Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto antropologia per insegnare - Tassan, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Riassunto antropologia per insegnare - Tassan

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 08/11/2021

Laura251h
Laura251h 🇸🇲

4.7

(25)

1 documento

1 / 24

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto antropologia per insegnare - Tassan e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! Capitolo 1 - Antropologia Etimologia della parola: ai Na ANTROPOLOGIA CULTURALE anthropos (genere umano) logos (discorso) ® Nasce della seconda metà dell’800: si pone l’obiettivo di studiare il genere umano secondo un approccio che si concentra sull’analisi comparativa delle somiglianze e delle differenze culturali e sociali. * Maggiormente diffusa: antropologia culturale Stati Unii influenza di FRANZ BOAS. Si utilizza il concetto cultura per sottolineare l’attenzione rivoltdalla dimensione simbolica delle credenze e dei valori. Questa impostazione ha portato a concepire la cultura come insieme di modelli di pensiero e di comportamento condivisi all’interno di un gruppo. * Contestobritannico: attenzione più spiccata per le diverse modalità di organizzazione sociale dei gruppi umani MALINOWSKI: formalizzazione del metodo che contraddistingue l'antropologia: metodo etnografo. Malinowski aveva un approccio focalizzato sul connubio tra osservazione e partecipazione, noto come osservazione partecipante. * ETNOGRAFIA: studio storicoculturale di aree geograficamente limitate, studiando l’analisi di singoli gruppi sociali dando importanza alla storia culturale di una determinata regione del mondo. ® LEVIS STRAUSS: propone di considerare l'antropologia, l’etnografia e l'etnologia non come discipline distinte ma come fasi di uno stesso processo di ricerca. Antropologia: fase teorica in cui si offre un contributo sulla riflessione del genere umano. Etnografia: osservazione e descrizione delle caratteristiche culturali e sociali di uno specifico Etnologia: fase successiva in cui si raccolgono tutti i dati raccolti su uno stesso tema. gruppo umano. Etnografia: assume un medesimo significato per tutti gli antropologi riconoscendola sia come processo di ricerca che avviene sul campo, sia come testo che raccoglierà gli esiti dell'indagine. Capitolo 2 - la sociologia positivista e la teoria dell’evoluzione Le origini del concetto antropologico di cultura sono legate ai fondamentali cambiamenti che hanno segnato la storia europea del XIX secolo (grandi spedizioni in regioni remote di Africa e Asia, viaggi nel continente africano di Livingston e Morton) che hanno alimentato la fiducia nella possibilità di superare limiti fin ora mai sfidati ed alimentato da una diffusa ideologia del progresso. Uno degli aspetti qualificanti dell’antropologia culturale è l'adozione di una postura intellettuale anti- etnocentrica. Con etnocentrismo si intende la tendenza, riscontrabile in tutti i gruppi umani, a considerare la propria cultura, il proprio sistema di valori e i propri modelli di comportamento come migliori di quelli altrui. Portato alle estreme conseguenze, tale atteggiamento può sfociare in comportamenti attivamente denigratori e oppositivi nei confronti di coloro che sono percepiti come differenti, come nel caso del razzismo. Il sapere antropologico, si oppone alle tendenze etnocentriche, presenti in qualsiasi società cercando di mostrare come tutte le pratiche culturali appaiano scontate e “naturali” all’interno del contesto in cui vengono elaborate. Date queste premesse, il relativismo culturale rappresenta un atteggiamento intellettuale che invita a considerare qualsiasi comportamento o valore all’interno dello specifico contesto in cui ha preso forma. * Inquesto quadro si deve al filosofo August Comte la nascita di una scienza della società definita da lui stesso sociologia. Sviluppò l’idea che la spiegazione dei fenomeni di natura sociale non sia qualitativamente diversa da quella dei fenomeni naturali, poiché entrambi possono essere ricondotti a leggi universali. * Comteconsiderava la sociologia come un sapere scientifico fondato sul paradigma del positivismo. POSITIVISMO participio passato del verbo ponere: ovvero ciò che è posto o ciò che è dato. * Positivismo: sottende l’idea che il mondo sensibile e i fenomeni che lo caratterizzano siano qualcosa di reale e concreto la cui esistenza è data a priori, cioè a prescindere dal soggetto che li osserva. Ciò significa che il positivismo postula l’esistenza indipendente di un mondo esterno che risulta conoscibile attraverso i nostri organi percettivi. In quest'ottica i dati scientifici sono concepiti come qualcosa di dato, qualcosa di già presente nella realtà: il compito del ricercatore è quello di trovarli e raccoglierli. * Positivismo: postula una rigida separazione tra la teoria e i dati e la teoria e l'osservazione. TEORIA: DATI: non deve influenzare il momento di vengono considetati come un materiale raccolta del dato e si configura come grezzo che sarà dggetto di riflessione un'ipotesi da verificare o una spiegazione teorica in una fase successiva. elaborata a seguito di un processo di raccolta dei dati * Inquest’ottica Comte propose una legge universale di sviluppo delle società umane: egli riteneva che la crescita cumulativa del sapere fosse il motore del cambiamento storico, per cui raffinare le forme di conoscenza corrispondeva necessariamente a delle trasformazioni di natura sociale. * Formulò così LA LEGGE DEI TRE STADI, ciascuno dei quali era caratterizzato da una specifica forma di sapere: 1. Stadio teologico: considerato da Comte come l'infanzia del genere umano, si distingueva per la credenza in esseri sovrannatura 2. Stadio metafisico: corrispondeva all’ adolescenza del pensiero, intrappolato in astratti concetti filosofici; 3. Stadio positivo: era segnato dal trionfo delle scienze basato su rigore e sulla verificabilità empirica. * Aquesteegli faceva corrispondere un'altra progressione dello sviluppo sociale: a uno stadio militare, che evocava le forme di belligeranza medievali, seguiva uno stadio legale, teorizzato ispirandosi agli stati assoluti dell’ancien régime francese, per arrivare, infine, allo studio industriale, massima espressione del progresso umano. Egli considerava la sociologia come la piena espressione dello “stadio positivo” dello spirito umano, certo che si trattasse della forma di sapere in assoluto più elevata e importante perché offriva gli strumenti conoscitivi per indirizzare i futuri cambiamenti sul piano politico-amministrativo. * Dopola morte di Comte, DARWIN pubblico l’origine della specie: il testo in cui venne compiutamente formulata la teoria evoluzionista. Opera che influenzò i successivi sviluppi della sociologia positivista di Comte. Egli introdusse il concetto di lotta per l’esistenza, sottolineando come la competizione sia il motore essenziale di qualsiasi processo evolutivo, in quanto l’individuo deve confrontarsi non solo con i suoi simili, ma anche con le altre specie che vivono nel suo stesso ambiente. La selezione naturale premierà soltanto gli esseri viventi più adatti a resistere a determinate situazioni. ® SPENCER: nonsi limitò come Comte a ritenere che i fenomeni sociali potessero essere spiegati, come quelli naturali, attraverso delle leggi universali. Spencer concepì lo studio della società come un campo del sapere in cui agivano gli stessi principi che Darwin aveva formulato per chiarire il funzionamento del mondo naturale. Riteneva cioè che l'evoluzione sociale fosse parte integrante dell'evoluzione generale degli organismi viventi. In questo modo elaborò il cosiddetto darwinismo o evoluzionismo sociale. e Maussutilizza il termine habitus per indicare l’esistenza di un insieme di pratiche culturali eseguite in maniera variabile a seconda dei contesti. ® PIERREBOURDIEU ha dato alla nozione di habitus una connotazione semantica che l’ha resa fondamentale non solo per l'antropologia del corpo, ma anche per l'antropologia culturale. * Bourdieuè andato oltre la semplice constatazione che la cultura ci fa usare il corpo in modo diverso, ha cercato di comprendere il motivo per cui l’uso culturalmente condizionato del corpo avviene secondo delle modalità abbastanza regolari e stabili nel tempo, senza che sia però preclusa la possibilità di cambiamento. * Bourdieuritiene che il modo in cui agiamo nel mondo è il prodotto dell’inconsapevole assimilazione di una conoscenza corporea che ci indirizza verso un certo modo di operare, senza però determinarci. Egli vuole comprendere il modo in cui, data una serie di strutture oggettive, si generano i modi di operare (modus operandi) dei soggetti nel mondo. Individua nel concetto di habitus il principio di mediazione in grado di spiegare proprio questa relazione. * Gli habitus si traducono allora in una conoscenza incorporata che diventa hexis, abitudine, cioè un modo durevole di atteggiarsi, di parlare, di pensare: ma implica anche l’idea che ci sia sempre un margine di autonomia che rende impossibile avere la certezza che, date certe condizioni, osserveremo sicuramente certe pratiche. Ciò significa che le strutture oggettive in cui si trova a vivere il soggetto danno forma ad habitus condivisi che lo predispongono ad agire in un determinato modo, che varia da cultura a cultura, senza per questo essere del tutto vincolante. * È fondamentale chiedersi però, come viene trasmesso e appreso il concetto di habitus: secondo Bourdieu l’educazione primaria ha un ruolo centrale, dal momento che tratta il corpo come un promemoria permettendo un incorporazione della cultura. Questo processo di incorporazione si realizza al di fuori della coscienza: l'educazione consiste infatti in una serie di meccanismi automatici che si sviluppano a seguito di una specifica cultura. * Bourdieuosserva inoltre la connessione tra il concetto di habitus e quello di stile di vita. STILE DI VITA: HABITUS: concetto strettamente collegato alla è la condivisione di uno spazio sociale che posizione occupata da ciascuno all’interno permette di avere una medesima della società. percezione delle pratiche sociali tra i componenti di una società. (ANTROPOLOGIA MEDICA) * Seèverochela cultura plasma i corpi, questo assunto vale anche quando il corpo è malato. Il binomio culturale salute-malattia merita una riflessione, poiché ciò che è riconosciuto come uno stato patologico in un certo contesto non assume necessariamente questa connotazione in un altro. * Qualsiasi sistema medico possiede una propria logica che è necessaria per comprendere le specifiche modalità, attraverso le quali, viene attribuito un significato all'esperienza di malattia. * Uncontributo originale in questo settore è rappresentato dall’antropologia medica critico interpretativa che ha offerto una nuova chiave di lettura sulla corporeità e ha posto le basi per una più ampia riflessione sul rapporto tra corpo e cultura. * L’'antropologia medica studia l'ambito della salute, il benessere e la malattia nei diversi contesti socio- culturali: ha come obiettivo centrale quello di analizzare il modo in cui il corpo, la salute e la malattia sono definiti, costruiti, vissuti, gestiti in ogni contesto socio-culturale. | sistemi medici sono infatti insiemi di rappresentazioni, di conoscenze, di pratiche e di risorse che in un dato contesto sociale e culturale permettono di far fronte, di prevenire o di interpretare la malattia. ® L’antropologia medica ha contribuito in tal senso a mostrare come il sistema biomedico non sia affatto neutro e oggettivo dal punto di vista culturale. La prospettiva medico-critica intende mostrare come la stessa conoscenza medica in quanto sistema di cura non rappresenti un “corpo autonomo” ma, anzi, sia profondamente intrecciato con i cambiamenti sociali e politici di una determinata cultura. Nel riconcettualizzare il corpo attraverso l'originale costrutto del mindful body - un corpo pensante, cosciente, e consapevole, che si relaziona attivamente al mondo sociale- Lock e Scheper-Hughes intendono “distruggere” la dicotomia cartesiana che ha fondato la concezione dell'io pensante” collocato come qualcosa al di fuori del corpo e concepito come qualcosa di estraneo al mondo naturale. Nell’antropologia medica infatti, il corpo è concepito come un intersezione tra: 1. il corpo personale, l’esperienza soggettiva di cui si è attivamente consapevoli; 2. il corpo sociale, che rimanda all’uso del corpo come simbolo naturale attraverso cui rappresentare la società. Così un corpo “sano” offre una metafora per pensare l'armonia sociale e quello “malato” l’opposti 3. il corpo (bio)politico, che rimanda invece all’accezione filosofica che negli ultimi anni si è fatta del termine e quindi al controllo e alla regolazione esercitati dagli organismi di potere, dalla riproduzione al lavoro fino alla malattia. Letta attraverso l’intreccio dei tre corpi la malattia non è più “uno scontro sfortunato con la natura”, ma uno stato attivamente vissuto e costantemente reinterpretato da un soggetto il cui pensiero è iscritto nella corporeità. Le riflessioni elaborate da Scheper-Hughes e Lock sul “corpo pensante” hanno avuto un ruolo centrale nell’ispirare la proposta teorica dell’antropologo americano Thomas Csordas che ha dato vita al paradigma teorico “per lo studio della cultura e del sé”. In questa prospettiva il corpo non è visto soltanto come un oggetto plasmato dalla cultura, ma diventa un soggetto che contribuisce attivamente a modellarla, stabilendo un rapporto bidirezionale tra corpo e cultura. Se, infatti, la cultura dà forma ai corpi, è altrettanto vero che i corpi stessi, con la loro materialità, producono significati, ponendosi a loro volta come fondamento della cultura. Nel formulare la sua proposta, egli attribuisce un ruolo centrale alla complessa nozione di esperienza, elaborata a partire dal concetto di essere-nel-mondo di Heidegger, che gli servì per sottolineare che l'essere umano non esiste in astratto, ma solo in rapporto alla specificità del mondo che abita, sia a livello pratico sia intellettuale. La percezione gioca altresì un ruolo importante in quanto esperienza corporea fondamentale in cui il corpo non è un oggetto ma un soggetto. Il suo obiettivo diviene quindi articolare una fenomenologia culturale ovvero un approccio che non consideri la cultura solo come un sistema di simboli, leggibili come un testo, finendo per assorbire il corpo, ma riconducendola alla lingua, a discorso o alla rappresentazione. Csordas propone di conciliare la nozione di riflessività, centrale negli approcci postmoderni, con quella di riflettività. Se la riflessività presuppone un'acquisizione di consapevolezza in merito al proprio bagaglio teorico, biografico ed esistenziale, la riflettività invita in maniera speculare a prendere coscienza del sapere corporeo che il ricercatore porta inconsapevolmente sul campo nell'incontro con l’altro. Tra le prospettive teoriche che si sono occupate del concetto di cultura a partire dalla nozione di corporeità, è fondamentale considerare la proposta di Tim Ingold, che si inserisce nella branca dell’antropologia ecologica. Nell’antropologia ecologica, emersa a partire dagli anni ‘60, la cultura viene intesa come uno strumento adattivo attraverso cui gli esseri umani hanno cercato di far fronte alla variabilità ambientale. Ingold critica l'approccio dell’antropologia ecologica concentrandosi sul modo in cui gli esseri umani percepiscono e apprendono il mondo che li circonda. A suo dire esistono due visioni contrapposte relative al modo in cui gli esseri umani percepiscono il mondo e ne fanno esperienza: 1. la building perspective corrisponde alla “costruzione mentale”: postula l’esistenza di un soggetto razionale contrapposto a un mondo oggettivo, esterno a esso, che viene concepito “prima” che il corpo vi agisca. La possibilità di mettere in atto un'azione dipende Dall’acquisizione di conoscenze sotto forma di regole e schemi, che rende possibile la costruzione mentale del mondo. Ciò significa che anche saperi pratici ( cioè le competenze necessarie a svolgere un compito concreto) possono essere trasmessi verbalmente al di fuori del contesto di uso. 2. la dwelling perspective (dell'abitare) aiuta a comprendere l’acquisizione del “saper fare”: in cui ciò che si realizza non è tanto un processo di inculturazione, quanto di addestramento pratico corporeo all'acquisizione di abilità concrete. Secondo questa prospettiva l'apprendimento non avviene attraverso la trasmissione verbale del sapere, ma grazie a un processo di educazione dell'attenzione. Le nostre stesse capacità percettive vengono formate dai contesti esperienziali in cui siamo inserii * Ilconcetto di addestramento presuppone l’idea che il soggetto non si definisca sulla base dell’intersoggettività, ma anche in base al rapporto che istituisce con le componenti umane e non umane dell'ambiente, definito da Ingold come interagentività. * L'ambiente si presenta all’immediatezza dell'osservatore per le intrinseche potenzialità d'uso (affordances) che offre all’osservatore, le quali, però variano a seconda dell'organismo che le percepisce. * Ilsignificato, allora, non è il prodotto di un processo di costruzione ma fa intrinsecamente parte dell'ambiente. Questa relazionalità implica, secondo Ingold, un rapporto di mutualismo tra persona e ‘ambiente che comporta il definitivo superamento del dualismo natura-cultura. Capitolo 6 - pensiero, linguaggio, e trasmissione culturale: l'antropologia cognitiva * L’'antropologia cognitiva nasce come specifica area di indagine con l’intento di esplorare il rapporto tra la dimensione culturale e i processi del pensiero, focalizzando l’attenzione sul modo in cui gli esseri umani acquisiscono e immagazzinano un sapere condiviso. * Primadi affermarsi compiutamente come branca disciplinare a sé stante, l'antropologia cognitiva ha trovato un suo fondamentale precursore nell’etnoscienza. (studio di Brent Berlin e Paul Kay dei colori). * Inseguito, la matrice comportamentista di questa prospettiva è stata abbandonata e l'antropologia cognitiva ha cominciato a concentrarsi maggiormente sullo studio delle cosmologie, ovvero le variabilità dei “sistemi di pensiero” che caratterizzano le società umane, la cosiddetta scuola dei modelli cultural * Agli inizi degli anni '80 poi, fece per la prima volta la sua comparsa il concetto di schema culturale che può essere considerato una generica rappresentazione di come dovrebbe svolgersi un'esperienza che un gruppo di individui vive in maniera simile. * Secondolateoria degli schemi, i pensieri e le azioni umane non sono direttamente determinati dagli stimoli provenienti dal mondo esterno, ma sono mediati da prototipi appresi. | prototipi si prestano come i “migliori esemplari” di specifici casi. * La nozione di prototipo ha permesso di superare uno dei princìpi chiave della tradizionale antropologia cognitiva, secondo cui il linguaggio svolgeva un ruolo essenziale nella formazione del pensiero concettuale. Ciò è avvenuto con la teoria del concept first, che mostra come l’acquisizione lessicale sia il tentativo di associare le parole ai concetti che, in realtà, sono già formati. Il concetto di schema crea un’ aspettativa ben precisa rispetto al modo in cui un evento dovrebbe svolgersi e agli elementi che vi sono coinvolti. * Secondo Naomi Quinn, gli schemi appaiono dotati di una notevole flessibilità, poiché “non impongono una struttura di comportamento invariabile”, ma attivano “connessioni multiple” che, come l’habitus di Bourdieu, producano delle “improvvisazioni regolate”. Improvvisazioni perché le risposte che un individuo articola di fronte a una situazione nuova sono create sul momento. Regolate perché sono guidate da “strutture di associazioni previamente apprese”. * In primo luogo, alcuni schemi sono il prodotto delle specifiche esperienze di vita di un singolo individuo. Altri invece sono condivisi ma in gradi diversi, vi è cioè una distribuzione differenziata degli schemi. Inoltre, le emozioni e le motivazioni possono agire in modo opposto rispetto a quanto descritto in precedenza, contribuendo a rimettere radicalmente in discussione gli schemi già acquisiti. * Unodeitemia cui l'antropologia cognitiva ha dedicato notevole attenzione è stato il rapporto tra oralità e scrittura. In The Consequences of Literacy (1963) Jack Goody e lan Watt scrivono che l’alfabetizzazione, intesa come capacità di leggere e scrivere, è stata determinante non solo nella storia della civilizzazione, ma anche per l'influenza che ha esercitato sull’attività psichica umana, dal momento che la forma di comunicazione attraverso cui ci esprimiamo - orale o scritta - ha ripercussioni fondamentali sul modo stesso in cui pensiamo. * Una differenza centrale tra società letterate e non letterate è la questione della memoria, intesa come patrimonio sociale collettivo. Nelle società orali la trasmissione della tradizione culturale ha un carattere ‘omeostatico, tende cioè a stabilire un equilibrio tra ciò che vale la pena di essere tramandato per i suoi legami con la prassi e ciò che invece viene collettivamente dimenticato perché giudicato irrilevante. * Le trasformazioni che l’alfabetizzazione ha prodotto nella storia dell'umanità sono state diverse: In primo luogo, l'adozione della scrittura ha reso generale e astratta la relazione tra la parola e il suo referente concreto, ponendo le basi per il pensiero speculativo e la logica formale. In secondo luogo, ha permesso lo capacità e dal successo con cui l'io gestisce i processi psicologici che mediano la relazione tra l’individualità e il mondo sociale. * Secondo Remotti (2010), il passaggio semantico da un utilizzo del termine “identità” in chiave filosofica e psicologica, a uno di natura specificamente antropologica e sociologica, è avvenuto tra i'60ei'70. * Erving Goffman, ne La vita quotidiana come rappresentazione (1959), legge la vita sociale attraverso la metafora teatrale, sottolineando come ciascun individuo possa essere pensato come un attore che mette in scena una rappresentazione pubblica del sé, il cui successo dipende dalla capacità di utilizzare adeguatamente le regole sociali per affrontare nel modo più appropriato le diverse situazioni. Ogni interazione - dalla lezione universitaria alla cena in ristorante - implica precise aspettative su come gli individui, a seconda della loro posizione, debbano comportarsi. Ogni individuo, inoltre, riveste ruoli diversi a seconda delle circostanze e delle persone con cui si relaziona. Secondo questo approccio, l'identità del soggetto non è dunque, una condizione stabilita a priori, ma il prodotto contestuale delle interazioni sociali che egli intrattiene in uno specifico ambiente. * Nel 1964 viene fondato all’Università di Birmingham il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) con l'intento di studiare le nuove culture identitarie che stavano prendendo forma nel contesto britannico in una prospettiva interdisciplinare, i cosiddetti Cultural Studies, spaziando dalla sociologia all’antropologia, dalla letteratura alla semiotica sino agli studi sui media. Si occuparono di riflettere sia sugli effetti dell’ immigrazione dalle ex colonie causata dalla fine dell'impero inglese, sia sull'emersione di nuove dimensioni identitarie legate all’etnicità, al genere, alle minoranze religiose o alla classe sociale. ® È în questo contesto che emerge la nozione di agency, con cui si fa riferimento alla necessità di valorizzare la capacità d’azione degli individui i quali, anche nelle situazioni in cui sembrano rivestire unicamente il ruolo di vittime passive, possono invece reagire, mettendo in atto strategie di adattamento o di attiva resistenza. * Daquesto punto di vista l'identità è una categoria che ricopre sempre una valenza politica perché si presenta come il prodotto di un costante confronto tra attori sociali che confliggono nell'arena culturale a partire da diverse posizioni di potere all’interno della società. Capitolo 2 - differenze, disuguaglianze, gerarchie e Ilconcetto di differenza rimanda a una qualche forma di percezione della diversità esistente tra le persone, le quali possono distinguersi per cultura, genere, etnia. Questo termine fa riferimento a tutte quelle caratteristiche, considerate socialmente rilevanti in un dato contesto culturale, che portano gli individui e i gruppi a distinguersi gli uni dagli altri. Ciò significa che elementi che sono oggetto di grande attenzione in una certa realtà possono risultare irrilevanti altrove e viceversa. Le differenze non esistono, quindi, in assoluto, ma sono Îl prodotto di una scelta culturale. * Secondo Appadurai, il concetto di differenza è “il tratto più prezioso del concetto di cultura” e prende forma solo in una dimensione relazionale. * A livello politico-culturale, il tema delle differenze e delle cosiddette “minoranze” ha dato luogo ad approcci diversi. | due storicamente più noti sono il modello di integrazione collettiva, detto anche multiculturalista o multietnico o “all’anglosassone”, adottato in paesi come Regno Unito, la Svezia o l'Olanda, e il modello di integrazione alla francese, noto anche come assimilazionista. Il primo “riconosce alle minoranze - a quelle storiche come a quelle recenti, frutto dei processi di immigrazione - diritti collettivi, anzitutto il diritto all'espressione della propria cultura d'origine nella sfera pubblica”. Il secondo invece “riconosce diritti individuali universali e tende all’assimilazione”. * Il concetto di disuguaglianza, pur poggiando su quello di differenza, non coincide con esso, ma ne rappresenta piuttosto un'ulteriore specificazione, dal momento che permette di mettere in evidenza come le differenze non siano neutre, ma strettamente correlate alle asimmetrie di potere presenti in qualsiasi collettività. Gli elementi di diversità possono infatti tradursi in vantaggi o svantaggi che influenzano il percorso di vita dei soggetti. In altre parole, il termine “disuguaglianza” sottolinea non solo le diverse possibilità di accesso a specifiche risorse e opportunità, ma anche il trattamento differenziato che può seguire al riconoscimento della diversità. * Quest'ultimo aspetto può tradursi in forme di disci caso, si tratta di un mancato riconoscimento di alcuni diritti a specifici gruppi sociali. Nel secondo, invece, lo Stato si impegna a promuovere incentivi per favorire l'esercizio della cittadinanza da parte di gruppi ritenuti inazione cosiddette “negative” o “positive”. Nel primo svantaggiati o sottorappresentati attraverso le cosiddette azioni (o politiche) affermative o positive. Interventi che mirano a “promuovere un’uguaglianza sostanziale, laddove l'uguaglianza formale non è da sola in grado di garantire una parificazione delle opportunità”. * Gli elementi di vantaggio o svantaggio sperimentati da individui o gruppi sulla base delle differenze che li distinguono possono, infatti, tradursi in gerarchie, cioè nell’acquisizione di uno status superiore o inferiore nell’organizzazione sociale. * Le disuguaglianze tendono, dunque, a strutturarsi in maniera sistematica e la mobilità sociale - cioè la possibilità di cambiare la propria posizione nel corso della vita- , che può variare notevolmente da società a società, cerca di opporsi alle disuguaglianze. * L'organizzazione gerarchica della società viene espressa dal concetto di stratificazione sociale: lo sviluppo di questa nozione si sviluppa sul concetto di classe sociale, elaborato da Karl Marx, nell'analisi della storia economica della società europea. La classe sociale viene definita come un insieme di individui che condivide la stessa posizione in un rapporto a uno specifico modo di produzione, cioè ha una particolare combinazione tra i mezzi di produzione, manodopera e rapporti di produzione. Secondo Marx, la coscienza di classe, intesa come consapevolezza di far parte di un gruppo portatore delle medesime istanze e pertanto passibile di sviluppare legami di solidarietà reciproca, può emergere soltanto quando i lavoratori si rendono conto della propria condizione di sfruttamento e si uniscono allo scopo di modificarla radicalmente attraverso una rivoluzione antiborghese, volta a fondare una società basata sull’uguaglianza. ® Stratificazione sociale: esempio dell’India (caste). Capitolo 3- razza * In biologia per classificare l’intero sistema dei viventi viene utilizzato il termine specie, mentre il termine razza viene usato per indicare Un’eventuale sottodivisione tassonomica individuata all’interno di una stessa specie: il suo uso sia profondamente variabile a seconda della cultura e del contesto sociale di riferimento. La razza è un uso improprio di classificazione biologica adoperato per giustificare differenze fisionomiche e culturali. È dunque un costrutto culturale che va compreso e decodificato negli usi concreti che ne fanno gli individui o i gruppi. * Larazziologia disciplina pseudo-scientifica ottocentesca nata con l’intento di classificare la diversità umana su presunte basi biologiche, è stata infatti usata, come giustificazione scientifica per una gerarchizzazione della società in termini discriminatori, sino ad arrivare a forme estreme di persecuzione e annientamento di alcuni gruppi. * Le prime classificazioni razziali si basarono, quindi, su un approccio tipologico e morfologico che prevedeva, cioè, la costruzione di tipi umani basati sulla loro differente morfologia, vale a dire sulle caratteristiche somatiche osservabili. * Linneo può essere considerato il fondatore della tassonomia, intesa come disciplina della classificazione alla base della biologia moderna. Nella gerarchia dei viventi proposta nella sua famosa opera Systema Natura (1735), le specie vengono indicate come le unità elementari del sistema naturale, ciascuna delle quali può essere a sua volta scomposta in diverse varietà. Anticipando Darwin, egli considerava l'essere umano come una specie animale tra le altre. Questa convinzione era motivata dalla somiglianza morfologica che intercorre tra umani e primati. (si opponeva al creazionismo). * Se Linneo, invece, è considerato il fondatore della biologia moderna, Blumenbach può essere considerato l’iniziatore dell’antropologia fisica - oggi antropologia biologica - intesa come disciplina che si dedicò alla ricostruzione della sua storia naturale dell'essere umano attraverso l'individuazione delle caratteristiche dei diversi “tipi razziali”. Adottò come criterio classificatorio la forma del cranio, tra tutti i reperti, un cranio europeo proveniente dalla regione del Caucaso, in Georgia, presentava, a suo avviso, le caratteristiche morfologiche migliori e le considerò, pertanto, come l'emblema di una perfezione che si era andata progressivamente perdendo attraverso un lento processo degenerativo. * Nel caso della razza, è venuto meno proprio il fondamentale principio metodologico, sull’onta della teorizzazione del falsificazionismo di Popper (1934). Vi era infatti un rilevante grado di approssimazione nei tratti fenotipici scelti per tracciare un confine tra i diversi gruppi umani. * Inseguito all’affermarsi dell’evoluzionismo darwiniano, si cominciò a dare per scontato che le differenziazioni su base razziale avrebbero permesso di ricostruire anche la filogenesi della specie umana, cioè la sua storia evolutiva e, dunque, il legame antenato-discendente. * Le misurazioni antropometriche introdotte in antropologia fisica cominciarono, quindi, a essere utilizzate non solo per certificare l’esistenza delle razze, ma anche per ordinarle a livello evolutivo. Sulla base di tali rilevazioni, si stabilì che africani e australiani mostravano similitudini fenotipiche tali da poterli considerare discendenti di un gruppo evolutivo comune, contrapposto a quello da cui derivavano europei e asiatici. | nativi americani erano considerati eredi successivi del secondo gruppo. * Successivamente, come sottolineato da Luigi Luca Cavalli-Sforza (uno dei maggiori genetisti al mondo), i geni si sono rivelati essenziali per sottoporre a vaglio scientifico le classificazioni razziali, dal momento che non sono soggetti ad una selezione evolutiva dovuta all'ambiente comparabile a quella a cui sono sottoposti tratti somatici che sono modificabili in relazione a fattori come la nutrizione o il clima. Inizialmente, diversi genetisti cercarono di equiparare la nozione di razza a quelle di popolazione genetica, termine con cui si fa riferimento alle “popolazioni i cui membri si incrociano più frequentemente tra di loro che non con i membri di altri gruppi”. Come puntualizza lo stesso Cavalli-Sforza “sul piano genetico, una popolazione da scegliere è quella in cui gli individui hanno un'alta probabilità di scegliere tra loro i propri sposi * Sitratta, quindi, di gruppi umani i cui membri sono in qualche modo isolati riproduttivamente tanto da poterli differenziare da altre popolazioni in base alla frequenza genica di alcuni tratti. Le popolazioni genetiche sono state individuate seguendo soprattutto la distribuzione degli emoti) sanguigni. * Nel 1962, Frank Brown Livingston osservava infatti che l’esito dei primi studi genetici mostrava con chiarezza che le differenze della frequenza di alcuni geni non permettevano di suddividere l'umanità in popolazioni dotate di confini ben definiti. Le frequenze genetiche seguivano, al pari dei tratti fenotipici, un andamento clinale. * In biologia, il concetto di cline corrisponde alla mappatura della variazione geografica di un singolo tratto somatico. Questo concetto rende conto del fatto che i caratteri fenotipici, come per esempio il colore della pelle, la forma del naso o il tipo di capelli, non mutano bruscamente spostandosi lungo la superficie del pianeta, ma sono piuttosto soggetti a modificazioni graduali. Livingstone concludeva, pertanto, che “non ci sono razze, ci sono solo clini' cioè l'appartenenza ai vari gruppi Capitolo 4 - razzismi * Come sottolinea Pierre-André Taguieff (1999) il “razzismo scientifico” comprende un fondamento teorico e un versante applicativo a livello sociopolitico. Tutte le pratiche razziste implicano il principio di un trattamento diseguale o di discriminazione secondo criteri che variano in base alle scale gerarchiche postulate tra le razze umane. ® La nascita della dottrina razzista metteva, infatti, in discussione il monogenismo biblico, cioè la tesi secondo cui l’intera umanità fosse la progenie di una coppia creata da un amico Dio. Sulla base delle classificazioni naturaliste, si fece strada l’opposta tesi poligenista, secondo la quale la differenza tra le razze era la prova di un'origine multipla della specie umana. * Forse la prima è quella del to iberico del “sangue puro”, che ha fatto la sua comparsa tra il XV e il XVI secolo in Spagna e Portogallo, e a livello ideologico si basava sull’assunto per cui gli ebrei, anche se converti siano costitutivamente portatori di un “sangue impuro”, quale carattere ereditario. * De Gobineau poi nel suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-55) sosteneva che la mescolanza razziale, il meticciato, avrebbe inevitabilmente portato alla decadenza delle società più evolute. Egli classificava l'umanità in tre razze ordinate gerarchicamente: 1. la bianca, ariana, che incarna la virtù, la libertà, l'onore e la spiritualità; 2. la gialla, materialista e priva di pensiero metafisico; 3. la nera che agisce per istinto e non per intelletto. * Il ruolo fondamentale nella legittimazione del razzismo scientifico e delle politiche coloniali spettò a una teoria della biologia, nota come teoria della ricapitolazione o legge biogenetica fondamentale: la cui ipotesi è che gli stadi adulti raggiunti da una specie in epoca ancestrale (filogenesi: la storia evolutiva di un'intera subìto passivamente, a condizioni non scelte. Nel caso dei transgender, per esempio, la dimensione performativa risulta particolarmente evidente poiché è giocata sulla distinzione tra il performer e il genere che viene performato. Secondo Butler, infatti, il sesso anatomico si intreccia sia con l'identità di genere a cui si tende, sia con l'effettiva performance di genere che viene messa in atto. Capitolo 7 - forme di famiglia * La cultura gioca un ruolo essenziale nel considerare più o meno praticabili alcune scelte procreative e di condotta sessuale. L'antropologia ha mostrato, attraverso la ricerca etnografica, l’esistenza di variabilità nei modi in cui le persone stabiliscono tra loro dei legami parentali e interpretano la riproduzione. * Il famoso studio condotto da Evans- Pritchard ha permesso di mettere in evidenza l’importanza di distinguere, a livello antropologico, la figura del pater, ruolo genitoriale riconosciuto socialmente che corrisponde al cosiddetto padre biologico. Il ghost-marriage, analizzato da Evans-Pritchard, ovvero il “matrimonio col fantasma o spirito del morto”, corrisponde a una soluzione di natura culturale per porre rimedio alla condizione di un marito morto prima di riuscire a lasciare degli eredi. Un suo parente potrà utilizzare il bestiame del defunto come “ricchezza della sposa” da elargire per prendere moglie “a suo nome”. * L’antropologia culturale ha mostrato fin dai suoi esordi un interesse per il campo della parentela, infatti oggi rappresenta uno dei settori più caratteristici della disciplina. Nel corso del tempo sia modificato non solo l’approccio adottato nello studio delle diverse forme di famiglia esistenti nel mondo, ma anche il modo stesso di concepire la parentela, intesa come particolare tipologie di relazioni umane normata da regole che non riguardano esclusivamente il rapporto tra singoli individui, ma anche tra i gruppi. * L’evoluzionista Lewis H. Morgan, da un corposo lavoro di ricerca che egli stesso svolse sugli indiani irochesi del Nord America notò che questi avevano la particolarità di utilizzare il termine “padre” / “madre” per designare non solo l'effettivo genitor/genitrix di un soggetto, ma anche tutti i fratelli/sorelle del padre/madre (coloro che nel nostro modello parentale sarebbero definiti zii/zie). Il principio di linearità fa riferimento ai parenti collegati a un soggetto in linea diretta, come per esempio i genitori e i figli, mentre quello di collateralità fa riferimento ai legami “laterali”, come nel caso dei fratelli e delle sorelle da parte di madre o di padre. * Nel tempo continuò a persistere l’idea che è lo studio della parentela permettesse di comprendere le modalità di funzionamento dell’organizzazione sociale. Infatti, nel 1900, William Rivers consapevole della grande variabilità terminologica che le comunità umane avevano escogitato per distinguere i parenti e i legami familiari, nel suo metodo genealogico propose di utilizzare solo cinque denominazioni - padre, madre, figlio (maschio o femmina), marito e moglie - allo scopo di ricostruire le genealogie, e con esse i modelli di eredità, le migrazioni o ruoli rituali. e. Mezzosecolo dopo, Claude Lévi-Strauss, il padre dello strutturalismo antropologico, nel celeberrimo testo Le strutture elementari della parentela (1949) considerò la parentela come un fenomeno chiave per comprendere il passaggio dai “fatti di natura” ai “fatti di cultura”, e quindi l'opposizione tra il dominio dell’universalità e quello della normatività. * Ladicotomia natura-cultura, appunto. Col termine natura, Lévi-Strauss si riferiva al dominio dell’istintualità e della necessità biologica, cioè a “tutto ciò che è costante presso tutti gli esseri uma La parola cultura, invece, rimandava a un dominio di credenze, costumi, tecniche e istituzioni che impongono agli esseri umani di conformarsi a diversi sistemi di regole per sancire l'appartenenza al proprio gruppo di riferimento. * Ricercando un fatto sociale che avesse, contemporaneamente, il carattere dell’universalità e quello della normatività, egli lo trovò nella proibizione dell’incesto, cioè nell’assoluto divieto di unirsi sessualmente e in matrimonio con una specifica categoria di individui. Da questa poi dipendono due diverse strategie di ricerca di un partner. Si parla di endogamia quando tale ricerca avviene all’interno del proprio gruppo, a esclusione dei consanguinei proibiti. Si definisce, invece, esogamia, l'acquisizione di un partner al difuori del proprio gruppo. ® Il matrimonio viene definito come un atto formale che istituzionalizza un’unione tra individui riconosciuta all’interno di una società, la quale stabilisce, al contempo, anche nuove relazioni fra i parenti di entrambi gli sposi, dette di alleanza o affinità. Nella società contemporanea, siamo soliti definire monogamia quella che sarebbe più corretto specificare come monogamia seriale poiché, in caso di divorzio o di decesso di uno dei due sposi, è possibile instaurare nuovi legami matrimoniali. Col termine poli , invece, si fa riferimento alla possibilità per un uomo di sposarsi con più mogli. * La poliandria, invece, rappresenta un modello matrimoniale molto più raro in cui una donna può avere più mariti che possono essere o meno imparentati tra di loro. Nel caso di legami matrimoniali tra una donna e un gruppo di fratelli, si parlerà di poliandria adelfica o fraterna (diffusa presso alcuni gruppi della catena himalayana). Quando invece gli uomini non hanno vincoli parentali, si è in presenza della cosiddetta poliandria associata (ricorrente in Sri Lanka). * Un'ultima forma di poliandria è definita matrimonio secondario ed è praticata solo in alcune zone settentrionali della Nigeria e del Camerun, dove la donna vive con un solo marito per volta, ma senza divorziare dai precedenti, presso i quali ha facoltà di tornare in un secondo momento. * Attraverso il principio della discendenza gli antropologi hanno esplorato i diversi modi di concepire culturalmente i legami di filiazione. Essa può essere di discendenza bilaterale (o cognatica), la più diffusa in Occidente, in cui il parentato è costituito da tutti i parenti di una persona, sia da parte di madre sia di padre, o altrimenti di discendenza unilaterale, distinguendosi a sua volta in discendenza matrilineare o uterina e discendenza patrilineare o agnatica. Un gruppo di discendenza patrilineare sarà dunque detto patrilignaggio, mentre uno di discendenza matrilineare sarà definito matrilignaggio. Rispetto a quest’ultimo caso, è opportuno puntualizzare che sono i fratelli di una donna a esercitare il potere. Il nucleo fondamentale delle società fondate sul matrilignaggio è, dunque, la coppia sorella-fratello, la quale lascia in secondo piano il ruolo del marito di una donna, nonché padre dei suoi figli. * George P. Murdock (1969) mise a confronto circa 500 casi etnografici. Sulla base di questi dati propose di distinguere due fondamentali tipologie di famiglia. La famiglia nucleare o coniugale formata da padre, madre e figli, e la famiglia estesa, comprendente più tipologie di parenti consanguinei. Lo studio di Murdock ha, inoltre, precisato che la famiglia debba essere intesa anche come un gruppo residenziale. Nella residenza patrilocale, la nuova coppia si insedia vicino o presso i genitori del marito; in quella matrilocale, presso o vicino i genitori della moglie; nel caso denominato ambilocale, la coppia ha facoltà di scegliere fra le due modalità precedenti; nell’avuncolocale (avunculus, zio materno in latino), gli sposi vanno a vivere vicino o presso il fratello della madre dello sposo; infine, nella residenza neolocale, la coppia opta per una nuova, diversa residenza. ® A partire dai '70 si è affermato, infatti, il progressivo abbandono dell’impostazione strutturalista, volta alla ricerca di princìpi universali: svolta che deriva dalla nascita di nuove forme di famiglia. Nella società contemporanea la dimensione della scelta ha acquisito, infatti, un ruolo fondamentale nella costruzione delle relazioni parentali. | nuovi ambiti di indagine, quindi, studiano famiglie ricomposte, che si formano a seguito di seconde unioni; le unioni libere, del tutto svincolate dal legame matrimoniale; la filiazione al di fuori del matrimonio; il nuovo ruolo dei nonni; la genitorialità adottiva, e le nuove modalità di costruzione delle relazioni parentali rese possibili dalle nuove tecnologie procreative; e le famiglie omogenitoriali. Queste sono definite anche fai ie per scelta o elettive, basandosi sull'idea che il vincolo di parentela si attivi nel momento in cui vi siano amore, cura, protezione e sostegno reciproco, attraverso la comune adesione a un patto di tipo etico, superando la centralità della procreazione e l’idea della complementarità fra i sessi. La famiglia diventa così il prodotto duttile e creativo di una ridefinizione di ruoli in cui la differenza tra parentela e amicizia diventa più sfumata. Naturalmente, anche l’esperienza migratoria ha contribuito a ridefinire i legami familiari, portando all'attenzione: le famiglie transnazionali, disgregate dall'esperienza migratoria, dette anche famiglie policentriche o diasporiche perché i componenti vivono in diverse parti del mondo; le famiglie migranti che vivono in un nuovo contesto socioculturale; infine, le coppie miste o le famiglie binazionali. * Analizzando le esperienze di vita delle cosiddette “seconde generazioni”, emerge come la dimensione religiosa rivesta un ruolo importante nel definire il rapporto che intercorre tra generi e generazioni nelle dinamiche familiari e, di conseguenza, nell’indirizzare la scelta di un partner. Capitolo 8 - religioni, nuovi media e politica ® Alla fine dell'Ottocento Friedrich Nietzsche, il filosofo della “morte di Dio”, definiva le chiese - segni tangibili della presenza del divino sulla terra - come sepolcri ormai vuoti. Con questa immagine suggestiva esortava gli europei suoi contemporanei a prendere atto degli effetti dirompenti del processo di secolarizzazione e, quindi, del “crepuscolo degli ido! una società siano tra loro coerenti e in parte equivalenti, sarebbe un errore pensare di domini. Considerare la religione come un sistema culturale non significa affatto dire che religione e cultura sono la stessa cosa. La religione è una delle espressioni della cultura, ma non è né autosufficiente né autoreferenziale, poiché coabita con l’arte, il senso comune e la scienza (Geertz, 1998). Quest'ultima non ha portato al superamento del “paradosso della religione”, ovvero allo scarto differenziale esistente tra la religione come sistema culturale, in quanto prodotto umano puramente sociale, culturale, storico, e ciò che essa pretende di essere, ovvero una realtà fondatrice e giustificatrice della società, della cultura, della storia. Quest'ultima considerazione evidenzia peraltro come la dimensione del significato non riesca, da sola, a illustrare la portata dell'influenza della religione in una società. Anche la dimensione del potere gioca, infatti, un ruolo di primordine. Sarebbe quindi più importante stabilire, all'interno di una società, a quale autorità competa la decisione di stabilire che cosa sia “vero” e di conseguenza possa essere imposto come tale. Il tema della secolarizzazione, nato originariamente in ambito giuridico per indicare l'alienazione di un territorio o di un'istituzione alla giurisdizione ecclesiastica, è venuto a significare la progressiva erosione dell'autorità religiosa in seno alla società. Pur emergendo nel corso dell'Ottocento, bisogna attendere fino agli anni '60 dello stesso secolo per l'elaborazione di una vera e propria “teoria della secolarizzazione”, a partire dalle riflessioni dei cosiddetti teologi della “morte di Dio” che, sulle orme di Nietzsche, coglievano nel declino della religione una conseguenza dello sviluppo. È stato evidenziato come il legame tra modernizzazione e secolarizzazione pur innegabile in certi contesti, è piuttosto debole in altri, dove l'avvento della modernità sembra convivere, se non addirittura incrementare, forme evidenti di “ritorno al sacro”. Nei Paesi che sono stati scenario dei processi di decolonizzazione, per esempio, sono fioriti potenti movimenti di contro-secolarizzazione. Tra i più rilevanti, i cosiddetti “culti di rivitalizzazione”. Generalmente queste forme di religiosità hanno un carattere sincretico, nascono cioè dalla fusione di elementi diversi prelevati da altri contesti. Lo esemplifica il Culto del Cargo, diffuso nell’area melanesiana soprattutto nel secondo dopoguerra, così chiamato dal nome del bastimento carico di beni di provenienza occidentale, che si credeva fosse stato inviato dagli antenati allo scopo di risollevare (rivitalizzare) le popolazioni locali dallo stato di miseria provocato dall'arrivo dei bianchi. Oltre a queste nuove espressioni di religiosità, nella stragrande maggioranza delle religioni non occidentali la persistenza delle religioni tradizionali è ancora molto radicata e, soprattutto, sembra coabitare senza particolari frizioni col processo di acculturazione all'Occidente. A metà strada tra queste forme, si può posizionare quello che Ernesto de Martino analizzò tanto bene nel suo acclamato Sud e magia (1959): il Tarantismo meridionale. Esso ha inizio fra l'800 e il 1300: la Taranta è il ragno mitico, in sé innocuo, che morde simbolicamente e col suo veleno dà turbamenti fisici e dell'anima. “Il male del cattivo passato che torna e continua il suo tormento”. Dal 1700, poi, è stato connubiato al simbolismo cattolico nella figura di San Paolo. Nella tradizione antropologica, fin dagli esordi evoluzionistici, è emersa un’altra prospettiva sulla religione, solitamente definita “sociologica”. Secondo Émile Durkheim la religione non è il frutto di una speculazione intellettuale, e nemmeno il prodotto di un bisogno spirituale dell'individuo. AI contrario è un fatto sociale, ossia una dimensione pubblica e condivisa, la cui funzione primaria è quella di rinsaldare il legame sociale e le sue intuizioni. Durkheim individua il fondamento antropologico della religione nella quale sarebbe universale. A scopo esplicativo ricorda che nell'antica Roma il termine “sacro” indicava tutto ciò che era dedicato agli dèi da parte della comunità politica, e come tale era ritenuto “separato” dalla vita ordinaria. “Profano” significa infatti “ciò che sta fuori dal fanum”, il luogo consacrato. L'analisi di Durkheim si concentra sul rito, una sequenza prestabilita di azioni che si ripetono sempre nello stesso modo e che, a differenza di altri comportamenti standardizzati, possiede un alto valore simbolico. Esempio emblematico di riti (non necessariamente connotati in senso religioso) sono i cosiddetti “riti di passaggio”, le cerimonie collettive che in molte comunità accompagnano i cambiamenti di status nel ciclo di vita. la sacralità è la capacità simbolica dell'essere umano a dare “consistenza” ai modelli culturali, i quali, essendo condivisi e incorporati, sono in grado di aggregare intere comunità. Si pensi soltanto alla bandiera di uno Stato nazionale. Da qualche decennio l'antropologia culturale ha cominciato a interessarsi allo studio dei media non solo in quanto canali di informazione, ma come autentici produttori di cultura. L'esperienza religiosa è Seppur i valori espressi dalla religione e i princìpi condivisi dai membri di identificare i due listinzione tra “sacro” e “profano”, la scolastica, intesa come aggregato di studenti sottoposto a una organizzazione e a un ordine peculiare, ha costituito l’unità di analisi preferenziale a partire dalla quale sono state approfondite tematiche diverse. Il primo vero etnografo della scuola è stato probabilmente Jules Henry si dedicò all’analisi del sistema valoriale americano studiando le violenze interne della trasmissione dei modelli di valore. L'esito delle sue ricerche lo portò alla conclusione piuttosto sconcertante che le istituzioni scolastiche statunitensi tendevano a trasmettere una “cultura di morte”: producevano cioè delle personalità lacerate tra l'ansia di competizione e la paura dell'autorità. Henry ha anticipato per molti aspetti quello che sarà un tema chiave dell’antropologia della scuola e dello schooling, ovvero il rapporto tra curriculum manifesto composto da obiettivi formativi e programmi didattici (overt/manifest curriculum), e curriculum nascosto inteso come una sottotraccia che guida l'insegnamento e il rapporto tra insegnanti e studenti(hidden curriculum). Nel 1982, Gearing e Epstein utilizzarono il termine curriculum per esplorare il modo in cui l’organizzazione dello spazio educativo e il tipo di interazioni verbali, che vi avevano luogo, contribuivano a trasmettere una coscienza culturale tra gli studenti. Nel corso di una ricerca etnografica in un’area disagiata degli Stati Uniti, si resero conto che, in maniera più o meno consapevole, gli insegnanti veicolavano agli alunni un discorso latente centrato sul concetto di “imparare ad aspettare”. Da una parte, quindi, si chiedeva implicitamente ai ragazzi di interiorizzare l’idea di essere dei “perdenti”. Dall'altra, si cercava di instillare in loro l’idea che la pazienza e la determinazione avrebbero aperto uno spiraglio per un riscatto individuale, senza per questo arrivare a mettere in discussione l’ineluttabilità dello status quo. Etnografie come quella di Gearing e Epstein hanno contributo a decostruire con forza l’idea che la scuola sia un “luogo neutrale”, una sorta di “mondo a parte” che scorre parallelo rispetto ai rapidi mutamenti della società e al riparo dai conflitti che la animano. La scuola è infatti lo specchio della società poiché ne riflette i peculiari conflitti, e può essere letta come un “campo di battaglia” in cui si confrontano generazioni, classi e persino linguaggi diversi, forgiati dal mercato dei consumi. Il sociologo Manuel Castells intende con “società della conoscenza” la conseguenza della rivoluzione dell’informazione e delle comunicazioni, che ha comportato come effetto la riorganizzazione del lavoro, nonché il profilarsi di una nuova società globale in cui lo Stato nazionale si è visto progressivamente svuotato del suo potere di controllare il flusso del sapere. L'enfasi è posta sull’“autoimprenditorialità” e il costante processo di innalzamento dei livelli di istruzione richiesti per entrare nel mercato del lavoro hanno creato la categoria, fortemente stigmatizzante, di low skilled person (persona poco qualificata), che rafforza l'esclusione sociale vissuta da alcuni soggetti già fortemente a rischio di dispersione scolastica. Nella storia dell’antropologia dell'educazione l'interesse era posto sulla comprensione delle motivazioni alla base delle esperienze di disagio e di insuccesso scolastico delle minoranze. Nel 1996, Lotty Elderling ha definito l'educazione multiculturale come una modalità educativa che tiene conto in qualche modo delle differenze etno-culturali esistenti tra gli alunni. In tal senso si può decidere di programmare degli interventi solo per gli alunni che appartengono a specifici gruppi etnici (approccio particolaristico) oppure rivolgersi a tutti indistintamente (approccio universalistico). Da ciò derivano quattro possibili approcci: 1. l'approccio dello svantaggio, che parte dal presupposto che gli studenti di gruppi etno-culturali considerati minoritari presentino delle lacune strutturali mirando a rimuovere lo svantaggio. Ad esempio, le lezioni vengono impartite nella lingua madre dei soggetti “minoritari” o vi è un'educazione bilingue; 2. l’approccio dell’arricchimento, che permette di rendere tutti gli studenti - e non solo quelli delle minoranze - consapevoli degli apporti culturali che vengono dalla loro rispettiva appartenenza a gruppi diversi. L'idea di fondo è che la mutua conoscenza porti ad apprezzare la diversità e stimoli il rispetto reciproco; 3. l’approccio della competenza biculturale, che rappresenta un'estensione del precedente, poiché prevede l'acquisizione da parte di tutti gli studenti di una piena competenza tanto nella lingua e nella cultura “maggioritaria” quanto in quella “minoritaria”, tenendo conto che in ceti contesti i concetti di “minoranza” e “maggioranza” non riflettono in alcun modo l'effettivo dato numerico. Questo modello è stato, per esempio, adottato in alcune regioni a sud degli Stati Uniti, dove la presenza di studenti di origine messicana è preponderante; 4. l'approccio dell’eguaglianza collettiva, che si propone, invece, una finalità più ambiziosa, dal momento che intende mettere in discussione non solo il sistema educativo nel suo complesso, ma anche la struttura della società e i meccanismi che supportano l’ineguaglianza. Si può sancire la piena parità e uguaglianza tra cultura maggioritaria e minoranza, come avviene in Canada tra i sistemi inglese e francese, o si può cercare di rendere le scuole esistenti il più multiculturali possibili, non limitandosi a integrare nuove materie nel curriculum scolastico, ma provvedendo a rivedere gli stessi metodi di insegnamento. In questo tipo di impostazione l’attenzione alla diversità etno- culturale si accompagna al tentativo di mitigare altre forme di discriminazione legate al genere, alla disabilità o allo status socioeconomico. Come osserva Piasere (2004), adottare una prospettiva etnografica sulla scuola significa confrontarsi con i molteplici significati che le sono attribuiti e che si sono tradotti in vere e proprie metafore attraverso cui pensare il ruolo sociale di questa istituzione. La scuola può così essere concepita come un “ascensore” attraverso cui perseguire la mobilità sociale in senso ascendente. AI tempo stesso, però, si presenta anche come un “setaccio” che seleziona gli individui, mettendo alla prova le loro abilità e determinando la posizione sociale che andranno ad acquisire. Allo stesso tempo, prendendo spunto dal metodo di osservazione dell’etnografo, dalla sua attitudine a cogliere il “punto di vista dei nativi” per superare la distanza e istruirli, si nasconde una sottile postura colonialista. È importante concentrarsi Sull’analisi dell’oralità e della scrittura nei contesti educativi e più precisamente dell’alfabetizzazione, intesa come un processo di acquisizione della capacità di leggere e scrivere. E' impossibile comprendere appieno le effettive modalità con cui i soggetti si esprimono oralmente o per iscritto senza mettere in relazione gli usi di queste forme comunicative nel contesto scolastico e in ambito familiare. Nel 1982, Walter Ong asseriva che la formazione attraverso lettura/scrittura stimola processi analitici e riflessivi mentre l’oralità è una forma di riflessione analogica. L'anno dopo, viene smentito da Shirley Brice Heath, nel libro Ways with Words (1983), dove raccolse dati etnografici che le permisero di dimostrare come il modo in cui si acquisiscono le competenze nel campo dell’oralità e della scrittura può variare a seconda dei contesti culturali, senza per questo dover presupporre necessariamente che la mancata padronanza di un certo formato linguistico implichi l'assenza di alcune capacità cognitive. Il punto, semmai, è riconoscere che non esiste una contrapposizione assoluta tra culture orali e culture scritte, tali da ricondurle a due tipi contrapposti e uniformi. William Corsaro (2003), che ha svolto ricerche etnografiche proprio nelle scuole italiane, ha sottolineato, inoltre, come i bambini, intesi come attori attivi e dotati di una propria agency, siano sempre portatori di una propria specifica cultura, che mettono in gioco sia nelle relazioni tra pari sia con gli adulti. Si tratta quindi di culture bambine che “si appropriano del mondo adulto, reinterpretandolo”. A partire da queste osservazioni, è nata una specifica corrente di studi nota come NLS-New Literacy Studies, nella cui prospettiva, il modo in cui le persone utilizzano socialmente la lettura e la scrittura, nonché il significato che attribuiscono all'acquisizione di queste competenze, cambia, infatti, a seconda dei contesti e con il passare del tempo. Di natura più militante è invece il filone di studi noto come Critical Literacy esposto nell'opera del pedagogista brasiliano Paulo Freire La pedagogia degli oppressi (1970). Qui egli enuncia se il discente è visto come una semplice tabula rasa da riempire di contenuti, la relazione educativa non può che diventare uno strumento di oppressione, e non di emancipazione degli individui. Secondo Freire, invece, imparare a leggere e a scrivere non può ridursi alla neutra acquisizione di una tecnica, ma deve divenire uno strumento di “coscientizzazione” attraverso cui riuscire progressivamente a mettere a fuoco le contraddizioni della vita quotidiana e le disuguaglianze del sistema sociale. Affinché ciò avvenga, è necessario pensare il soggetto da educare come dotato, a sua volta, di una certa competenza, in modo tale che l’esperienza educativa si configuri necessariamente come un processo di apprendimento bidirezionale; un rapporto di scambio e di muto apprendimento tra docenti e studenti basato sulla dialogicità della pratica educativa. Madianou e Miller propongono allora di utilizzare il concetto di polimedia per interpretare un fenomeno culturale ormai consolidato, cioè il fatto che “la maggior parte delle persone usa una costellazione di differenti media come un ambiente integrato” in cui le limitazioni di ciascun medium specifico vengono superate combinando il suo uso con quello di altri. Gli antropologi che si occupano di analizzare questi effetti suggeriscono, non a caso, di ripensare l’alfabetizzazione in una prospettiva plurale, che sappia valorizzare anche le dimensioni non linguistiche presenti nelle pratiche comunicative, come l’uso delle immagini e dei suoni - e in ultimo dei meme. Una ricerca comparativa condotta dall’equipe di Miller in diverse regioni del pianeta ha messo in evidenza che in tutti questi contesti le nuove tecnologie di comunicazione e informazione (ICT) hanno trasformato la relazione tra educazione formale e informale, anche se le concezioni relative al ruolo dei social media in ambito educativo sono risultate molto eterogenee. Nel complesso, le famiglie più benestanti e istruite hanno mostrato di avere un atteggiamento decisamente positivo in proposito e, al contempo, hanno anche una maggiore percezione dei rischi ivi connessi, esercitando di conseguenza un maggiore controllo. Capitolo 3 - insuccesso e dispersione scolastica * Con l’espressione disagio scolastico si qualificano una serie di comportamenti considerati disfunzionali, come per esempio una disattenzione più o meno costante in aula, una partecipazione limitata alle elezioni, l’assunzione di condotte di opposizione o disturbo. Tali atteggiamenti sono vissuti come problematici sia per l'individuo che per la collettività: al singolo impediscono di sviluppare le proprie capacità cognitive, e alla classe di svolgere le sue normali attività. Il disagio scolastico andrebbe sempre considerato come l'esito di un incontro problematico con l'istituzione, per cui al fine di comprenderlo, andrebbero sempre considerati sia i ruoli dello studente, sia i ruoli della scuola, che giocano nel determinarlo. * Il concetto di dispersione scolastica si caratterizza, in linea generale, per una maggiore ampiezza semantica rispetto a quello di abbandono, poiché sottintende che non sia necessario lasciare fisicamente la scuola per poter parlare di abbandono, ma siano sufficienti forme di in-school drop-out o tuned out, dove la scuola viene vissuta come un semplice luogo di sosta, nei confronti del quale si matura un atteggiamento di profondo disinteresse e disimpegno, spesso ostentato. Sono questi i casi in cui la scuola viene considerata dagli studenti più come il fulcro di una serie di relazioni tra pari che come un luogo di apprendimento connesso a un progetto di vita più ampio. All’acronimo NEET - Not in Education, Employment or Training, corrispondono i giovani dai 15 ai 29 anni non più inseriti in percorsi educazioni/formazione ma nemmeno impegnati in un'attività lavorativa, che in Italia costituiscono addirittura il 26% della popolazione giovanile (nel 2017). ® A partire dalla fine degli anni '60, le prime teorie antropologiche che tentarono di spiegare le ragioni dello scarso rendimento scolastico dei bambini delle minoranze furono l’esito di una netta presa di posizione nei confronti della tradizione pedagogica americana, in linea con la cultura segregazionista degli Stati Uniti dell’epoca. | bambini poveri, facenti parte di gruppi etno-razziali fortemente stigmatizzati, erano considerati portatori di lacune “innate” a livello di quoziente intellettivo. Il basso rendimento e l'abbandono degli studi erano, infatti, ritenuti il prevedibile risultato di tare genetiche insanabili. ® È in questo contesto che prende forma una modalità di spiegazione del fallimento scolastico nota come teoria della deprivazione culturale, associata allo psicologo Martin Deutsch (1960). Il suo contributo, comunque impostato su basi fortemente discriminatorie, all’epoca fu considerato decisamente innovativo. Ma, appunto, secondo questo approccio i bambini avevano un rendimento insufficiente perché sperimentavano una condizione di deficit culturale che li rendeva strutturalmente carenti nel loro percorso scolastico. * Questa teoria trovò grande risonanza nell'etnografia di Oscar Lewis, The children of Sanchez (1961), dove l’autore esplorava in profondità la storia di vita di un nucleo familiare che viveva in condizioni di indigenza in uno slum di Città del Messico. Egli riteneva che l'appartenenza da più generazioni a un gruppo sociale svantaggiato, abituato a vivere in condizioni di precarietà e insicurezza, si traducesse nell’elaborazione di una vera e propria “cultura della povertà”, ovvero di uno specifico mondo a sé stante dotato di norme e valori propri; e i soggetti che aderivano a tale stile di vita mostravano notevoli elementi di similarità a prescindere dalla loro origine. * Sul piano pratico, negli Stati Uniti, questo approccio all’insuccesso scolastico portò in alcuni casi alla formulazione di veri e propri programmi compensatori volti a colmare le lacune degli studenti provenienti da ‘ambienti ritenuti deprivati, per esempio attraverso corsi specifici per l'apprendimento dell’inglese standard o per rinforzare le capacità cognitive di base. il sociologo Basil Bernstein sosteneva che tali programmi compensatori partivano dal presupposto che le competenze dimostrate nell’uso della lingua e della cultura delle classi dominanti fossero l’unico criterio valido per valutare gli studenti, e non tenevano conto che questi frequentassero generalmente scuole meno efficienti di quelle frequentate dai ragazzi abbienti che formavano, poi, gli standard (etnocentrici) di paragone. Simili considerazioni divennero di grande attualità nel
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved