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Riassunto "Antropocene" di Padoa-Schioppa, Dispense di Filosofia della Scienza

Il documento risulta essere un riassunto piuttosto dettagliato dell'opera "Antropocene" di Emilio Padoa-Schioppa, opera assegnataci per l'esame di Filosofia della Scienza. Ho letto il libro e l'ho riassunto di seguito.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 29/04/2024

anna-ferrari-9
anna-ferrari-9 🇮🇹

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Antropocene" di Padoa-Schioppa e più Dispense in PDF di Filosofia della Scienza solo su Docsity! ANTROPOCENE RIASSUNTO  Capitolo 1 Tappe principali della Terra Antropocene (composta dalla parola “anthropos”, uomo” e cene, che fa riferimento alle epoche geologiche) è un termine che indica l’epoca geologica attuale, nella quale l’uomo è in grado di indirizzare e modificare tutti gli equilibri del pianeta Terra, siano essi climatici, chimici, geomorfologici, biologici ecc. La prima cosa da fare quando ci si occupa di Antropocene è trattare brevemente delle tappe fondamentali della storia della Terra. La storia del nostro pianeta ha inizio 4,6 miliardi di anni fa; la seconda tappa si chiama Big thwack, cioè la collisione della Terra con un oggetto più piccolo di Marte che ha portato poi alla formazione della Luna. Le tre tappe successive precedono la formazione della crosta basaltica (Terra nera), la formazione degli oceani (Terra blu) e la formazione della costa granitica (Terra grigia). Il quinto evento è la nascita della vita, che inizialmente era costituita solo da forme unicellulari (Terra viva). Poi il periodo denominato come “Terra rossa” ha previsto una grande attività vulcanica, che ha permesso di rilasciare grandi quantità di gas nell’atmosfera. Nel miliardo e mezzo successivo le forme di vita di evolveranno, per cui gli organismi diventano in grado di vivere in un’atmosfera sempre più ricca di ossigeno, sfruttandolo per il proprio metabolismo, e vanno a svilupparsi anche i minerali (fase chiamata “miliardo noioso”). Poi si apre la fase in cui si alternano le glaciazioni ed innalzamenti della temperatura; ci sono state quattro glaciazioni, durante le quali la Terra era completamente ghiacciata, con una temperatura media globale di 50 gradi sottozero, mentre le eruzioni vulcaniche avrebbero innescato le fasi calde. Questa alternanza caldo/freddo avrebbe fornito un incentivo all’evoluzione di minerali e delle forme di vita. Infine, si giunge alla fase denominata “Terra verde”, durante la quale assistiamo alla comparsa della flora e della fauna così come le conosciamo oggi. Ripassiamo adesso brevemente le tappe principali dell’evoluzione dell’uomo. Le tappe principali sono: la posizione eretta (raggiunta 4,4 milioni di anni fa e ha permesso ai nostri antenati di spostarsi per lunghe distanze), l’uso degli utensili (avvenuta 3,3 milioni di anni fa e ha permesso ai nostri antenati di modificare l’ambiente intorno a loro), l’utilizzo del fuoco, che ha permesso ai nostri progenitori di cucinare gli alimenti e cuocere la carne, evento che ha permesso anche lo sviluppo di un cervello di dimensioni maggiori; l’ultimo passaggio è lo sviluppo della cultura, definita come la capacità di trasmettere informazioni da una generazione all’altra. Nell’introdurre il concetto di Antropocene, è importante anche inserire quest’epoca nella scala geologica del tempo. Geologia= disciplina che studia i processi chimico-fisici che plasmano e trasformano la Terra, studia l’evoluzione della crosta terrestre. Familiarizziamo con il metodo dei geologi stratigrafici (quelli che si occupano di studiare la datazione delle rocce sedimentate): il sistema stratigrafico ha una struttura gerarchica e andando dal generale al particolare troviamo: gli eoni, al cui interno si suddividono le ere, dentro cui si succedono i periodi, dentro cui ci sono le epoche. I metodi per stabilire i confini che segnano il passaggio da una fase all’altra cambiano da eone a eone. Ci sono delle differenze, ovviamente, tra l’eone in cui ci troviamo noi oggi (che sarebbe quello denominato “Terra verde”) e gli eoni delle epoche precedenti; negli ultimi 500 milioni di anni abbiamo a disposizione molti più dati stratigrafici, fossili e chimici, per cui è più semplice segnare con certezza il passaggio da un’epoca a un’altra. Oggi il passaggio da un’epoca a un’altra si segna tramite un chiodo d’oro, che è un marcatore (che può essere un fossile, uno strato ecc.) che può essere trovato in tutto il mondo. Il problema, però, è il seguente: se è possibile datare con certezza i vari passaggi da un’epoca ad un’altra, la linea di inizio dell’Antropocene è ancora dibattuta, infatti, sono state avanzate varie proposte. Scegliere tra una proposta o un’altra trascende dalla stratigrafia e assume un peso politico non indifferente. Proprio per questo motivo vale la pena analizzare le ipotesi per decidere quale scegliere. Si possono individuare 5 momenti cui corrispondono date diverse: 1) le estinzioni dei grandi mammiferi causate dall’espansione dell’Homo sapiens; 2) L’avvento dell’agricoltura e la domesticazione degli animali; 3) Lo scambio colombiano; 4) L’avvio della rivoluzione industriale; 5) La grande accelerazione del XX secolo. Iniziamo a trattare il primo punto: le prime grandi estinzioni avvengono circa 50.000 anni fa. l’Homo sapiens emerge dall’Africa, come un cacciatore specializzato, che a mano a mano che si diffonde nel mondo non solo spazza via le altre specie, ma molti dei grandi mammiferi e degli uccelli inetti al volo. Ci sono evidenze storiche che questo processo si avvenuto prima in Eurasia, poi nelle Americhe e poi in Australia. In termini evolutivi la spiegazione è molto semplice: mentre in Africa le prede e i predatori hanno avuto modo di evolvere assieme per lungo tempo, e quindi affinare rispettivamente le tecniche di fuga e di caccia, nelle altre terre questo equilibrio non si mantiene. Il punto a sfavore di questo momento storico è il fatto che non è un evento che avviene simultaneamente in tutto il mondo e che non lascia tracce stratigrafiche valide per individuare un chiodo d’oro. La seconda proposta è quella di far iniziare l’Antropocene nel momento in cui l’umanità impara a domesticare piante e animali. Questa svolta complessa e per nulla scontata, è avvenuta ovunque sia stato possibile, ovvero ovunque vi fossero candidati adatti per la domesticazione. Ma purtroppo, l’aver estinto molti grandi mammiferi dell’America e dell’Australia, ha privato queste regioni di grandi animali potenzialmente domesticabili dall’uomo; quindi, questo passaggio non avvenne ovunque (a differenza della domesticazione delle piante). La terza proposta è la scoperta dell’America, che ha dato inizio a una serie di trasformazioni di seguito sintetizzate: grande cambiamento demografico (sterminio dei nativi americani e la loro sostituzione con gli schiavi africani), l’avvio di un’economia globalizzata, poiché c’erano scambi commerciali dall’America all’Europa e all’Asia e viceversa; è avvenuto anche un rimescolamento delle coltivazioni (il cosiddetto “scambio colombiano”, in seguito al quale due piante americane, patata e pomodoro, vengono coltivati in Europa, e la vite viene coltivata anche in Australia). In questo periodo inizia un processo di omogeneizzazione biologica. Una traccia riscontrabile di questo periodo nella stratigrafia è rappresentata dalla diminuzione della CO2, in seguito alla morte di 50 milioni di persone in America in seguito all’arrivo degli europei, con la conseguente perdita delle coltivazioni. La quarta ipotesi è quella di collocare l’inizio dell’Antropocene in corrispondenza della rivoluzione industriale e della grande transizione energetica, che hanno dato inizio al riscaldamento globale, che ha modificato le dinamiche climatiche. Prima il carbone fossile, poi il metano e il petrolio hanno rivoluzionato il modo di produrre l’energia, e quindi le possibilità di produrre beni materiali, di spostarsi e di connettere l’umanità. Ma i tempi sono molto lunghi. Molto spesso la scomparsa di una specie genera una sorpresa ambientale per effetto cascata: scompare una specie che ha un ruolo chiave in un ecosistema, e a cascata si generano nuovi effetti.  Capitolo 3 L’impronta dell’uomo sull’ambiente Il fatto che l’umanità sia in grado di influenzare gli equilibri complessivi della Terra significa che è capace anche di generare un impatto importante sul sistema. Gli effetti dell’azione antropica sono ben visibili sugli equilibri climatici, biologici, geomorfologici, e chimici. Ora cercheremo di illustrare quali sono i settori che l’uomo ha modificato maggiormente e quali sono gli effetti. Il clima è il primo elemento chiaramente modificato dall’attività antropica e le alterazioni del clima dipendono in buona sostanza da un’alterazione del ciclo biogeochimico del carbonio. La relazione è riassumibile in uno schema piuttosto semplice: le attività umane fanno aumentare le emissioni di gas, come l’anidride carbonica e il metano, che hanno la capacità trattenere la radiazione infrarossa riflessa dalla superficie terrestre. In condizioni normali, la CO2 permette il raggiungimento di una temperatura terrestre che è favorevole al mantenimento della vita, ma al giorno d’oggi l’uomo immette in atmosfera più anidride carbonica di quanta possa essere tamponata dagli oceani o consumata durante la fissazione del carbonio per fotosintesi ed essa trattiene più radiazione infrarossa riflessa sulla Terra. In passato è stato ipotizzato che ad un aumento di anidride carbonica terrestre corrisponda un aumento delle temperature medie della Terra. In effetti quanto è stato visto e osservato proprio a partire dall’inizio della rivoluzione industriale è proprio questo: sono stati immessi in atmosfera quantitativi ingenti di anidride carbonica e altri gas a effetto serra, e questo ha comportato un aumento delle temperature medie della Terra di circa 1 gradi dall’epoca preindustriale. Inoltre, le evidenze scientifiche hanno fatto emergere che esiste uno stretto legame tra CO2 e le temperatura: quando la CO2 aumenta, si innalza anche la temperatura del pianeta e quando si riduce la temperatura diminuisce. Oggi il cambiamento climatico è descritto come la conseguenza principale dell’Antropocene. Ci si può chiedere legittimamente se l’aumento della temperatura media del pianeta di 1°C sia tanto o poco: il cambiamento della temperatura anche di così poco sta cambiando profondamente diversi sistemi del pianeta Terra. Quali sono le principali conseguenze, che si andranno ad inasprire se la temperatura media continuerà a salire? 1. In alcuni luoghi le temperature medie annuali diminuiranno e in altri aumenteranno di molto 2. Varia il ciclo delle piogge (con conseguenze sul ciclo dell’acqua): in alcune zone del pianeta diminuiranno drasticamente le precipitazioni, con rischio desertificazione, ma quando esse avverranno, lo faranno con un’intensità di gran lunga superiore 3. Il cambiamento delle temperature e delle precipitazioni favorisce un aumento nella frequenza di eventi estremi (uragani, ondate di caldo e di freddo) 4. Avviene anche l’aumento delle temperature oceaniche, che di conseguenza fanno più fatica ad assorbire CO2 5. Si sciolgono le calotte glaciali (i ghiacciai) della Groenlandia e dell’Antartide, provocando un innalzamento del livello del mare, che a lungo andare porterà al ridisegnamento della costa. Gli impatti futuri suscitano un numero maggiore di opinioni diverse tra gli addetti ai lavori, in buona sostanza perché ci si trova a osservare qualcosa che, come umanità, non abbiamo mai visto prima, e in parte perché il comportamento del sistema Terra non è lineare, per cui non è sempre ragionevole proiettare nel futuro la dinamica del presente; di certo è ipotizzabile un aumento delle temperature medie della Terra. È anche utile ricordare che l’anidride carbonica non è l’unico gas a effetto serra: anche il metano è un gas a effetto serra, ma ha anche un potere molto maggiore di trattenere il calore. Per questo motivo, pur presente in atmosfera, in quantità minime, oggi è estremamente preoccupante. Il contributo del metano al riscaldamento globale è molto importante. Una delle crisi più gravi dell’Antropocene riguarda la drammatica perdita di specie, e con esse di varietà genetica, ecosistemi, habitat paesaggi ecc. nel linguaggio tecnico si parla di crisi della biodiversità. Le specie non sono entità eterne nel tempo e di per sé gli eventi di estinzione sono un fenomeno ripetuto nella storia della vita della Terra. Dal Cambriano ad oggi (cioè negli ultimi 500 milioni di anni) ne sono avvenute già cinque e quella che sta avvenendo adesso è la sesta. Cosa però differenzia questo periodo dagli altri? Le cause e la velocità: le cause di questa estinzione di massa sono indiscutibilmente antropiche, e la velocità, per quanto ci è dato ricostruire, è molto maggiore rispetto alle precedenti. Edward Wilson, il più autorevole ecologo vivente, ha proposto un acronimo per ricordare le radici antropiche della sesta estinzione: HIPPO. H sta per “habitat” ed indica la distruzione e l’alterazione degli habitat naturali, e quindi la perdita di molte specie che vi si trovano. I sta per specie “invasive”: l’uomo oggi porta in giro numerose specie generando una sostanziale redistribuzione nelle loro aree di diffusione. Questo ha un grosso impatto sulle specie originarie del posto: l’introduzione di nuove specie crea uno squilibrio, per cui quelle autoctone tendono ad estinguersi. Ogni angolo di mondo può raccontare di un'introduzione volontaria o involontaria di specie in un dato ambiente e dei problemi che ne sono derivati, e sono tutte storie senza lieto fine. P sta per “pollution” (inquinamento): molte attività antropiche lasciano in ambiente sostanze altamente inquinanti, che mettono in difficoltà le popolazioni di animali selvatici. Per esempio, nel subcontinente indiano alcuni pesticidi sono finiti nella catena alimentare dei rapaci e degli avvoltoi, poiché questi uccelli si nutrono delle carcasse di erbivori, che nel tempo hanno accumulato un grande quantitativo di pesticidi. Rapaci e avvoltoi hanno, quindi, a loro volta, accumulato in soglie letali questi pesticidi. Ne è conseguito un crollo del 96% della popolazione di avvoltoi. P sta per “population”: indica il fatto che la complessiva crescita demografica umana e lo sviluppo delle megalopoli urbane hanno un impatto negativo sulla biodiversità. Questa P, secondo Wilson, va intesa come il motore principale che è a monte anche delle altre cause della perdita della biodiversità. O sta per “overharvesting” (eccesso di caccia e raccolta): per molto tempo esse sono state il motore principale delle estinzioni antropiche. In generale, possiamo dire che prima di estinguersi molte specie subiscono un forte calo nella numerosità degli individui; oggi registriamo un calo drammatico in molte specie selvatiche di cui peraltro abbiamo grande bisogno. L’umanità è quindi una forza biologica, ha il potere di portare le altre specie all’estinzione, e oggi non abbiamo più scuse: ne dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo imparare a fare i conti con la responsabilità che questa situazione comporta. La tutela e la conservazione della biodiversità è oggi uno dei principali campi in cui è necessario impegnarsi. I cicli biogeochimici che abbiamo visto nel secondo capitolo vengono alterati dalle attività antropiche. Abbiamo già affrontato il ciclo del carbonio, ora affrontiamo qui i cambiamenti relativi al ciclo dell’azoto e del fosforo, le alterazioni al ciclo dell’ozono e l’immissione di plastiche e microplastiche nell’ambiente. L’azione antropica fissa, attualmente, più azoto di quanto non facciano i batteri fissatori, e agricoltura, industria e trasporti influenzano profondamente il ciclo dell’azoto. A livello del suolo l’aumento di azoto è dovuto all’utilizzo di fertilizzanti, che ha portato a una sua acidificazione e al progressivo declino della vegetazione naturale. Per quanto riguarda l’eccesso di azoto e fosforo nelle acque, questo genera l’eutrofizzazione delle acque. Questo processo consiste in un aumento di azoto e fosforo nelle acque, che genera in un primo momento un aumento nella crescita di organismi acquatici e alghe; ma, questi organismi quando muoiono si depositano sui fondali e vengono degradati da batteri, che consumano l’ossigeno disciolto in acqua. Questo, alla lunga, crea delle vere e proprie zone morte, oggi presenti in tutto il mondo: Mar Baltico, Mar Nero, Nord America, Giappone, Mar Mediterraneo. Pensando ad un altro ciclo biogeochimico, è importante osservare il ciclo dell’ozono stratosferico. L’assottigliamento dello strato di ozono è stato uno dei primi problemi globali dell’Antropocene e forse l’unico realmente affrontato e avviato a soluzione. L’ozono stratosferico viene assottigliato a causa delle emissioni antropiche di alcune sostanze, soprattutto ai poli. Il trattato di Montreal, siglato nel 1987, sta portando alla graduale riduzione del buco nell’ozono. Tra gli equilibri chimici occorre infine menzionare anche le plastiche e le microplastiche che l’uomo immette nell’ambiente. Da una parte l’abbandono nell’ambiente di manufatti plastici ha comportato alla creazione nell’oceano Pacifico di un’isola di plastica grande tre volte la Francia; dall’altra parte, quando analizziamo le microplastiche, che si accumulano nel corpo degli organismi marini, compresi i pesci che peschiamo e mangiamo, i dati sono spaventosi: se non si effettua un cambiamento, nel 2050 negli oceani ci sarà una massa in plastica maggiore che in pesci. L’uomo è anche la causa principale della modificazione di ambienti, che per la maggior parte sono andati persi in modo quasi irreversibile. La trasformazione di habitat e paesaggi, cominciata con l’avvento dell’agricoltura, prosegue a ritmo sempre maggiore. L’ambiente attualmente più sotto pressione è quello delle foreste pluviali equatoriali, che pur essendo una piccola percentuale delle terre emerse, ospita circa metà delle specie di organismi conosciute. Data la ricchezza della biodiversità delle foreste equatoriali, la loro scomparsa contribuisce in modo determinante al processo di estinzioni che sta caratterizzando la sesta estinzione di massa, e implica anche un grande degrado dei suoli, che sono poveri di sostanze nutritive, e una volta privati della copertura arborea in pochi anni diventano inadatti anche per agricoltura e pascolo. In ambiente marino, l’habitat a maggior rischio è quello delle barriere coralline: l’aumento delle temperature, associato alla crescente acidificazione degli oceani, l’incremento di eventi estremi e l’inquinamento diffuso producono la morte dei coralli. L’aumento delle temperature porta i coralli ad espellere delle alghe, le zooxantelle, che forniscono ai coralli stessi buona parte del loro fabbisogno energetico, utile per la calcificazione, la crescita e la riproduzione. Questo fenomeno prende il nome di “sbiancamento dei coralli”, che porta alla morte dei coralli stessi, fenomeno che sta avvenendo velocemente in tutto il mondo e che ha una serie di effetti a cascata sulle specie che vivono in quell’habitat. Un’altra grande trasformazione è quella legata all’urbanizzazione. Il numero di città è aumentato nel tempo e così quello della popolazione che abita l’ambiente urbano. in maniera specifica soluzioni di ingegneria globale, come lo stoccaggio di CO2 nel sottosuolo, le modificazioni artificiali del ciclo della pioggia, o della chimica degli oceani, poiché danno l’illusione che, se adottate, si possa continuare a mantenere il modello di consumo attuale. Piuttosto, è meglio soffermarsi su un approccio diverso, che si fonda sul principio della sostenibilità e sulle azioni che gli individui nel loro quotidiano possono mettere in atto. In questo periodo storico il nostro modello consumistico dovrebbe basarsi su 4 parole chiave: sostenibilità, mitigazione, compensazione e adattamento. Il concetto di sostenibilità è nato negli anni ’80 in seguito a una riunione dell’Onu e lo sviluppo sostenibile è stato definito come ciò che permette di soddisfare i bisogni del presente senza togliere la possibilità agli individui futuri di soddisfare i propri. In genere sono tre i pilastri su cui si regge la sostenibilità: il pilastro economico, quello sociale e quello ambientale. Mitigazione, invece, significa fare tutto ciò che è in nostro potere per ridurre il nostro impatto sulla biosfera. Questo vuol dire, per esempio, passare a un’economia completamente indipendente dall’utilizzo di combustibili fossili. Compensazione significa che quando inevitabilmente facciamo qualcosa che ha un impatto negativo sull’ambiente, abbiamo anche la possibilità di compensarlo. Un volo intercontinentale può essere neutralizzato dal contributo di una riforestazione, un pranzo a base di carni rosse può essere compensato dall’andare al lavoro in bicicletta e così via. Probabilmente la soluzione migliore da adottare non è tanto quello di concentrarsi su una sola azione in un determinato ambito (es. nessuno deve più ambiare carne rossa), ma piuttosto un connubio tra inclinazioni personali e la necessità di compensazione (per esempio, se una persona deve prendere sempre l’aereo per lavoro, metterà in atto azioni che ridurranno il suo impatto ambientale in altri ambiti). Un altro aspetto da tenere presente è quello che potremmo definire “compensazione storica”. Non si può negare che alcune società e nazioni e non altre, siano più responsabili della grande accelerazione del ventesimo secolo; quanto è avvenuto nel secolo scorso va addebitato in buona parte alle società europee e nordamericane, ma mentre Europa e USA hanno avuto diverse generazioni per alterare il sistema Terra e avviarsi verso la sostenibilità, i paesi in via di sviluppo non dispongono dello stesso tempo, per cui il costo della transizione di questi paesi diventa per forza responsabilità delle nazioni più ricche e che per prime hanno innescato questa dinamica. Infine, adattamento vuol dire che qualunque cosa faremo le temperature continueranno a salire per un po’ di tempo, perché un treno in corsa ci mette del tempo per arrestarsi, per cui bisogna riconoscere che dovremo adattarci ad alcuni ulteriori cambiamenti, che dobbiamo prepararci ad affrontare per questioni di buon senso. Nessuna scelta che noi faremo sarà risolutiva immediatamente, e non potrà essere compiuta da sola. Occorre affrontare i problemi con la strategia dei cunei: ogni ambito ha un effetto all’inizio piccolo, soprattutto se preso singolarmente, ma a mano a mano che passa il tempo, l’effetto si amplifica e la somma combinata di tutti gli ambiti può essere molto grande, sia se si tiene conto dei danni, che gli effetti delle soluzioni messe in atto. Trattiamo velocemente alcune soluzioni proposte, ma che rischiano di creare più problemi a lungo termine oppure di distogliere l’attenzione dalla transizione ecologica. Si tratta di: energia nucleare e geoingegneria globale. L’energia nucleare si presenta come un buon metodo alternativo per produrre energia senza usare gas a effetto serra, almeno durante la fase di funzionamento delle centrali nucleari, ma non dimentichiamo che la costruzione delle centrali stesse, così come l’estrazione dell’uranio, non sono attività neutre dal punto di vista delle emissioni. Si tratta quindi di una strada fortemente insidiosa, che scaricherebbe le conseguenze delle nostre scelte sulle generazioni future. Con geoingegneria globale si intendono, invece, progetti che abbiano l’obbiettivo specifico di modificare artificialmente il riscaldamento globale: si parla di diminuire la radiazione solare in arrivo sulla Terra aumentando artificialmente la nuvolosità, o addirittura costruendo un sistema si specchi, oppure di modificare la chimica del mare per permetterle di assorbire più CO2. Questi suggerimenti e queste strade rappresentano una scorciatoia pericolosa: stiamo comprendendo solo ora quanto siano connessi tra di loro i vari sistemi della Terra e non possiamo pensare che la via da perseguire sia ampliare la portata dei cambiamenti già in atto, senza avere una idea chiara delle conseguenze a cui potremmo andare incontro. Anche i progetti di cattura e stoccaggio di anidride carbonica, che si stanno già sviluppando, potrebbero aiutare: l’idea consiste nel pompare CO2 nel sottosuolo nei depositi di idrocarburi esauriti. Anche questo percorso, comunque, non è privo di incognite sulle conseguenze a cui potrebbe portare; probabilmente potrà avere un ruolo positivo, se però non distoglie dalla necessità di orientarsi verso un processo di transizione ecologica / verso uno sviluppo sostenibile a impatto zero. L’incredibile spirale di estinzioni innescate dalle diverse azioni antropiche rischia di generare delle conseguenze di lunga portata, pericolosissime per l’umanità. Tutelare la biodiversità è dunque uno dei primi temi che dobbiamo affrontare, perché la perdita di specie è qualcosa di irreversibile che non potrà essere recuperato in tempi adatti all’uomo. A partire quindi dagli anni 80 del secolo scorso, si è sviluppata una sub disciplina dell’ecologia, definita come biologia della conservazione, che ha proprio l’obbiettivo di rallentare questa sesta estinzione di massa. Il primo aspetto di cui si è occupata questa branca è comprendere come far riprodurre in cattività specie vicine all’estinzione e cambiare la gestione del territorio. Un secondo metodo, più efficacie, è stato quello di proporre programmi di gestione del territorio: alcune porzioni del territorio sono state destinate alla tutela e alla conservazione delle specie animali e vegetali e degli ecosistemi ivi presenti. Nel corso del XX sono state istituite diverse aree protette, che hanno avuto senza dubbio un ruolo positivo. Ma tra gli anni ’80 e ’90 si è capito che era più efficacie mettere in connessione tra loro le aree protette con caratteristiche ecologiche comparabili, formando “reti ecologiche territoriali”, poiché i parchi e le aree protette sono troppo piccole per mantenere intatti gli ecosistemi che contengono, ed è quindi necessario per lo meno metterli in connessione tra loro. Un’azione da intraprendere seriamente e senza indugi è rallentare la deforestazione in corso nelle aree delle foreste pluviali, e intraprendere fin che si è in tempo, un piano di recupero e ripristino delle foreste perdute in questi decenni. Un ampio programma di riforestazione porterebbe a stoccare CO2 e a ripristinare la dinamica delle precipitazioni nelle aree equatoriali. A livello di società, per affrontare il riscaldamento globale, il vero traguardo da raggiungere è una decarbonizzazione dell’economia. In altre parole, liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili, favorendo una transazione verso l’uso di energie rinnovabili, grazie a nuove tecnologie che abbiano un minore impatto sull’ambiente. L’agricoltura rappresenta un campo in cui il nostro impatto ambientale è molto forte; infatti, la conversione dei suoli naturali a suoli agricoli è una delle cause principali del cambiamento degli habitat e della conseguente alterazione degli ecosistemi. Un secondo esempio viene dalla rivoluzione dei trasporti a cui stiamo assistendo in questi anni; il comparto automobilistico sta effettuando una transizione dall’uso dei combustibili fossili alla mobilità elettrica e a idrogeno. Non è un processo che è privo di impatto ambientale: se da una parte le auto elettriche non emettono, quando sono in funzione, gas ad effetto serra, dall’altra comunque l’energia elettrica va prodotta in qualche modo, e comunque il processo di produzione e di smaltimento delle batterie ha un elevato impatto sull’ambientale. Comunque, la transizione nei trasporti verso energie rinnovabili fornisce un contributo essenziale al rallentamento delle emissioni di gas a effetto serra e, se viene integrata da una diverso utilizzo dei trasporti, è una delle strade percorribili per superare la crisi climatica di Antropocene. Dal momento che una buona parte dell’umanità vive nelle aree urbane, e che le zone urbane hanno un impatto ambientale elevato è indispensabile proporre delle soluzioni che riducano il loro impatto. Le principali punti su cui concentrarci sono: le modalità di costruzione degli edifici, le politiche dei trasporti e la pianificazione del territorio. La modalità con cui costruiamo gli edifici dovrebbe essere indirizzata ad una prospettiva di sostenibilità e oggi è possibile avere abitazioni che richiedono minori dispendi energetici per essere riscaldate o raffreddate, rispetto al passato (per esempio, costruendole in modo per cui c’è meno dispersione di calore o di fresco), e per raggiungere questi obbiettivi si possono usare energie rinnovabili (come i pannelli solari). Queste tecniche costruttive dovrebbero diventare vincolati. In ambito urbano deve essere ripensato radicalmente anche il sistema dei trasporti. I mezzi pubblici, abbinati alla mobilità elettrica, dovrebbero essere efficienti e disponibili a tutti. Questo significherà rivedere e ripensare le modalità di uso degli spazi (per esempio, per aumentare il numero delle piste ciclabili). Le amministrazioni devono pensare a come incentivare le persone a spostarsi con i mezzi pubblici. Nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica c’è una definizione che comprende anche questo insieme di processi: smart cities. Con questa espressione si intende un insieme di strategie nella pianificazione urbanistica delle città che mira all’innovazione e all’ottimizzazione dei servizi pubblici per migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni. A tutto ciò poi occorre anche aggiungere un modello innovativo di pianificazione del territorio urbano e suburbano, che abbia come priorità il mantenimento del suolo naturale, la rigenerazione di edifici dismessi, piuttosto che la costruzione di nuovi edifici e il conseguente consumo di suolo.  Capitolo 6 Istituzioni ed economia per l’Antropocene Per circa 20 anni il modello di democrazia liberale, basato su un sistema economico che nel tempo è divenuto iperliberista, è sembrato essere l’unico modello da adottare. Questo modello economico è entrato in crisi, anche senza considerare i problemi ambientali che ha contribuito a generare. Assieme alla crisi del modello economico, assistiamo a una crisi degli stati nazionali, che non sembrano essere in grado di
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