista sui polpacci e la macchia di pelle scolorita sulla caviglia. Non c'erano lenzuola, ma la coperta che vi stesero sopra era morbida, per quanto lisa. Le dimensioni e l'elasticità del letto li lasciarono stupefatti. «È certamente pieno di cimici» disse Julia, «ma chi se ne importa?» Letti a due piazze non se ne vedevano più, tranne che nelle case dei prolet. Durante la sua infanzia talvolta Winston aveva dormito in uno di questi letti; Julia, per quanto riuscisse a ricordare, mai. Dormirono un poco. Quando Winston si svegliò, le lancette dell'orologio avevano quasi raggiunto le nove. Non si mosse, perché Julia dormiva ancora, la testa appoggiata al suo braccio. Gran parte del trucco era passato sulla faccia di Winston o sul guanciale, ma una minuscola striscia di belletto evidenziava ancora la grazia degli zigomi. Un giallo raggio del sole morente cadeva ai piedi del letto e illuminava il camino, dove l'acqua del pentolino era in piena ebollizione. Giù nel cortile la donna aveva smesso di cantare, ma dalla strada ancora salivano le lontane grida dei bambini. Winston si chiese se nel passato ormai abolito era un'esperienza comune, questa di starsene distesi in un letto, nella frescura di una serata estiva, un uomo e una donna nudi, che facevano l'amore quando lo desideravano, parlando di quello che volevano, senza sentirsi costretti ad alzarsi, semplicemente standosene distesi ad ascoltare i suoni tranquilli che venivano dall'esterno. C'era mai stato un tempo in cui tutto ciò era parso normale? Julia si svegliò, si stropicciò gli occhi e si sollevò sui gomiti per guardare il fornello. «Una metà dell'acqua è evaporata» disse. «Adesso mi alzo e preparo un caffè. Ci metto un minuto. Abbiamo ancora un'ora di tempo. Dove abiti tu, a che ora spengono la luce?» «Alle ventitré e trenta.» «All'ostello la spengono alle ventitré, ma bisogna essere lì prima, perché... ah! va' via, brutto schifoso!» D'un tratto si girò sul letto, afferrò una scarpa dal pavimento e la scaraventò nell'angolo della stanza, facendo roteare il braccio con un'energia quasi maschile, proprio come l'aveva vista fare quella mattina durante i Due Minuti d'Odio, quando aveva scagliato il dizionario contro Goldstein. «Che succede?» chiese Winston, sorpreso. «Un topo. L'ho visto cacciare il suo naso orribile fuori del battiscopa. C'è un buco lì, lo vedi? Comunque, gli ho fatto prendere un bello spavento.» «Topi!» mormorò Winston. «Qui dentro?» «Ce ne sono dappertutto» disse Julia con aria noncurante, tornando a sdraiarsi. «All'ostello li abbiamo in cucina. Vi sono zone di Londra che ne sono infestate. Lo sapevi che attaccano i bambini? Proprio così. Ci sono strade in cui una donna non osa lasciare un bambino da solo neanche per due minuti. Sono quelli grandi e grossi, col pelo scuro, che attaccano. La cosa orrenda è che tutte le volte quei mostri...» «Basta!» gridò Winston, con gli occhi serrati. «Tesoro! Ti sei fatto pallido come un cencio. Che c'è? Ti fanno ribrezzo?» «Al mondo non c'è nulla di più schifoso di un topo!» Julia lo abbracciò e si strinse forte a lui, come a rassicurarlo col calore del suo corpo. Winston non riaprì subito gli occhi. Per diversi secondi aveva avuto l'impressione di ritrovarsi in un incubo che da sempre tornava, di tanto in tanto, a tormentarlo. Non cambiava mai: lui era ritto davanti a un muro di tenebra, dietro il quale vi era qualcosa di atroce, qualcosa di troppo orribile a sopportarsi. Nel sogno il suo sentimento più profondo era sempre di autoinganno, perché in effetti lui sapeva bene che cosa c'era dietro il muro di tenebra. Con uno sforzo tremendo, come se si fosse trattato di strapparsi un pezzo di cervello con le sue stesse mani, avrebbe potuto perfino portare allo scoperto quella cosa terribile, ma ogni volta si svegliava senza scoprire di che si trattasse. Doveva essere, però, qualcosa che aveva una qualche relazione con quello che stava dicendo Julia prima che lui la interrompesse. «Scusami» disse. «Non è nulla. Odio i topi, questo è tutto.» «Non temere, caro, non ci terremo qui dentro quelle brutte bestie. Prima di andar via tapperò quel buco con un po' di tela di sacco. La prossima volta che veniamo porterò della scagliola e lo chiuderò per benino.» Il momento di panico assoluto era già quasi passato. Provando un po' di vergogna di se stesso, Winston si appoggiò alla testata del letto. Julia si alzò, indossò la tuta e preparò il caffè. Dal pentolino si levò un aroma così intenso e penetrante, che dovettero chiudere la finestra per timore che qualcuno lo sentisse e diventasse troppo curioso. Ancora migliore del sapore del caffè era il gusto delicato che gli dava lo zucchero, qualcosa che dopo anni di saccarina Winston aveva quasi dimenticato. Con una mano in tasca e un pezzo di pane e marmellata nell'altra, Julia girava per la stanza, ora dando una fuggevole occhiata alla libreria, ora indicando il modo migliore per riparare il tavolo a ribalta, ora lasciandosi cadere nella poltrona consunta per vedere se era comoda, ora osservando con una sorta di divertita indulgenza quell'assurdo orologio con i numeri da uno a dodici. A un certo punto prese il fermacarte e lo portò verso il letto, per poterlo osservare in condizioni di luce migliori. Winston glielo prese dalle mani affascinato, come sempre, dalla levigatezza e trasparenza delicata, come d'acqua piovana, del vetro. «Secondo te, che cos'è?» chiese Julia. «Credo che non sia nulla... voglio dire che secondo me quest'oggetto non ha mai avuto un'utilità pratica. Proprio per questo mi piace. È un pezzetto di storia che si sono dimenticati di alterare. È un messaggio che proviene da cento anni fa ed è un peccato non saperlo decifrare.» «E quel quadro?» chiese Julia, accennando col capo in direzione dell'incisione sulla parete di fronte. «Anche quello ha cento anni?» «Di più, di più. Duecento anni forse, chissà. Oggi è impossibile scoprire l'età delle cose.» Julia si avvicinò al quadro per osservarlo. «Ecco da dove ha fatto capolino quella bestiaccia» disse, dando un calcio al battiscopa proprio sotto il quadro. «Dove si trova questo posto? Credo di averlo già visto.» «È una chiesa o, per dir meglio, lo era. Si chiamava San Clemente.» Gli ritornarono in mente i versi della filastrocca che gli aveva insegnato il signor Charrington, e così, con un po' di nostalgia, aggiunse: «Aranci e limoni, dicon di San Clemente i campanoni». Con suo stupore, Julia completò la strofa: Mi devi un soldino, dicono quelli di San Martino. Anche quelli del Tribunale si fanno sentire: Quando me lo darai?, sembrano dire... «Non ricordo come continua, però so come finisce: "Ecco la carrozza che ti porta alla festa, ecco la scure che ti taglia la testa!".» Erano come le due metà di un contrassegno. Ma doveva esserci un altro verso dopo "quelli del Tribunale". Forse, se si riusciva a trovare un sistema per risvegliarla, si poteva tirarlo fuori dalla memoria del signor Charrington. «Chi te l'ha insegnata?» chiese Winston. «Mio nonno. Me la diceva quand'ero piccola. Credo che sia stato vaporizzato quando avevo otto anni. In ogni caso, scomparve. Non so che cosa sia un limone» aggiunse con una certa incongruenza. «Le arance le ho viste, sono una specie di frutto rotondo e giallo con una buccia spessa.» «Io i limoni li ricordo bene» disse Winston. «Erano assai comuni negli anni Cinquanta. Erano così aspri che anche il solo odorarli ti faceva allegare i denti.» «Scommetto che dietro quel quadro ci sono delle cimici» disse Julia. «Uno di questi giorni lo tiro giù e gli do una bella ripulita. Credo che sia quasi ora di andare. Debbo levarmi questo trucco dalla faccia. Che seccatura! Dopo ti toglierò quelle tracce di rossetto.» Winston restò sdraiato ancora per qualche minuto. Nella stanza si di Winston, ma chiedendogli solo di ammirarli. Parlare con lui era come ascoltare il suono di un vecchio carillon. Winston era riuscito a tirar fuori dalla memoria del signor Charrington altri frammenti di filastrocche ormai dimenticate. Una parlava di ventiquattro merli, un'altra di una mucca con un corno ricurvo, un'altra ancora della morte del povero Cock Robin.7 «Pensavo che vi potesse interessare» diceva ogni volta che tirava fuori un altro frammento, accompagnando le sue parole con una risatina di autogiustificazione. Di ogni filastrocca, però, non riusciva mai a ricordare più di qualche verso. Entrambi, Winston e Julia, sapevano (in un certo senso ne erano coscienti in ogni momento della giornata) che quanto stava accadendo non poteva durare a lungo. A volte il senso della morte incombente sembrava avere la stessa concretezza materiale del letto sul quale giacevano, e allora si avvinghiavano con una sorta di sensualità disperata, come un'anima dannata che afferra l'ultimo brandello di piacere quando l'orologio sta per battere l'ultima ora. Vi erano però anche momenti in cui si illudevano non solo di non correre alcun pericolo, ma che la loro felicità sarebbe durata per sempre. Finché restavano in quella stanza, pensavano, non sarebbe successo loro niente di male. Arrivarci era arduo e pericoloso, ma quella stanza era un luogo sacro. Era lo stesso sentimento che aveva provato Winston quando, nell'osservare la parte più interna del fermacarte, gli era parso di poter entrare in quel mondo di vetro e aveva pensato che così facendo il tempo si sarebbe fermato. Altre volte si abbandonavano, nella loro ansia di fuga, ai sogni a occhi aperti. La fortuna li avrebbe assistiti ininterrottamente, ed essi avrebbero continuato a portare avanti la loro storia segreta — così come facevano incontrandosi in quella stanza — per tutta la vita. O forse Katharine sarebbe morta e loro due, ricorrendo a tutta una serie di sottili espedienti, sarebbero riusciti a sposarsi. O si sarebbero suicidati insieme. O sarebbero scomparsi, si sarebbero cambiati i connotati in modo da non essere più riconoscibili, avrebbero imparato a parlare con l'accento dei prolet, si sarebbero messi a lavorare in una fabbrica e sarebbero vissuti in una stradina secondaria, senza essere mai scoperti. Tutte sciocchezze, ne erano entrambi ben consapevoli. Non c'era scampo. Quanto all'unico progetto veramente realizzabile, il suicidio, non avevano alcuna intenzione di metterlo in pratica. Tirare avanti giorno dopo giorno e settimana dopo settimana, dilatare il più possibile un presente che non aveva futuro, sembrava a entrambi un istinto incontrollabile, come fanno i polmoni, che continuano a inspirare aria finché ce n'è. A volte parlavano perfino di impegnarsi in una ribellione attiva contro il Partito, ma non sapevano da che parte cominciare. Anche ammettendo che la fantasiosa Confraternita esistesse veramente, restava la difficoltà di trovare il modo di farne parte. Winston raccontò a Julia della strana intimità che esisteva, o che sembrava esistere, fra lui e O'Brien e dell'impulso che talvolta avvertiva di recarsi da lui e dirgli, senza alcun preambolo, che era un nemico del Partito e chiedeva il suo aiuto. Curiosamente, una cosa del genere non parve a Julia un azzardo impossibile. Era abituata a giudicare le persone guardandole in faccia e quindi le sembrava naturale che a Winston fosse bastato un semplice lampo negli occhi per ritenere che O'Brien fosse degno di fiducia. Julia, inoltre, si diceva sicurissima che tutti, o quasi tutti, odiavano segretamente il Partito e avrebbero volentieri infranto ogni regola se avessero potuto farlo impunemente. Non credeva affatto, però, che esistesse un'opposizione diffusa e organizzata. Tutte quelle storie su Goldstein e sul suo esercito clandestino erano solo una montagna di scempiaggini che il Partito aveva inventato per i propri fini e nelle quali si doveva far finta di credere. Innumerevoli volte, ai raduni del Partito e alle manifestazioni spontanee, lei aveva invocato a gran voce l'esecuzione capitale di persone i cui nomi non aveva mai sentito prima di allora e nei cui presunti crimini non credeva minimamente. In occasione dei processi pubblici, aveva diligentemente preso posto fra le delegazioni della Lega Giovanile che presidiavano il tribunale dal mattino alla sera, levando di tanto in tanto il coro: «A morte i traditori!». Durante i Due Minuti d'Odio superava sempre tutti gli altri nel gridare insulti alla volta di Goldstein, eppure aveva solo una vaghissima idea di chi fosse costui e che cosa sostenessero le sue teorie. Era nata dopo la Rivoluzione ed era quindi troppo giovane per avere memoria delle lotte ideologiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Non riusciva neanche a immaginare un movimento politico indipendente. In ogni caso, il Partito era invincibile. Sarebbe esistito sempre, sempre uguale a se stesso. Ci si poteva ribellare ad esso solo attraverso una disobbedienza segreta o, al massimo, per mezzo di atti di violenza isolati, come ammazzare qualcuno o far saltare per aria qualcosa. Sotto certi aspetti era di gran lunga più perspicace di Winston e molto meno sensibile di lui alla propaganda del Partito. Una volta a Winston capitò di accennare alla guerra contro l'Eurasia e Julia lo lasciò di stucco affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell'Oceania, «per mantenere la gente nella paura». Un'idea del genere non lo aveva mai neanche sfiorato. Winston aveva anche provato una specie di invidia nei suoi confronti quando Julia gli aveva detto che durante i Due Minuti d'Odio la cosa più difficile per lei era trattenersi dal ridere. Ciononostante, metteva in discussione i dettami del Partito solo quando la toccavano da vicino. Più spesso, era pronta ad accettare la mitologia ufficiale perché ai suoi occhi la differenza fra vero e falso non era poi così importante. Per esempio, avendolo appreso a scuola, credeva che il Partito avesse inventato gli aeroplani (Winston ricordava che quando frequentava lui la scuola, e cioè nella seconda metà degli anni Cinquanta, il Partito si limitava a rivendicare l'invenzione dell'elicottero. Una dozzina di anni dopo, quando Julia era andata a scuola, il Partito era passato all'aeroplano: un'altra generazione, e avrebbero sostenuto di aver inventato la macchina a vapore). E quando le disse che gli aeroplani esistevano molto tempo prima della Rivoluzione e già prima che lui nascesse, la notizia la lasciò del tutto indifferente. In fin dei conti, che importanza poteva avere chi avesse inventato l'aeroplano? Ciò che lo sconvolse, tuttavia, fu scoprire da un'osservazione casuale che Julia non ricordava che quattro anni prima l'Oceania era stata in guerra con l'Estasia e in pace con l'Eurasia. È vero che per lei la guerra era tutta una mistificazione, ma a quanto pare non si era neanche accorta che il nome del nemico era cambiato. «Pensavo che fossimo sempre stati in guerra con l'Eurasia» disse con fare noncurante. La cosa lo spaventò un po'. L'invenzione dell'aeroplano risaliva a molti anni prima che lei nascesse, ma l'inversione di rotta nella guerra si era verificata appena quattro anni prima, quando lei era già adulta. Ne discusse con lei per quasi un quarto d'ora, riuscendo infine a farle ricordare, sia pure vagamente, che un tempo il nemico era l'Estasia e non l'Eurasia. Ancora una volta, però, la faccenda le sembrò insignificante. «E chi se ne frega?» disse spazientita. «È sempre la stessa guerra di merda. E poi, lo sappiamo bene che sono tutte menzogne.» A volte le parlava dell'Archivio e delle falsificazioni spudorate di cui lui stesso era artefice, ma tutto ciò non sembrava trasmetterle alcun senso di orrore. Il pensiero che le menzogne potessero diventare verità non le spalancava, com'era accaduto a lui, un abisso sotto i piedi. Le raccontò di Jones, Aaronson e Rutherford, e di quel fondamentale pezzetto di carta che una volta aveva stretto fra le dita. Anche questa storia non la sconvolse più di tanto. Al principio non riuscì neanche ad afferrarne l'importanza. «Erano amici tuoi?» chiese. «No, non li avevo mai conosciuti, erano membri del Partito Interno. Erano anche molto più grandi di me, tutte persone che appartenevano ai vecchi tempi, agli anni prima della Rivoluzione. Ne conoscevo a malapena le facce.» «E allora di che cosa ti preoccupavi? La gente viene liquidata in continuazione, non è così?» Cercò di farle capire: «Si trattava di un caso assolutamente fuori della norma. Non era la banale storia di qualcuno che viene ucciso. Ti rendi conto che il passato, compreso quello più recente, è stato abolito? Se mai sopravvive da qualche parte, è in oggetti concreti e privi di un nome che li definisca, come quel pezzo di vetro. Noi già non sappiamo praticamente nulla della Rivoluzione e degli anni che l'hanno preceduta. Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. La storia si è fermata. Non esiste altro che un eterno presente nel quale il Partito ha sempre ragione. Naturalmente, io so che il passato viene falsificato, ma provarlo mi sarebbe impossibile, perfino se fossi io stesso l'autore di tale mistificazione. Una volta portata a effetto, di questa azione non resta prova alcuna. La sola prova è nella mia mente, ma io non ho alcuna certezza che esistano altri esseri umani che abbiano i miei stessi ricordi. Solo una volta in tutta la mia vita, solo quella volta, ho avuto in mano la prova concreta della falsificazione, dopo che l'evento si era verificato... anni dopo». «E a che è servito?» «Non è servito a nulla perché dopo qualche minuto quella prova l'ho gettata via, ma se la stessa cosa si dovesse verificare oggi, non la getterei certo!» «Io, invece, la getterei via!» disse Julia. «Sono prontissima a correre rischi, ma deve trattarsi di qualcosa per cui valga la pena, non di pezzi di un vecchio giornale. Che cosa avresti potuto fare se avessi conservato quella pagina?» «Non molto, forse, ma era una prova. Avrebbe potuto diffondere un po' di dubbi qua e là, sempre che avessi avuto il coraggio di metterne a parte qualcuno. Non credo che nel corso della nostra esistenza noi possiamo cambiare qualcosa, ma non è impossibile immaginare piccoli nuclei di resistenza che nascono qua e là, gruppetti di persone che si mettono insieme e poi lentamente infittiscono le proprie file, fino a lasciare dietro di sé una qualche traccia visibile. In tal modo la prossima generazione potrebbe riprendere il cammino là dove noi lo abbiamo interrotto.» «Non me ne importa nulla della prossima generazione. Quel che m'interessa siamo noi.» «Tu sei una ribelle solo dalla cintola in giù» disse Winston. A Julia queste parole parvero spiritosissime. Deliziata, gli gettò le braccia al collo. Julia non nutriva il benché minimo interesse per le sottigliezze della dottrina del Partito. Tutte le volte che lui cominciava a parlare dei principi del Socing, del bipensiero, del carattere mutevole del passato e della negazione di ogni realtà oggettiva, oppure usava parole in neolingua, lei si annoiava, si sentiva confusa, e diceva che non aveva mai prestato attenzione a roba del genere. Era noto che si trattava di stupidaggini. E allora, perché tormentarsi? Sapeva quando doveva applaudire e quando doveva fischiare, d'altro non c'era bisogno. Se Winston insisteva a parlare di simili argomenti, Julia aveva una reazione sconcertante: si addormentava. Apparteneva a quel genere di persone che riescono a dormire a qualsiasi ora e in qualsiasi posizione. Quando parlava con lei, Winston capiva quanto fosse facile mostrarsi perfettamente ortodossi pur senza avere la più pallida idea di che cosa fosse l'ortodossia. In un certo senso, era proprio alle persone incapaci di comprenderla che il Partito riusciva a imporre con maggiore facilità la propria visione del mondo. Era possibile fare in modo che accettassero le più flagranti violazioni del principio di realtà perché non avevano coscienza alcuna dell'enormità di quanto veniva loro richiesto. D'altra parte, non nutrivano per gli eventi pubblici neanche quell'interesse minimo per capire che cosa stava succedendo. L'incapacità di comprendere salvaguardava la loro integrità mentale. Ingoiavano tutto, senza batter ciglio, e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia alcuna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito attraverso il corpo di un uccello. VI Finalmente era successo. Il messaggio tanto atteso era arrivato. A Winston sembrò di aver aspettato quel momento tutta la vita. Stava attraversando il corridoio del Ministero ed era quasi arrivato allo stesso punto in cui Julia gli aveva infilato il biglietto in mano, quando si accorse che qualcuno dalla corporatura più grande della sua camminava proprio dietro di lui. Questa persona, chiunque fosse, emise un colpetto di tosse, per fargli capire, evidentemente, che voleva parlare con lui. Winston si fermò di scatto e si voltò. Era O'Brien. Si trovavano faccia a faccia, finalmente, eppure il primo impulso di Winston fu quello di scappare. Sentiva che il cuore gli scoppiava in petto. Sarebbe stato incapace di proferire parola. O'Brien, invece, non si era fermato: per un attimo, anzi, gli aveva posato amichevolmente una mano sul braccio e ora camminavano l'uno di fianco all'altro. Poi O'Brien cominciò a parlare, con quel suo tono austero e cortese che lo distingueva dalla maggioranza dei membri del Partito Interno. suo corpo, ampio e ben modellato, sembrava precipitare verso l'immobilità. Se ne stava seduta per ore sul letto, quasi inerte, accudendo la sorellina di Winston, una creaturina malaticcia e silenziosa, con una faccia che la magrezza rendeva simile a quella di una scimmia. Ogni tanto, ma molto di rado, abbracciava Winston, stringendoselo al petto per lungo tempo, senza dire una parola ed egli, malgrado la sua giovane età e il suo egoismo, sapeva che questo gesto era in qualche modo collegato all'evento innominato che stava per verificarsi. Ricordava la stanza dove vivevano, un ambiente buio che puzzava di chiuso, occupato per una buona metà da un letto su cui era stesa una sovraccoperta bianca. C'era un fornello a gas dietro il parafuoco e una mensola su cui veniva tenuto il cibo, mentre fuori, sul pianerottolo, c'era un lavandino di terracotta scura, comune ad altre stanze come la loro. Ricordava il corpo statuario della madre mentre si chinava sul fornello per rimestare qualcosa nella pentola, ma più di tutto ricordava la fame che non gli dava requie e le battaglie feroci e sordide che si scatenavano all'ora dei pasti. Chiedeva mille volte alla madre, con un tono petulante, perché non c'era dell'altro cibo, gridava e inveiva contro di lei (ricordava perfino il tono della propria voce, che stava cambiando prematuramente e che all'improvviso prendeva delle strane note basse), oppure piagnucolava, nel tentativo di commuoverla e ottenere più di quello che gli spettava. La madre, dal canto suo, era pronta ad accontentarlo, convinta com'era che a lui, "il maschio", toccasse di diritto la porzione più grande. Ma Winston non era mai soddisfatto. Ogni volta lei lo supplicava di non essere egoista, di ricordare che la sorellina era malata e aveva bisogno di cibo, ma era tutto inutile. Winston urlava come un ossesso quando la madre finiva di scodellargli nel piatto la sua porzione, cercava di strapparle di mano la pentola e il cucchiaio, attingeva anche al piatto della sorellina. Sapeva che così facendo le riduceva entrambe alla fame, ma non riusciva a controllarsi, pensava addirittura che quanto faceva fosse nel suo diritto. Secondo lui, la fame che gli torceva le budella bastava a giustificarlo. Nell'intervallo fra i pasti, se la madre non avesse vigilato, non avrebbe mancato di sottrarre qualcosa alla miserabile scorta di cibo sulla mensola. Un giorno venne distribuita una razione di cioccolato, un evento che non si verificava da settimane, per non dire da mesi. Ricordava ancora con perfetta chiarezza il gusto di quel prezioso pezzetto di cioccolato. Era una tavoletta da due once (a quel tempo si parlava ancora di once), da dividere in tre. Ovviamente, la si sarebbe dovuta dividere in tre parti uguali. All'improvviso, come se a parlare fosse stato un altro, Winston udì se stesso reclamare, a voce alta e profonda, tutto il cioccolato. La madre gli disse di non essere così avido. Ne seguì una discussione lunga e lamentosa, che si prolungò fra grida, piagnucolii, lacrime, rimostranze, contrattazioni. La sorellina, seduta in grembo alla madre con entrambe le braccia attorno al suo collo, proprio come una scimmietta, lo guardava con due occhioni dolenti. Infine la mamma spezzò la tavoletta di cioccolato, dandone tre quarti a Winston e un quarto alla bambina, che prese la sua porzione e restò a guardarla senza mostrare un particolare interesse, forse perché non sapeva neanche di che cosa si trattasse. Winston la guardò per un momento, poi, con uno scatto repentino strappò il pezzo di cioccolato dalle mani della sorella e scappò via. «Winston, Winston!» gli gridò dietro la madre. «Torna indietro! Restituisci il cioccolato a tua sorella!» Winston si fermò, ma non tornò indietro. La madre lo guardava fisso in faccia, con gli occhi pieni d'angoscia. Perfino adesso che stava ricostruendo quell'episodio, gli attraversava la mente il pensiero che stava per accadere qualcosa, anche se non sapeva cosa. La sorella intanto, consapevole di aver subito un furto, aveva cominciato a lamentarsi debolmente. La madre l'abbracciò, stringendole il capo contro il petto. Qualcosa, in quel gesto, gli disse che la bambina stava morendo. Si voltò e corse giù per le scale, mentre il pezzo di cioccolato che stringeva fra le dita cominciava a farsi appiccicoso. Non rivide più sua madre. Dopo aver divorato il cioccolato, cominciò ad avvertire un senso di vergogna e vagò ore e ore per le strade, finché la fame non lo risospinse verso casa. Quando tornò, la madre era scomparsa. Già allora un evento del genere stava cominciando a diventare normale. A eccezione della madre e della sorella, nella stanza non mancava nulla. Non avevano prelevato alcun indumento, nemmeno il cappotto della madre. Anche ora che era adulto non aveva la certezza assoluta che la madre fosse morta. Era possibilissimo che fosse stata semplicemente mandata ai lavori forzati. Quanto alla sorella, probabilmente era stata avviata, come del resto era avvenuto poi per Winston, a una di quelle colonie per bambini orfani (le chiamavano Centri di Recupero) che erano sorti in seguito alla guerra civile. Poteva anche darsi che fosse stata mandata al campo di lavoro insieme alla madre o abbandonata da qualche parte, a morire. Il sogno era tuttora vivido nella sua mente, specialmente quel gesto avvolgente e protettivo del braccio, che sembrava racchiuderne l'intero significato. Riandò con la mente a un altro sogno, che aveva fatto due mesi prima. Esattamente come era stata seduta sullo squallido letto con la sovraccoperta bianca, mentre la bambina le si stringeva al seno, la madre sedeva sulla nave che andava a fondo, giù, molto più giù di dove si trovava lui, inabissandosi sempre più a ogni minuto che passava, e comunque sempre guardando in alto verso di lui, mentre l'acqua si abbuiava. Raccontò a Julia la storia della scomparsa della madre. Senza aprire gli occhi lei si rigirò, sistemandosi in una posizione più comoda. «Immagino che a quel tempo eri un piccolo, lurido maiale» disse con un tono di voce quasi incomprensibile. «Tutti i bambini sono dei porci.» «Sì, ma il significato autentico di tutta la storia...» Da come respirava era chiaro che stava per riaddormentarsi. A Winston sarebbe piaciuto continuare a parlare di sua madre. Da quanto riusciva a ricordare di lei, non credeva che fosse stata una donna fuori della norma, e ancor meno una donna intelligente. Ciononostante, possedeva una sua particolare nobiltà e purezza d'animo, che le veniva dal seguire i dettami della sua coscienza. Aveva sentimenti propri, che nessuno poteva condizionare dall'esterno. Non le sarebbe mai venuto in mente che un'azione potesse essere inutile solo perché priva di effetti pratici. Se amavate qualcuno, lo amavate e basta, e se non avevate altro da offrirgli, continuavate a dargli amore. Quando era scomparso anche l'ultimo pezzetto di cioccolato, sua madre aveva stretto la bambina fra le braccia. Si trattava di un gesto inutile, che non cambiava nulla, non faceva sorgere altro cioccolato dal nulla, non allontanava la morte della bambina, né la propria, ma le era parso naturale compierlo. Anche la donna sfollata della barca aveva stretto il braccio attorno al suo bambino, con un gesto che contro i proiettili aveva la stessa efficacia di un foglio di carta. La cosa terribile che aveva fatto il Partito — mentre vi derubava di qualsiasi controllo sulla realtà — era stata quella di convincervi che gli impulsi e i sentimenti non avevano alcun valore. Una volta caduti in balia del Partito, quel che sentivate o non sentivate, quel che facevate o vi astenevate dal fare, non cambiava, letteralmente, niente. In ogni caso scomparivate, e di voi e delle vostre azioni non restava più traccia. Venivate sottratti completamente al flusso della storia. E tuttavia, solo due generazioni prima ciò non sarebbe apparso d'importanza fondamentale, perché nessuno, allora, cercava di alterare la storia. Gli uomini e le donne erano guidati da valori privati che non mettevano mai in discussione. A contare erano i rapporti individuali e un gesto inutile, un abbraccio, una lacrima, una parola detta a un morente avevano senso di per sé. A un tratto gli venne fatto di pensare che i prolet vivevano ancora così. Erano fedeli a se stessi, non a un partito, o a una nazione o a un'idea. Per la prima volta in vita sua non provò sentimenti di disprezzo nei confronti dei prolet e non li considerò più una forza inerte che un giorno avrebbe preso vita e salvato il mondo. I prolet non si erano inariditi, erano rimasti umani, conservando quelle emozioni ancestrali che lui aveva dovuto riapprendere da capo, mediante uno sforzo cosciente. Mentre rifletteva su tutto ciò, gli ritornò alla mente, senza che questo ricordo avesse un rapporto esplicito coi suoi pensieri, che alcuni giorni prima aveva scorto sul marciapiede una mano tagliata e con un calcio l'aveva scaraventata nel fossetto di scolo, come se si trattasse del torso di un cavolo. «I prolet sono esseri umani» disse ad alta voce. «Noi non lo siamo.» «E perché no?» chiese Julia, che nel frattempo si era risvegliata. Winston rifletté per qualche momento. «Ti è mai venuto in mente» disse «che per noi due la cosa migliore da fare sarebbe quella di uscire di qui prima che sia troppo tardi e non rivederci mai più?» «Sì, caro, ci ho pensato parecchie volte, però ugualmente non ho alcuna intenzione di farlo.» «Finora la fortuna ci ha assistiti» disse Winston, «ma non potrà durare a lungo. Tu sei giovane, sembri una persona normale, innocente. Se ti tieni alla larga da gente come me, potrai vivere per altri cinquant'anni.» «No. Ci ho pensato, quello che farai tu, lo farò anch'io. E non ti scoraggiare. Conosco fin troppo bene l'arte del vivere.» «Possiamo restare insieme per altri sei mesi, forse per un anno, ma è certo che alla fine ci separeremo. Ti rendi conto di quale sarà allora la nostra solitudine? Una volta che ci avranno presi non ci sarà nulla, letteralmente, che l'uno potrà fare per l'altro. Se confesso, ti spareranno, e se mi rifiuto di confessare ti uccideranno lo stesso. Nulla che io possa fare o dire o astenermi dal dire varrà a rinviare anche di soli cinque minuti la tua morte. Nessuno di noi due saprà mai se l'altro è vivo o morto. Non potremo fare nulla. E comunque, anche se nemmeno questo cambierebbe alcunché, l'unica cosa che conta è che nessuno di noi tradisca l'altro.» «Quanto al confessare» disse Julia, «confesseremo certamente. Lo fanno tutti. È impossibile fare altrimenti: ti torturano.» «Non intendo questo. Confessare non è tradire. Non importa quello che dici o non dici, ciò che conta sono i sentimenti. Se riuscissero a fare in modo che io non ti ami più... quello sarebbe tradire.» Julia restò per qualche attimo a riflettere. «Non lo possono fare» disse infine. «È l'unica cosa che non possono fare. Possono farti dire tutto, tutto, ma non possono obbligarti a crederci. Non possono entrare dentro di te.» «No» disse Winston un po' rinfrancato, «no, quel che dici è verissimo, non possono entrare dentro di te. Se riesci a sentire fino in fondo che vale la pena conservare la propria condizione di esseri umani anche quando non ne sortisce alcun effetto pratico, sei riuscito a sconfiggerli.» Winston pensò al teleschermo e al suo orecchio in perenne ascolto. Potevano spiarti giorno e notte, ma se restavi in te potevi ancora metterli nel sacco. Con tutta la loro abilità non erano riusciti a scoprire il segreto per sapere che cosa stava pensando un altro essere umano. Forse non era più così una volta che si cadeva nelle loro grinfie. Nessuno sapeva che cosa accadeva nel Ministero dell'Amore, ma lo si poteva immaginare: torture, droghe, strumenti sofisticati che registravano le reazioni nervose, un cedimento graduale indotto dalla mancanza di sonno e dagli interrogatori continui. I fatti, certamente, non si potevano tenere nascosti. Li si poteva ricostruire per mezzo degli interrogatori, li si poteva estorcere con la tortura. Se però l'obiettivo non era la sopravvivenza, ma la conservazione della propria sostanza umana, che importanza aveva tutto ciò? Non potevano cambiare i sentimenti. Anzi, neppure voi potevate cambiarli, neanche volendo. Potevano portare allo scoperto, fino all'ultimo dettaglio, tutto ciò che avevate detto, fatto o pensato, ma ciò che giaceva in fondo al cuore e che seguiva percorsi sconosciuti anche a voi stessi, restava inespugnabile. VIII Ci erano riusciti, finalmente ci erano riusciti! La stanza in cui si trovavano era molto lunga e avvolta in una luce discreta. Dal teleschermo proveniva solo un tenue mormorio. Lo spessore del tappeto blu comunicava l'impressione di camminare sul velluto. All'estremità della stanza O'Brien era seduto a un tavolo, sotto una lampada schermata di verde, circondato a destra e sinistra da pile di documenti. Non si era nemmeno preso la briga di alzare lo sguardo quando il domestico aveva fatto entrare Julia e Winston. Winston sentiva il cuore battergli così forte in petto, da non sapere se sarebbe stato capace di aprire bocca. Ci erano riusciti, finalmente ci erano riusciti, solo questo pensava. Era stato un gesto sconsiderato venire e pura follia il venirci insieme, anche se a dire il vero avevano percorso strade diverse e si erano incontrati solo sulla soglia dell'abitazione di O'Brien. Già il solo entrare in un posto del genere richiedeva una saldezza di nervi notevole. Era infatti solo in casi rarissimi che capitava di vedere dal di dentro le case dei membri del Partito Interno o, semplicemente, di entrare nel quartiere della città dove vivevano. L'atmosfera stessa creata dagli imponenti palazzoni, l'opulenza di ogni cosa, la vastità degli spazi, la fragranza sconosciuta del cibo e del tabacco di qualità, gli ascensori silenziosi e incredibilmente rapidi che andavano su e giù, i domestici in giacca A Winston parve che fosse passato un tempo lunghissimo prima di riuscire a rispondere. Per un attimo sembrò perfino che avesse perso la voce. La lingua, pur muovendosi, non produceva alcun suono, continuando a formare le sole prime sillabe ora di questa ora di quella parola. Finché non l'ebbe pronunciata, non sapeva quale fosse la parola che stava per dire. «No» disse finalmente. «Avete fatto bene a dirmelo» disse O'Brien. «Per noi è necessario sapere tutto.» Si voltò verso Julia e aggiunse con un tono di voce che parve un po' meno inespressivo: «Ti rendi conto che, anche se sopravvive, può essere un'altra persona? Potremmo essere costretti a fornirgli una nuova identità. Potrebbero cambiare la sua faccia, i suoi movimenti, la forma delle mani, il colore dei capelli... perfino la voce. I nostri chirurghi sono capaci di trasformare una persona in modo da renderla irriconoscibile. A volte è necessario. A volte arriviamo ad amputare un arto.» Winston non poté evitare di gettare un'occhiata di sbieco alla faccia mongolica di Martin. A quanto poteva vedere, cicatrici non ce n'erano. Julia era impallidita ulteriormente, cosicché le lentiggini le risaltarono ancor più sul volto, ma riuscì a non farsi intimidire da O'Brien. Mormorò qualcosa che suonò come un assenso. «Tutto è a posto, allora.» Sul tavolo vi era un portasigarette d'argento. Con aria distratta O'Brien ne offrì agli altri, ne prese una egli stesso, poi si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, come se questo lo aiutasse a riflettere meglio. Erano sigarette di ottima qualità, compatte e ben confezionate, con una carta di una levigatezza inusitata. O'Brien guardò nuovamente il suo orologio da polso. «Martin, è meglio che torni alla tua dispensa» disse. «Riaccenderò il teleschermo fra un quarto d'ora. Prima di andare, guarda bene in volto questi compagni. Tu li rivedrai certamente, io forse no.» Proprio come era accaduto alla porta d'ingresso, gli occhi scuri dell'uomo percorsero con un guizzo i loro volti. I suoi modi non avevano nulla di amichevole. Stava memorizzando le loro fisionomie, ma non nutriva alcun interesse nei loro confronti, o almeno così sembrava. A Winston venne fatto di pensare che una faccia sintetica era forse incapace di mutare espressione. Senza parlare e senza fare alcun cenno di saluto, Martin uscì, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. O'Brien camminava avanti e indietro, con una mano infilata nella tasca della sua tuta nera, mentre con l'altra stringeva la sigaretta. «È bene che sappiate» disse «che combatterete nell'ombra. Sarete sempre nell'ombra. Riceverete ordini ai quali obbedirete senza sapere perché vi sono stati impartiti. Più in là vi manderò un libro dal quale apprenderete la vera natura della società nella quale viviamo e la strategia con la quale la distruggeremo. Quando l'avrete letto sarete a tutti gli effetti membri della Confraternita. Ma al di là dei fini generali per i quali lottiamo e dei doveri immediati e contingenti, non saprete nulla. Vi assicuro che la Confraternita esiste, ma non posso dirvi se conta un centinaio o dieci milioni di affiliati. Nelle vostre personali esperienze non andrete oltre una dozzina di persone. Avrete tre o quattro contatti che cambieranno di volta in volta e di cui poi non saprete più nulla. Questo che avete avuto con me è il primo e va inteso come tale. Riceverete quindi eventuali ordini da me. Se riterremo necessario comunicare con voi, lo faremo attraverso Martin. Quando sarete catturati, confesserete. È inevitabile. In questo caso, però, la confessione non potrà che riguardare le vostre sole azioni. Potrete tradire, quindi, solo un manipolo di personaggi di scarsa importanza. Probabilmente non potrete neanche tradire me. A quell'ora io forse sarò morto, o sarò diventato un'altra persona, con un'altra faccia.» Continuava a percorrere a grandi passi il morbido tappeto. A dispetto della corporatura tozza, i suoi movimenti non erano privi di una certa grazia. Lo si notava perfino nel modo in cui s'infilava la mano in tasca o stringeva la sigaretta fra le dita. Più che forza, la sua persona emanava un senso di sicurezza e un'intelligenza soffusa d'ironia. Le sue convinzioni apparivano ferme, ma non aveva in sé nulla di quella ristrettezza mentale tipica del fanatico. Quando parlava di omicidi, malattie veneree, arti amputati e volti rifatti, lo faceva con un tono di voce che sembrava avere in sé qualcosa di canzonatorio. La sua voce pareva dire: "Tutto ciò è inevitabile e noi lo porremo in pratica senza esitazione alcuna, ma non saranno certo queste le azioni che compiremo quando la vita sarà nuovamente degna di essere vissuta". Winston cominciò a provare per O'Brien un'ammirazione che quasi sconfinava nella venerazione. Aveva dimenticato, almeno per il momento, l'indistinta figura di Goldstein. Quando l'occhio si posava sulle poderose spalle di O'Brien, su quel suo volto rude, brutto ma al tempo stesso gentile, era impossibile pensare che qualcuno potesse sconfiggerlo. Non v'era stratagemma che non gli riuscisse di architettare, né pericolo che non riuscisse a prevedere. Perfino Julia sembrava impressionata da lui. Aveva lasciato che la sua sigaretta si spegnesse e stava ad ascoltarlo con estrema attenzione. O'Brien proseguì: «Avrete sentito parlare della Confraternita, e certamente ve ne sarete fatta un'idea personale. Vi sarete forse figurati tutto un mondo vasto e sotterraneo di cospiratori che si riuniscono segretamente nelle cantine, che scribacchiano messaggi sui muri, che per riconoscersi usano parole in codice o particolari movimenti delle mani. Non esiste nulla del genere. I membri della Confraternita non hanno alcun modo per riconoscersi reciprocamente e ognuno di loro può essere a conoscenza dell'identità solo di pochissimi altri. Perfino Goldstein, se cadesse nelle mani della Psicopolizia, non potrebbe rivelare un elenco completo dei membri della Confraternita. Un tale elenco non esiste. La Confraternita non può essere spazzata via, perché non si tratta di un'organizzazione nel senso comune del termine. La tiene insieme solo un'idea, indistruttibile, e solo quest'idea vi sosterrà. Non potrete contare né su sentimenti di solidarietà né su incoraggiamenti di alcun genere. Quando, alla fine, vi arresteranno, nessuno vi aiuterà. Non diamo alcun aiuto ai nostri affiliati. Al massimo, quando è proprio necessario garantirci che qualcuno non parli, riusciamo talvolta a far entrare di nascosto una lama di rasoio nella cella di una prigione. Dovrete abituarvi a vivere senza nutrire alcuna speranza e senza vedere alcun risultato concreto. Agirete liberamente per qualche tempo, poi sarete catturati, confesserete e morirete. È l'unico esito reale di cui avrete esperienza. È impossibile che nel corso delle nostre esistenze si verifichi un qualche mutamento apprezzabile. Noi siamo i morti. La nostra vera vita risiede nel futuro. A questo futuro noi prenderemo parte solo come manciate di polvere, come frammenti d'ossa, né ci è dato di sapere quando esso verrà. Potrebbero passare mille anni. Al momento non si può fare altro che estendere a poco a poco lo spazio dell'integrità mentale. Non possiamo agire in gruppo, possiamo solo trasmettere la nostra conoscenza da individuo a individuo, generazione dopo generazione. L'esistenza della Psicopolizia non consente altro.» S'interruppe e guardò per la terza volta l'orologio. «Compagna» disse rivolgendosi a Julia, «è quasi ora che tu vada. Aspetta, la bottiglia è ancora mezza piena.» Riempì i bicchieri e alzò il proprio, tenendolo per lo stelo. «A chi vogliamo brindare stavolta?» disse, di nuovo con una sfumatura d'ironia nella voce. «Alla disfatta della Psicopolizia? Alla morte del Grande Fratello? All'umanità? Al futuro?» «Al passato» disse Winston. «Il passato è più importante» convenne O'Brien con aria solenne. Vuotarono i bicchieri e subito dopo Julia si alzò per andare via. O'Brien prese una scatoletta da un armadietto e ne trasse fuori una pastiglia bianca che porse a Julia, dicendole di mettersela sulla lingua. Era importante disse, non uscire con l'alito che sapeva di vino: gli addetti agli ascensori osservavano tutto. Non appena la porta si fu richiusa alle spalle della ragazza, O'Brien parve dimenticarsi completamente di lei. Fece qualche altro passo avanti e indietro, poi si fermò. «Restano ancora dei particolari da discutere» disse. «Immagino che abbiate un qualche rifugio segreto.» Winston gli riferì della stanza sopra la bottega del signor Charrington. «Per il momento può andare, poi troveremo qualcos'altro per voi. È importante cambiare spesso il proprio nascondiglio. Nel frattempo vi manderò una copia del libro» — perfino O' Brien, osservò Winston, sembrava pronunciare quella parola come se fosse in corsivo — «il libro di Goldstein, voglio dire, non appena mi sarà possibile. Potrei metterci dei giorni per procurarmene una copia. Come puoi immaginare, non ce ne sono molte in giro. La Psicopolizia le ricerca con un accanimento che non conosce soste e le distrugge quasi con la stessa velocità con cui noi le stampiamo. Ma non importa, il libro è indistruttibile. Se anche l'ultima copia esistente dovesse andare distrutta, noi saremmo in grado di ricostruirla quasi parola per parola. Quando vai al lavoro hai una cartella con te?» «In genere sì.» «E com'è fatta?» «È nera, molto consumata, con due cinghie.» «Nera, molto consumata, con due cinghie. Benissimo. Uno dei prossimi giorni, ma non posso darti una data precisa, fra i documenti che ti saranno trasmessi la mattina perché ci lavori sopra ce ne sarà uno che conterrà un refuso e tu ne richiederai la correzione. Il giorno dopo andrai in ufficio senza la cartella. A una certa ora dello stesso giorno, per strada, un uomo ti toccherà sulla spalla e dirà: «Credo che ti sia caduta la cartella». All'interno di quella che ti darà troverai una copia del libro di Goldstein. La restituirai dopo due settimane». Restarono in silenzio per un momento. «Ci sono ancora un paio di minuti prima che tu vada via» disse O'Brien. «Ci rivedremo, ammesso che ciò avvenga...» Winston alzò gli occhi verso di lui e disse, con voce esitante: «Là dove non c'è tenebra?». O'Brien annuì, senza mostrare alcuna sorpresa: «Là dove non c'è tenebra» disse, come se avesse colto l'allusione. «Nel frattempo, hai qualcosa da dirmi prima di andartene? Qualche messaggio? Qualche domanda?» Winston rifletté. Non gli sembrava di avere altre domande da porgli. Ancor meno desiderava lanciarsi in proclami altisonanti. Non gli venne in niente nulla che avesse attinenza con O'Brien o con la Confraternita, ma una sorta di quadro nel quale entravano la stanza buia dove sua madre aveva trascorso i suoi ultimi giorni, la stanzetta sopra il negozio del signor Charrington, il fermacarte di vetro e l'incisione in acciaio nella sua cornice di palissandro. «Ti è mai capitato di sentire una vecchia filastrocca che comincia con "Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni"?» O'Brien annuì nuovamente. Poi, con un tono di voce gentile e solenne a un tempo, completò la strofa: Arance e limoni, dicon di San Clemente i campanoni. Mi devi un soldino, dicono quelli di San Martino. Anche quelli del Tribunale si fanno sentire: Quando me lo darai?, sembrano dire. Quelli di Shoreditch saltano su: Quando sarò ricco come re Artù. «Conosci l'ultimo verso!» esclamò Winston. «Sì, conosco l'ultimo verso. Ma temo che ora tu debba andare. Aspetta, lascia che ti dia una di queste pastiglie.» Winston si alzò e O'Brien gli tese la mano. La sua stretta poderosa gli fece scricchiolare le ossa delle dita. Giunto che fu sulla porta, Winston si girò a guardarlo, ma sembrava che O'Brien si stesse già dimenticando del loro incontro. Aspettava, con la mano sull'interruttore che comandava il teleschermo. Alle sue spalle, Winston poteva vedere lo scrittoio con la lampada schermata di verde, il parlascrivi e i cestini in metallo pieni zeppi di documenti. L'incidente era chiuso. Fra trenta secondi, pensò Winston, O'Brien sarà ritornato alle sue importanti incombenze al servizio del Partito. IX Winston era diventato gelatinoso dalla fatica. Sì, gelatinoso era la parola giusta. Gli era venuta in mente in maniera spontanea: il suo corpo sembrava possedere non solo la fragilità della gelatina, ma anche la sua trasparenza. Aveva l'impressione che se avesse alzato la mano, avrebbe potuto scorgervi la luce attraverso. Un'autentica orgia di lavoro gli aveva risucchiato tutta la linfa e tutto il sangue che aveva dentro, lasciando solo una debole struttura fatta di nervi, ossa e pelle. Tutte le sensazioni che provava sembravano essersi acuite oltre ogni dire: la tuta gli segava le spalle, il selciato gli vellicava i piedi, il solo gesto di aprire e chiudere una mano richiedeva uno sforzo che gli faceva scricchiolare le giunture. Aveva lavorato più di novanta ore in cinque giorni, come del resto tutti al Ministero. Ora era tutto finito e fino al mattino dopo non aveva letteralmente nulla da fare, nessuna incombenza che riguardasse il Partito. Poteva trascorrere sei ore nel rifugio segreto e sei ore nel proprio letto. Nel tepore del sole meridiano s'inoltrò in una stradina buia e si diresse senza fretta verso la bottega del ulteriormente suddivisi, ricevendo un numero infinito di nomi diversi, mentre la consistenza di ogni singolo gruppo, così come l'atteggiamento di un gruppo verso l'altro, ha conosciuto cambiamenti di epoca in epoca. La struttura fondamentale della società è però rimasta inalterata. Perfino dopo sconvolgimenti enormi e dopo mutamenti all'apparenza irreversibili, questo schema si è costantemente riproposto, come un giroscopio che, in qualunque direzione e con qualunque forza lo si spinga, ritorna sempre in perfetto equilibrio. Gli obiettivi di questi tre gruppi sono assolutamente inconciliabili fra loro... Winston smise per un attimo di leggere, soprattutto per assaporare il fatto che stava leggendo per davvero, comodamente e in piena sicurezza. Era solo: non vi erano teleschermi, nessun orecchio era incollato al buco della serratura. Lui stesso non avvertiva alcun impulso a guardarsi dietro le spalle o a coprire la pagina con la mano. La dolce aria estiva gli accarezzava la guancia. Da lontano provenivano, ovattate, grida di bambini; nella stanza non si udiva altro che il ronzio da insetto dell'orologio. Sprofondò nella poltrona, appoggiando i piedi sul parafuoco. Era la felicità, era l'eterno. A un tratto, come talvolta facciamo con un libro di cui sappiamo che leggeremo e rileggeremo ogni parola, Winston lo aprì a una pagina diversa e si ritrovò nel terzo capitolo. Lesse: Capitolo III: La guerra è pace La divisione del mondo in tre grandi superstati era un evento prevedibile, e di fatto venne previsto prima della metà del XX secolo. In seguito all'assorbimento dell'Europa da parte della Russia, e dell'Impero Britannico da parte degli Stati Uniti, erano già nate due delle tre potenze oggi esistenti. La terza, l'Estasia, si formò come entità autonoma dopo un ulteriore decennio di lotte alquanto confuse. Le frontiere fra i tre superstati sono in alcune aree arbitrarie, in altre variano a seconda di quanto producono gli eventi bellici, ma in generale sono fissate da precise coordinate geografiche. L'Eurasia comprende l'intera Europa settentrionale e i territori dell'Asia, dal Portogallo allo stretto di Bering; l'Oceania abbraccia le Americhe, le isole atlantiche, ivi comprese le Isole Britanniche, l'Australasia e le regioni meridionali dell'Africa; l'Estasia, meno estesa delle altre due potenze e con una frontiera occidentale meno definita, comprende la Cina e i paesi a sud di essa, le isole del Giappone e un'ampia seppur fluttuante sezione della Manciuria, della Mongolia e del Tibet. In una combinazione costantemente variabile, questi tre superstati sono in una condizione di guerra perenne. La guerra, però, non è più una lotta disperata e all'ultimo sangue, come avveniva nei primi decenni del XX secolo. Si tratta invece di conflitti con scopi limitati fra belligeranti incapaci di distruggere il nemico, che non hanno motivi materiali per combattersi e che non sono divisi da differenze apprezzabili sul piano ideologico. Ciò non significa che la condotta di guerra o l'atteggiamento stesso nei confronti della guerra siano diventati meno cruenti o più leali. Al contrario, in tutti i paesi l'isteria bellica è continua e generalizzata, e azioni come lo stupro, il saccheggio, il massacro di bambini, la riduzione di intere popolazioni in schiavitù, le rappresaglie nei confronti dei prigionieri (che vengono perfino bolliti o bruciati vivi), sono considerate normali e anzi meritorie, sempre che a commetterle non sia il nemico. Su un piano concreto, comunque, la guerra coinvolge solo un numero esiguo di persone, per la massima parte truppe altamente specializzate, e causa perdite relativamente limitate. I combattimenti, quando ci sono, si verificano in località di frontiera la cui ubicazione è praticamente ignota all'uomo comune, o intorno alle Fortezze Galleggianti poste a guardia di zone strategiche in mare aperto. Nei centri abitati la guerra non significa altro che continue riduzioni dei beni di consumo e dalla caduta occasionale di bombe- razzo che possono causare qualche dozzina di vittime. In realtà, la guerra ha cambiato carattere. Per essere più precisi, è mutato l'ordine gerarchico dei motivi per cui si combatte una guerra. Alcune motivazioni già presenti su piccola scala nelle grandi guerre dei primi decenni del XX secolo sono ora predominanti e sono scientemente riconosciute e perseguite come tali. Per comprendere la natura della guerra attualmente in corso (in realtà, a dispetto dei diversi schieramenti che si formano a distanza di pochi anni, si tratta sempre della stessa guerra), è innanzitutto necessario capire che essa non può avere una conclusione nel senso proprio del termine. Nessuno dei tre superstati potrebbe essere conquistato definitivamente, nemmeno se gli altri due si coalizzassero. Le loro strutture sono infatti troppo simili, e troppo forte è l'ostacolo costituito dalle difese naturali. L'Eurasia è protetta dal suo vastissimo territorio, l'Oceania dall'Atlantico e dal Pacifico, l'Estasia dalla prolificità e laboriosità dei suoi abitanti. In secondo luogo e materialmente parlando, non vi è più nulla per cui combattere. Con l'avvento delle economie autosufficienti, in cui la produzione e il consumo dei beni sono strettamente connessi fra loro, l'aspra lotta per accaparrarsi nuovi mercati, che era un tempo una delle cause principali dei conflitti armati, è finita, mentre l'accesso alle materie prime non è più una questione di vita o di morte. In ogni caso, ognuno dei tre superstati è vasto abbastanza per produrre al suo interno tutto ciò di cui ha bisogno. Se ammettiamo che la guerra abbia uno scopo economico diretto, esso non può che consistere nella conquista di forza lavoro. Tra le frontiere che separano i tre superstati, pur non appartenendo in modo permanente ad alcuno di essi, è possibile tracciare una sorta di quadrilatero i cui angoli sono Tangeri, Brazzaville, Darwin e Hong Kong, che ospita circa un quinto della popolazione terrestre. È per il possesso di queste regioni fittamente popolate e della calotta polare nordica che i tre superstati sono in conflitto perenne, ma nessuna delle tre potenze riesce mai ad avere il controllo completo dell'area così definita. Parti di essa cambiano continuamente di mano, ed è l'eventualità di riuscire a impadronirsi di questa o quella sezione con repentini voltafaccia a dettare i continui mutamenti nella politica delle alleanze. Tutti i tenitori contesi contengono minerali preziosi, alcuni anche prodotti vegetali importanti, come la gomma, che sotto climi più rigidi è necessario fabbricare sinteticamente mediante procedimenti più o meno costosi. Soprattutto, però, essi contengono una riserva inesauribile di manodopera a basso costo. Chiunque controlli l'Africa equatoriale o i paesi del Medio Oriente, o l'India meridionale, o l'arcipelago indonesiano, può anche disporre dei corpi di decine o centinaia di milioni di lavoratori sottopagati e rotti alla fatica. Gli abitanti di queste regioni, ridotti più o meno esplicitamente alla condizione di schiavi, passano di continuo da un conquistatore all'altro e sono utilizzati, come avviene per il carbone o il petrolio, nella corsa agli armamenti, all'accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera, quindi in un'altra corsa agli armamenti, all'accaparramento di nuove terre, al controllo di una maggiore quantità di manodopera e via discorrendo, all'infinito. Va osservato che i combattimenti si svolgono quasi sempre attorno ai confini delle aree contese. Le frontiere dell'Eurasia si spostano avanti e indietro fra il bacino del Congo e la costa settentrionale del Mediterraneo; le isole dell'Oceano Indiano e dell'Oceano Pacifico sono continuamente perdute e riconquistate dall'Oceania o dall'Estasia; in Mongolia la linea divisoria fra l'Eurasia e l'Estasia non è mai fissa; attorno al Polo, tutti e tre i superstati rivendicano il possesso di enormi tenitori, per la gran parte deserti e inesplorati. L'equilibrio fra i superstati resta più o meno stabile e il nucleo territoriale di ciascuno di essi rimane inviolato. Va detto inoltre che il contributo, in lavoro, delle popolazioni sfruttate attorno all'equatore non è in ultima analisi indispensabile per l'economia mondiale. Queste popolazioni non aggiungono nulla alla ricchezza mondiale, dal momento che tutto ciò che producono è utilizzato per fini bellici e che lo scopo di ogni conflitto è sempre quello di poter partire da posizioni di vantaggio nella guerra successiva. Ciò che viene prodotto da queste popolazioni ha l'effetto di accelerare il ritmo di uno stato di guerra ininterrotto, ma se anche non esistessero, le strutture sociali del mondo intero e i processi attraverso cui tali strutture si conservano resterebbero sostanzialmente immutati. Lo scopo fondamentale della guerra moderna (che, conformemente ai principi del bipensiero, è allo stesso tempo affermato e negato dalle teste pensanti del Partito Interno) è quello di consumare ciò che producono le macchine senza che ne risulti innalzato il tenore di vita. A partire dalla fine del XIX secolo è stato latente, nella società industriale, il problema di come utilizzare i beni di consumo in eccesso. Al giorno d'oggi, quando sono pochi quelli che hanno cibo a sufficienza, un problema del genere, ovviamente, non è urgente e verosimilmente sarebbe stato così anche se non si fosse ricorso a nessun processo di distruzione programmato a tavolino. Paragonato a quello che esisteva prima del 1914, e ancor più se lo si confronta col tipo di futuro che gli uomini di quel tempo speranzosamente si figuravano, il mondo contemporaneo è una landa desolata, un mondo affamato e in rovina. Agli inizi del XX secolo, la visione di una società futura ricca, opulenta, ordinata ed efficiente — un mondo asettico e luccicante, fatto di vetro, acciaio e cemento bianchissimo — era parte integrante della coscienza di qualsiasi persona alfabetizzata. La scienza e la tecnica si sviluppavano a una velocità prodigiosa e sembrava ovvio presupporre che un simile processo non si sarebbe arrestato. Tutto ciò, invece, non si verificò, in parte a causa dell'impoverimento indotto da una lunga serie di guerre e rivoluzioni, in parte perché il progresso scientifico e tecnologico dipendeva da una visione del mondo . empirica, che non poteva sopravvivere in una società strettamente irreggimentata. Oggi il mondo è complessivamente più primitivo di quanto non fosse cinquant'anni fa. Alcune aree depresse hanno migliorato i loro standard e diversi strumenti tecnici, sempre connessi in qualche modo alla guerra e allo spionaggio poliziesco, hanno conosciuto un certo sviluppo, ma la capacità di sperimentare e di inventare si è praticamente arrestata, mentre le devastazioni prodotte dalla guerra atomica degli anni Cinquanta non sono mai state risanate del tutto. Ciononostante, i pericoli inerenti le macchine non sono affatto scomparsi. Quando le macchine fecero la loro comparsa, ogni essere pensante maturò la convinzione che fosse scomparsa la necessità di qualsiasi lavoro pesante e che contestualmente fosse svanita ogni necessità di preservare l'ineguaglianza fra gli uomini. Se l'impiego delle macchine fosse stato direttamente indirizzato a tal fine, nell'arco di alcune generazioni mali come la fame, il superlavoro, la sporcizia, l'analfabetismo e le malattie sarebbero stati eliminati. Ed effettivamente, pur non venendo usate a tal fine, ma in conseguenza di una specie di processo automatico (producendo ricchezza, cioè, che talvolta risultava impossibile non distribuire), per un periodo di circa cinquant'anni compreso fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, le macchine innalzarono moltissimo il generale tenore di vita. Era però altrettanto chiaro che un incremento generalizzato del benessere avrebbe avuto come effetto indesiderato la distruzione di una società organizzata gerarchicamente. Già in un mondo in cui tutti avessero lavorato solo poche ore, avuto cibo a sufficienza, vissuto in case fornite di bagno e frigorifero, posseduto un'automobile o addirittura un aereo, sarebbero scomparse le forme di ineguaglianza più ovvie e forse più importanti. Una volta, poi, che una simile condizione fosse divenuta generale, la ricchezza non sarebbe stata più un segno di distinzione fra un individuo e l'altro. Era possibile, naturalmente, immaginare una società in cui la ricchezza, intesa come possesso di beni personali e di lusso, venisse distribuita equamente, nel mentre il potere restava nelle mani di una minuscola casta privilegiata, ma nella pratica una società del genere non avrebbe potuto rimanere stabile. Se, infatti, il benessere e la sicurezza fossero divenuti un bene comune, la massima parte delle persone che di norma sono come immobilizzate dalla povertà si sarebbero alfabetizzate, apprendendo così a pensare autonomamente; e una volta che questo fosse successo, avrebbero compreso prima o poi che la minoranza privilegiata non aveva alcuna funzione e l'avrebbero spazzata via. Sul lungo termine, una società gerarchizzata poteva aversi solo basandosi sulla povertà e sull'ignoranza. Ritornare al passato agricolo, come avevano auspicato alcuni pensatori all'inizio del XX secolo, era una soluzione impraticabile. Cozzava infatti contro quella tendenza alla meccanizzazione divenuta pressoché istintiva in quasi tutto il mondo; inoltre, tutti i paesi che non si fossero sviluppati industrialmente sarebbero rimasti indifesi da un punto di vista militare e destinati a essere dominati, direttamente o indirettamente, dai paesi rivali. D'altra parte, mantenere le masse in uno stato di povertà comprimendo la produzione delle merci non rappresentava una soluzione soddisfacente. Ciò avvenne di fatto e su larga scala durante la fase finale del capitalismo, più o meno nel periodo compreso fra il 1920 e il 1940. Si consentì all'economia di molti paesi di stagnare, la terra non venne coltivata, le ricapitalizzazioni arrestate, ampi strati della popolazione mantenuti senza occupazione, sorretti unicamente dalla carità dello Stato. Anche questo sistema, però, ebbe come logica conseguenza un indebolimento sul piano militare e, poiché le privazioni che imponeva erano inutili, l'opposizione a esso divenne inevitabile. Il problema era come riuscire a far girare le ruote dell'industria senza incrementare la ricchezza reale del mondo. I beni di consumo dovevano essere prodotti, ma non distribuiti. E in effetti l'unico modo per raggiungere un simile obiettivo era uno stato di guerra perenne. Scopo essenziale della guerra è la distruzione, non necessariamente di vite umane, ma di quanto viene prodotto dal lavoro degli uomini. La guerra è un modo per mandare in frantumi, scaraventare nella stratosfera, affondare negli abissi marini, materiali che altrimenti potrebbero seguono o fingono di seguire. Il piano generale, realizzato per mezzo di un intreccio di combattimenti, contrattazioni e tempestivi atti di tradimento, consiste nell'acquisizione di un certo numero di basi che chiudano come in un cerchio questo o quello stato rivale, nella successiva firma di un trattato di pace con detto stato, col quale si resterà in termini di amicizia per un numero di anni sufficienti ad attenuare qualsiasi sentimento di sospetto. Durante questo periodo le testate atomiche potranno essere immagazzinate nei punti strategici, quindi lanciate simultaneamente, con effetti così devastanti da rendere impossibile qualsiasi rappresaglia. Si potrà allora sottoscrivere, in preparazione di un altro attacco, un patto di amicizia con l'altra potenza mondiale. Inutile dire che un progetto del genere è un sogno che non si realizzerà mai. Inoltre, i combattimenti hanno luogo unicamente nelle regioni contese attorno all'equatore e al polo, e in nessun caso si procede a un'invasione del territorio nemico. Ciò spiega per quale motivo alcune frontiere tra i superstati siano aleatorie. L'Eurasia, per esempio, potrebbe conquistare facilmente le Isole Britanniche, che fanno parte della geografia dell'Europa; l'Oceania, per parte sua, potrebbe spingere le proprie frontiere fino al Reno o addirittura fino alla Vistola. Una simile mossa, però, violerebbe il principio, mai dichiarato ma rispettato da ciascuna delle parti, dell'integrità culturale. Se l'Oceania dovesse riuscire a conquistare quelle regioni che una volta erano note col nome di Francia e Germania, si renderebbe necessario sterminarne gli abitanti (un progetto, questo, che porrebbe notevoli problemi pratici) o tentare l'assimilazione di circa cento milioni di persone che, volendoci limitare al solo sviluppo tecnologico, sono su un livello ben diverso da quello dell'Oceania. Il problema si pone nei medesimi termini per tutti e tre i superstati. La loro struttura esige che non vi siano contatti con gli stranieri, con la sola eccezione, comunque limitata, dei prigionieri di guerra e degli schiavi di colore. Perfino l'alleato ufficiale del momento viene visto col massimo sospetto. A parte i prigionieri di guerra, il cittadino qualunque dell'Oceania non vede mai un abitante dell'Eurasia o dell'Estasia, e gli è interdetto l'apprendimento delle lingue straniere. Se gli si consentisse di avere contatti con stranieri, scoprirebbe che sono persone come lui e che la maggior parte di quanto gli è stato detto di loro è pura menzogna. Il mondo chiuso e separato nel quale vive andrebbe in pezzi e potrebbero svanire la paura, l'odio e l'ipocrisia su cui si basa il suo morale. Resta pertanto inteso da tutti i contendenti che la Persia, l'Egitto, Giava o Ceylon possono cambiare cento volte di mano, ma le frontiere principali possono essere attraversate solo dalle bombe. Tutto ciò sottintende un fatto che non viene mai menzionato esplicitamente ma sul quale si conviene tacitamente e in base al quale si agisce: le condizioni di vita nei tre superstati sono più o meno le stesse. Nell'Oceania il sistema dominante si chiama Socing, in Eurasia Neobolscevismo, mentre per l'Estasia si fa ricorso a un'espressione cinese, di solito tradotta col nome di Culto della Morte, ma che forse si renderebbe meglio con Annullamento dell'Io. Al cittadino dell'Oceania non è permesso di sapere alcunché dei principi che governano gli altri due sistemi, tuttavia gli si insegna a esecrarli come sanguinosi insulti alla morale e al senso comune. In realtà le tre dottrine sono assai simili fra loro, mentre i sistemi sociali che esse informano sono assolutamente identici. Ovunque vigono la medesima struttura piramidale, il medesimo culto di un capo semidivino, la medesima economia che dipende da un continuo stato di guerra e di esso si alimenta. Ne consegue che i tre superstati non solo non possono conquistarsi l'un l'altro, ma non trarrebbero alcun vantaggio se una simile evenienza si realizzasse. Al contrario, finché restano in conflitto fra loro, si sostengono vicendevolmente, come tre covoni di grano. Come al solito, poi, i gruppi dirigenti di tutte e tre le potenze sono al tempo stesso inconsapevoli e coscienti delle loro azioni. Dedicano la loro esistenza alla conquista del mondo, ma sanno anche che è indispensabile che la guerra non cessi mai e che non si raggiunga alcuna vittoria finale. Nel frattempo, il fatto che il rischio di conquiste non esiste, rende possibile quella negazione della realtà che costituisce la caratteristica precipua del Socing e dei sistemi di pensiero che gli si oppongono. È a questo punto necessario ripetere quel che si è detto poc'anzi, e cioè che la guerra, diventando perenne, ha mutato profondamente la propria natura. In passato la guerra era quasi per definizione qualcosa che prima o poi finiva, in genere sotto forma di vittoria o sconfitta indiscutibili. Nel passato, inoltre, costituiva uno dei sistemi principali attraverso cui le società umane mantenevano un contatto diretto con la realtà. I governanti di tutti i tempi hanno cercato di imporre ai loro sottoposti una falsa visione del mondo, ma non si sono mai potuti permettere di alimentare illusioni tendenti a minare l'efficienza militare. Fino a quando la sconfitta implicava la perdita dell'indipendenza o conseguenze generalmente ritenute indesiderabili, era necessario intraprendere misure forti per evitarla. I fatti concreti non potevano essere ignorati. In filosofia, nella religione, nell'etica o nella politica, poteva anche accadere che due più due facesse cinque, ma quando si trattava di progettare un fucile o un aeroplano, due più due doveva fare quattro. Le nazioni meno forti finivano sempre per essere conquistate, prima o poi, e la lotta per l'efficienza non lasciava spazio alle illusioni. Il possesso di una simile dote, inoltre, consentiva di trarre lezione dal passato, il che implicava a sua volta la necessità di avere una nozione abbastanza accurata di quanto era accaduto. Ovviamente i giornali e i libri di storia avevano ognuno un proprio orientamento politico ed esibivano tutta una serie di pregiudizi, ma la falsificazione delle cose come si pratica oggi sarebbe stata impossibile. La guerra faceva da garante dell'integrità mentale. Anzi, se si prendono in considerazione le classi dirigenti, costituiva la forma di garanzia più solida. Fino a quando le guerre potevano essere vinte o perdute, nessuna classe dirigente poteva ritenersi totalmente irresponsabile degli avvenimenti. Quando, però, diventa letteralmente continua, la guerra cessa anche di essere pericolosa. Quella che si chiama necessità militare viene a mancare. Il progresso tecnologico può anche arrestarsi, mentre i fatti più concreti possono essere negati o trascurati. Abbiamo visto che per fini bellici si fanno ancora ricerche che si potrebbero definire scientifiche, ma si tratta di fantasticherie o poco più, né ha importanza alcuna che non sortiscano effetti pratici. Dell'efficienza non si ha più bisogno, nemmeno di quella militare. In Oceania nulla funziona, tranne la Psicopolizia. Dal momento che nessuno dei tre superstati può essere conquistato, ognuno di loro costituisce un autentico mondo a parte, all'interno del quale è possibile praticare in tutta sicurezza qualsiasi forma di perversione del pensiero. La realtà esercita il suo peso solo sui bisogni della vita quotidiana: la necessità di mangiare e bere, di avere un tetto, di coprirsi, di non ingoiare veleno, di non cadere da una finestra dei piani alti eccetera. Vi è ancora differenza fra la vita e la morte, fra il piacere fisico e il dolore fisico, ma questo è tutto. Tagliato fuori da ogni contatto con il mondo esterno e con il passato, il cittadino dell'Oceania è simile a un uomo che si trovi nello spazio interstellare e che non ha la possibilità di sapere dov'è l'alto e dov'è il basso. I governanti di uno stato del genere esercitano un potere assoluto, che non vantavano nemmeno i faraoni e gli imperatori romani. Sono obbligati a fare in modo che i loro seguaci non muoiano di fame in numero tale da costituire un serio problema; per quanto riguarda la tecnica militare, sono tenuti a mantenersi sullo stesso, basso livello dei rivali, ma una volta raggiunto questo minimo, possono riplasmare la realtà a loro piacimento. Pertanto la guerra, se la si giudica coi criteri dei conflitti passati, è un'autentica impostura. Somiglia a quelle battaglie fra certi ruminanti le cui corna hanno un'angolatura tale che impedisce loro di ferirsi. Pur essendo fasulla, però, la guerra non è priva di significato. Essa divora tutti i beni di consumo in eccedenza e contribuisce a conservare quella speciale disposizione mentale di cui ha bisogno una società organizzata gerarchicamente. Come vedremo, la guerra è oggi un affare puramente interno. In passato i gruppi dirigenti di ogni paese potevano anche riconoscere gli interessi comuni e quindi limitare gli effetti devastanti della guerra, ma si combattevano sul serio: il vincitore saccheggiava sempre il vinto. Al giorno d'oggi nessuno combatte veramente contro un altro. Oggi i gruppi dirigenti fanno innanzitutto guerra ai propri sottoposti, e il fine della guerra non è quello di conseguire o impedire conquiste territoriali, ma di mantenere intatta la struttura della società. La stessa parola "guerra" è pertanto divenuta fuorviante. Non si sarebbe probabilmente lontani dal vero se si affermasse che, diventando perenne, la guerra ha cessato di esistere. Quelle particolari forme di pressione subite dagli esseri umani dal neolitico al XX secolo sono scomparse, sostituite da qualcosa di totalmente diverso. Se i tre superstati, invece di combattersi vicendevolmente, stabilissero di vivere in sempiterna pace, ognuno inviolato entro i propri confini, l'effetto sarebbe identico. In tal caso, infatti, ognuno di loro costituirebbe un universo in sé conchiuso, per sempre libero da influssi esterni che potrebbero infiacchirne la fibra. Una pace davvero permanente sarebbe la stessa cosa di una guerra permanente. Anche se la maggior parte dei membri del Partito l'intendono in modo più superficiale, è questo il vero significato dello slogan "La guerra è pace". Per un momento Winston smise di leggere. Da qualche parte, in lontananza, si udì il fragore di una bomba-razzo. La beata sensazione di essere tutto solo con il libro proibito in una stanza priva di teleschermo non si era ancora dissolta. La solitudine e la sicurezza erano sensazioni fisiche e si fondevano in qualche modo con la stanchezza del corpo, la morbidezza della poltrona e la tiepida brezza che, provenendo dalla finestra, gli carezzava la guancia. Il libro lo affascinava o, per dir meglio, lo rassicurava. In un certo senso non gli raccontava nulla di nuovo, ma proprio questo costituiva parte della sua attrattiva. Diceva quelle cose che avrebbe scritto lui se fosse stato capace di riordinare i frammenti dei suoi pensieri. Era il prodotto di una mente simile alla sua, ma immensamente più poderosa, più sistematica, meno condizionata dalla paura. I libri migliori, pensò, sono quelli che vi dicono ciò che sapete già. Era tornato al primo capitolo quando udì i passi di Julia per le scale e si alzò in piedi per andarle incontro. La ragazza lasciò cadere la sua scura borsa degli attrezzi e gli si gettò fra le braccia. Era più di una settimana che non si vedevano. «Ho il libro» disse Winston, quando si sciolsero dall'abbraccio. «Ah, sì? Bene» disse Julia, senza mostrare un grande interesse. Dopodiché s'inginocchiò subito accanto al fornellino per preparare il caffè. Tornarono sull'argomento solo dopo essere stati a letto per una mezz'ora. La sera era fresca abbastanza da indurii a infilarsi sotto il copriletto. Dal basso proveniva il suono familiare del canto e dello strascichio di scarpe sul selciato. Il donnone con le braccia arrossate, che Winston aveva visto la prima volta che era venuto, era ormai una presenza fissa nel cortile. Sembrava che non ci fosse ora del giorno in cui non marciasse avanti e indietro dalla tinozza del bucato alla corda su cui stendeva i panni, ora riempiendosi la bocca di mollette, ora prorompendo nelle sue vivaci canzoni. Adesso Julia si era rannicchiata nella sua metà del letto e sembrava già sul punto di addormentarsi. Winston allungò la mano per prendere il libro dal pavimento e si tirò su a sedere, appoggiandosi alla testata del letto. «Dobbiamo leggerlo» disse. «Anche tu. Tutti i membri della Confraternita lo debbono leggere.» «Leggi tu» disse Julia, con gli occhi chiusi. «Leggilo ad alta voce, è il modo migliore. E mentre leggi me lo puoi anche spiegare.» Le lancette dell'orologio segnavano le sei. Avevano tre o quattro ore a disposizione. Winston si sistemò il libro contro le ginocchia e cominciò a leggere: Capitolo I: L'ignoranza è forza Nell'intero corso del tempo, forse a partire dalla fine del Neolitico, sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Essi si sono ulteriormente suddivisi, ricevendo un numero infinito di nomi diversi, mentre la consistenza di ogni singolo gruppo, così come l'atteggiamento di un gruppo verso l'altro, hanno conosciuto cambiamenti di epoca in epoca. La struttura fondamentale della società è però rimasta inalterata. Perfino dopo sconvolgimenti enormi e dopo mutamenti all'apparenza irreversibili, questo schema si è costantemente riproposto, come un giroscopio che, in qualunque direzione e con qualunque forza lo si spinga, ritorna sempre in perfetto equilibrio. «Julia, sei sveglia?» chiese Winston. «Sì, amore, ti ascolto. Va' avanti, è meraviglioso.» Winston continuò a leggere: Gli obiettivi di questi tre gruppi sono assolutamente inconciliabili fra loro. Lo scopo principale degli Alti è quello di restare al loro posto, quello dei Medi di mettersi al posto degli Alti. Obiettivo dei Bassi, sempre che ne abbiano uno (è infatti una caratteristica costante dei Bassi essere troppo disfatti dalla fatica per prendere coscienza, se non occasionalmente, di ciò che esula dalle loro esistenze quotidiane), è invece l'abolizione di tutte le distinzioni e la creazione di una società in cui tutti gli uomini siano uguali fra loro. In tal modo nel corso della storia si ripropone costantemente una lotta sempre uguale a se stessa nelle sue linee essenziali. Per lunghi periodi si ha l'impressione che gli Alti siano saldamente al loro posto, ma prima o poi giunge il momento in cui o smarriscono la fiducia in se stessi, o perdono la capacità di governare, o si verificano entrambe le cose. Sono allora rovesciati dai Medi, che attirano i Bassi dalla loro parte fingendo di lottare per la giustizia e la libertà. Conseguito il loro obiettivo, i Medi ricacciano i Bassi alla loro condizione di servaggio, diventando a loro volta Alti. Ben presto da uno dei due gruppi rimanenti, o da entrambi,
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved