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Riassunto Appunti di Storia delle Costituzioni moderne - M. Fioravanti, Sintesi del corso di Storia Del Diritto

Riassunto accurato e dettagliato del manuale "Appunti di storia delle costituzioni moderne - le libertà fondamentali" di Massimo Fioravanti

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto Appunti di Storia delle Costituzioni moderne - M. Fioravanti e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Diritto solo su Docsity! APPUNTI DI STORIA DELLE COSTITUZIONI MODERNE LE LIBERTÀ FONDAMENTALI Capitolo Primo LE TRE FONDAZIONI TEORICHE DELLE LIBERTÀ L’approccio alla problematica delle libertà può essere di tipo storicistico, individualistico o statualistico. Ciascuno di questi tre modelli tende a non rimanere isolato rispetto agli altri, anzi, ciascuno di essi tende a combinarsi con uno degli altri due in un’ottica nella quale il terzo modello diviene oggetto di polemica: avremo così una dottrina individualistica e statualistica delle libertà, costruita in funzione antistoricistica (rivoluzione francese); una dottrina individualistica e storicistica, costruita in funzione antistatualistica (rivoluzione americana); ed infine una dottrina storicistica e statualistica, costruita in funzione antiindividualistica (nei giuristi dello stato di diritto del XIX secolo). Prima di studiare le combinazioni, si deve analizzare i singoli modelli che le compongono. 1.IL MODELLO STORICISTICO Pensare storicamente le libertà significa radicarle nella storia, e in questo modo sottrarle il più possibile alle invadenze arbitrarie dei poteri costituiti. L’approccio storicistico tende inevitabilmente a privilegiare le liberà civili cosiddette “negative”, ovvero quelle libertà che si traducono in capacità di agire in assenza di impedimenti o di costrizioni, all’interno di una sfera delimitata e autonomia, prima di tutto nei confronti del potere politico (libertà come autonomia e sicurezza). Si pensi soprattutto alla libertà personale e alla proprietà privata. Non a caso il paese in cui è più forte da sempre la cultura storicistica delle libertà è anche il paese in cui più è forte la centralità delle libertà civili: l’Inghilterra (binomio liberty and property) . Ciò che viene posto in primo piano è la forza cogente dei diritti quesiti, ovvero quei diritti che la storia, il tempo e l’uso, ha confermato in modo tale da renderli indisponibili da parte delle volontà contingenti dei detentori del potere politico. Per questo motivo la spiegazione storicistica delle libertà privilegia i tempi storici lunghi, e in particolare tende a mantenere un rapporto aperto e problematico tra età medievale ed età moderna, non limitandosi ad esaurire il tempo storico delle libertà all’interno della sola età moderna (dal giusnaturalismo seicentesco alle rivoluzioni e alle dichiarazioni dei diritti, fino alle strutture dello stato di diritto postrivoluzionario). Limitarsi al periodo che va dal Seicento all’Ottocento significherebbe circoscrivere la dottrina e la pratica delle libertà in un orizzonte limitato che è quello della costruzione dello stato moderno, tra stato assoluto e stato di diritto, ovvero nell’orizzonte di un soggetto politico che si pone come titolare monopolista delle funzioni di imperium e della capacità di normazione, e come tale pretende di definire le libertà, in modo più o meno autoritativo. Il fascino del medioevo, per il pensiero storicista, è dato proprio dal fatto che un soggetto politico di questo genere è assente: da questo punto di vista è proprio nel medioevo che si costruisce la tradizione europea della necessaria limitazione del potere politico di imperium. Tale imperium (potere di imporre i tributi, potere di chiamata alle armi, ius dicere) nel medioevo, è infatti frantumato e diviso tra una grande quantità di soggetti, lungo la scala gerarchica che va dai signori feudali di più alto rango fino ai singoli cavalieri armati, quindi fino a zone di esplicazione dello stesso imperium estremamente limitate e circoscritte. Tutti questi soggetti sono legati da un rapporto di scambio, che è fondamentalmente un rapporto di fedeltà e protezione, del quale la 1 ricostruzione storicistica sottolinea la dimensione contrattuale. Certo, manca -per coloro che occupano i gradini più bassi della scala gerarchica- la possibilità di ricorrere, sulla base di una norma certa e conosciuta, a un terzo neutrale, che giudici come il signore ha esercitato i poteri di imperium, come il signore ha adempiuto ai suoi doveri di protezione. Tutto ciò non implica però di per sa assenza di diritto, il medioevo aveva infatti il proprio modo di garantire jura e libertas, diritti e libertà, attraverso un diritto oggettivo radicato dalla consuetudine e dal tempo nelle cose, che assegna a ciascuno il proprio posto, ovvero i propri diritti e i propri doveri, a iniziare da coloro che occupano i gradi più alti della scala gerarchica. Si tratta di un diritto sostanzialmente non voluto, jus involontarium, che si impone sulle cose e che nessuno potere è stato capace di definire e di sistematizzare in forma scritta. Se quindi è vero che i dominanti possono più facilmente infrangere le regole esistenti (senza dimenticare l timore di divenire tiranni, provocando l’esercizio del legittimo potere di resistenza), è anche vero che difficilmente gli stessi possono autoritativamente definire in modo sistematico il catalogo dei diritti e delle libertà, ed anzi ognuno può rivendicare la propria sfera di autonomia, di diritti quesiti, confermati nel tempo e radicati nella storia. A partire dal XIII secolo, inoltre, questa realtà tende in qualche misura a razionalizzarsi con la nascita dei contratti di dominazione, attraverso i quali i signori territoriali pongono per iscritto le norme desinate a regolare, anche sotto il profilo dei diritti e delle libertà, i rapporti con i ceti, ovvero con le forze corporativamente organizzate sul territorio. Una delle più rilevanti novità contenute nei contratti di dominazione è quella della nascita delle assemblee rappresentative dei ceti, che affiancano il signore nella gestione del potere. Certamente però non si può parlare di un’attivazione di liberà politiche di partecipazione (dette anche libertà “positive” in senso moderno), poiché i rappresentanti dei ceti non rappresentano alcun “popolo” o “nazione”, ovvero soggetti collettivi che nemmeno esistevano; ma i contratti di dominazione servono a rafforzare le sfere di dominio del signore e dei ceti: il primo si ribadisce come vertice dell’organizzazione dei rapporti politici per un certo territorio, infatti quelle rappresentanze non sono altro che la riformulazione istituzionale dell’antica pratica medievale del consilium e dell’axulium (chi è sottoposto politicamente: doveri di consiglio e aiuto al proprio dominante tra i doveri di fedeltà). Ma anche i ceti pensano di poter guadagnare qualcosa dalle operazioni che li conduce ad esprimere delle assemblee istituzionalizzate, ad esempio, spesso è necessario il consenso delle assemblee per l’imposizione di tributi straordinari, e quindi in generale tali assemblee offrono garanzie di vario tipo a tutela del possesso di beni, del patrimonio e delle rispettive sfere di autonomia e dominio dei ceti che si erano confermati con il tempo In ogni caso, è da tenere ben presente come ben raramente la pratica medievale riconosce diritti e libertà agli individui in quanto tali (come invece è caratteristica fondamentale del diritto moderno, dalle dichiarazioni rivoluzionarie in poi): diritti e libertà hanno nel medioevo una strutturazione corporativa, sono patrimonio del feudo ed appartengono quindi agli individui solo in quanto questi sono a loro volta ben radicati in quei territori, in quelle comunità. Inoltre, tutti i soggetti sono dominati da una sorta di ordine naturale delle cose, che assegna a ciascuno il proprio posto, e con esso il proprio bagaglio di diritti, sulla base della nascita, del ceto e dell’appartenenza a una terra. Concezione opposta rispetto all’idea moderna delle libertà, come libertà di volere, libertà “positiva”. Il mondo medievale, affidando i diritti e le libertà alla saldezza dell’ordine naturale delle cose storicamente fondato, impedisce agli uomini di fruire della essenziale libertà di volere un ordine diverso. Uno dei paesi-chiave per la storia del costituzionalismo moderno, ovvero l’Inghilterra, ha in buona parte fondato la dottrina della sua identità storico-politica proprio sull’immagine della continuità tra libertà medievali e moderne. La storia costituzionale inglese dimostra in modo emblematico come 2 diritto moderno di base individualistica, quello civile dei codici e quello pubblico-costituzionale delle dichiarazioni dei diritti. Certo, anche l’approccio storicistico si riconduce in ultima analisi alla necessità di tutelare nel miglior modo le sfere private individuali, secondo il binomio liberty and property; ma questo modello afferma questo primato dell’individuo esclusivamente in direzione del potere politico statale. Nell’approccio individualistico invece, modellato più sul caso francese che su quello inglese, quel medesimo primato è diretto prima di tutto verso i poteri dei ceti, verso il signore- giudice, il signore-esattore, il signore-amministratore. In sintesi: l’approccio storicistico sostiene in primo luogo una dottrina e una pratica del governo limitato; quello individualistico al contrario sostiene in primo luogo una rivoluzione sociale che elimini i privilegi e l’ordine cetuale che li sostiene. Dal punto di vista storicistico il difetto principale del modello individualistico è quello di ammettere troppo la necessità di uno strumento collettivo (lo Stato, la volontà generale o altro) che elimini il vecchio ordine giuridico e sociale; dal punto di vista individualistico, il difetto principale del modello storicistico è quello di essere troppo timido e moderato nell’estendere i valori nuovi dell’individualismo liberale e borghese alla dimensione sociale della lotta al privilegio. 2)La linea contrattualistica Si ricorda come il modello storicistico fosse totalmente avverso a una prospettiva contrattualistica: questo modello prevede che, in caso di tirannia o dissoluzione del governo, la sovranità ritorni al popolo, che non agisce però contrattualisticamente, ma, essendo forza e strumento della storia, con il suo intervento e la sua resistenza, riconduce il governo sul binario necessario del governo moderato e bilanciato, senza quindi agire come un complesso di individui che liberamente decide sull’adozione di una nuova forma politica di associazione. Nell’approccio individualistico, invece, l’associazione politica esiste, non già come prodotto degli aggiustamenti prudenziali della storia, ma semplicemente perché gli individui l’hanno voluta e costruita. Non a caso, chi sceglie il modello individualistico fa iniziare la sua trattazione da Thomas Hobbes, certamente più netto e deciso di ogni altro pensatore del Seicento nel sottolineare la natura artificiale, dipendente dalle volontà dei consociati, del potere politico. In tal modo le dottrine individualistiche confermano la loro radicale opposizione al passato medievale; infatti, l’antico ordine naturale delle cose deve abbattuto per poter costruire ex novo, per poter edificare un nuovo ordine politico, che si fondi sulle volontà degli individui, sul consenso dei consociati. La liberazione dell’individuo dalla soggezione ai poteri feudali e signorili comprende anche la sua liberazione da un ordine politico complessivo che prima trascendeva la sua volontà, e che ora egli non è più costretto a subire, che deve essere reinventato a partire dalle volontà individuali attraverso lo strumento del contratto sociale. Il contratto sociale contiene in sé un ineludibile apprezzamento positivo per il maggiore livello di civiltà e di sicurezza che si riesce a conseguire proprio accettando consensualmente di abbandonare lo stato di natura. Se gli individui accettano volontariamente di uscire dallo stato di natura, e di rinunciare quindi ad alcuni loro diritti (come il potere di farsi giustizia da soli, riconoscendo un terzo neutrale dotato di potere di coazione) è perché pensano che solo con la presenza di una comune autorità legittima essi tutelano meglio i loro diritti. L’associazione politica, lo stato, è dunque elemento di assoluto rilievo, senza il quale gli uomini sarebbero destinati alla guerra civile e dunque sarebbero di fatto privi di diritti (come in Hobbes). Comunque si guardi alle dottrine individualistiche, si finisce sempre per ritrovare sulla propria via la presenza (da un punto di vista storicistico “ingombrante”) della sovranità statale, strumento positivo di lotta al privilegio e all’ordine cetuale, garante più saldo dei diritti e delle libertà. Si 5 sarebbe tentati di ritenere che si stia già scivolando verso il terzo modello, statualistico, ma nella cultura individualistica vi due necessari aspetti non assimilabili nell’ottica statualistica. -Il primo aspetto si racchiude della formula liberal-individualistica della presunzione di libertà (solenne codificazione nell’articolo 5 della Dichiarazione del 1789): solo la massima fonte di diritto, la legge, con i suoi classici caratteri di generalità e astrattezza, può vietare e impedire, costringere e ordinare, in una parola limitare i diritti e le libertà dei cittadini. Tale disposizione della Dichiarazione non era riferita solo contro i vecchi poteri feudali e signorili, ma anche contro i poteri che si stavano costruendo all’interno del nuovo stato di diritto, in particolare giudici e amministratori pubblici dovranno d’ora in poi fondarsi sempre e comunque sulla previsione legislativa generale ed astratta. In un regime politico ispirato a tali principi, si presume la libertà, e si deve dimostrare il contrario, ovvero la legittimità della sua limitazione: diritto di presumersi libero fino a quando una legge non dimostri l’opposto. In questo modo, le libertà sono potenzialmente indefinite: si vede quindi il valore primariamente costitutivo (il prius) non nel potere pubblico di coazione, ma nelle libertà. Nel modello individualistico, infatti, a differenza di quello statualistico, si presume l’esistenza, prima dello stato (accentramento dei poteri di imperium), della società civile, societas, degli individui. Ciascuno deve agire nei limiti della legge, per realizzare se stesso, per perseguire i propri fini, non per il bene comune o per l’interesse generale, per il progresso e per la trasformazione sociale ai fini di giustizia (come accade nel modello statualistico): ciascuno deve valere in quanto individuo, e non in quanto buon cittadino. Il modello individualistico rivendica il fatto che l’esercizio delle libertà non può essere guidato o indirizzato dalle autorità pubbliche, ma semplicemente delimitato dal legislatore (articolo 4 Dichiarazione 1789), in quanto la società civile degli individui necessita dello stato e della sua legge per garantire diritti e libertà, ma essi esistono prima dello stato: diritti e libertà vengono infatti riconosciuti dallo stato, ma non creati. Vi è sempre e comunque un quid che precede lo stato, costringendo quest’ultimo a darsi una struttura e un’identità politica in funzione di esso. -Il secondo momento di differenziazione si riassume nell’immagine del potere costituente, inteso come fondamentale ed originario potere degli individui di decidere sulla forma e sull’indirizzo dell’associazione politica, dello stato. Tale potere è il progenitore di tutte le libertà politiche dette “positive”, poiché in esso si racchiude la massima libertà di volere, un determinato ordine politico. È solo con l'approccio individualistico e contrattualistico alle libertà positive che si giunge ad ammettere l’esistenza di un autonomo potere costituente (modello statualistico: potere costituente è incompatibile, perché prima dello stato non vi è alcun soggetto politicamente significativo, alcuna società civile degli individui, ma solo una disgregata moltitudo). Più in dettaglio, nella prospettiva individualistica e contrattualistica si sostiene che, prima ancora del pactum subiectionis, con il quale gli individui si sottomettono a una comune autorità, vi è, come atto precedente e distinto, il pactum societatis, con il quale viene già ad esistere la società civile degli individui ma anche la società degli individui politicamente attivi (il popolo o la nazione della rivoluzione). Questa condizione non è sufficiente, ma il potere di creare un ordine politico deve tradursi necessariamente in una costituzione, poiché è alla costituzione che gli individui affidano la protezione dei propri diritti prestatuali, grazie all’esercizio di un potere costituente precedente i poteri costituiti. In questa prospettiva riesce difficile assimilare al nostro modello il pensiero politico di Rousseau, che pure è di matrice radicalmente individualistica e contrattualistica. Ciò che manca è proprio la concettualizzazione di potere costituente, di una vera e propria volontà di produrre una costituzione quale autentica norma vincolante. Per Rousseau il sovrano, infatti, non può obbligarsi verso se stesso perché non vi è né vi può essere nessuna specie di legge fondamentale obbligatoria per il corpo del popolo. La garanzia dei diritti individuali risiede dunque nella generalità e astrattezza 6 della volontà espressa dal popolo-corpo sovrano e non nel dualismo tra potere costituente e potere costituiti. Ma poiché la volontà generale è necessariamente giusta, allora è anche difficilmente sindacabile: in questo modo si potrebbero giustificare gli eccessi del volontarismo politico (figura del legislatore virtuoso). Si può dunque dire che il modello individualistico si differenzia da quello statualistico per la società civile degli individui e la società degli individui politicamente attivi, nella loro autonomia di soggettività distinte dallo stato e ad esso precedenti, che impongono rispettivamente la presunzione generale di libertà e la presenza di un potere costituente in sé già strutturato. Tutta la storia delle libertà in età moderna è contrassegnata dalla competizione tra individualisti e storicisti, specialmente sul versante della tutela delle libertà civili “negative”. Gli individualisti sostengono che il miglior modo di garantirle è quello di affidarle alle autorità della legge dello stato (nei limiti rigidamente fissati dalla presunzione di libertà e a condizione che quello stato sia il frutto della volontà costituente dei consociati); gli storicisti sostengono che non vi sono garanzie serie e stabili di queste libertà una volta che il potere politico si sia impadronito della capacità di definirle e delimitarle, e dunque si affidano alla virtù della giurisprudenza, come ottimale forma di tutela. Ma la differenza principale e più netta tra i due modelli è un’altra, ed è relativa al versante delle libertà politiche “positive”. A questo proposito il modello storicistico propugnerà sicuramente una graduale estensione delle libertà politiche (ad esempio del diritto di voto), ma diffiderà sempre delle Assemblee Costituenti (pericoloso prodursi di situazioni di instabilità). Non a caso nella storia costituzionale inglese non vi sono assemblee costituenti del tipo di quelle presenti nella storia costituzionale francese. Nel modello storicistico, si può dire, le libertà politiche risultano funzionali, e in un certo senso accessorie, alle libertà civili. Viceversa, nel modello individualistico e contrattualistico, le libertà politiche “positive” tendono a emanciparsi dal carattere accessorio e di funzionalità alle libertà civili: l’esercizio costante delle libertà politiche “positive” è necessario dal momento che costringe i poteri pubblici costituiti a seguire l’indirizzo voluto dal corpo costituente sovrano degli individui politicamente attivi. 3.IL MODELLO STATUALISTICO Lo statualismo di cui ora discutiamo, come vero e proprio terzo modello, distinto e autonomo dai precedenti, è ben diverso da quel positivo apprezzamento del ruolo dello stato da parte della cultura individualistica, che presuppone sempre e comunque una necessaria dualità di libertà e potere. Tutto questo è ben diverso da una cultura rigorosamente statualistica delle libertà e dei diritti; in essa si sostiene infatti che l’autorità dello Stato è ben di più di un necessario strumento di tutela: essa è la condizione necessaria perché libertà e diritti nascano e vengano alla luce come vere e proprie posizioni giuridiche soggettive degli individui. Assume ruolo centrale la figura di Thomas Hobbes. Anche la dottrina individualistica fa iniziare la storia delle libertà e dei diritti in senso moderno da Hobbes, ma in una prospettiva del tutto diversa. Per quella dottrina, Hobbes fornisce una filosofia politica radicalmente individualistica, che presuppone la distruzione di ogni ordine storicamente dato. L’individuo isolatamente preso nello stato di natura, a causa dell'incessante bellum, ben difficilmente potrà essere considerato titolare di diritti sicuramente garantiti; tuttavia, egli è insieme agli altri individui il protagonista della creazione dello stato politico organizzato, che nasce quindi con il preciso scopo di tutelare alcuni diritti primari che gli preesistono, tra i quali il diritto alla vita e alla sicurezza. Lo scopo della cultura statualistica è proprio quello di strappare Hobbes a questo quadro concettuale generale, per farne il campione di un terzo e distinto modello, quello statualistico che 7 giuridico si pone l’individuo come soggetto unico di diritto, che al di là delle vecchie discriminazioni di ceto è ora titolare di diritti in quanto tale, come individuo. Ma le cose non sono così semplici. Individualismo e contrattualismo tendono infatti a combinarsi con diversi aspetti degli altri due modelli, storicistico e statualistico, per prevenire certe degenerazioni tipiche del modello individualistico. Infatti, così come il modello storicistico ha la sua possibile degenerazione nell’immobilismo (ossia una situazione in cui le libertà non sono altro che ciò che risulta dall’ordine delle cose storicamente dato); così come lo statualismo ha la sua possibile degenerazione nel dispotismo (ovvero la difficoltà di limitare con sicurezza, a garanzia delle libertà, la sovrana podestà pubblica); allo stesso modo anche l'individualismo e il contrattualismo hanno le loro possibili degenerazioni, fortemente temute dall’Ottocento liberale. L’individualismo può tradursi in privatismo economico (situazione in cui alla base dell’edificio politico comune sta solo ed esclusivamente un contratto di garanzia, di mutua assicurazione tra individui proprietari), ma soprattutto in senso volontaristico (in una direzione che finisce per far dipendere tutto l’edificio pubblico, e quindi anche la configurazione delle libertà e dei diritti, dalla mutevole volontà degli individui consociati). Contro una situazione di questo genere avranno buon gioco e ottima fortuna le immagini statualistiche della stabilità e della continuità, e anche una forte critica da parte del modello storicistico, che tornerà a svolgere un ruolo di primo piano. 1.LA RIVOLUZIONE FRANCESE Quadro cronologico sommario: 1788 -8 agosto: convocazione degli Stati generali 1789 -24 gennaio: regolamento elettorale per gli Stati Generali -5 maggio: seduta di apertura degli Stati Generali -17 giugno: il Terzo Stato si proclama Assemblea nazionale -20 giugno: giuramento della Pallacorda -14 luglio: presa della Bastiglia -4 agosto: abolizione dei privilegi -20/26 agosto: l'Assemblea adotta gli articoli della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del Cittadino 1790 -12 luglio: costituzione civile del clero 1791 -2 marzo: decreto d'Allarde che sopprime le corporazioni -16 maggio: voto sulla non rieleggibilità dei costituenti alla legislatura successiva -14 giugno: legge Le Chapelier recante il divieto di associazioni operaie -20/21 giugno: fuga del re a Varennes -13 settembre: la Costituzione entra definitivamente in vigore -11 novembre: veto del re sui decreti concernenti gli emigrati -19 dicembre: veto del re sul decreto concernente i preti refrattari 1792 -27 maggio: decreto sulla deportazione dei preti refrattari 10 -8 giugno: decreto sulla costituzione di un campo di federati a Parigi -11 giugno: il re oppone il veto ai decreti del 27 maggio e 8 giugno -10 agosto: caduta della monarchia -21 settembre: riunione della Convenzione e proclamazione della Repubblica 1793 -21 gennaio: esecuzione del re -6 aprile: creazione del Comitato di salute pubblica -24 giugno: voto della Costituzione -4 agosto: ratifica popolare della Costituzione -5 settembre: il Terrore è messo all'ordine del giorno -10 ottobre: proclamazione del governo rivoluzionario (l'applicazione della Costituzione è sospesa fino alla pace) 1794 -11 giugno: Grande Terrore -27 luglio: caduta di Robespierre Proprio nel caso della Rivoluzione francese, si assiste al formarsi di una cultura delle libertà che risulta da una certa combinazione del modello individualistico e contrattualistico da una parte, e del modello statualistico dall’altra. A essere tagliato fuori è l’approccio storicistico, in virtù dell’evidente frattura con il passato di Antico Regime. Questo è testimoniato anche dalla Dichiarazione del 1789, in cui vi sono ormai solo due grandezze politico-istituzionali: l’individuo e le legge come espressione della sovranità della nazione. Gli articolo secondo e terzo fissano le coordinate generali di un modello politico che nello stesso tempo libera l’individuo e lo stato dalla presenza ingombrante dei vecchi poteri feudali e signorili. Affermazione dei diritti naturali individuali e della sovranità nazionale non sono dunque affatto opposti nella Dichiarazione dei diritti, ma sono sentiti entrambi come figli del medesimo processo storico. Questa vera e propria alleanza tra le ragioni dell’individualismo e le ragioni dello statualismo, tra primato dei diritti e primato della sovranità della nazione e dei suoi legislatori, è possibile, anzi necessaria per combattere il passato, in cui la strutturazione della società in senso cetuale impediva l’affermazione dei diritti individuali e di un potere pubblico saldamente unitario. Nella Dichiarazione la parola <<legge>>, che appare ripetutamente, contiene insieme il significato di limite nell’esercizio delle libertà, di loro disciplina, ma anche quello di garanzia che gli individui non potranno più essere assoggettati ad alcuna forma di autorità che non sia quella del legislatore interprete della volontà generale. La stessa legge è ciò che limita l’esercizio delle libertà di ognuno, ma anche ciò che rende possibili le libertà di tutti come individui: articolo 5 della Dichiarazione affida alla legge il potere di vietare, impedire, costringere, ordinare e anche a prestare agli individui la basilare garanzia che nessuno potrà più operare su di loro se non in nome della legge stessa. Inoltre, a differenza del modello storicistico, per i costituenti francesi affidare le libertà e i diritti alla storia avrebbe significato consentire che le pratiche sociali ed istituzionali dell’Antico Regime continuassero ad esercitare la loro influenza oltre la rivoluzione, ed invece l’intero progetto rivoluzionari si costruisce sulla contrapposizione radicale verso il passato di Antico Regime e sulla lotta contro il privilegio e il particolarismo, a favore di nuovi valori costituzionali primari. C’è poi un altro motivo che conduce a rifiutare l’approccio storicistico. Chi sostiene tale modello pensa che l’ottima forma di governo sia data dalla soluzione britannica del governo bilanciato o 11 moderato, che compone in sé i fattori costituzionali e le forze sociali, al fine di proteggere i diritti storicamente acquisti da ognuno ed evitare sopraffazioni unilaterali. Una tale filosofia dei poteri pubblici non era assolutamente possibile nella situazione francese dell’89, per una buona serie di motivi: -Sarebbe stato necessario, per costruire una forma di governo e di stato corrispondente ai principi del governo bilanciato all'inglese, che i costituenti francesi potessero concepire il loro lavoro come opera di riforma della monarchia in senso costituzionale, un po’ sulla scia della Glorious Revolution inglese di un secolo prima. Questo però era impossibile perché, una volta passati dalla Dichiarazione alla Costituzione del 1791, ci si accorse subito che la monarchia non poteva essere più così autorevole da costituire il primo ramo del parlamento. I costituenti infatti rifiutarono un veto assoluto del monarca sugli atti dell’assemblea legislativa, proprio perché un tale diritto avrebbe reso la volontà del re necessaria al fine di produrre la legge, e quindi sarebbero stati sullo stesso piano sia monarca che assemblea. Si scelse infatti di attribuire al re un potere di veto sospensivo, che egli esercitava dall’esterno dell’assemblea, come capo di un potere esecutivo quasi del tutto privo di poteri normativi, funzionalizzato all’esecuzione della legge voluta dall’assemblea. -Mancava ai costituenti francesi la volontà di inserire nel loro modello costituzionale la seconda componente della soluzione britannica del governo bilanciato, la componente aristocratica. Ciò che la Rivoluzione francese sconfigge subito è l’ipotesi del bicameralismo storico, ovvero di un bicameralismo che trae la sua origine dalla necessità di bilanciare in sé la componente aristocratica e quella democratica, volendo invece i rivoluzionari perseguire una radicale lotta al privilegio e al particolarismo, proprio del ceto aristocratico. Al posto della soluzione moderata ed equilibrata, più attenta a compensare e mediare nella dimensione orizzontale gli interessi e le forze agenti nella società, equilibrandole, la rivoluzione sostituisce una dimensione verticale, che si gioca tutta nel rapporto verticale tra l’unità della nazione, o del popolo, e l’espressione istituzionale di tale unità nelle assemblee legislative. La grande novità portata in campo dalla Rivoluzione francese, infatti, è quella di far apparire improvvisamente sulla scena, nella sua autonomia, una società civile unificata nella prospettiva della volontà politica costituente, come popolo, o nazione. E quindi, l’obiettivo primario del governo non è quello di bilanciare, ma di esprimere e rappresentare la sovranità del popolo, della nazione, dovendo fare i conti con la società degli individui politicamente attivi, ovvero con una società che appare nella forma unitaria del popolo (bilanciare significherebbe reintrodurre le volontà particolari, abbattute con forza dalla rivoluzione). L’adozione dello schema individualistico, e contrattualistico, porta in campo due fattori nuovi: I)Fattore legicentrico: Il legicentrismo è il punto sul quale la rivoluzione media individualismo e statualismo. Per i rivoluzionari francesi, e per la stessa Dichiarazione, la legge è qualcosa di più di uno strumento tecnico del quale ci si serve per meglio garantire i diritti e le libertà che già si possiedono: la legge è piuttosto un valore in sé, perché solo grazie alla sua autorità si rendono possibili i diritti e le libertà di tutti. In sua assenza si ricadrebbe nel detestato passato della società dei privilegi tipica dell’Antico Regime. Il legicentrismo, dunque, esprime una correzione del modello individualistico in senso statualistico: all’immagine della prestatualità dei diritti (che imporrebbe allo stato compiti esclusivi di buona tutela e conservazione di ciò che ad esso preesiste), si sovrappone l’immagine sempre forte dei diritti di tutti che esistono solo nel momento in cui la legge stessa li rende concretamente possibili, affermandoli come diritti degli individui in quanto tali, contro le vecchie logiche di ceto. Le due immagini convivono nella rivoluzione e si esprimono insieme nel mito del 12 concezione statualistica i cittadini non sono affatto chiamati a mobilitarsi di continuo: essi devono essere solo rispettosi delle leggi. Ciò che la costituzione e i poteri pubblici devono garantire ai cittadini è lo spazio sufficiente affinché essi possano occuparsi della loro sfera privata (affari, commerci, famiglia, affetti). Così, la più nota tra le libertà politiche “positive” (ossia il diritto di voto) assume significato nuovo e completamente diverso, non venendo più inquadrato nella filosofia giacobina della cittadinanza attiva: il diritto di voto è ciò che consente ai cittadini stessi di delegare l’esercizio delle funzioni pubbliche alla classe politica. Non appena ciò è avvenuto, il popolo cessa di esistere come soggetto della sovranità politica e al suo posto subentra il sistema dei poteri costituiti guidato dai rappresentanti eletti. Il popolo, o la nazione, non esiste più autonomamente ma solo attraverso il meccanismo della rappresentazione politica: si è cittadini francesi essenzialmente perché esiste un parlamento francese che rappresenta il popolo francese. Tutte le garanzie offerte dalla Dichiarazione convergono verso un solo risultato, verso il primato, in materia di diritti e libertà, della legge generale e astratta. Del resto, abbiamo già indicato questa caratteristica della rivoluzione quando abbiamo discusso del legicentrismo. Tutte le ideologie che sorreggono la rivoluzione convergono verso questo approdo, che vuole fare della legge generale e astratta (più che della giurisprudenza, come è invece nel caso britannico) lo strumento più idoneo per la garanzia dei diritti: si è liberi perché si è governati in un modo non arbitrario, ma perché sono abolite le dominazioni di carattere personale, perché solo la legge può disporre di noi medesimi. Ma come ci si può salvaguardare dall'ipotesi che proprio quel legislatore divenga il peggior nemico dei diritti e delle libertà? Rispondere a questa domanda significa tentare un bilancio, riassuntivo e conclusivo, della cultura rivoluzionaria dei diritti e delle libertà. Si tratta di una cultura fortemente orientata in senso individualistico e contrattualistico, ma che tende anche a mediarsi, su punti decisivi, con un approccio alla problematica dei diritti e delle libertà di chiaro carattere statualistico. Tale intreccio si verifica sia sul versante delle libertà civili, cosiddette “negative”, che su quello delle libertà civili, cosiddette “positive”. Nel primo caso la rivoluzione muove dall’affermazione, con i primi due articoli della Dichiarazione, della prestatualità dei diritti individuali in quanto diritti naturali; ma finisce poi per pensare a quei medesimi diritti in chiave legicentrica, cioè attraverso la figura di un legislatore forte e autorevole che non si limita a riconoscere ciò che ad esso preesiste. Nel secondo caso, quello delle libertà politiche “positive”, la rivoluzione muove dal primato e delle priorità del corpo costituente sovrano, denominato popolo o nazione, ma finisce poi per temere a dismisura tale espressione diretta di sovranità e per costruire, quindi, in opposizione al radicalismo e al volontarismo giacobino, anche una dottrina della rappresentanza politica che assorbe il potere costituente dei consociati nel potere costituito dei rappresentanti eletti, fondando la sovranità dei secondi più che quella dei primi. D’altra parte, la componente statualistica della rivoluzione è destinata ad avere straordinaria rilevanza storica in seno ai sistemi politici postrivoluzionari dell'Europa continentale, in cui l'approccio statualistico, in certi casi, diverrà addirittura dominante. CONCLUSIONI: Nel tradizionale modello britannico storicistico, la garanzia dei diritti è risolta tramite la priorità del giudiziario sul governo e sul legislativo. Il giudiziario, in fatti, muovendo dalla pratica consuetudinaria, tutela i diritti che si sono affermati nell'esperienza contro le pretese di monopolio dei governanti e dei legislatori. Nella Rivoluzione francese questo schema non era possibile, anche perché la rivoluzione non può e non vuole propugnare un ruolo garantistico ampio dei giudici, che erano visti o come funzionari dello Stato o come nemici dell’unità politica della nazione (avrebbero potuto contrastare la politica sovrana per ottenere privilegi). 15 Una volta scartata la soluzione britannica, la rivoluzione cercò di fondare in altro modo la priorità dei diritti e delle libertà sul potere pubblico sovrano; costretta a rinunciare alla storia e al ruolo attivo del giudiziario, essa cercherà rifugio nell’affermazione rivoluzionaria della prestatualità, in senso giusnaturalistico, dei diritti e delle libertà: da qui nacquero i primi due articoli della Dichiarazione dell’89. Ma in questo modo non si arrivò affatto a chiudere la questione della garanzia dei diritti, poiché resta aperta la domanda “Come e perché il legislatore avrebbe dovuto sentirsi vincolato al rispetto dei diritti naturali individuali?”. La risposta della soluzione è semplice: il legislatore non può ledere i diritti individuali perché è necessariamente giusto, ed è necessariamente giusto perché incarna in sé la volontà generale del popolo o della nazione. Per questo la Dichiarazione esaurisce il sistema di garanzie nel rinvio obbligato alla legge: in questo modo si rinvia a una situazione che si ritiene di necessario non arbitrio, di necessaria giustizia. L’obiettivo della rivoluzione è quello di costruire un legislatore virtuoso, necessariamente rispettoso dei diritti degli individui in quanto espressione necessaria della volontà generale. In altre parole, i diritti e le libertà sono al sicuro se chi governa, chi legifera, è davvero espressione della nazione, se la sua autorità si è andata veramente costruendo a partire dalla volontà dei consociati. Ma il legislatore per un verso è troppo debole, perché incessantemente minacciato dalla pratica della democrazia diretta; e per altro verso troppo forte, perché continuamente sottoposto, per reazione, alla tentazione di incorporare in sé, con il meccanismo della rappresentanza politica, il potere costituente del popolo o della nazione. Nel primo caso i diritti e le libertà, sotto il profilo delle garanzie, perdono di stabilità, e divengono variabili di un processo politico. Nel secondo caso, l’ipotesi legicentrica viene a dismisura dilatata dall’idea che la nazione, o il popolo, esista come unità politica solo attraverso i suoi rappresentanti, nei quali viene a depositarsi una carica notevole di autorità e sovranità, tale da essere difficilmente delimitabile. Ecco perché è legittimo affermare che il punto oscuro della rivoluzione sta nella garanzia dei diritti, logicamente, culturalmente e storicamente legata al concetto di rigidità costituzionale, che però viene a mancare nella Rivoluzione francese. Essa discute a lungo di costituzione, ma non crea mai una vera e propria pratica di rigidità costituzionale. Su questa assenza di rigidità costituzionale si incontrano i due estremi della rivoluzione, il volontarismo e lo statualismo: secondo entrambi non può esistere un ostacolo troppo rigido che vincoli il popolo (secondo il volontarismo) o la classe politica (secondo lo statualismo). Il fatto è che tutto il dibattito rivoluzionario francese sulla costituzione e sulla garanzia dei diritti, è preceduto dal dibattito sulla sovranità, del potere costituente o dei poteri costituiti, del popolo sovrano o dei legislatori rappresentanti. 2.LA RIVOLUZIONE AMERICANA Quadro cronologico sommario: 1765 -22 marzo: il Parlamento inglese adotta lo Stamp Act che introduce nuovi diritti di bollo nelle colonie -24 marzo: legge sugli acquartieramenti militari nelle colonie (Quartering Act) -30 maggio: deliberazione di protesta della Virginia sullo Stamp Act -19 ottobre: risoluzioni di protesta delle colonie riunite in congresso a New York sullo Stamp Act -31 ottobre: patto di non importazione dei mercanti di New York 1767 -Townshends Acts: il Parlamento impone nuove tasse su numerosi prodotti importati dalle colonie americane 16 1769 -16 maggio: deliberazioni della Virginia che ribadiscono il principio “no taxation without representation” 1770 -Il Parlamento inglese revoca i Townshend Acts (con l’eccezione dell'imposta sul tè), ma ribadisce il proprio potere di tassare le colonie 1773 -16 dicembre: disordini al porto di Boston (Boston Tea Party) 1774 -14 ottobre: dichiarazione e risoluzione del primo congresso continentale sui diritti dei coloni americani 1775 -6 luglio: dichiarazione di Philadelphia <<sulle cause e sulla necessità di prendere le armi>> 1776 -15 maggio: preambolo e risoluzione della convenzione della Virginia sull’indipendenza delle colonie -4 luglio: Dichiarazione d’Indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria 1781 -1 marzo: approvazione definitiva degli Articoli di Confederazione 1786 -21 gennaio: risoluzione dell'assemblea generale della Virginia in merito all'adozione di un piano federale per la disciplina del commercio -14 settembre: i delegati di 5 Stati Uniti ad Annapolis chiedono la convocazione di una convenzione a Philadelphia per rimediare ai difetti della Confederazione 1787 -25 maggio: si riunisce a Philadelphia la convenzione per emendare gli articoli confederali -17 settembre: la convenzione adotta la Costituzione degli Stati Uniti d’America -28 settembre: la Costituzione federale è sottoposta all’approvazione degli Stati 1789 -8 giugno: Madison, alla Camera dei rappresentanti, propone gli emendamenti alla Costituzione destinati a essere adottati come Bill of Rights 1791 -15 dicembre: entrano in vigore i primi dieci emendamenti alla Costituzione (Bill of Rights) 1803 17 convinzione rimarrà sempre presente all’interno delle vicende rivoluzionarie americane, come un punto fermo: ci sarà sempre grande diffidenza verso i legislatori, in particolare verso la loro pretesa di incarnare la volontà generale. Si giunge quindi alla radice della differenza tra la rivoluzione americana e quella francese. Quest’ultima, dovendo procedere nell’opera di sistematica distruzione della società di Antico Regime, ha bisogno di una forte componente di carattere statualistico: contro gli antichi privilegi si deve affermare l’autorità del legislatore sovrano. La rivoluzione americana, da parte sua, si afferma proprio contro ogni versione statualistica dei diritti e delle libertà. Se i coloni decidono, nel 1776, di troncare ogni legame con la madrepatria, è perché pensano che essa abbia disperso, o stia comunque minacciando, l’intero patrimonio storico dei diritti e delle libertà, ormai nelle mani di un parlamento che nei fatti si ritiene sovrano ed onnipotente. Si può dire che, mentre la rivoluzione francese affida i diritti e le libertà all’opera di un legislatore virtuoso, la rivoluzione americana diffida delle virtù di ogni legislatore, e quindi affida i diritti e le libertà alla costituzione, ovvero alla possibilità di limitare il legislatore con una norma di ordine superiore. Quindi, storicismo e individualismo appaiono ora come appartenenti alla stessa famiglia, che è quella del costituzionalismo, inteso come dottrina della priorità dei diritti, e quindi dei limiti da porre ai poteri pubblici a fini di garanzia. Così, nella Dichiarazione e poi nelle Costituzione dei singoli stati, la proclamazione dei diritti naturali individuali si confonde e si mischia con il continuo richiamo ai precedenti storici, alla tradizione britannica (articolo 39 Magna Charta). Giusnaturalismo individualistico e storicismo ritrovano in America una via comune, perché hanno da combattere il medesimo nemico, che è lo statualismo, ovvero l’equazione europea ormai vera anche per l’Inghilterra, tra potere di fare le leggi e potere sovrano, che nella prospettiva dei rivoluzionari americani significa sovradeterminare il ruolo del legislatore, predisposto a considerare i diritti e le libertà come frutto e prodotto, più che come necessario presupposto, della propria opera. Naturalmente, storicismo e individualismo, nel momento in cui si congiungono, sono destinati a mutare di significato. La componente storicistica, pur sempre così presente, non potrà certo più essere identica alla tradizionale ed originale dottrina britannica, integralmente storicistica. In particolare, secondo la rivoluzione americana, è necessario che la Constitution si rafforzi nella sua capacità di garanzia, per evitare la degenerazione in onnipotenza parlamentare, come era avvenuto nel concreto dei rapporti con le colonie americane. La costituzione deve corrispondere ad un organico testo scritto, che il corpo costituente sovrano ha voluto, e che come tale può essere positivamente opposto ai governanti che abbiano agito in modo illegittimo, ovvero contrario alla costituzione. Sotto questo profilo, la tradizione è ampiamente superata: una simile concezione generale di costituzione prevede un potere costituente che tutta la tradizione aveva sempre negato in modo radicale. Tuttavia, anche la componente individualistica subisce un forte processo di revisione all’interno della cultura rivoluzionaria americana dei diritti e delle libertà. Si tratta di un individualismo più decisamente antistatualistico di quello europeo (processo di concentrazione dell’imperium); la rivoluzione americana è in grado di affermare in modo più chiaro e netto la prestatualità dei diritti, che la essa stessa colloca in una dimensione storico- naturale, nel senso che essi sono giustificati ora con il prevalente ricorso alle formulazioni europee dei diritti naturali, ora con il prevalente ricorso alla tradizione storicistica britannica. Per riassumere, la cultura rivoluzionaria americana dei diritti e delle libertà è insieme di carattere storicistico e individualistico. Ciò è possibile perché storicismo e individualismo non sono più in terra americana ciò che erano nel vecchio continente il primo ammette la possibilità di una 20 costituzione scritta, voluta dal corpo costituente, e il secondo si ritrova sulla propria scia il classico binomio britannico tradizionale del liberty and property. L’affermazione dei coloni di non essere rappresentati nel Parlamento inglese coinvolgeva fin dall’inizio la grande questione della rappresentanza politica. In effetti, la madrepatria e le colonie si scontrarono preliminarmente proprio su questo punto, muovendo da due concezioni diverse di rappresentanza politica. Per il monarca inglese il suo comportamento era stato del tutto legittimo perché egli, nell’imporre i tributi, si era consultato con l’unica legittima assemblea rappresentativa di tutti i sudditi, ovvero con il parlamento inglese, nel quale tutti i sudditi di Sua Maestà Britannica dovevano sentirsi rappresentati, indipendentemente dal diritto di voto (che non era esercitato dai coloni americani ma neppure da molti sudditi della madrepatria, senza che questi ultimi sentissero il parlamento come autorità ad essi estranea). Per i coloni americani, un ragionamento di questo genere non poteva essere convincente, appunto perché essi muovevano da tutt'altra concezione della rappresentanza politica. Essi erano infatti abituati dalla pratica rappresentativa delle assemblee coloniali a considerare i rappresentanti come i concreti portatori dei molteplici e distinti interessi della società civile e economica, con una ridottissima distanza tra classe politica dei rappresentanti e società civile. Così, i coloni non potevano accettare di essere virtualmente rappresentati (virtual rapresentation) da un parlamento inglese, molte miglia distante, che essi non avevano eletto e che non conoscevano, che troppo insomma differiva da quella rappresentanza esplicita (actual representation) degli interessi cui erano abituati. Quindi, mentre la rivoluzione francese muove dal bisogno di stabilizzare e legittimare una forte classe politica rompendo la pratica di Antico Regime del mandato imperativo; la rivoluzione americana muove dal bisogno di ricusare una rappresentanza politica non esplicitamente voluta, non direttamente istruita dalle molteplici comunità d'interessi che compongono il popolo sovrano. La cultura rivoluzionaria francese tende a legittimare i legislatori rappresentanti, quella americana della prima fase rivoluzionaria tende a diffidare di essi, come di ogni forma di autonomia del politico dal sociale. Si potrebbe ritenere, di conseguenza, che la rivoluzione americana, diffidando così ampiamente del potere dei rappresentanti, ci propone un modello più vicino a quello giacobino, al lato democratico- radicale della rivoluzione francese? All’inizio, negli anni immediatamente successivi alla Dichiarazione d’Indipendenza, sembra proprio che le cose vadano in questa direzione. Alcune costituzioni, come quella della Pennsylvania del 1776, mostrano tracce ben evidenti di una diffusa ideologia repubblicana di stampo democratico-radicale, che presuppone l’esistenza di un popolo virtuoso, stabilmente diffidente dei poteri costituiti e perciò stabilmente mobilitato contro i governatori (conseguenze: potere di istruzione dei rappresentanti, dipendenza dell’esecutivo e dei giudici dal legislativo). Tuttavia, questa tendenza era destinata a spengersi, con la ragione che secondo questa idea si rischiava di condurre a una nuova concentrazione di poteri nelle assemblee legislative dei singoli Stati, di creare di nuovo dispotismo. È vero che fuori di tali assemblee c’era il popolo virtuoso (people at large), ma è anche vero che in concreto le assemblee legislative, uniche depositarie della legittimazione democratica, tenevano in pugno, con i loro poteri di nomina, tutti gli amministratori pubblici e gli stessi giudici, finendo per disporre in tal modo di straordinari poteri di intervento sulla stessa società civile. Ecco quindi che le costituzioni dei singoli Stati tornano ben presto a orientarsi verso l’ideale britannico del governo bilanciato o moderato, a riscoprire la necessità di un giudiziario indipendente nei confronti del legislativo, e perfino ad attribuire all’esecutivo un potere di veto nei 21 confronti del legislativo. Si ricopre quindi la vocazione originaria della rivoluzione, che era quella di critica verso ogni forma di onnipotenza parlamentare. La dottrina repubblicana e democratico- radicale non era altro che uno strumento del quale gli americani si servirono per negare la rappresentatività del parlamento inglese, ma quando poi si accorsero che le pretese di onnipotenza parlamentare venivano da un’altra parte, dai legislatori dei nuovi Stati, non esitarono a rivolgersi ancora alla tradizione del governo bilanciato e moderato, che se ora non più monarchico. Il filo conduttore della rivoluzione è dato quindi dalla critica all’onnipotenza dei legislatori. I due modelli che la rivoluzione francese aveva separato, quello individualistico-contrattualistico e quello storicistico, ora convergono, perché vi è un comune ed unico avversario da sconfiggere: lo statualismo, l’onnipotenza dei legislatori. Infine, la rivoluzione americana attrae in quest’orbita concettuale anche l’ultima problematica che dobbiamo analizzare: quella del potere costituente. Anche nella rivoluzione americana la figura del potere costituente è di straordinaria rilevanza, come in quella francese, nonostante questo, si deve essere capaci di individuare delle diversità tra le due rivoluzioni circa l’esercizio del potere costituente del popolo. Nella rivoluzione francese l’affermazione di un potere costituente della nazione, o del popolo, rappresenta l’essenza stessa della rivoluzione, che per la prima volta mostra come una nazione possa darsi una costituzione, creare una costituzione; per altro verso però lo stesso potere costituente finisce per essere realtà fortemente temuta, in quanto si concretizzi, come accade nella fase giacobina, nella presenza fisica costante di un popolo che continuamente rimette in discussione l’autorità dei poteri costituiti e i contenuti della costituzione medesima. La rivoluzione sotto questo profilo finisce per essere nient’altro che un processo di serrata competizione per l’attribuzione della sovranità tra popolo e rappresentanti, tra assemblee primarie di base e assemblee legislative elette. La rivoluzione americana ebbe il merito, proprio negli anni compresi tra la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione federale del 1787, di mostrare un altro possibile significato dell'esercizio del potere costituente. L’esperienza americana tra il 1776 e il 1787 mostra come l’esercizio del potere costituente possa tradursi in individuazione nel popolo di un’autorità superiore a quella dei legislatori, che toglie ad essi ogni attribuzione di sovranità, subordinando le loro leggi alla costituzione, intesa come massima fonte del diritto. Il concetto di potere costituente si lega fin dall'inizio con quello di rigidità costituzionale, ovvero con la presenza di regole più fisse, più difficilmente mutabili, di quella contenute nelle leggi ordinarie, con la presenza di un nucleo forte e rigido del patto costituente, che deve essere difeso in primo luogo dal possibile arbitrio del legislatore. Nella due rivoluzioni l’esercizio del potere costituente assume due significati distinti: nella rivoluzione francese esso viene associato al concetto di sovranità, mentre nella rivoluzione americana viene associato al concetto di rigidità costituzionale, intesa come massima forma di tutela dei diritti e delle libertà contro il possibile arbitrio dei legislatori. La realtà primaria ed originaria dell’esperienza costituzionale è data dai francesi da un’unità politica capace d volere, denominata popolo, o nazione; per gli americani da un complesso inviolabile di regole, denominato costituzione. Non v’è dubbio che questa tendenza della cultura rivoluzionaria americana sia stata influenzata dalla cultura storicistica e dalla sua visione del governo limitato dal diritto storico. È la presenza decisiva di questa componente che impedisce alla dottrina americana del potere costituente di risolversi nel senso del volontarismo politico di stampo giacobino: il popolo esercita il potere 22 eccesso politico, il peccato originale della rivoluzione consisteva nell’aver voluto artificiosamente creare una sfera autonoma della volontà politica denominata costituente, a partire dalla quale si pretendeva di governare razionalmente tutta la società, finendo per travolgere la sua complessità e le sue molteplici articolazioni. Il liberalismo torna indubbiamente a privilegiare le libertà come sicurezza, della propria persona e dei propri beni, e quindi a porre in primo piano le libertà civili “negative”, fermo restando che non retrocede del tutto su quelle “positive”, poiché le assemblee rappresentative, per quanto elette in modo censitario, sono destinate ad acquisire spazio. La società liberale europea non ha più bisogno di sentirsi costituente, ad essa è sufficiente sentirsi societas di individui che progredisce in modo calmo e ordinato nella piena sicurezza dei possessi, nell’attuazione dei propri fini personali. La cultura liberale dei diritti e delle libertà del XIX secolo è sì anche questo, ma non solo. Criticando infatti il lato politico-volontaristico della rivoluzione, questa cultura esprime anche una vera e propria critica a determinati aspetti dello statualismo rivoluzionario. Tale critica in senso antistatualistico trova interpreti come Alexis de Tocqueville, (1805-1859), non a caso impegnato nello studio del modello statunitense, e non a caso impegnato a mediare le conquiste della rivoluzione con gli insegnamenti storicistici britannici. Ma il panorama è ben complicato: non ci fu questa sola ed esclusiva vocazione antistatualistica. Se così fosse, dovremmo immaginare una univoca e trionfante affermazione della costituzione-garanzia, ma non è così. In primo luogo, bisogna dire che la costituzione-indirizzo della rivoluzione francese sì scomparirà dall’orizzonte del liberalismo europeo del XIX secolo, ma tornerà a essere indispensabile quando si tratterà di ricostruire le democrazie occidentali europee dopo il crollo dei regimi totalitari. Nell’ottica del costituzionalismo moderno, non si può quindi affermare che la costituzione-indirizzo si stata il frutto di un unico episodio contingente, della vicenda rivoluzionaria. Ma la cultura liberale dei diritti e delle libertà ottocentesca non si ferma qui: profonda è infatti anche la critica alla costituzione-garanzia dal punto di vista liberale. Come già sappiamo, la costituzione-garanzia, se rigorosamente intesa, finisce per ridurre la costituzione stessa a teatro di competizione tra gli individui, tra le forze politiche e sociali. Essa garantisce che tutti gli attori rispettino le regole del gioco, ma soprattutto garantisce che i poteri pubblici non influenzino il gioco stesso, nel senso che ciascuno degli attori deve, entro la cornice della costituzione, rimanere assolutamente libero nella determinazione dei propri fini, nel perseguimento dei propri interessi. Una concezione del genere non poteva soddisfare il liberalismo europeo, il quale condannava la rivoluzione perché, se da un lato era stata troppo statualistica e dirigistica (troppo protesa a riformare la società sulla base dell’indirizzo fondamentale prescelto), dall’altro era stata fin troppo contrattualistica, troppo disponibile a configurare i poteri pubblici in funzione dei bisogni e delle volontà degli individui e delle forze sociali. I liberali sentivano insomma di dover fronteggiare una duplice eredità dannosa della rivoluzione, che aveva a loro giudizio troppo alimentato, non solo le pretese di direzione politica della società da parte dello stato, ma anche le pretese di dominio e di controllo degli individui e delle forze sociali sullo stato medesimo. Per dirla con una formula sintetica: troppo stato nella società, ma anche troppa società nello stato. Essere liberali nell’Europa postrivoluzionaria significa impegnarsi in entrambe le direzioni, nel restituire sicurezza e autonomia alla società civile, ma anche nel restituire autorevolezza e stabilità ai poteri costituiti. È soprattutto in Germania, con Hegel e con Savigny, che si sviluppa questo secondo lato della critica alla rivoluzione, che è essenzialmente critica al contrattualismo rivoluzionario, ovvero a quella ideologia che secondo i critici liberali aveva ridotto tutta a sfera politico-pubblicistica a semplice prodotto delle volontà degli individui e delle forze sociali. Dunque, per riassumere, il 25 liberalismo europeo critica e rifiuta la costituzione-indirizzo, in nome di una più salda autonomia della società civile dei privati, ma rifiuta anche quello che nella sua logica può essere considerato l’eccesso opposto, ovvero la tendenza contrattualistica a far derivare le istituzioni politiche dalle volontà, dagli interessi e dai bisogni degli individui e delle forze sociali: rifiuta quindi non solo il primato del potere costituente come motore primo della costituzione-indirizzo, ma anche il primato della società civile dei privati come fondamento della costituzione-garanzia. Per questo motivo il liberalismo è costretto a ricercare soluzioni nuove, diverse: le rivoluzioni avevano prodotto una cultura dei diritti e delle libertà incapace di garantire condizioni minime di stabilità. Il liberalismo europeo recupera sicuramente il modello storicistico in funzione di tutela delle libertà civili, la difesa dell’autonomia della società civile dei privati, l’ideologia dello stato “minimo”. Accanto a questo, si pone anche la tendenza a rafforzare e rilegittimare i poteri costituiti. Quindi, il liberalismo europeo ha bisogno di un suo statualismo, che si esprime nella formula europeo- continentale dello Stato di diritto: da una parte “di diritto”, perché impegnato nella tutela della società e degli individui dalle pretese dirigistiche dei poteri pubblici; dall’altra anche pienamente “Stato”, perché impegnato nella difesa delle istituzioni politiche dalle pretese contrattualistiche della stessa società civile. La celebre separazione Stato-società dell’età liberale funziona dunque in entrambe le direzioni: nel proteggere la società e gli individui dalle invadenze arbitrarie del potere pubblico; ma anche nel proteggere gli stessi poteri dalle volontà particolari, individuali e di gruppo, operanti nella società civile. Questo statualismo liberale è meno dirigistico di quello della rivoluzione, ma in esso si esprime anche la tendenza generalizzata del liberismo europeo a guardare alla rivoluzione come ad un evento che aveva generato una cronica e diffusa condizione di instabilità delle istituzioni politiche. Lo statualismo liberale punta a spazzare via il lato della rivoluzione, ovvero il fatto che lo stesso statualismo rivoluzionario era costretto a fare i conti con la sovranità popolare, con il potere costituente, con il contratto sociale, per restituire alle istituzioni politiche la loro autonoma legittimazione, diversa da quella rivoluzionaria contrattualistica. In questo senso, liberalismo spezza in due l’individualismo rivoluzionario: da una parte, contro la costituzione-indirizzo, si fa paladino delle libertà civili “negative”, dei diritti dell’individuo in quanto membro di una società civile che chiede autonomia nei confronti delle pretese dirigistiche dei poteri pubblici; ma dall’altra, svincola le istituzioni politiche dalle volontà degli individui, schiaccia sullo sfondo, fino all’annullamento totale, la prima e più originaria libertà politica, cosiddetta “positiva”, che è il diritto dell’individuo di decidere sui caratteri complessivi dell'ordine politico. Si apre qui il grande capitolo della polemica liberale contro il cosiddetto atomismo rivoluzionario, ravvisato soprattutto nella definizione giacobina del popolo come universalità dei cittadini viventi. Qui era, dal punto di vista liberale, l’origine di tutti i mali: nell’idea che alla base delle istituzioni politiche vi fosse un popolo fatto di tante distinte individualità e che dalle loro espressioni di volontà dipendessero i caratteri fondamentali delle stesse istituzioni. Contrariamente a questa concezione, i liberali collocano la nazione, come fondamento più stabile e solido delle istituzioni politiche. Il termine-concetto di “nazione”, che al tempo della rivoluzione era sinonimo di “popolo”, cambia completamente di significato: la nazione è una realtà storico-naturale, che con le sue istituzioni, è il prodotto della storia. La critica liberale dunque trova nel concetto di “nazione” l’antidoto necessario contro il volontarismo e il contrattualismo rivoluzionario: alla base delle istituzioni c’è ora la nazione, che si definisce su base storica, come successione concatenata di generazioni, ciascuna delle quali deve tenere conto dell’ereditarietà delle precedenti e quindi non in grado di decidere contrattualisticamente e volontaristicamente ex novo. Così, le istituzioni sono frutto della storia e dell’esperienza di una certa nazione; non sono quindi illimitatamente 26 modificabili. Come si vede, per questa via il liberalismo europeo si avvicina sensibilmente al tradizionale modello storicistico britannico. Torna qui utile il paragone con il costituzionalismo statunitense, che combina individualismo giusnaturalistico e storicismo in funzione antistatualistica. Anche nel liberalismo postrivoluzionario dell’Europa continentale vi sono elementi di storicismo agenti in questa direzione, ma c’è anche questo secondo lato dello storicismo liberale, che opera chiaramente in senso antiindividualistico ed anticontrattualistico. Sotto questo profilo, diviene sempre più evidente che lo storicismo europeo postrivoluzionario non serve tanto a rafforzare l’autonomia dei diritti individuali di fronte ai poteri pubblici, quanto, soprattutto, a togliere dal catalogo dei diritti individuali primari il diritto di decidere, con gli altri individui, sui caratteri fondamentali delle istituzioni politiche. Lo storicismo liberale europeo assume un chiaro significato antiindividualistico e statualistico, che si esprime nella nuova concezione di nazione come realtà storico-naturale, stabile e indiscutibile di legittimità per le istituzioni politiche. Lo storicismo si allea quindi con lo statualismo in funzione antiindividualistica ed anticontrattualistica, nel senso che contribuisce a rafforzare l’idea che i poteri pubblici non dipendano da una costruzione contrattualistica dal basso, ma esistano invece in modo naturale e necessario, come prodotto organico della storia della nazione. Il primo e più importante riscontro di questa differenza tra costituzionalismo statunitense e liberalismo europeo-continentale si ha a proposito dell’alternativa tra rigidità e flessibilità della costituzione. Le costituzioni del liberalismo ottocentesco sono generalmente flessibili, ovvero modificabili per via ordinaria del legislatore. Mentre in America la costituzione, rigida e protetta dal sindacato di costituzionalità, si impone ai poteri pubblici in funzione di garanzia dei diritti; nell’Europa continentale è lo Stato di diritto, la legge dello stato, il potere pubblico come organico riflesso della nazione, a custodire i diritti e a dover perciò essere difesa dalle intrusioni della costituzione, del potere costituente, delle volontà particolari degli individui e delle forze sociali. In sintesi: mentre negli Stati Uniti i diritti sono nella costituzione, e l’arbitrio può provenire dai poteri dello stato, nell’Europa continentale i diritti sono nello stato, e l’arbitrio può provenire dal potere costituente, dal contratto sociale, dalla costituzione come frutto delle volontà degli individui e delle forze sociali. Queto perché mentre negli Stati Uniti lo storicismo è funzionale ad affermare la rigidità delle costituzioni di fronte ai poteri pubblici, nell’Europa continentale proprio il recupero del modello storicistico fa pensare subito a tale eventualità (costituzione come suprema fonte di diritto) come ad un arbitrario dominio del potere costituente dei consociati sulle istituzioni politiche. Nell’Europa continentale si ha un vero e proprio ribaltamento di prospettive rispetto agli Stati Uniti. Le conseguenze di questa svolta sono di portata incalcolabile perché, su questa base, tutti i discorsi liberali ottocenteschi sui diritti e sulle libertà tendono a dislocarsi più attorno allo stato ed al suo diritto che attorno alla costituzione. La rinnovata centralità dello Stato, al posto di quella della costituzione, si esprime in pieno Ottocento in due direzioni fondamentali: il codice civile e la pubblica amministrazione, entrambi sempre al centro dei progetti rivoluzionari. Sia il codice che la pubblica amministrazione richiamano i principi individualistici della rivoluzione in opposizione all’Antico Regime, e i diretto collegamento con la Dichiarazione dell’89: rinviano alla missione prima della rivoluzione, ovvero quella di costruire un modello di relazioni politiche e sociali fondato sull’unicità del soggetto di diritto, e più in particolare una società civile in cui tutti abbiano a disposizione, grazie al codice civile, i medesimi strumenti giuridici per l’appropriazione e per lo scambio; ed un assetto dei poteri pubblici in cui si possa legittimamente esercitare il potere solo in nome della legge, e non più sulla base di una particolare condizione di privilegio. Le vicende del codice civile e della pubblica amministrazione, come progetti rivoluzionari, nel corso del secolo 27 stata affatto, nella sua essenza più profonda, un trasferimento di sovranità da un soggetto all’altro, ovvero dal monarca al popolo. Averla intesa così fu il più grave torto dei rivoluzionari, che finirono per ridurre le istituzioni politiche a mero strumento di attuazione delle volontà del popolo sovrano, alla stessa stregua dell’assolutismo regio, che in modo simile aveva fatto dipendere le istituzioni dalla superiore volontà del monarca. Per questa via, nell’ottica dei giuristi liberali, si finiva necessariamente nell’atomismo rivoluzionario. Si tratta allora di tornare all’89: è qui, in questo sforzo di rilettura che compare il termine-concetto di “moderno”: in realtà lo sforzo iniziale della rivoluzione era stato quello di proporre un criterio moderno di attribuzione della sovranità politica, che però la rivoluzione medesima aveva successivamente travolto. La sovranità in senso moderno nega ogni potere assoluto originario di un qualche soggetto; e in questo senso era pensata, secondo i nostri giuristi, inizialmente dai costituenti dell’89, che collocavano la sovranità nella nazione per escludere che essa medesima, con le sue istituzioni politiche, proprio in quanto sovrana, potesse dipendere dalla volontà di un soggetto precostituito, fosse esso il monarca o il popolo. Come si vede, il ribaltamento è totale: la sovranità non è più il potere di un soggetto che decide sui caratteri delle istituzioni politiche, ma il potere della nazione e delle sue istituzioni politiche di escludere ogni topo di dipendenza dall’esterno, che pretenda di indirizzarla prescrittivamente, a partire dal principio monarchico o da quello democratico-radicale della sovranità popolare. Si può così individuare una linea che i giuristi tracciano dalla rivoluzione fino allo Stato di diritto: è una linea dello stato moderno come titolare monopolista della sovranità politica, che in quanto tale è capace di negare recisamente ogni sua forma di dipendenza dall’esterno, da un soggetto ad esso precostituito. Questo era quello che la rivoluzione aveva tentato di fare, aveva tentato di fondare l’autorità dello stato e delle istituzioni politiche sulla nazione, ovvero su un dato oggettivo ed altamente unificato. La rivoluzione non era però riuscita in questo intento, non era riuscita a creare istituzioni politiche salde e autorevoli, capaci di respingere ogni tentativo di dominazione da parte di soggetti politici definiti, come il monarca e il popolo costituente. Questo perché la rivoluzione era troppo debitrice del criterio “antico” di attribuzione della sovranità politica, di tipo soggettivo: dopo aver distrutto la sovranità del monarca, essa aveva ricercato la sovranità di un altro soggetto, il popolo, da porre al posto del primo. La rivoluzione rappresenta quindi, agli occhi dei nostri giuristi, quel momento storico in cui il moderno Stato sovrano nazionale riesce ad affermarsi nei confronti di alcune pretese di dominio, come quelle del monarca o degli antichi poteri di stampo feudale e signorile, ma non è ancora così forte da affermarsi integralmente, anche contro le pretese di dominio degli individui-cittadini, del popolo e delle fazioni che in esso si agitano. La rivoluzione non riesce fino in fondo a spersonalizzare i rapporti politici. Ecco qui la linea di continuità tra rivoluzione e Stato di diritto: quello Stato di diritto aveva il compito preciso di completare il processo storico di affermazione della sovranità dello stato nazionale, che la rivoluzione aveva avviato, senza completarlo nel modo corretto. Se ciò appare possibile è perché nel frattempo è enormemente cresciuta l’autorità dello stato in chiave di Stato di diritto. Si tratta di dilatare a dismisura gli elementi di statualismo che erano presenti nella rivoluzione, perfezionandoli, e di questa rifiutando il lato individualistico e contrattualistico. Quale posto occupano i diritti e le libertà all’interno di una cultura politica e giuridica di questo tipo? Quale dottrina dei diritti e delle libertà produce la teoria giuridica dello Stato di diritto, e in generale lo statualismo liberale? Prima di tutto, con i nostri giuristi viene a esaurirsi la vicenda storica del giusnaturalismo moderno. Il tempo storico specifico della rivoluzione si ritiene definitivamente tramontato, e con esso anche 30 la possibilità di fondare i diritti e le libertà sul grande argomento dello stato di natura. Un’operazione del genere appare frutto del tempo storico specifico della rivoluzione, ormai terminato. Ora, vi è un solo ed unico diritto, quello positivo dello stato: in esso, e solo in esso, i diritti e le libertà debbono trovare fondamento e opportune forme di tutela. I giuristi rifiutano di considerare i diritti degli individui come valori che precedono l’autorità dello stato: essi sono il risultato di una concreta applicazione delle norme dello stato. Si ha quindi una netta ripulsa del modello giusnaturalistico, individualistico e contrattualistico. Allora, i diritti degli individui si fondano su un atto sovrano di autolimitazione dello stato: in origine quindi non vi sono quei diritti, che come tali si presumono pieni fin quando una norma dell’autorità non li limiti, ma in origine c’è lo stato la cui sovranità si presume piena fin quando esso non decida di limitarsi con un proprio atto di volontà, costitutivo dei diritti degli individui. Tale inclinazione non vale solo per le libertà civili, ma anche per quelle politiche. Infatti, una volta tramontata l’ipotesi della democrazia diretta di stampo giacobino, una volta eliminato il riferimento rivoluzionario alla stessa sovranità popolare, il diritto di voto assume irrimediabilmente il significato di esercizio di funzioni pubbliche, com’è del resto caratteristica essenziale di ogni modello di relazioni politiche orientato in senso statualistico. Così, quando l’elettore dello stato liberale di diritto del XIX secolo (e ciò vale fino all'avvento dei partiti politici di massa dopo la prima guerra mondiale) elegge i rappresentanti, egli non è parte di una comunità sovrana (popolo o nazione) che formula un indirizzo vincolante per i poteri pubblici; egli esercita piuttosto una funzione regolata dalle norme dello Stato, che è quella di designare i più capaci, coloro che avranno il delicato compito di legiferare, ovvero di interpretare i bisogni della nazione. Insomma, non è il corpo sovrano dei cittadini elettori che prescrive un indirizzo ai poteri pubblici, sono questi ultimi che si servono degli elettori per designare la classe politica dirigente. Una simile concezione statualistica del diritto di voto è funzionale alla permanenza nel corso di tutto l’800, di sistemi elettorali di tipo censitario. Come le libertà politiche “positive” dipendono da un atto di sovranità dello Stato, che chiama gli individui-elettori a svolgere una funzione pubblica, ovvero a designare la classe politica dirigente; anche l’ampiezza delle libertà civili “negative” e le forme di garanzia di quelle libertà dipendono da un atto di autolimitazione dello Stato sovrano. Non si possono più avere libertà fondamentali, nel senso che non può più esistere un contenuto necessario delle libertà fissato nella costituzione. Se tutte le libertà si fondano solo ed esclusivamente sulle norme dello stato, si deve per forza ammettere che esiste ora un solo diritto fondamentale, quello di essere trattati conformemente alle leggi dello stato. Lo Stato di diritto: un meccanismo di pronta e sicura, e uniforme, applicazione della legge da parte dei giudici. Ciò che importa è solo che quei diritti, che la legge in quel momento riconosce, siano adeguatamente tutelati, nel senso che sia sempre possibile ricorrere a un giudice per la loro tutela. Quanto poi tale tutela giurisdizionale dei diritti fosse davvero efficace nello Stato di diritto è cosa incerta. In un sistema politico fondato su principi di carattere statualistico è difficile che il giudice sia completamente libero nella tutela dei diritti individuali nel momento in cui questi si trovano a urtare con le ragioni dell’autorità (alla fine il giudice stesso è espressione della sovranità dello stato). Lo stato di diritto per i nostri giudici appare la migliore forma possibile di tutela dei diritti. In realtà però noi sappiamo che i diritti non possono occupare nel sistema politico dello Stato liberale di diritto più di quello spazio che è compatibile con l’opzione di fondo per un modello statualistico. E poiché secondo tale modello i diritti si fondano esclusivamente sulle norme dello stato, rimane 31 sempre aperta la domanda: chi impedisce al legislatore sovrano di ritirare oggi ciò che aveva con certezza concesso ieri nel momento in cui aveva fondato con la sua norma i diritti degli individui? È evidente che a questa domanda si risponde ammettendo la necessità di una costituzione rigida, a partire dalla quale sia possibile considerare illegittime quelle norme dello stato che si pongano in contrasto con essa. Ma in ciò che i giuristi dello Stato di diritto non potevano non vedere un’inammissibile reviviscenza del deprecato diritto naturale, ovvero di un diritto esterno allo Stato che minacciava continuamente la sua autorità, e la certezza del suo diritto. Cosa sarebbe rimasto di tale autorità, e di tale certezza, ed in fondo dello stesso Stato di diritto, se le singole norme da questo emanate avessero potuto in ogni momento essere abrogate o disapplicate in nome della costituzione? In realtà, quando una norma dello stato è emanata, essa deve sempre e comunque esse applicata, in primo luogo proprio dai giudici, ai quali ipoteticamente potrebbe spettare il sindacato di costituzionalità in un regime di costituzione rigida. Infatti, in un modello politico orientato in senso statualistico la regola generale è che le leggi possano essere annullate o affievolite nella loro forza di atti imperativi solo da un atto di eguale forza normativa, da una legge successiva nel tempo che provenga dalla stessa fonte, dalla stessa volontà sovrana. Così stando le cose è difficile pensare nello Stato di diritto ad un meccanismo che consenta di eliminare le norme in contrasto con la costituzione, per la buona ragione che le scelte di fondo in senso statualistico escludono che la sovranità dello stato e del suo diritto possa essere messa n discussione in nome di una costituzione- garanzia. In altre parole, lo Stato di diritto scarta la soluzione statunitense della costituzione rigida e del sindacato di costituzionalità affidati ai giudici, perché vede in tale soluzione una minaccia per la sovranità dello stato, per la certezza del suo diritto (elemento di continuità con la rivoluzione: forza suprema e incontrastata della legge, che una volta emanata non può essere disapplicata dai giudici in nome della costituzione). Tuttavia, rimane aperta la domanda: come impedire che il legislatore, con un proprio atto sovrano, violi i diritti individuali, magari quei medesimi diritti che esso stesso aveva precedentemente costituito? Dove stava la garanzia contro una possibile trasformazione dello Stato liberale di diritto in stato dispotico? Per rispondere a questa domanda si deve capire questo: rimanendo all’interno di una logica rigorosamente ed esclusivamente statualistica, questa domanda non può avere risposta. Infatti, una voltai imboccata la via della sovranità dello Stato e dell’assoluta obbligatorietà del suo diritto, risulta assolutamente impossibile individuare un punto di riferimento esterno (in ipotesi, la costituzione) sul quale si possa fondare un giudizio di legittimità del diritto statale. Dunque, per rispondere e per tranquillizzare le coscienze liberali circa l’effettivo confine tra Stato di diritto e Stato dispotico, era necessario uscire dal modello statualistico, era necessario trovare un correttivo di quel modello, che però non mettesse in discussione la sovranità dello stato, garantendo comunque una concreta tutela e garanzia dei diritti. Dopo il rifiuto netto del modello giusnaturalistico, contrattualistico ed individualistico, la ricerca non poteva che dirigersi verso il modello storicistico. Se lo stato si fonda sulla realtà storico-naturale della nazione, esso non potrà mai essere del tutto libero nelle sue manifestazioni di sovranità; dovrà sempre tener conto del dato oggettivo della nazione, del punto in cui essa è giunta nel suo sviluppo storico, del livello di maturità, civile, politica ed economica che essa ha raggiunto. Il legislatore quindi, per quanto sovrano, non potrà mai ridurre gli spazi dei diritti e delle libertà oltre quel limite che è fissato dallo sviluppo storico della nazione: non potrà ridurre l’ampiezza delle libertà civili, né di quelle politiche. Quindi, se la società nazionale si sviluppa in senso liberale di progressiva affermazione ed 32 Questa ripresa della centralità della costituzione, sia come garanzia che come indirizzo, va necessariamente contro la versione statualistica dello Stato di diritto liberale. In primo luogo, se la costituzione deve essere una vera e propria norma giuridica si pone subito il problema della illegittimità di quelle norme di diritto positivo statale, che siano in vigore in quanto emanate in modo corretto formalmente, ma che quanto ai contenuti sostanziali risultino in contrasto con la costituzione, norma fondamentale di ordine superiore. L’esistenza stessa del sindacato di costituzionalità mette in crisi il dogma liberal-statualista dell’assoluta forza di legge e crea una situazione in cui la validità delle norme dello stato dipende da un giudizio sulla loro conformità alla costituzione. Inoltre, con le costituzioni del Novecento, come abbiamo detto, ritorna in primo piano l’aspetto della costituzione-indirizzo, come forma fondamentale direttiva che indirizza i poteri pubblici e condiziona gli stessi privati per assicurare la realizzazione di valori costituzionali: questo aspetto sta apertamente in contrasto con lo statualismo liberale. Non tanto perché implica inevitabilmente un accrescimento quantitativo dei compiti dell’amministrazione dello stato, ma perché, nella logica liberal-statualista, non si può assolutamente ammettere che l’unità politica di un popolo, di una nazione, non sia intesa come dato oggettivo e pacifico, come presupposto, ma che ora invece divenga il risultato di un’azione dinamica ispirata alla costituzione, il frutto di un indirizzo consapevole scelto dalle forze politiche e sociali. Dietro a questa problematica sta l’avversione dello statualismo liberale nei confronti del contrattualismo, verso l’idea che lo stato non sia il presupposto di tutto, ma piuttosto il risultato finale. Dunque, lo statualismo liberale è definitivamente sconfitto, in un duplice senso, dal riaffermarsi della costituzione-garanzia e della costituzione-indirizzo: lo stato si trova ad avere un limite al suo diritto positivo, cosa assolutamente inconcepibile nell’ottica statualistica, e quel medesimo stato diviene ora uno strumento di qualcos’altro, ed esiste quindi solo in funzione di un indirizzo da seguire. La cultura dei diritti e delle libertà delle Costituzioni democratiche dell’ultimo dopoguerra si forma in contrapposizione con lo statualismo liberale del XIX secolo, ed è contrassegnata da un tentativo originale di combinazione delle due distinte tradizioni rivoluzionarie della costituzione come garanzia e come indirizzo. Al tempo delle rivoluzioni, queste due tradizioni si erano formate contestualmente, ma senza mai incontrarsi e combinarsi: gli Stati Uniti erano il paese per eccellenza della rigidità costituzionale e del sindacato di costituzionalità; mentre la Francia era il paese del predominio del dogma della volontà generale, traducendosi nel primato del legislatore. Quindi, nella tradizione rivoluzionaria la costituzione è o limite del possibile arbitrio dei poteri costituiti o indirizzo fondamentale che tali poteri perseguono: al tempo delle rivoluzioni la costituzione non poteva essere entrambe le cose insieme, nello stesso tempo limite e indirizzo. Ebbene, le Costituzioni del 900 tentano appunto di combinare sia la tradizione statunitense della costituzione come garanzia, sia la tradizione rivoluzionaria francese della costituzione come indirizzo. Combinare i due aspetti significa necessariamente temperare e correggere alcuni dei loro rispettivi caratteri originali: la dottrina del costituzionalismo non può più essere solo dottrina del governo limitato, ma deve essere anche dottrina dei compiti del governo. Domande legittime: quale sorte effettiva ha avuto questo tentativo di coniugare i due tipi di costituzione? Si può davvero affermare che oggi si è giunti ad una nuova grande stagione del costituzionalismo moderno, capace di recepire in sé il meglio delle tradizioni rivoluzionarie? Per alcuni la risposta è positiva: la fase apertasi con le Costituzioni dell’ultimo dopoguerra è la seconda grande fase della storia del costituzionalismo moderno, della storia dei diritti e delle libertà, dopo la prima, quelle delle rivoluzioni. Le due fasi si congiungono grazie al concetto di supremazia della costituzione, chiudendo la parentesi dello Stato liberale di diritto ottocentesco. Secondo questa 35 visione positiva, la via scelta con le Costituzioni democratiche era quella giusta. Tuttavia, non mancano voci scettiche e polemiche. Secondo questa seconda opinione le costituzioni-indirizzo contemporanee non sono nate affatto in funzione antistatualistica, ma in rapporto di diretta continuità con l’aspetto più qualificante di ogni statualismo, che è il costruttivismo, ovvero la tendenza a concepire il corpo sociale organizzato non come una societas (in cui ciascuno persegue i propri fini nel rispetto delle norme generali di condotta), ma come una universitas (in cui a ciascuno è assegnato un compito e un ruolo in relazione al compimento dell’impresa collettiva in relazione all’indirizzo fondamentale). Si sostiene quindi che quando una costituzione cessa di essere solo un sistema di garanzie e pretende di essere anche un sistema di valori, si è già necessariamente usciti dall’orbita del costituzionalismo e si sono così già determinati i presupposti per una rinnovata sovranità dello stato. Questa critica neoliberale alle Costituzioni democratiche, di evidente ascendenza britannica, aiuta a porci le seguenti domande: la costituzione come indirizzo rappresenta davvero il tentativo di superare i confini di una concezione meramente garantistica della costituzione medesima? Non è piuttosto vero che quel medesimo indirizzo non è altro che lo strumento fondamentale del quale il nuovo statualismo si serve per conformare gli individui e la società alla volontà dei poteri pubblici? In definitiva, l’alternativa è la seguente: o mantenere in piedi e sviluppare l’ambizioso tentativo intrapreso dalle Costituzioni democratiche contemporanee, tendente a coniugare la costituzione- indirizzo e la costituzione-garanzia, seppure con aspetti diversi e contrastanti; o affermare che in quel tentativo è contenuto un vizio di fondo da eliminare, di tipo statualistico, e riportare quindi tutto il costituzionalismo entro l’orbita della costituzione-garanzia, della protezione dei diritti. Questa seconda ipotesi è quella propria del costituzionalismo liberale di impronta britannica, che concepisce tutta la storia del costituzionalismo come lotta contro lo statualismo. Si tratta di un’alternativa di fondo, che si pone a livello di concezione generale della costituzione. 2.LA FORMA DI STATO DEL NOVECENTO: LO STATO COSTITUZIONALE Il Novecento è portatore di nuove soluzioni, non solo nella storia delle costituzioni e del costituzionalismo, ma anche per ciò che riguarda la successione storica delle forme di stato. Denominato “Stato costituzionale” la forma di stato che tende ad affermarsi in Europa a partire della metà del XX secolo: la definiremo progressivamente come prodotto della storia, e più precisamente come esito del superamento progressivo della precedente forma di stato che aveva caratterizzato la forma l’età liberale. In quel tempo era dominante in Europa la particolare fora di stato denominata “Stato liberale di diritto”, la forma di stato caratteristica degli Stati nazionali. Ovviamente ciascuno stato ha la sua specificità, è frutto della determinata e singolare storia nazionale, in questo senso abbiamo in Europa diversi regimi politici: ad esempio, una Repubblica fondata sul principio di sovranità nazionale, la Terza, in Francia; il secondo Reich in Germania, dove il principio monarchico ha ancora un ruolo ben attivo; e una monarchia parlamentarizzata in Inghilterra. Come si note, si ha una notevole varietà d regimi politici, che però dal nostro punto di vista non sono altro che diversi modi di essere politico-istituzionali di un’unica forma di stato: lo Stato liberale di diritto, che possiamo definire anche come Stato legislativo di diritto, per indicare meglio il carattere peculiare di questa forma di stato, che si traduce prima di tutto nella centralità della legge massima espressione di sovranità dello stato, e per questo massima fonte d diritto, miglior modo di garanzia dei diritti. 36 In piena età liberale, si sostiene che non si debba ricercare il fondamento dei diritti nella Carta costituzionale, ma nelle leggi che di volta in volta li prevedono e li disciplinano, perché solo nella dimensione della legge quei medesimi diritti vengono pienamente ad “esistenza giuridica”, uscendo dallo stadio della semplice “presupposizione”, per entrare finalmente nel mondo del diritto, proprio attraverso la legge, la sola capace di conferire alle posizioni soggettive lo status di “diritti”. Nel modello dello Stato liberale di diritto i diritti esistono in senso giuridico perché e in quanto una legge li preveda, e prevedendoli provveda a disciplinare il loro esercizio e la loro tutela. Le Carte costituzionali invece rimangono sullo sfondo: in materia di diritti contengono scarne e poche disposizioni, che spesso operano come mero rinvio alla legge, garantendo che un determinato diritto non possa essere disciplinato altro che con la forma legislativa, la riserva di legge. Il campo d’azione e la vocazione di quelle Carte si determinano verso un’altra direzione: la ricerca di un punto di equilibrio tra monarchia e parlamento; il problema principale delle Carte è quello di garantire e rappresentare la solidità di quel punto di equilibrio, tale da evitare degenerazioni sui due estremi, verso soluzioni assolutistiche o verso soluzioni democratiche e radicali. Meno rilevante è il posto dei diritti. Un esempio di queste Carte è lo Statuto Albertino del 1848, nel quale il tema principale sono il Re e la forma di governo monarchica rappresentativa, pochi articoli sono dedicati ai diritti, che comunque rimandano alla legge ordinaria. Appare quindi evidente quanto sia fragile e precaria la garanzia dei diritti offerta dalle Carte costituzionali dell’epoca dello Stato liberale di diritto: i diritti finiscono per essere collocati nell’orbita del legislatore, libero di trattarli con amplissima discrezionalità. Il fatto è che in quell’epoca manca completamente il concetto di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona. Questo è un primo percorso di trasformazione costituzionale, dalla mera garanzia legislativa all’inviolabilità, che segna il passaggio storico dallo Stato di diritto liberale allo Stato costituzionale. Un diritto è garantito prima di tutto perché è assurto, mediante la previsione costituzionale, al rango di principio fondamentale, espresso nella costituzione stessa (al vertice della scala gerarchica delle fonti di diritto) e dunque collocato nella posizione di inviolabilità. L’inviolabilità, intesa come qualità nuova dei diritti costituzionali affermati e tutelati, genera a sua volta l’idea del controllo di costituzionalità, pratica che era stata messa da parte in epoca liberale, una volta abbattuto il principio di supremazia della costituzione. L’inviolabilità risiede ancora più nel profondo dell’esperienza costituzionale del Novecento. L’inviolabilità dei diritti è infatti rappresentabile come il vero e proprio carattere di fondo delle Costituzioni democratiche del Novecento, quello che più di ogni altro concorre in modo decisivo a qualificare quelle Costituzioni sul piano storico. Alla base dell’edificio costituzionale, l’inviolabilità dei diritti si esprime in primo luogo attraverso il carattere rigido della costituzione, che li contiene e li prevede. Rigidità non solo in senso formale, per la presenza di procedimenti di revisione più o meno aggravati nelle costituzioni democratiche del Novecento; ma soprattutto rigidità in senso sostanziale per la presenza di una serie di principi che insieme formano il nucleo fondamentale della stessa costituzione, che ad essa conferisce identità sul piano storico e che come tale non può essere alterato se non esercitando un nuovo potere costituente e dunque uscendo dai confini della costituzione vigente. In quel nucleo si trovano i diritti. In questo senso si esprime prima di tutto il lato sostanziale della rigidità secondo cui i procedimenti di revisione della costituzione non hanno solo forme obbligate da osservare, ma anche limiti sostanziali da rispettare, oltre i quali la revisione medesima, che è in sé un potere costituito previsto dalla costituzione, diviene un potere costituente, ovvero un processo per creare una nuova costituzione. 37
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