Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto Appunti + Libri Esame Elisabetta Sarmati — Letteratura Spagnola II Sapienza, Appunti di Letteratura Spagnola

È il riassunto con appunti integrati dei due libri da portare per l’esame (dal Cid ai re cattolici e il suo manuale), ci sono anche riassunti gli altri due libri da portare all’esame (Celestina e Lazarillo)

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 22/03/2023

elena-mastronardi
elena-mastronardi 🇮🇹

4.5

(17)

11 documenti

1 / 130

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Appunti + Libri Esame Elisabetta Sarmati — Letteratura Spagnola II Sapienza e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! Premessa storico-culturale La Spagna preromanza La storia della letteratura spagnola prende in considerazione come momento d’inizio non solo il contesto culturale in cui si inquadrano le prime opere letterarie spagnole. E’ tradizione della storiografia letteraria spagnola includere la cosiddetta letteratura “hispanorromana”, ovvero quella degli scrittori latini di origine ispanica (come Seneca, Lucano, Quntiliano, Marziale). Questo accade non solo in luce di un principio puramente geografico, gli studiosi iberici cercano infatti di porsi su un piano storico-letterario. Esemplare la posizione del maestro della filologia spagnola Ramon Menendez Pidal. Egli nello studio volto a discriminare i “caratteri primordiali” delle letterature iberiche prende in considerazione anche gli scrittori classici di origine peninsulare. Non dubita esistano caratteri nazionali dominanti anche se riconosce un loro profondo nesso con le attitudini della collettività e le circostanze storiche (entrambi fattori variabili). Dunque in Spagna il sostrato celtiberico e la colonizzazione romana per Pidal, hanno costituito una base etnica e tradizionale inamovibile. Tuttavia è sorprendente come malgrado le numerose invasioni straniere perdurino alcuni tratti peculiari “iberici”. (Es. Scarsa coesione tribù preromane → per Pidal può essere messa in rapporto con l’anarchismo e il particolarismo caratteristici ancora oggi della penisola). Egli riconosce inoltre una linea precisa che unisce i vari scrittori cordovesi nei secoli (Seneca, Alvaro di Cordova, Juan de Mena, Gongora), caratterizzati da modalità stilistiche che per Pidal rinviano a una relazione etnica che comporta una trasmissione continua di atti espressivi. Così, ad esempio, il realismo della poesia epica di Lucano non sarebbe senza rapporto con quello del Cid e così via. Fin qui si spinge Pidal, tuttavia da questa ricerca si ricavano risultati troppo incoerenti e spesso contraddittori. Non c’è dubbio che la letteratura spagnola sia fortemente caratterizzata rispetto alle altre europee, ma ciò non vuol dire che si debba riconoscere una ragione etica o il perdurare di remote costanti. Inoltre non si devono dimenticare le profonde crisi che la storia politica, sociale e culturale spagnola ha vissuto durante il Medioevo, che fanno dubitare di quella trasmissione ininterrotta d’atti espressivi presunta da Pidal. L’attuale ethos spagnolo ci appare come il risultato di molteplici fusioni e di un lungo processo di unificazione, punto di arrivo di un processo che parte da una situazione di grande frammentazione e di complessa distribuzione etnica, rivelata mano a mano dagli studi sulle lingue prelatine della Spagna. La continuità o meno dai latini ai visigoti ai regni cristiani che nel nord della penisola resistono agli arabi non è per la cultura spagnola una questione puramente accademica, ma diviene un aspetto che travaglia l’intellettuale spagnolo. Perciò la discussione coinvolge proprio i migliori studiosi, da Pidal ad Américo Castro a Claudio Sànchez Albornoz. Il Castro, noto per i suoi lavori filologici sui classici spagnoli, elabora una visione affascinante della storia del suo paese, ispirandosi al vitalismo di Dilthey e Bergson. Egli nega l’esistenza di costanti biologico-psichiche e sottolinea l’importanza per un popolo di vivere in una specifica realtà dinamica. Pertanto sono spagnoli non coloro che da tempo partecipano di una comune eredità etnica, ma quelli che sentono di esserlo nell’ambito di una dimora spagnola (non uguale a nessun altra) che si determina solo dopo l’invasione arava del 711’ e l’inizio della Reconquista critstiana. Questo perché la dimensione collettiva di un gruppo umano dipende da una forma sociale e durevole e non da una sostanza biologico-psichica, latente e durevole. Questa dimora spagnola risulta dalla plurisecolare convivenza di cristiani, musulmani e giudei che ha indotti i cristiani a crearsi una dimensione collettiva e dei fini comuni. E’ vero che il Castro ha fondato la sua ricerca su uno studio illuminante della situazione della penisola nel Medioevo, ma il rilievo dato a ciò che di nuovo e decisivo c’è nella dimora dei cristiani del nord dopo l’invasione araba, finisce per occu ltare quanto la società e cultura della Spagna medievale debbano alla comune tradizione occidentale latina e cristiana, e soprattutto alla tradizione visigota, da cui leonesi, castigliani, aragonesi e catalani hanno ereditato vitali tradizioni culturali e politiche e ne hanno piena coscienza. Sulla base di cui essi fondano il proprio diritto e quella Reconquista. Perché per sentirsi membri di una comunità è necessario come afferma il Castro, il sentirsi partecipi di un comune passato, è qui che risiede l’importanza dell’eredità visigota per il futuro spagnolo. A questo punto è opportuno ricordare il contributo dello storico Claudio Sànchez Albornoz, il quale non crede né nell’esistenza di costanti biologico-psichiche, né in ristrutturazioni radicali della situazione esistenziale di un popolo. Crede invece in un mutamento lento e perenne degli elementi di un complesso, che in quanto tale ha una sua continuità. Egli inoltre valuta nell’analisi delle differenze nazionali sia il fattore geografico che storico, che hanno come conseguenza l’integrazione di distinti gruppi umani, portatori di diverse culture e forme di vita. Per lui quindi: << Non c’è dunque un archetipo etnico spagnolo, né remoto né medievale: gli strati di ciò che è spagnolo si sono andati alterando un poco ogni giorno. >> Il Castro mette in gran rilievo come l’eredità gota fosse stata assunta dalle popolazioni del nord (cantabri e vascones) che fin dal periodo imperiale erano rimaste ai margini del mondo romano, e che i visigoti avevano sottomesso solo nel 574-581. Tanto che nel 711 il Re goto Rodrigo era impegnato con loro. Questi popoli (duri montanari) difesero la propria libertà contro gli arabi come l’avevano difesa contro i goti. Quando un secolo dopo tornarono ai cristiani terre galiziane e leonesi del versante meridionale della cordigliera e con essa anche le più settentrionali città che avevano partecipato alla vita politica, religiosa e culturale del regno goto; il regno mutò in parte la sua fisionomia economico- sociale ed accolse un più vivo patrimonio di eredità gota. Ma ancor più che negli staterelli indipendenti, l’eredità gota si è conservata nelle comun ità mozarabiche della Spagna dominata dai musulmani. Mano a mano che nuclei più o meno consistenti di mozarabi si trasferivano nelle terre cristiane del nord e che la Reconquista procedeva e incorporava città, maturavano sempre di più il cosiddetto “mito goto”. Mito goto perché la realtà politica, sociale e culturale dei regni che operano la Reconquista è del tutto diversa da quella dell’antica monarchia toledana. Non si tratta di una restaurazione ma di una creazione ex-novo. Infatti, osservando la situazione della penisola prima dell’invasione araba, i secoli IV e V avevano visto una profonda crisi del sentimento collettivo della romanità. E’ stato allora che gli intellettuali del Regno di Toledo (soprattutto Sant’Isidoro) hanno elaborato un sentimento di comunità ispanica che vuole essere sintesi di: latinità, goticità e cristianesimo. Coscienza di ispanicità che maturerà ulteriormente nei secoli medievali. Questo ambiente culturale ancora tardo-romano viene travolto dall’invasione del 711. Tutti i centri maggiori caddero in mano musulmana e vi rimasero per secoli. Qualche filone di cultura cristiana rimase vivo almeno fino all’anno mille nelle città che Oggi il numero di jarchas non supera gli 80 esemplari: in particolare si hanno 76 testi di cui 50 arabo-romanzi e 26 ebraico-romanzi. Il loro rinvenimento rivoluzionò ogni idea riguardante le origini della letteratura romanza e confermò le intuizioni del filologo Menéndez Pidal che già nel 1919, ipotizzava la preesistenza di una lirica romanza ispanica, da cui fossero derivate le diverse manifestazioni poetiche insulari degli zéjeles, delle cantigas de amigo e dei villancicos. Infatti le jarchas, datate dal XI al XII sec., costituiscono la più antica testimonianza di poesia lirica in lingua romanza, precedendo la lirica della Romània. Prima che si rinvenissero questi testi, che la letteratura spagnola avesse avuto una produzione lirica precedente era ipotizzabile: si pensava che prima dell’epica avessero circolato solo in forma orale delle poesiole, canzoncine di carattere popolare o tradizionale. In alcuni autori successivi (Bercero, l’Arcipreste de Hita) comparvero versi che erano evidentemente appartenenti ad altri autori e tradizioni. La nascita della lirica si faceva risalire altrimenti al XV-XVI sec., dei cosiddetti cancioneros (antologie molto tardive). Pelayo infatti negava che potesse essere esistita prima dell’epica una lirica, perché non se ne erano rinvenuti i testi. Dice che la lirica si sviluppa molto dopo l’epica, in tempi eroici, mentre la lirica ha necessità di epoche più colte e riflessive e quindi più evolute. Negava quindi fortemente l’esistenza delle jarchas. Ovviamente la sua teoria era errata, come confermano gli studi di Ribera attorno alle jarchas. Vi erano a tal proposito 3 teorie circa l’origine della lirica: - Teoria romantica = l’origine della poesia andava trovata nelle canzoni in lingua volgare che il popolo era solito cantare (poesia preletteraria, orale) - Teoria mediolatina = l’origine della poesia era nella poesia medievale sia amorosa che liturgica - Teoria araba = confermata dalla scoperta delle jarchas Temi Jarchas Il tema dell’ultimo qufl (la jarcha), dipende dal tema generale della poesia. Qualora si tratti di un panegirico, la jarcha loderà la persona cantata, se è d’amore, la jarcha sintetizzerà in modo incisivo il sentimento amoroso. I versi della jarcha inoltre sono generalmente posti in bocca a un personaggio diverso dal poeta e devono essere in un dialetto vernacolo o in spagnolo colloquiale, per rappresentare realisticamente la voce del personaggio che li pronuncia. La jarcha è infatti un canto d’amore, il lamento di una fanciulla innamorata. La giovane soffre di solitudine amorosa, l’uomo amato è sempre assente, o perché lontano o perché ha abbandonato la sua amata. La fanciulla piange in prima persona e spesso si rivolge a un “tu” con ci a volte identifica delle confidenti d’amore (madre, sorelle) chiede loro consiglio o conforto; a volte intende l’innamorato. Nessuno degli interlocutori risponde mai, perciò le sue domande risuonano come grida di dolore inascoltato (vedi esempio pg. 13). Nel caso esemplificato, il nesso tra i due testi non è nella medesima situazione esistenziale, ma nella medesima condizione emotiva determinata da un abbandono. Le cause di questo però possono essere molto diverse: in uno è la morte a determinare l’assenza della persona cara, nell’altro è il semplice ritardo dell’amato a in incontro d’amore. Inoltre spesso la medesima jarcha compare in più di una muwaschaha, ciò non solo rende evidenti come l’autore della muwaschaha non sia lo stesso della jarcha, ma è probabilmente testimonianza della preesistenza della canzoncina arabo-andalusa e della popolarità di cui godette che invogliò i poeti colti a inserirla come fanalino di coda nei loro testi. Poi probabilmente grazie alla diffusione e al successo di questa anche in Oriente, si dovettero scrivere direttamente in arabo, ma d’autore. La presenza dell’arabo nelle jarchas è variabile, si va da testi quasi completamente in arabo con qualche inserzione romanza, a testi romanzi con pochi termini arabi. Presentano inoltre non pochi problemi filologici: infatti, scritte in caratteri arabi o ebraici, mancano delle vocali, quindi la loro traslitterazione in lingua romanza è soggetta all’interpretazione del critico. La jarcha più antica risulta datata 1042 e quindi un secolo anteriore al Poema del Cid, ed è in assoluto la prima poesia europea in lingua volgare, ciò testimonia come nei primi due secoli la cultura dei dominatori e quella dei dominati vissero separate. Problemi delle Jarchas e differenze con la Muwashaha Vi sono alcuni problemi sollevati dalle jarchas sotto il profilo letterario: prima di tutto, come abbiamo detto, stabilire se la muwashaha sia un’innovazione araba o derivi da forme latine o neolatine a noi ignote; in secondo luogo il rapporto fra jarcha e muwashaha, di cui essa fa parte. Il testo della jarcha è presentato sempre come discorso diretto, posto di solito in bocca ad una donna. Ma la conseguenza con il resto che la precede è spesso scarsa. (es. pg. 20 cid ai re cattolici). Nelle prime 4 strofe: - Cantano la situazione del poeta, lontano da una donna che lo respinge, ma la sua bellezza irraggiungibile lo tortura - Nella jarcha, la fanciulla piange l’assenza dell’amato, c’è uno stacco netto appena mediato dai primi versi della strofa. L’unico elemento comune è il tormento della separazione. La jarcha quindi si presenta come una “citazione” sia perché: - Attribuita a un personaggio diverso dal poeta ma che porta in prima persona - Tutto lascia credere che questa acquisisse la sua carica espressiva proprio nel giungere inattesa nello specifico contesto o perché incongruente, o perché già nota agli ascoltatori apparendo però leggermente modificata rispetto alla forma vulgata (inserita in un discorso lirico che la poneva in una luce nuova). Ma se la jarcha è una citazione dobbiamo pensare che preesistesse alla lirica di cui fa parte. Rimane solo da capire se sia stata: - Composta dal primo dei poeti che l’hanno usata - Se si tratti di liriche ricavate da una poesia tradizionale romanza fiorente in al- Andalus Secondo quest’ultima ipotesi, le jarchas ci conserverebbero seppur frammentariamente un diretto ricordo di questa poesia, la cui antichità non è facilmente accertabile. Nessuna delle due ipotesi è provabile con assoluta certezza, ma anche nel primo caso c’è da dire che è difficile che i poeti arabi ed ebrei abbiano composto queste brevi liriche senza ispirarsi a una contemporanea produzione romanza. Esistono poi alcuni indizi che ci inducono a preferire la seconda ipotesi. Questa poesia romanza è quindi assai enigmatica: le composizioni arabe ed ebree (muwashaha) che la tramandano sono per la maggior parte della seconda metà del XI sec. e del XII sec. La più antica è anteriore al 1042 (alcune sono del 200’ e della prima metà del 300’). Provengono da ogni parte di al-Andalus. Si tratta però di composizioni un po’ troppo scarne e prevedibili per pensare a prospettive storiche più ampie. Premerebbe inoltre stabilire il rapporto tra questi ultimi ed uno dei generei dell’antica lirica galego- portoghese: il canto della fanciulla innamorata, le Cantias de Amigo e la Melica Castigliana. Ritornando alle ipotesi, pur accettando quella di un’origine comune, bisogna osservare che la tradizione lirica mozarabica non ebbe prestigio sufficiente per opporsi al predominio (almeno fino al 300’) della tradizione galego-portoghese (anche in Castiglia). Re Alfonso X (castiglino) componeva in galego-portoghese le sue liriche. Conviene precisare infatti che un rapporto genetico non corrisponde a una intuizione lirica identica o affine: sono di impostazione e gusto assai diverse anche quando usano una tematica comune. Assai diverso è anche il tramite attraverso cui ci giungono: le jarchas già nella loro totalità rappresentavano una selezione operata dai poeti arabi ed ebrei nel patrimonio lirico romanzo noto e venivano da loro accolte dopo un filtraggio formale a volte evidente. Non abbiamo infatti alcuna certezza che in origine fossero così brevi, è verosimile che i poeti le abbiamo ritagliate a seconda della necessità. Come noi la conosciamo questa lirica è costruita su un impianto semplicissimo, ma sono questi caratteri elementari che la rendono simile a buona parte della poesia popolare di tutto il mondo (così aprendo un orizzonte culturale troppo vago). A volte questi testi sembrano anche privi di formalizzazione espressiva (che non manca neppure nelle tradizioni poetiche popolari). Evidentemente poeti arabi ed ebrei avevano maturato una tale raffinatezza da apprezzare con la necessaria distanza critica un testo popolare, senza alcuna forma di disprezzo erudito per queste umili liriche volgari, così che il dialetto volgare acquisisse una sua umile dignità. Ci si trova quindi davanti 2 testi, muwaschaha e jarcha, tra loro vincolati da strutture formali, ma allo stesso tempo diversi per tema, lingua e per tono. Spesso, la medesima jarcha compare in più di una muwaschaha, rendendo evidente che l’autore della jarcha era diverso da quello della muwaschaha e testimonia la preesistenza della canzoncina arabo-andalusa e della sua popolarità (nell’oralità e poi trascritta e conservata nelle muwaschaha) Probabilmente poi, con il successo di questi canti anche in Oriente, si dovettero scrivere jarchas direttamente in arabo (d’autore). La presenza della lingua araba e del mozarabe all’interno delle jarchas è in percentuale variabile, si va da testi quasi completamente in arabo con qualche inserzione romanza a testi romanzi infarciti di pochi termini arabi. Le jarchas, inoltre, presentano non pochi problemi filologici: scritte infatti in caratteri arabi o ebraici mancano delle vocali e, dunque, la loro translitterazione in lingua romanza è soggetta all’interpretazione del critico.  Cantigas de amor: strettamente legate alla lezione provenzale della lirica trobadorico-cortese, ma con alcuni (anche se pochi) tratti innovativi: 1. Assenza dell’incipit primaverile 2. Della descrizione dell’amata (assenza) 3. Della gioia, di quella “joi” che nella poesia occitanica compensa la pena amorosa. Il poeta canta la pena di un amore anelato ma irraggiungibile (coita d’amor), un amore destinato all’infelicità e a volte alla morte (reale o agognata). Vi è una concezione dell’amore come servizio feudale (amore cortese) in una logica erotico-amatoria. Costituiscono la maggior parte del corpus delle cantigas. (1700-2000 testi)  Cantigas de Escarnho e Maldecir: canti di scherno, che con un linguaggio volutamente popolaresco e scurrile uniscono alla satira politica quella personale. (400-420 testi)  Cantigas de amigo: considerate il luogo privilegiato dell’espressione lirica galego- portoghese, anch’esse (come le jarchas) sono canti di fanciulla innamorata. (500) Cantigas de Amor La dama, generalmente silente, viene denominata spesso al maschile perché gerarchicamente superiore (senhor), tiranna del cuore del poeta. Il poeta è colui che la corteggia in termini di venerazione, come un essere superiore, perché lei incarna la perfezione sia per qualità morali che fisiche (es. sorriso = rier). Questa è una donna altezzosa, spesso crudele, anche se perfetta riserva all’innamorato un atteggiamento ostile anche quando lo ricambia (tratto presente anche nelle muwaschaha, aspetto e caratterizzazione di femme fatal). Egli è così costretto ad allontanarsi e andare in esilio. Da tradizione trobadorica, l’amore cortese è sempre adulterino: impedisce all’amante di svelare il nome della dama, si nasconde dietro un segnal (pseudonimo). Invece in terra iberica, questo è impossibile e subisce una forte moralizzazione: l’a more adulterino scompare, il triangolo è con il padre. Il principale sentimento del poeta è la coita (ovvero la tristezza del poeta causata dallo sdegno o dal rifiuto, “sanha”) che sfocia in uno stato di depressione causata dal non vedersi ricambiato. Il predominio lessicale di questa coita dà alle composizioni una forte cupezza nell’atmosfera, che è lugubre e lamentosa. Cupezza alla quale contribuisce anche l’assenza dell’ambientazione primaverile (presente invece nella lirica occitana). Prescindono da una contestualizzazione temporale e spaziale. Il poeta deve serbare il segreto della sua identità (concetto conosciuto come mesura). Il nucleo tematico è esile, tutto sta nello stato estatico dell’amante di fronte alla bellezza della donna. Cantigas de Escarnho e Maldecir Prima erano considerati 2 generi diversi nella lirica galega: amore/amigo e maldecir/escarnho. La differenza tra escarnho e maldecir è:  Escarhno = l’oggetto della satira è celato o omesso del tutto o presentato in termini metaforici  Maldecir = l’oggetto è diretto, il soggetto/oggetto è esplicito La satira presentata può essere: - letteraria, - politica e morale - personale. La maggior parte di queste cantigas hanno come oggetto la donna, come un contraltare della cantiga de amor. La donna è infedele, brutta e dotata di un eccessivo appetito sessuale si tratta infatti di canzoni piuttosto misogine. Talvolta attraverso la critica alla donna si colpisce il marito, si denigra la donna per denigrare il marito (è infedele). Altre volte quelli che sono oggetto di satira sono anche personaggi altolocati, di corte. Spesso è l’autore che si rivolge in termini poco rispettosi nei confronti di un altro poeta, a volte perché gli è inferiore socialmente. (trovatore > menestrelli > giullari), come se fosse una rivalsa di carattere sociale, gerarchica. Altri casi vedono l’oggetto di satira nei signori celati da pseudonimi la cui identità non viene esibita. Si lamenta che sono avari, non ricompensano i trovatori in modo adeguato. Cantigas de Amigo Considerato il vero luogo privilegiato dell’espressione lirica galego-portoghese; come le jarchas sono canti di fanciulla innamorata. La cantiga de amigo è stata chiamata in causa sulla discussione relativa alle origini della poesia romanza che si sviluppa attorno a 4 tesi fondamentali: Origine: 1. Liturgica 2. Mediolatina 3. Popolare 4. Araba Oggi si ritiene possibile una derivazione da più nuclei lirici originali. Il corpus delle cantigas de amigo è composto da circa 500 testi. Nonostante si allontani senza contrapporsi dalla poesia cortese è composto da liriche colte di stile popolareggiante, liriche cioè che imitano dei tipici tratti folklorici (come l’espressione sintetica, il frequente ricorso alle figure di ripetizione, il tono evocativo, ecc.) Possiede inoltre caratteri molto specifici: sono costruire su una struttura parallelistica o incrociata che riduce il lessico all’essenziale e che grazie a una variazione contenuta delle strofe ripetitive punta a un’altissima sonorità. Si tratta dunque di una poesia in cui le invarianti dominano sulla varietà, tanto linguistica come strutturale e che tuttavia affida la sostanzialità del messaggio proprio a quelle variazioni infinitesimali. Tema Anche qui la fanciulla lamenta la lontananza dell’amico, la dif ficoltà di incontrarlo, il suo abbandono, ma a volte anche la gioia dell’incontro e di un amore ricambiato, assente nelle cantigas de amor. Protagonisti Tra i protagonisti principali vi sono:  la fanciulla con la madre, le sorelle, l’amico-amato  a volte vi è anche la presenza di animali (es. pappagalli, cervi) dai risvolti metaforici Non è rata una struttura dialogica, inoltre a differenza delle jarchas e del villancico. Codici Le cantigas ci sono state trasmesse da codici antichi:  Cancionero de Ajuda  Cancionero da Biblioteca Nacional o Colucci Brancuti  Cancionero da Vaticana  Pergamena Vindel, che conserva le 7 cantigas di Martin Codax Altre Caratteristiche Per amigo si intende il nome dall’interlocutore. Si tratta di una produzione autoctona, non presente nella lirica occitanica.Tuttavia non fu inventata propriamente dai poeti galego- portoghesi, perché sono una trasposizione dello stesso tema presente nelle jarchas. Anche se sono scritte in galego-portoghese, gli autori forse non lo sono poiché il galego portoghese era la lingua della lirica fino al XIV secolo. Nel Cancionero Nacional de Lisboa (colocci-brancuti) è presente il cosiddetto “Arte de trovar” (arte della lirica galego portoghese) dove viene spiegato cosa sono le cantigas de amigo, ovvero sono quelle che “se mueven a razon de ella” = che fanno parlare lei. Sono complemento e contrappunto delle cantigas de amor: c’è la voce di lei, non di lui. Lei non è la dama delle cantigas de amor, somiglia di più alla fanciulla delle jarchas: non ci sono definizioni di età e le caratteristiche fisiche sono rese sempre con pudore. È una fanciulla innamorata che si dispiace e lamenta perché lui non c’è. A differenze delle jarchas, ci sono anche cantigas che celebrano e esaltano un amore gioioso (assente anche nelle cantigas de amor). Non è rata una struttura dialogica, inoltre a differenza delle jarchas e del villancico, è presente il paesaggio (spesso marino) e a volte la descrizione della donna, anche se in termini molto essenziali (es. corpo, capelli). I più famosi trovatori sono Martin Codax e Pero Meogo. Differenze Jarchas e Cantigas de Amigo C’è un ambiente in cui si riversa molta simbologia amorosa (contesto metaforico). Si tratta di una novità, era assente nelle jarchas. Queste erano una lirica urbana, le cantigas de amigo presentano invece una contestualizzazione bucolica: il canto si avvia sempre in loci Temi Un tema che domina è quello dell’amore, spesso dalla prospettiva femminile dei Fraudalier. Le situazioni cantate sono, come per le jarchas, di tipo elementare e ammettono come testimoni del caso d’amore cantato dalla fanciulla: la madre, le sorelle, lo stesso amante. Tra i temi molto vari e di difficile classificazione accanto a quelli dell’attesa e dell’incontro d’amore vi sono anche:  quelli della Malmaritata  della fanciulla che non vuole farsi suora  delle feste d’amore: le Mayas  della festa di San Juan  della Morenica  della Serrana Il villancico di base si può presentare con una veste formale molto diversa e tuttavia nel momento in cui venne trascritto in quelle grandi antologie della lirica castigliana 4-500 esca che sono i Cancioneros, subì una sorta di regolarizzazione dovuta alla mano colpa del copista, per cui grosso modo possiamo trovare queste 3 tendenze: 1. il Villancico di 2 versi = normalmente si presenta nella forma del pareado (xx) 2. il Villancico di 3 versi = compare spesso con schema rimico xyy 3. la quartina di versi brevi = che appare con lo schema della redondilla (xyyx) Il Villancico Strofico Il villancico strofico aggiunge all’estribillo iniziale alcune strofe che lo glossano (amplificano) dette pies, di 6 o 7 versi composti da 2 mudanzas (abba) e da 1 o 2 versi di allacciamento (enlace) con l’ultimo verso delle mudanzas (a) con uno o 2 che riprendono la rima del secondo verso dell’estribillo o lo ripetono interamente a mo’ di ritornello. La moda di raccogliere in cancioneros questi testi iniziò nel XV sec. e perdurò nei secoli XVI e XVII. Questo tipo di villancico si può osservare nella maya, di cui si conserva una glosa di Tirso de Molina nella sua commedia La peña de Francia, che amplifica la tradizionale canzone di maggio annunciata dall’estribillo, con l’aggiunta dell’abbondanza dei doni che il mese porta con sé: (pag.50) x Entra mayo y sale abril: estribillo x ¡cuán garridico me le vi venir! a Entra mayo coronado mudanza b de rosas y de claveles, b dando alfombra y doseles, a en que duerma Amor, al prado; a de trébol viene adornado, verso de enlace x de retama y toronjil. vuelta Tr. it «Entra maggio ed esce aprile / così leggiadro l’ho visto arrivare! // Entra maggio incoronato / di rose e garofani, / dando tappeti e baldacchini, / dove Amore dorma, sul prato; di trifoglio viene ornato/ di ginestra e di melissa». Si ha un estribillo iniziale + strofe di commento. Raramente queste strofe sono di origine popolare tradizionale; nella maggior parte dei casi il villancico strofico è di AUTORE: i poeti colti prendono la strofetta breve (di base) e la ampliano con altre strofe. Strofa iniziale popolare + strofe aggiunte da un poeta di corte. Struttura simile ma contraria alla struttura della muwassaha (strofa poeta colto + jarcha). Il patrimonio lirico tradizionale conservato nei Cancioneros sarà ripreso successivamente tanto nel teatro come nella lirica colta del Siglo de Oro, che innesteranno sul nucleo poetico originario strofe di commento (glosas), per poi tornare in voga nei primi Trenta anni del ’900, quando una tendenza poetica definita neotradicional, con il recupero delle antiche strofette anonime ed il gusto e l’imitazione di uno stile popolare segnerà una fase della scrittura poetica dei poeti delle generazioni del ’98 e del ’27. Principali Canzonieri Spagnoli  Cancionero de Baena  Cancionero de Herberay  Cancionero de Estuniga  Cancionero de Hernando del Castillo  Cancionero musical de Palacio La Tradizione Epica e il Mester de Juglarìa Tradizione Latina Nella Spagna musulmana, il peso scarso o inesistente della tradizione latina aveva reso possibile l’assunzione in sede letteraria della lirica popolare romanza (condannata a un’esistenza orale). Anche nel nord la cultura latina aveva subito una grande crisi, che non risparmiò neppure quei pochi ambienti clericali che la conservavano; non esisteva neppure un cospicuo pubblico. Ciò spiega perché la letteratura castigliana non inizi come in Francia o in Italia, con opere di provenienza e di impostazione per lo più clericale. I Giullari Nella penisola iberica, perciò, si affidava ogni forma di produzione letteraria all’attività dei giullari: umili professionisti che con un patrimonio tradizionale variegato divertivano un pubblico eterogeneo sulle piazze o nei castelli con un repertorio che comprendeva movimenti acrobatici, esibizione di animali ammaestrati, giuochi di prestigio, esecuzioni musicali, canto si poesie liriche e narrazione di storie religiose (vite di santi, miracoli, ecc.). Questo contesto fece sì che i giullari acquisissero nell’opinione generale un prestigio, tanto che esisteva una gerarchia fra giullari, determinata dalla loro specializzazione e considerazione in cui era tenuta. Il re di Castiglia Alfonso X prescrive addirittura che durante i banchetti dei cavalieri i giullari recitassero cantari di gesta e datti d’arme (fine didascalico). Origine Questa tradizione epica di tipo giullaresco la conosciamo a partire dal XII sec. (resta da precisare se sia più antica, che origine abbia). Contenuti I contenuti hanno per lo più una base storica, almeno parziale (Reconqusita, Fernán Gongáles primo conte di Castiglia, Cid). Il dato storico passa attraverso uno specifico filtro e si arricchisce di fioriture fantastiche vicine ai motivi narrativi folcloristici ma in ogni caso testimonia una tenace adesione alla vita e alla realtà dei secoli immediatamente precedenti, suggerendo anche l’ipotesi di una continuità narrativa. Origine Gota dell’Epopea Castigliana Alcuni storici della letteratura sostengono un’origine gota dell’epopea castigliana. Sicuramente nell’epica spagnola esistono motivi narrativi di origine germanica, ma ciò non implica un’origine gotica di detta epopea. Quando parliamo di “cantares”, il discorso ha senso se ci riferiamo ad una precisa tradizione formale, non solo alla metrica e allo stile, anche al taglio dei contenuti e alla prospettiva del reale, non ai materiali narrativi grezzi. Rapporti come quello fra “Jordanes” ed il “Fernàn Gonzàles” ecc. non ci garantiscono alcuna tradizione formale, né la continuità di una tradizione unitaria viene garantita dalla certezza che i goti possedessero una loro epopea, germanica per lingua e più estranea all’ambiente latino e cattolico di quanto non lo sia l’epica castigliana. Ci conferma in questa distinzione il constatare che in Spagna il passaggio dai cantares ai romances (sec XIV) non avviene per graduale evoluzione ma comporta una profonda rivoluzione nella tecnica narrativa e nella coscienza e taglio del reale. Quindi non si può parlare di una tradizione unica e permanente: muore una tradizione formale e se ne instaura un’altra, del tutto distinta, sia pur continuando in parte gli stessi contenuti. Rimane però oscuro il momento in cui diversi fattori hanno permesso la coagulazione di una tradizione letteraria nuova, anche se quanto sappiamo sulla natura della poesia epica fa pensare che ciò sia accaduto verso il Mille, quando i nuclei statali del nord venivano acquisendo una coscienza di sé, soprattutto la Castiglia, che è senza dubbio la culla dell’epica spagnola. A Castiglia si sviluppa una più viva sensibilità alla problematica storica ed etica, fra un popolo che rapidamente acquista l’indipendenza e dimostrava una tale vitalità da porsi alla testa del movimento di Riconquista. Non c’è dubbio infatti che al prestigio della poesia epica sia dovuto all’affermarsi rapido del tipo linguistico castigliano a spese degli altri concorrenti. Quindi, se la base della lingua comune è stato il castigliano, almeno sul piano letterario già sotto Alfonso VI, pare che il merito vada ai giullari che crearono e diffusero una poesia epica nei secoli più antichi. storiche medievali gli studiosi avvertivano una certa musicalità. In alcune parti di queste cronache storiche stavano riportando alla lettera dei versi di cantares che erano andati perduti. Questo avveniva perché per questi protostorici/compilatori cronache storiche perché i poemi epici erano considerati delle fonti a tutti gli effetti. In Castiglia tra queste fonti venivano annoverato anche dei poemi che per il resto sono andati perduti. Ogni Crónaca, ovviamente, recepisce uno stadio del cantar, per questo a volte ci si trova con versioni contradittorie. Grazie a un paziente lavoro di indagine e di ricostruzione, a partire dalle cronache storiche gli studiosi hanno potuto ricostruire parzialmente poemi storici (cantares de gestas) quali:  Il Cantar de la hija del don Julián y de la pérdida de España.  Il Conde Fernán Gonzáles  La Condesa traidora y el conde Sancho García  Primera gesta de los infantes de Lara o Salas In ambito epico, alcune leggende ebbero più forza delle altre: 1) Il Ciclo legato al Cid Il Cid (come vedremo) racconta solo una parte della storia di Rodrigo, abbiamo anche altri poemi che presentano la sua figura: - Cantar de Sancho II (ricostruito a partire dalla sua “prosificazione” nella Cronica najarense, fine secolo XII). È presente la figura del Cid perché aveva vissuto sotto il regno di Sancho. Narra come Sancho re di Castiglia si ribella contro i fratelli e muore nell’assedio di Zavora. Come una sorta di premessa al Cantar de mio Cid. - Cantar de mio Cid - Las mocedades de Rodrigo (la gioventù del Cid), tardo, anonimo e incompiuto (1360 ca.). Se ne conservano 1164 versi; l’unico codice che trasmette l’opera è un manoscritto del 1400 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Narra le origini e la giovinezza dell’eroe. 2) Il Ciclo dedicato ai Conti di Castiglia Ci è pervenuto solo il Poema de Fernán Gonzales, ritenuto primo conte di Castiglia. È un poema del mester de clerecia del XV secolo (tardo) 3) Il Ciclo Francese (di Roncesvalles) - Roncesvalles: frammento di 100 versi di forse 5.500 versi iniziali. Rinvenuto da Pidal. Si narra la morte di Orlando e la sconfitta dei mori - Cantar del Bernardo del Carpio. A lui una certa narrazione dell’epica nazionale castigliana attribuisce la vittoria sui francesi (nel medioevo asturiano). Rappresenta la riscossa spagnola sui francesi a Roncesvalles. Nella letteratura spagnola, infatti, si affaccia una figura che si contrappone alla leggenda trasmessa dalla Chanson de Roland (regio-guardia del paladino aveva fermato i mori sui Pirenei): Bernardo che ha fermato i mori. È una vera e propria riscrittura (in chiave nazionale) della battaglia di Roncisvalles. Il fatto che in Castiglia fiorisce la poesia epica e in Galizia la poesia lirica è legato ai contesti: la Galizia è più lontana dalle frontiere che imponevano la guerra con al-Andalus, Castiglia, cuore della Spagna, è invece sempre al centro di guerre di frontiera, è costretta a lottare per mantenere la propria esistenza contro arabi e regioni limitrofe. La Castiglia imporrà così la sua politica, la sua lingua e la sua letteratura su tutta la penisola. Le caratteristiche del genere epico castigliano sono legate al complesso contesto- socioculturale in cui si colloca la sua nascita e nel quale si determina la convivenza tra popolazioni diverse per credo e cultura: goto-cristiani, arabi e ebrei. Per Goti si intendono i popoli barbarici che invasero la penisola iberica nel V secolo; i visigoti giunsero in terra spagnola già romanizzati. La campagna spagnola fu da loro compiuta come alleati di Roma, allo scopo di imporre pace e ordine tra le popolazioni indigene. Conquistarono, come liberatori, tutta la penisola, ad eccezione di Galizia (regno svevo) e stabilirono la capitale a Toledo. Con il re Recaredo si convertirono al cristianesimo. Per quanto riguarda l’origine dell’epica, abbiamo 3 differenti tesi:  Tesi francese (Gaston de Paris)  Tesi gota (Menéndez Pidal)  Tesi araba (Julian Ribera) Tesi francese Meno convincente; usa argomenti meno/extra testuali. Siccome la Chanson de Roland precede il Cantar de mio Cid, allora è logico che abbia avuto un’influenza sull’epica spagnola MA sono molte di più le differenze! L’epica francese è molto regolare dal punto di vista formale e metrico (isosillabismo francese vs anisosillabismo castigliano), quella spagnola è molto irregolare perché parte dell’oralità (juglaria). Il poema francese ha un taglio molto fantastico, mentre quella spagnola è molto più realistica: il Cid è un uomo vero e proprio e vive in un contesto realistico. Pidal dirà che c’è stato un rapporto tra le due epiche ma l’influsso francese sull’epica spagnola è posteriore (XII secolo) e riguarda il ciclo relativo alla battaglia di Roncesvalle. Tesi araba Posizione extratestuale. Riteneva che, come dal mondo musulmano si erano irradiati in Europa l’arte, l’astronomia, la matematica. Allora anche un’epopea andalusa di origini arabe possa aver influenzato la nascita dell’epica in Spagna. Se agli arabi si deve la nascita della lirica, perché non anche l’epica? Argomenti non bastevoli per essere confermati. Qualche influsso arabo andaluso c’è nel Cid, ma gli deriva da una realtà storica che ha visto il popolo arabo vivere con quello cristiano (es. onomastica -Cid ha origini araba-, toponomastica, motivi del corano -Cid da 5° parte del bottino al re-). Tesi Gota Per goti intendiamo quei popoli barbari che invasero la Penisola Iberica nel V sec. I visigoti nel 415 giunsero in terra spagnola già romanizzati, dopo aver soggiornato per lunghi anni ai confini dell’Impero Romano, come alleati di Roma. Questi conquistarono tutta la Penisola ad eccezione dell’odierna Galizia dove si creò il regno svevo, stabilirono la capitale a Toledo. Pidal, fu il principale sostenitore dell’origine gota dell’epica spagnola. Egli riteneva che i visigoti avessero conservato l’epopea di dei loro avi e che a questa si sarebbe sovrapposta durante la Reconquista del territorio spagnolo in seguito all’invasione araba. Dopo la conquista musulmana del 711, resa possibile per la guerra tra fazioni rivali che indebolì la monarchia visigota, la Reconquista cristiana si basò sul concetto di “herecia gota”, cioè sulla riconquista di un territorio che era stato della monarchia visigota. Secondo Pidal i canti eroici germanici dovettero servire come spinta ideale per muovere le popolazioni cristiane in un’impresa dalla grande portata. E’ difficile stabilire quale fu il grado di conservazione di questi canti e quanto di essi passò nell’epica med ievale, ma secondo la tesi di Pidal nacque sulla base dei canti goti, per poi evolvere autonomamente. I popoli germani avevano cantari molto antichi (Menunghi). Pidal avvalora sua posizione riscontrando coincidenze non occasionali tra l’epica germanica e quella spagnola (motivi, argomenti che si ripetono, ad es. il motivo della consultazione del re con i suoi vassalli prima di prendere una decisione; motivo del duello tra due eroi per dirimere un oltraggio). Rientrano nelle usanze gote anche episodi interni al Cid come quello del Cid che viene mandato in esilio dal suo re con i suoi vassalli; il Cid che si umilierà davanti al re mordendo l’erba a mo’ di sottomissione (3° cantare, a toledo). Pidal avanza la sua teoria leggendo i testi e pertanto è la più convincente. Crede che i canti eroici germanici dovettero servire come spinta ideale per muovere le popolazioni cristiane nella Reconquista. Prima i Cantares o i Romances? Per quanto riguarda le origini dell’epica, ci si domanda anche se sia nato prima il poema epico e poi i romances o viceversa. (Più probabile che dall’epica siano nati i romances). Il romance (“ballata”) è una composizione poetica astrofica caratteristica della tradizione letteraria spagnola, composta usando la combinazione metrica di ottosillabi assonanzati nei versi pari. Si interpretavano recitando, cantando o intercalando canto e recitazione; sono quindi componimento poetici (genere poetico di carattere epico-lirico), non romanzi. Il romance è un poema caratteristico della tradizione orale, e diventa popolare nel secolo XV, dove si raccolgono per la prima volta per iscritto in antologie chiamate Romanceros. Hanno origine nella notte dei tempi come i villancicos. Si presuppone un lungo periodo di latenza. Sono molto più brevi rispetto ai poemi epici ma la struttura metrica è molto simile. La domanda è: potrebbe essere che l’epica sia nata ricucendo insieme tanti romances sullo stesso tema, oppure il romance deriva da una frammentazione del genere epico? Siamo in possesso, ad esempio di Romances del Cid come il Don Sancho (II) che costituisce un antefatto fondamentale per la storia del Cid. Ai tempi di Ferdinando I, Castiglia che domina su tutto (va dalla Galizia, al Leon alla Castiglia vera e propria). Quando muore nel 1035 ha 3 figli maschi e 2 femmine, allora divide il regno tra i 3 figli maschi, mentre alle figlie assegna 3 città. A Sancho dà la Castiglia; a Alfonso VI dà Leon; a Garcia dà la Galizia. A Urraca dà la signoria della città di Struttura Il Cantar de mio Cid o Poema, è il poema nazionale di Castiglia, l’unico dell’epica primitiva che ci sia pervenuto sostanzialmente completo (mancano solo 4 folii, 200 versi). Presenta 74 folii di pergamena, per un totale di 3733 versi. Le lacune riguardano: la parte iniziale(acefalo); tra i folii 47 e 49; tra 69 e 70. Il Poema fu composto probabilmente nella provincia di Burgos e narra le imprese di Rodrigo Ruy Díaz de Vivar, noto come Cid o Campeador (1043-1099). È un eroe legato alla Riconquista. È un Infanzón (membro della bassa nobiltà). La nobiltà del tempo si articolava in 3 categorie: 1. Ricoshombres: magnati, aristocrazia 2. Caballeros: nobiltà mediana 3. Infanzones: bassa nobiltà. Erano vincolati da legami di vassallaggio al re e alla nobiltà, ma essedo loro stessi nobili godevano di alcuni privilegi (non pagavano le tasse). Per i servigi resi ricevevano beni e proprietà. Datazione Per quanto riguarda la datazione, la storia è piuttosto complessa. Fu pubblicato in un’edizione moderna per la prima volta nel XVIII secolo (1779) da T.A. Sanchez (che ne scoprì il manoscritto) come “Poema del Cid” (anche se in spagnolo prevale il titolo Cantar, più esatto per la fruizione del testo, in quando in epoca medievale si recepiva cantato in una monodia). Egli aveva rinvenuto il poema in un codice (libro manoscritto anteriore alla stampa) incompleto, mancante di 3/4 folii di cui uno era probabilmente quello iniziale. Il codice rinvenuto da lui è firmato da un certo Per Abbat (Autore? Copista?). Il codice a noi giunto appare molto deteriorato soprattutto a causa di macchie scure di umidità o, più probabilmente, a partire dal XVI secolo per poterlo leggerlo venne bagnato da reagenti. Tuttavia, seppure si tratti di un codice deteriorato, grazie all’edizione paleografica di Pidal, l’opera ci arriva sostanzialmente completa (11 quaderni). Il codice appartiene probabilmente alla prima metà del secolo XIV (1320-1330 ca.) così come dimostrano analisi oggettive che fanno capo alla codicologia e alla paleografia). Il codice è sicuramente una COPIA che in modo fortuito è giunta fino a noi. Delle altre copie perdute ne abbiamo testimonianza nelle Cronache: grazie a questo possiamo congetturare cosa fosse contenuto nel primo folio che non ci è pervenuto (prosificazione dei cantares) Fu forse il Monastero di San Pedro de Carden(gn)a (Burgos): forse fu questo a incaricare la stesura del cantar a partire da un esemplare preesistente. Si dice che qui ci siano i resti del Cid e della moglie. Avrà un ruolo anche nella vicenda narrativa del Cid. All’interno dello stesso poema del Cid troviamo delle note editoriali, delle indicazioni sul presunto autore e sull’anno di composizione.  Primo explicit: vv. 371-3733 Explicit (“finisce”) = rubrica, è la parte finale del compimento. “Quién escribió este libro dél Dios Paraíso. Per Abbat le escribió en el mes de mayo. En era de mill CC XLV” Da questi pochi versi si lascia intendere che l’autore sia un certo PER ABBAT e che il poema fu composto nel 1245. MA non è così facile. a. “Escribir” in epoca medievale non voleva dire “comporre” (che si diceva fazer) ma COPIARE. Per Abbat è quindi il COPISTA! Di lui non sappiamo nulla, forse è un giullare chierico. b. Per la data non ci si dice “nell’anno 1245” MA “nell’ERA del 1245”. L’era ispanica o era dei Cesari parte dall’anno 38 a.C in cui Augusto pacificò la provincia romana. Nel 38 a.C. inizia il computo degli anni che si utilizzò nella penisola iberica a partire dal V e fino al XIV secolo. Bisogna contare quindi 1245 anni dopo il 38 -> anno di copiatura 1207. Il copista del XIV si basa quindi sull’esemplare del 1207 Ma anche questa ipotesi è contesta da alcuni studiosi perché notano tra CC XLV delle abrasioni che vengono suffragate dal fatto che i numeri romani non si scrivono mai con spazio. Ipotizzano che ci sia un’altra C e quindi CCCXLV (si notava anche una raschiatura nello spazio in questione), a questo punto la copia dovrebbe essere del 1307 e la copia di Sanchez è di poco successiva. Ipotesi più quotata oggi.  Secondo explicit o colophon (di mano diversa, calligrafia diversa) “E el romanz es leído, datnos del vino; si nos tenedes dineros, echad allá unos pen(gn)os, que bien nos los darán sobr’ellos” Ci dà ulteriori informazioni sulla sua origine. È di un altro giullare che utilizza questo codice nelle sue recitazioni. Vi si segnalano le consuetudini dei giullari di chiedere una ricompensa (vino o panni da scambiare per il vino) Abbiamo parlato finora di data di copia, ma quando fu composto?  Ipotesi meno accreditata e inattendibile: si pensa che il poema del Cid fosse stato redatto mentre il Cid era in vita. Siccome ci presenta un eroe maturo (40 anni) senza infanzia e giovinezza, la data dovrebbe essere il 1083.  Pidal si basa sullo studio dell’arcaicità linguistica del Cantar: la sua forma metrica è infatti molto irregolare (anche se la lingua potrebbe essere stata arcaizzata dallo scrittore). Tende a spostare la scrittura del manoscritto quanto più possibile vicino ai fatti narrati e quindi a indicare come data possibile il 1140 (morte del Cid 1099). Tale ipotesi è supportata anche dal fatto che il poema latino sulla conquista di Amería (1147-57) fa riferimento al Cid. Inoltre, l’allusione al matrimonio tra Bianca di Navarra, pronipote del Cid, e Sancho, figlio di Alfonso VII, confermerebbe l’ipotesi di Pidal.  Smith: ritenendo i tratti arcaici della lingua del Cid un fenomeno di convenzione stilistica e non un segno di antichità, propone di accettare la data presente nell’explicit, ossia il 1207. Successivamente Pidal elaborò la tesi del doppio autore basandosi su tratti linguistici 1. Il primo operante intorno al 1100 responsabile dei primi 500 versi; proveniente dalla Castiglia (Burgos) 2. Il secondo che completò l’opera, forse per celebrare le nozze di Bianca. Proveniva forse da Aragona viste alcune inflessioni aragonesi. v.22 dios….buen senor v. 2022 las hierbas del campo a dientes las tomó Dal punto di vista ideologico, Pidal crede che la parte iniziale sia di un autore (dove si difendono i diritti della piccola nobiltà di fronte al potere monarchico e dei ricos hombres) = personalità più democratica. Sposa la posizione castigliana (Sancho) rispetto a quella leonese (Alfonso). Il mutamento dell’ideologia è chiaro nel fatto che negli altri 2 cantari il Cid si dimostra più arrendevole e sottomesso nei confronti del re. Fino al v. 2022 quando il Cid si ritrova davanti al re lo raggiunge e dimostra una sottomissione così iconomicamente asservita. Alcuni studiosi come Colin Smith, attribuiscono la paternità dell’opera a un autore colto, con conoscenze giuridiche del diritto vigente della fine del XII secolo ed inizi del XIII secolo. Per la conoscenza della microtoponimia della provincia di Burgos, Medinaceli si riterrebbe di quelle parti. Altri studiosi come Pidal e Catalan basandosi su studi linguistici (forme arcaiche) difendono la necessità di una versione anteriore, non conservata, scritta nella metà del XII secolo. Storia editoriale in sintesi Testo originario (composto, di cui Pidal dà ipotesi di composizione nel 1140) -> Copie (manoscritte) di datazione incerta –> Copia stampata di Sanchez. Rispetto alle costanti epiche, il Cid presenta una serie di peculiarità:  Marcata tendenza oggettiva e realistica con una forte aderenza ai fatti storici, si parla anche di “biografia eroica” o di una “cronaca rimata”. Il Cid è un personaggio più umano e quindi realistico. Manca il meraviglioso e il soprannaturale che invece troviamo in altri poemi.  È assente quel tono elevato che qualifica lo stile dell’epopea a favore di una narrazione più prosastica con notazioni persino umoristiche.  Rodrigo ha delle qualità più umane che sovrannaturali: amore maritale, attaccamento alle figlie, vita domestica tenera e partecipata. Mangia, dorme e muore nel suo letto, non sul campo di battaglia. Vi è infatti un forte intesse sulla L’esaltazione del Cid come umile nobile contro gli aristocratici arroganti e codardi non va però intesa come uno spirito democratico contro l’alta aristocrazia. La società castigliana non conosceva infatti una rigida divisione di classi (anche in seguito agli eventi della Riconquista). Gli uomini castigliani celebrano nel poema il rischio della loro esistenza e il disprezzo per coloro che al valore e al successo non sanno opporre che l’orgoglio e il pregiudizio del sangue. Lo scherno per gli infanti di Carrión è il marchio dell’incoscienza delle nuove dimensioni della realtà castigliana in cui l’uomo può farsi da sé. Il Cid diviene pertanto una figura archetipa della coscienza e della poesia castigliane, fissando quel democraticismo spagnolo che sarà celebrato anche nel teatro barocco. Democraticismo che non esclude, anzi presuppone, la figura del sovrano, custode della funzione di giustiziere (-> Re Cattolici) La trama è solo apparentemente modesta e privata. Il Cid, infatti, non viene meno alla celebrazione di valori collettivi propria della poesia epica, solo che questi valori hanno un timbro caratteristico, diverso da quello di altri poemi. Per quanto riguarda il fattore religioso, la guerra contro i mori è determinata dalle dure necessità dell’esilio e della sopravvivenza e non da esaltazione religiosa o spirito di crociata: è mezzo, non fine. Non c’è cenno di ostilità preconcetta tra musulmani e cristiani (si evidenzia anche la sofferenza dei mori di Valencia). La lunga convivenza cristiano- islamica aveva portato a un’atmosfera si avventurosa tolleranza in cui era lecita la spoliazione ma non si escludeva il rispetto e la dignità umana. Su questo sfondo sociale e religioso, la vicenda del Cid esplicita un destino individuale di sofferenza e di esaltazione ambientato, sui cammini della Spagna medievale. Il poeta ha una presa discreta ma sicura sul reale appellandosi anche alla tecnica formulistica. Sono anche numerose le allusioni al “locus amoenus” nella descrizione dello sfondo. Vi è una perfetta adeguatezza al momento narrativo. Lingua La lingua del Cid è senza dubbio arcaica, come si può notare da:  I patronimici in -oz e in -ez  Dittongazione o = uó che si alterna a ué senza particolari ragioni di carattere metrico-retorico (come nella lassa 4 ove puorta si alterna a puerta) Metrica Costituita da lasse assonanzate (serie o tiradas in spagnolo), è anch’essa tratto arcaico, infatti l’epica francese dopo un primo stadio in assonanza si dirige decisamente verso la rima consonante e lasse di versi isosillabici con tendenza stabile al 5+7 e al 7+7. Le lasse del Poema variano moltissimo: la più breve conta 3 versi, la più lunga di 185. L’estensione della tirada dipende dal tema trattato. Per quello che riguarda la misura dei versi si va dalle 10 alle 20 sillabe con emistichi dalle combinazioni molto differenti: 7+7, 7+8, 6+7, 7+9, 8+8, ecc. In genere è il secondo emistichio, quello che contiene l’assonanza, a essere il più lungo. Si è notata una certa varietà formale nei tre cantari che compongono il poema: la tendenza a diversificare le rime, presente nel I cantare, va riducendosi progressivamente nel II e nel III. Stile A livello stilistico vi è una grande libertà nell’uso dei tempi verbali, secondo regole piuttosto oscure, forse dettate esclusivamente da esigenze rimiche, con il predominio del presente storico, per attualizzare la narrazione. Il linguaggio tende alla concretezza, a rendere visibile ciò che è astratto:  v. 1684 se lo vío con los ojos  v. 2289 diziendo de la boca Queste espressioni, che oggi apparterrebbero al dominio della tautologia, potevano corrispondere a un gesto esemplificativo della mano. Altri casi in cui un’immagine concreta ne rende una astratta sono ad esempio:  L’uso di moros y moras, mugeres y varones, burgeses y burgesas in luogo di “tutti” o “nessuno”  Oppure di “en yermo” o “en poblado” per dire “ovunque” o “in nessun luogo” Numerose sono le caratteristiche dello stile del Cantar de mío Cid, tra esse frequente è:  L’uso dell’amplificatio verborum nel raddoppiamento sinonimico = a ondra e a benediçion (v. 3400), si tratta di espressioni che si rafforzano e completano a vicenda: amplificano un’emozione del ribadirla intensificandola e forse hanno anch’esse funzione riempitiva come meccanismo di completamento di fine verso. Il poema ammette, inoltre, la giustapposizione del comico e del tragico, con una forse inconscia sicurezza nell’epicità intrinseca del racconto e comunque in aderenza ad una impostazione comune alla narrativa medievale. Difficilmente il Cid può essere considerato come il primo poema epico castigliano in assoluto: la tecnica narrativa e formulare è a uno stadio troppo avanzato. Piuttosto è possibile ipotizzare l’esistenza di una tradizione orale di verso epico, in seno alla quale poté nascere un’opera già ben strutturata nei procedimenti tecnici e stilistici Riassunto dettagliato primo cantare INCIPIT L’Esilio Il Cid raggiunge Burgos dove nessuno vuole ospitarlo e dove gli mancano beni e vettovaglie, che gli sono stati privati dal re. LASSA VI-XI Episodio di Rachel e Vidas (i due ebrei) Il Cid è accampato fuori da Burgos senza vettovaglie e senza beni; non ha i mezzi per portare a termine imprese di conquista. Emergono in queste lasse altri personaggi importanti che fanno parte della Meznada del Cid (si tratta spesso di nomi storici). Martin Antolines (burgales complido) aiuterà il Cid a trovare un escamotage attraverso il quale il Cid potrà trovare i mezzi per iniziare il suo viaggio di conquista e recupero dell’onore. Martin è un abitante di Burgos che compare ogni volta che il Cid ha bisogno di aiuto (lo sosterrà anche nello scontro con gli infantes di Carrión). È un nobile che contravviene alle volontà del re e aiuta il Cid. L’escamotage è quello degli usurai ebrei Rachel e Vidas (uomini), due personaggi di invenzione che però riproducono l’onomastica ebraica. Antolines farà preparare due casse rivestite di pregiati materiali e le farà riempire di sabbia che spaccerà per i favolosi tributi rubati alla corona, troppo rischiosi da portare con sé. Li dà in pegno ai due usurai in cambio di una somma di denaro promettendo una ricompensa al momento del riscatto. Ovviamente il Cid (qui assimilato a Ulisse per la furbizia) non tornerà mai più indietro. Grazie all’astuzia di uno dei suoi fedeli. LASSE SUCCESSIVE Dopo aver promesso 1000 messe alla Vergine, il Cid raggiunge l’abbazia di Carden(gn)a dove si trova la sua famiglia. Lì le raccomanda all’abate don Sancho e si muove verso le terre dei mori, sempre accompagnato dalla sua meznada. Sogna l’arcangelo Gabriele che gli predice eventi favorevoli. L’eroe va alla ventura sia per procacciare per sé e per i suoi i mezzi necessari per sopravvivere sia per rimediare ai danni. È un buon padre. Combatte contro mori e cristiani (se non può farne a meno). A tal proposito abbiamo alcune discrepanze con la storia vera: le figlie si chiamavo Cristina e Maria; nel primo esilio non gli furono alienate le proprietà, ma nel secondo; la famiglia del Cid non fu accolta nel monastero, ma rinchiuse dal re in un castello e al Cid fu tolta la patria potestà. LASSE 58-68 Il conte di Barcellona Ramon Berenguer II (fine primo cantare) Ramon fu realmente conte di Barcellona ma con nome inverso (errore veniale). Quando il Cid è costretto a lasciare la Castiglia combatte contro i mori e anche contro i cristiani. Sarà il conte di Barcellona che infastidito dalle scorribande della meznada del Cid lo sfiderà in duello. Il conte non avrà la meglio e verrà fatto prigioniero. Attorno a questo episodio si svolge una vicenda che allude alla capacità dell’autore di trattare il tema con ironia: il Cid gli sottrae la prima spada (la Colada) = togliere la spada è una forma di umiliazione nei confronti del nemico. Il Cid lo tratterà però con dignità (lo invita a mangiare, ma lui si rifiuta. Alla fine il Cid gli promette di liberarlo con altri cavalieri se il conte mangia. Lui mangia e acquista la libertà -> segno di ironia) NB: La parola lassa è in spagnolo TIRADA. La tirada è in metrica una sequenza di versi di arte mayor (>11 sillabe) monorimi ( in questa prima lassa vediamo un’assonanza in a-o). Il passaggio da una lassa all’altra è segnato da un cambio di rima. Inoltre la lassa è anche un’unità tematica: il recitatore cambia rima quando cambia tema. Le lasse sono di misura molto diversa, nel poema la più breve è di 3 vv la più lunga è di 186, non hanno una misura prestabilita, seguono solo gli sviluppi tematici. I versi tendono alle 16 sillabe dei romance (8 sillabe + 8 sillabe) -> tipica dell’epica. 16 sillabe divise in due emistichi. Nel Cid prevale però un’enorme irregolarità, non è una forma fissa, proprio perché è un testo che nasce nell’oralità (irregolarità formale tipicamente giullaresca vs Chanson de Roland molto regolare) francese o italiana. I giullari hanno un repertorio molto vasto (oltre la poesia epica molto più “elevata” dal punto di vista dei valori) che circola ampiamente per la sua minore qualificazione sociale. L’esempio più significativo di questo internazionalismo giullaresco ci è dato da una esigua serie di composizioni narrative piuttosto brevi che recano evidente il segno della professione dei loro anonimi autori e tutte sono di origine francese. Questi poemetti introducono nella letteratura spagnola il distico a rima baciata, metro del romanzo cortese; mentre però il distico francese è di ottonari in genere regolari, nei nostri testi la misura sillabica resta oscillante, con prevalenza a volte del novenario e a volte dell’ottonario, e la rima è presso assonante (differenze legate anche alle diverse consuetudini accentuative). L’anisosillabismo è un carattere intrinseco della metrica spagnola di questo periodo. Il Libre dels tres Reys d’Orient (fonti galloromanze) è un’operetta di 242 versi che riunisce il racconto dell’adorazione dei Magi, della fuga in Egitto, del miracolo della guarigione del piccolo lebbroso e quello della fine sul Golgota dei due ladroni: il filo conduttore è l’identificazione del buon ladrone con il bambino lebbroso. Le fonti sono gli apocrifi Vangeli dell’infanzia. Il poeta cerca una misura tra la tentazione biografica e gli schemi della letteratura miracolistica unendo anche l’analisi della psicologia dei personaggi. Verso la tradizione agiografica ci porta invece la Vida de Santa María Egipciaca (1215 ca) che rivela chiaramente dei modelli francesi. La biografia della peccatrice redenta ha goduto di molta fortuna perché è un esempio della capacità di riscatto celebrando la grazia e perché offre temi differenti (vita dissoluta da cortigiana -> santità della sua morte). Della Disputa del alma y del cuerpo (fine XIII secolo) rimane solamente il frammento iniziale (37 alessandrini con assonanza interna). L’origine è mediolatina ma attraverso la mediazione della Despueteison del cors et de l’ame anglonormanna. Si tratta di una sorta di memento mori reso dalla prospettiva dell’anima del defunto che si rammarica per le debolezze del corpo che hanno compromesso il suo destino eterno. Abbiamo inoltre l’Elena y María (1280) che presenta tracce linguistiche leonesi. Il tema è nuovamente mediolatino. Si tratta di un contrasto tra due donne che proclamano ognuna la superiorità del proprio amato, chierico della prima e cavaliere della seconda. Si ritraggono così due tipi umani e sociali alternando elogio e ironia. Il frutto più interessante e caratteristico di questa produzione è però la cosiddetta Razón de Amor (1205 ca), un poemetto di 264 versi che pretende di narrare un’esperienza personale del poeta stesso che ha avuto la fortuna di incontrare in un giardino la donna che aveva amato, riamato, senza conoscerla. L’incontro avviene sotto un melo sul quale si trovano due coppe, una d’acqua e una di vino. La disputa è poco convincente ma sollecitava il gusto dialettico e paradossale del pubblico medievale. Più interessante è la vera e propria “razon de amor”. Il giullare, che in apertura si vanta della sua esperienza erotica e della sua preparazione professionale universitaria e cortese, riprende dei motivi della poesia transiperenaica, dall’amore de Ionh al topos del locus amoenus, dalla stilizzata figura femminile al suo canto amoroso. Il materiale del breve racconto è così riconducibile a fonti cortesi, ma il timbro di questa poesia nasce proprio dall’estraneità del poeta al livello cortese cui ambisce. Il poemetto non è allegorico, tutte le cose rimangono allegorie o simboli di sé stesse rinviando alla piena esistenza che hanno nel loro naturale contesto cortese, di cui il poeta si vanta di essere partecipe. Alla luce di quanto detto appare chiaro che i meriti della mediazione culturale dei giullari non sono pochi: ad essi si deve la diffusione nella penisola di un vasto patrimonio narrativo di circolazione internazionale, e con esso di valori sociali e morali elaborati per lo più in area francese e provenzale, fondamentali per lo sviluppo successivo della civiltà letteraria spagnola. Il Mester de Clerecía Si tratta di una formula che si usa per indicare una serie di opere a cavallo tra i secoli XIII e XIV che presentano caratteristiche comuni. Definizione di clérigo: dal latino, clerus (insieme di sacerdoti). Assume in ambito spagnolo un significato più ampio: uomo la cui formazione culturale si svolge presso centri di studio religiosi (scuole cattedrali, monastiche e episcopali (quest’ultime aperte ai laici). Nella società medievale spagnola, il clerico coincideva con l’uomo di lettere, l’intellettuale. Ricordiamo che siamo nel medioevo, in piena invasione barbarica, da cui deriva anche una crisi culturale e educativa, con la chiusura dei centri scolastici di età romana. Quando si ha la rinascita culturale del XIII secolo, gli studi avvenengono presso centri religiosi; nascono le scuole cattedrali, monastiche e episcopali -> gestite da monaci e religiosi. Visto che per chierico si intende generalmente un “letrado”, questi potevano essere anche laici (clérigos seglar) come Pedro Lopez de Ayala, Sem Tob. Alla rinascita culturale del XIII secolo corrisponde anche una fase importante della Reconquista: si assiste a un progressivo rafforzamento delle posizioni cristiane, che culminerà nella battaglia di Las Navas (1212) e alla progressiva decadenza dell’egemonia araba. Con la morte di Alfonso IX e l’ascesa del figlio Fernando III (1214-1252) si ebbe l’unione definitiva di Castiglia-Leon e la definitiva egemonia castigliana della penisola iberica (solo nel 1492 con i re cattolici si annette anche Granada). Con Alfonso X ci si sforza di unificare il diritto, si fondano le prime università in Castiglia (la prima è quella di Palencia -1212/14-, si moltiplicano i centri di studio e di formazione e le Escuelas generales, per rispondere fattivamente alle esigenze di una maggiore acculturazione dei sacerdoti. Per “professione di chiericato” si deve intendere dunque le attività legate allo studio. Per Estudios generales si intendono i centri educativi più importanti. Il titolo di studium generale veniva attribuito dal Papa, dall’imperatore o dal re, che lo prendeva sotto il suo patrocinio, provvedendo anche al suo sostentamento. La prima scuola poetica cosciente in lingua castigliana, ossia il primo gruppo di scrittori con un programma letterario comune, è del XIII secolo. Si tratta delle opere accumunate sotto la denominazione di Mester de Clerecía, che si presentavano tutte nella veste formale del tetrástrofo monorimico o cuaderna vía (quartina monorimata di alessandrini, versi di 14 sillabe con forte cesura dopo la settima). Alla serie aperta dell’epica si oppone perciò la quartina, all’assonanza la consonanza, all’anisosillabismo l’isosillabismo. Gli autori del mester de clerecía condividono la consapevolezza del proprio prestigio letterario, della propria eccellenza rispetto alle manifestazioni letterarie coeve in volgare. Mester de clerecía VS Mester de juglaria Mester: dal latino ministerium. Si tratta del compito/ufficio che ognuno ha. In Spagna la letteratura si va dividendo in due mestieri (generi): clerecia (XIII) e juglaria (XII). Le principali differenze sono:  Nel caso di clerecia gli interpreti sono uomini COLTI, nell’altro caso sono GIULLARI (analfabeti o non) che non erano uomini di cultura;  Mentre il chierico è autore delle sue opere, il giullare interpreta opere altrui di cui è semplicemente il veicolo. Mester de juglaria siglo XII/Mester de clerecia siglo XIII  Quello di juglaria presenta opere di carattere anonimo, mentre quello di clerecia presenta generalmente (ma non sempre) opere di un autore noto.  Dal punto di vista formale, nel mester de juglaria c’è una sostanziale irregolarità in tutti gli aspetti, sempre a causa della trasmissione orale (rimica, prevalenza rimica assonanzata, irregolarità versale, anisosillabismo -> ametria; villancicos di arte menor, epica arte mayor). Nel mester de clerecia si ha un isosillabismo, una struttura formale impeccabile (cuaderna via + rima consonante)  Le opere della juglaria sono volte all’intrattenimento (+epica informativo), quelle della clerecia si occupano di diffondere tutto il patrimonio letterario presente nella latinità in volgare, hanno pertanto uno scopo divulgativo/pedagogico.  Mentre la juglaria è caratterizzata da una trasmissione orale (opere recitate a memoria), nella clerecia le e opere venivano scritte per essere lette individualmente o collettivamente.  Dal punto di vista tematico, la juglaria presenta canti epici, gesta eroiche, poemi amorosi; la clerecia temi più variegati (filone agiografico e religioso, storia nazionale, storia bizantina… = tutto il repertorio della narrativa della classicità Nel quadro sociale e nel linguaggio letterario, il chierico si contrappone anche al caballero, l’uno uomo di studi, l’altro uomo d’armi. La cosiddetta “Cuaderna Via” proviene dalla distinzione tra:  Arti del trivium: tres vias, insegnamento elementare (grammatica, logica e retorica)  Arti del quadrivium: cuatro vias, insegnamento superiore: aritmetica, geometria, musica, astronomia Insieme formavano le 7 arti liberali che dovevano portare allo studio della filosofia e della teologia. Nelle scuole dei chierici, in quanto letterati e studiosi, si aveva accesso alle arti del quadrivium. L’uso di questa struttura era quindi indice della loro cultura. La definizione di cuaderna vía e di mester de clerecía compaiono nelle prime 2 coplas del Libro de Alexandre, forse prima opera composta in tale metro che forse fede da modello alle altre. Vi sono varie ipotesi circa il suo autore: Juan de Astorga lo firma MA viene deputato come un copista; alcuni lo attribuiscono a Berceo ma la maggior parte crede sia Maria corredentrice: L'idea di una cooperazione di Maria alla nostra salvezza ha il suo fondamento dogmatico nella maternità divina della Madonna. Maria ha concepito, partorito e ha sofferto insieme al figlio fino alla morte in Croce. Partecipa pertanto all’opera di redenzione umana. Alla base della dottrina della corredenzione di Maria stanno i punti dottrinali seguenti:  nel disegno di Dio, Maria è associata a Cristo per il trionfo sul peccato, così come Eva fu associata ad Adamo nel peccato originale;  Maria è stata associata alla Passione e morte di Gesù, partecipandovi con il suo dolore di madre.  Intendere la figura di Maria «Corredentrice» significa metterla allo stesso livello di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, facendo di lei quasi una quarta persona della Trinità, una dea o una quasi divinità Maria mediatrice: Il protagonista del miracolo, come vedremo, è un semplice peccatore, che riceve l’aiuto del cielo per grazie e intercessione della Vergine. Ogni milagro presenta la storia di una salvazione e NON di una redenzione. Il peccatore è salvato dall’intervento di Maria, cui si attribuiscono tutte le qualità di madre buona e compassionevole ma anche di donna risoluta e combattiva. È assente la descrizione del male: si assiste semplicemente a un rapido cenno alla condizione di peccatore in cui alcuni dei protagonisti versano (anche nel titolo stesso, es “il ladro devoto”) ma la problematica del peccato e le sue implicazioni sono del tutto assenti o non approfondite. Non c’è nessun pentimento o senso di colpa in questi racconti ispirati chiaramente a un sincero ottimismo e gioia. Ciò che interessa è la devozione che l’uomo dimostra alla Vergine, una devozione semplice che da sola è motivo del miracolo che si narra. Tutti sono aiutati se vivono con fede. È una religione generosa dove il senso di pietà prevale su qualsiasi altra considerazione. Struttura dei miracoli: c’è un appello al pubblico generalmente (nel 15 non c’è); c’è una presentazione del protagonista; la narrazione vera e propria con la crisi del protagonista (peccato commesso oppure il protagonista è meno incline a coltivare la devozione nei confronti di Maria, come nel 15). Vi è una situazione di crisi in cui la Vergine interviene e il peccatore viene sempre salvato (aiuto per intercessione della Vergine). Il Bene vince sempre sul Male. Si tratta di una religione enormemente ottimistica. Il peccatore non ha necessità di dimostrare la sua fede attraverso le opere, ma dimostra la sua fede esclusivamente attraverso il sentimento o il pentimento; è una religione accessibile a tutti. Tutti possono immedesimarsi in queste storie perché viene rappresentata l’umanità tutta. Quindi generalmente abbiamo: 1. Apostrofe al destinatario 2. Circostanze di luogo 3. Presentazione del protagonista 4. Narrazione 5. Epilogo con chiusa morale I punti 1-3 non sempre sono presenti. I milagros hanno un’ambientazione varia: Italia, Spagna, Francia, altri non hanno il riferimento a un luogo. Questo perché si sta parlando dell’uomo in generale in quanto peccatore e pellegrino del mondo (-Allegoria nel Prologo). Scarso è anche il ricorso all’onomastica per la stessa ragione. Importante vedere come tradizione e biografismo si saldino. All’inizio dei Milagros Berceo (che si presenta in prima persona) durante un pellegrinaggio capita in un prato di superlativa bellezza che invita al riposo chi è affaticato (locus amoenus). Nel discorso realistico-descrittivo si innesta un diverso discorso letterario-formulistico. Il poeta lascia intendere che il suo racconto è solo una “corteccia” che copre un bel più valido “midollo”: il pellegrinaggio di maestro Gonzalo ci si rivela come il cammino della vita umana, il prato è la Vergine, le 4 fonti i Vangeli e così via (-Dante). Non c’è particolare che non abbia un valore allegorico. È chiaro quindi che l’elemento ingenuo, quello letterario e quello religioso si fondono in una forma solo apparentemente semplice. Prendiamo come esempio il Milagro VI che narra del ladrone devoto salvato al momento del supplizio dall’intervento della Vergine. Esso si svolge su due registri ben distinti: da una parte il rapporto degli uomini fra loro, dall’altra quello degli uomini con il soprannaturale. Eppure qui l’astratta “magestat” di Maria si converte nella concretezza dell’intervento, nel gesto di porre le mani a sostegno dell’impiccato. Evidente, quindi, la capacità di fondere naturale e soprannaturale in un continuum. La fede di Berceo lascia ai margini il male, che esiste ma è del tutto subordinato a un disegno di salvezza: è raro che i cattivi di Berceo non riconoscano il segno del soprannaturale e non pieghino la loro ostinazione (es. giustizieri del ladrone). In ogni caso, l’intervento della Vergine non appare come una rottura dell’ordine naturale ma come un suo incremento. Il mondo terreno e il mondo soprannaturale vivono in un rapporto di totale intimità. Altri poemi duecenteschi del Mester de Clerecía È molto difficile stabilire la cronologia relativa alle opere del Mester de Clerecía e pertanto non sappiamo se il Libro de Apolonio è anteriore o posteriore a Berceo, sicuramente è della prima metà del XIII secolo. Si tratta della versione, in un castigliano con tratti aragonesi, di un testo latino o francese della diffusa leggenda di Apollonio di Tiro. La leggenda è un perfetto esempio dei racconti bizantini dominati dall’avventura e dal caso. Apollonio, re di Tiro, viene perseguitato dal re di Antiochia perché ne ha svelato l’amore incestuoso per la figlia; ridotto alla miseria da un naufragio, l’eroe è accolto dal re Architrastes e, grazie alle sue doti di musico, conquista l’amore di sua figlia Luciana e la sposa. Sulla nave che li riporta a Tiro Lucia partorisce Tarsiana e apparentemente muore. Gettata in mare in una cassa giunge a Efeso, dove è restituita alla vita e si chiude in convento. Apollonio lascia la figlia a Tarso e si rifugia in Egitto. Tarsiana, donna, viene rapita da alcuni pirati e diviene giullaressa a Mitilene. Qui giunge il padre che viene consolato per la perdita della figlia proprio da Tarsiana che inizialmente non lo riconosce più tardi Apollonio ritroverà anche Luciana e tornerà a Tiro. L’opera, anonima, è caratterizzata da uno spiccato senso cortese, valorizzando al di sopra di ogni peripezia la nobiltà dei protagonisti, l’onore. Rispetto all’epica, qui l’uomo è travolto dal caso e può contare solo sulle sue capacità morali, in quanto privato anche della sua famiglia e dei compagni. Situazione che prefigura quella del cavaliere errante. Anteriore alla metà del XIII secolo è il Libro de Alexandre, di dubbia attribuzione. La fonte è nuovamente la tradizione narrativa mediolatina di origine orientale, anche se le sue fonti dirette sono l’Alexandreis e il Roman d’Alexandre, opere francesi del XII secolo cui si aggiungono episodi ricavati da altri libri e da fonti arabe. Il racconto segue la biografia storica dell’eroe macedone, traducendola su un registro leggendario. Il poeta spagnolo, dotato di un’ampia preparazione clericale, svolge il racconto senza preoccuparsi de ritmo narrativo: ci sono molte amplificazioni e moralizzazioni volte a qualificare la vicenda dell’eroe macedone come paradigma di vita cavalleresca interamente dedita al raggiungimento della gloria. La debolezza principale del poema è la carenza di sintesi tra il tono didascalico e l’evasione nel favoloso delle descrizioni, capace di creare un mondo privo della problematicità del nostro. Posteriore a Berceo e all’Alexandre è l’incompleto Poema de Fernán González, composto dopo il 1250 forse da un monaco di Burgos; è un importante esempio di collaborazione clericale alla poesia epica. Il poeta anonimo rielabora in quartine di alessandrini un più antico testo in lasse assonanzate sulle vicende del primo conte di Castiglia che finisce con l’ottenere la libertà della sua terra i cui confini amplia lottando con i mori. Il racconto epico è adeguato al nuovo gusto non solo mediante l’impostazione metrica ma anche con l’inserzione di sviluppo che corrispondono ad interessi tipicamente clericali e eruditi. Tuttavia, il poema conserva i tratti del ribelle orgoglio castigliano e ricrea a volte il tono austero e fervido della Reconquista. Le origini della prosa In Spagna, le prime attestazioni di prosa in lingua volgare sono documenti di archivio e statuti, importanti dal punto di vista linguistico ma non letterario. La prosa letteraria nasce più tardi, nell’ambito di un’intensa attività traduttoria che nella penisola ha il suo precedente nella scuola dei traduttori toledani. Toledo è la prima città di Al-Andalus a cadere in mani cristiane nel 1085. Essa disponeva di buone biblioteche e di una collettività giudaica assai colta; a partire dal secolo XII cominciò ad attirare numerosi studiosi occidentali che attingono alla dottrina teologica, filosofica e scientifica araba e ebrea sotto la spinta dell’arcivescovo Raimondo di Agen. È al loro lavoro che l’Europa deve il recupero della filosofia aristotelica. La tecnica con cui erano compiute queste traduzioni è piuttosto singolare: l’ebreo convertito Giovanni di Siviglia traduceva oralmente dall’arabo in volgare romanzo e Domenico Gundisalvi il volgare in latino. La scorrevolezza della frase passava in secondo piano dietro la necessità della precisione. Si va formando così una coscienza linguistica nuova. Al circolo toledano potrebbe ricollegarsi anche il più antico testo iberico in prosa che non sia una pura traduzione: Fazienda de Ultra mar (XIII secolo) che un Almerich (arcidiacono di Antiochia) dedica a un Remont (arcivescovo di Toledo). Si tratta di una curiosa descrizione della Terrasanta che mette a frutto gli itineraria ad uso dei pellegrini e soprattutto i passi biblici che possono illustrare la storia delle varie località menzionate. Quest’opera apre, dunque, la tradizione delle versioni in volgare della Bibbia servendosi sia del testo ebraico che di quello in latino. prologo alle Tablas alfonsíes, dove il regno di Alfonso pare degno di diventare punto di partenza di un’era nuova e la città di Toledo, in cui il re è nato, è assunta orgogliosamente come punto di riferimento di tutte le misurazioni astronomiche. Oltre all’uso del castigliano, vi sono altri aspetti che allontanano la produzione alfonsina da quella toledana. Al centro di quest’ultima c’erano gli aspetti teorici, filosofici e scientifici; l’interesse di Alfonso è invece pratico e disinteressato ad Aristotele. Mentre i traduttori toledani erano quasi tutti venuti dall’estero e lavoravano per un pubblico quasi esclusivamente non spagnolo, la produzione alfonsina ha un’influenza determinante sulla cultura castigliana ma poco eco fuori al mondo iber ico. L’opera di Alfonso infatti rispecchia perfettamente la specifica situazione culturale spagnola nella sua eccezionale compresenza degli elementi cristiano, arabo e ebreo e ne trae una sintesi unica. Tra le più importanti opere alfonsine ricordiamo Le Siete Partidas (Libro del fuero o Libro de las leyes) che sono un complesso di circa 2500 leggi raccolte in “titoli” a loro volta riuniti nelle sette parti da cui l’opera prende il nome. La prima partida espone la dottrina cristiana e il diritto canonico, la seconda i sovrani, la terza le procedure giudiziarie, la quarta il matrimonio, la famiglia e i rapporti sociali, la quinta il commercio, la sesta i testamenti e le eredità, la settima il diritto penale. Le Partidas sono il risultato di un compresso lavoro iniziato già con Ferdinando III e ripreso poi in modo più organico da Alfonso. L’elaborazione definitiva è indicata al 1265 anche se ogni partida continuerà ad essere rivisitata anche dopo la morte di Alfonso. Solo in parte l’opera è propriamente legislativa; gli autori hanno attinto ai Fueros di Castiglia e di Leon, al diritto romano, ai glossatori bolognesi, al diritto canonico…rinnovando così assai profondamente il diritto castigliano. Accanto alla parte legislativa, ci sono anche singole disposizioni e riflessioni morali o filosofiche, anche con la citazione di massime (guardano a Sant’Agostino, a San Gregorio, alla Disciplina clericalis). Le partitas, quindi, più che un codice, sono importanti dal punto di vista letterario perché accolgono, senza la cristallizzazione della formula giuridica, ogni aspetto della vita contemporanea e della realtà castigliana. La tendenza accentratrice attorno al sovrano, evidente nelle Partidas, era però inconciliabile con le consuetudini particolaristiche della Castiglia e la resistenza delle altre forze politiche fu tale che Alfonso si limitò a dare a alune città il Fuero Real (1255), senza porre in atto l’unificazione del diritto in tutto il regno. Le Partidad furono promulgate nel 1348 da Alfonso XI e da allora sono alla base della legislazione spagnola e ispanoamericana. La prima opera storica di Alfonso X è la Estoria de Espana iniziata nel 1270. Essa si avvale della magra tradizione storiografica spagnola in lingua latina ma ne rompe gli schemi e lo stile. La sua base è il De Rebus Hispaniae arricchita da altre fonti (Svetonio, Lucano, Isidoro, arabi, cantari di gesta). Tutto il materiale reperito veniva inserito in un’unica e accuratissima organizzazione cronologica e fuso in una narrazione omogenea cercando di integrare tutte le informazioni a loro disposizione. L’identificazione del testo di Alfonso è stata possibile attraverso uno studio di tutte le crónicas che ne derivano fatto da Pidal. Studi posteriori hanno evidenziato come la prima parte sia realmente alfonsina mentre la seconda è stata messa insieme sotto Alfonso XI con materiali in parte alfonsini, in parte rielaborati sotto Sancho IV. Tuttavia, il valore della Estoria come fonte storica è assai modesto perché quasi tutte le sue fonti ci sono note direttamente, ma l’opera rimane importante sua per l’ampiezza dell’impianto che per la novità della prospettiva: poiché sono state utilizzate anche fonti letterarie, essa non si occupa solo delle imprese dei re come era consuetudine, ma anche del mondo nobiliare e del modo di vivere più ampio. Inoltre queste fonti letterarie (cantari epici) conferiscono alla Estoria un valore particolare perché sono andati quasi tutti perduti e solo la Estoria e qualche altra cronaca ne conservano un’eco. Il confronto con le fonti permette, inoltre, di studiare la tecnica espressiva alfonsina che risulta guidata da due principi:  Selezione della fonte e poi sua riduzione al dato informativo  Precisazione accurata del contenuto e sua amplificazione secondo i dettami retorici Grazie a questo processo materiali di provenienza disparata vengono organizzati in una sintassi semplice ma rigorosa e controllata. Venne inoltre messo in cantiere un progetto molto più ambizioso, una storia universale o General Estoria, le cui prime 4 parti erano compiute nel 1280 ma che rimanse tronca della sesta parte. La tradizione di quest’opera pare sia stata indipendente per ciascuna parte. Forse per la gran mole essa non è stata data alle stampe anticamente. Fu presa come base la Bibbia, ma si prendono come fonti: la Storia giudaica di Flavio Giuseppe, i classici latini, gli storici arabi, quelli mediolatini, il Libro de Alexandre, una versione in prosa del Roman de Thèbes. Per quanto l’opera rimane legata alla mentalità storiografica del medioevo essa rappresenta la più vasta impresa del suo genere prima dei secoli moderni e supera ogni tendenza particolaristica. In sintesi, Alfonso X ha mirato a raccogliere in un quadro unico il passato, a conoscere il mondo nei suoi aspetti scientifici, a descrivere la vita umana e a tentare, attraverso la legislazione, un’organizzazione proiettata nel futuro. Primi esempi di Romanzo Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento abbiamo due opere che, iniziando la narrativa in prosa, avviano la grande tradizione del romanzo cavalleresco. La più antica pare la Gran Conquista de Ultramar (fine XIII secolo), una vasta compilazione di materiale di provenienza francese, anche se non si riconosce un’originale. Il nucleo principale è costituito dalla storia delle crociate di Guglielmo di Tiro, derivata da una traduzione francese della fine del Duecento e farcita con prosificazioni delle chansons de geste del ciclo delle crociate. Come prologo alla biografia (in parte leggendaria), di Goffredo di Buglione è narrata la storia del Cavaliere del Cigno (epica francese). Lo stile in generale è monotono, prolisso e impacciato, l’opera è un esempio di narrativa amplissima e scarsamente organica con un trasferimento in chiave romanzesca dei procedimenti alfonsini: si cerca di mettere insieme tutto il materiale che fosse attinente al tema. Inoltre, per la prima volta nella letteratura castigliana si avverte un interesse per la registrazione di una situazione psicologica nel suo divenire. Prendiamo come esempio la scena in cui la moglie del Cavaliere del Cigno è presa dal desiderio di conoscere in nome e l’origine dell’uomo che ha sposato 7 anni fa. Vi è il contrasto tra 2 registri: quello inquieto della contessa e quello affettuoso del cavaliere. Nella descrizione si avverte un’intuizione felice del movimento psicologico della donna; dopo una lenta e timida premessa, la tragedia è veloce e irrimediabile: il cavaliere non risponde e presto arriverà il cigno che lo porterà via per sempre. Chiara l’influenza francese anche se in Spagna ci si avvicini a impostazioni più moderne e articolate del problema narrativo. Una funzione analoga hanno avuto i testi sulla guerra di Troia. Nel 1270 un anonimo traduce Benoit, intercalando alla prosa delle parafrasi in versi dei brani più significativi (Historia troyana polimétrica); più tardi Alfonso XI propone un’altra traduzione dello stesso testo, ma interamene in prosa (1350). Nello stesso secolo un certo Leomarte volge in castigliano nelle Sumas de historia troyana la versione latina di Guido delle Colonne. Il libro del Cavallero Zifar (anonimo, forse un chierico toledano; inizio 300) è il primo romanzo originale. La struttura è singolare: una prima parte racconta le peripezie di Zifar, della moglie e dei figli, dall’esilio alla separazione alla riunione dopo che Zifar è diventato re di Menton. Il figlio cadetto, Roboan, vuole darsi all’avventura e così la seconda parte è caratterizzata dagli ammestramenti del padre. Nella terza parte Roboan parte e dopo varie avventure cavalleresche diventa imperatore di Tigrida. Nella prima parte si vede l’influenza dei romanzi bizantini (Apolonio) e le avventure sono più casuali che cavalleresche; la terza ha un impianto didattico con un filo dialogico; la terza è tipicamente cavalleresca con il tema del meraviglioso (bretone) e motivi folcloristici. L’opera potrebbe sembrare incoerente, ma è importante il fatto che al suo interno si operi una sintesi di materiale narrativo orientale e occidentale, anedottico e romanzesco con una selezione, tipicamente iberica, di stili e toni. Juan Manuel La crisi interna della Castiglia sotto Alfonso X si inasprisce nel Trecento. La nobiltà di sangue reale profitta di ogni occasione per farsi sentire; ciò è evidente con Juan Manuel, uno dei maggiori scrittori del medioevo castigliano. Figlio dell’infante Manuel, fratelli di Alfonso X, Juan Manuel nasce nel 1282 e cresce a capo di un vasto dominio ereditando la carica di governatore di Murcia dove giovanissimo combatte contro i mori di Granada. Juan Manuel è co-reggente durante la minore età di Alfonso XI ma poi, quando il re rompe il fidanzamento con sua figlia, egli scende in guerra contro di lui e si allea con il re di Granada; alla fine sarà però al fianco del sovrano castigliano nella battaglia del Salado, per poi morire nel 1348. Ebbe mogli illustri e infine una sua figlia divenne anche regina di Castiglia al fianco di Enrico II. Juan Manuel trasferisce nella sua opera l’eco degli orgogli e delle turbolenze, della crisi del rapporto tra sovrani e nobili (es. nel Libro de las armas afferma che la sua famiglia è stata ingiustamente defraudata del regno di Murcia e rivendica il diritto a prerogative reali). Affiorano così nella coscienza letteraria orgogli e ambizioni che tra Tre e Quattrocento conducono la Castiglia sull’orlo della rovina. Il senso della vita non appare legato a una precisa tavola di diritti e doveri, la situazione contemporanea porta l’individuo a una coscienza più duttile e problematica di realtà complesse e precarie. La formazione letteraria di Juan Manuel è fortemente influenzata dall’esempio dello zio Alfonso X: egli ne apprezza tanto l’Estoria de Espana che ne redige un’abbreviazione, la Crónica abreviada. Per lui il sapere è “la migliore cosa del mondo” e acquisisce una funzione più pratica; lo inserisce in un piano didascalico e concreto, vicino all’uomo, continuando l’ideale di cultura laica dello zio. Tuttavia, egli muta l’attenzione principalmente normativa del re (“castellano drecho”) in un ideale propriamente stilistico e ermetico. Da questo consegue che le sue opere, come il Libro del cavallero e del escudero, raggiungono una forma definitiva e Si tratta principalmente del Libro de Buen Amor di Juan Ruiz Arcipreste de Hita e del Libro romado de Palacio de Pedro López de Ayala (1332-1407) Il Libro de Buen Amor L’opera è datata, ma i due manoscritti principali discordano, uno 1330 e l’altro 1343. Del libro ci rimangono 3 manoscritti più un’esigua traduzione indiretta. Quello del 1330 conterebbe la prima redazione. Il terzo manoscritto (1343) fu copiato nel secondo decennio del 1400 a Salamanca ed è più completo. Tutti e due i testi presentano errori comuni che sembrano provare la loro dipendenza da un unico antenato già corrotto. In ogni caso, è evidente che il Libro non è stato composto organicamente: è probabile che la materia che oggi lo costituisce sia stata composta a più riprese e organizzata in un secondo momento. Il libro de Buen Amor è un’opera complessa e composita. L’opera inizia con una preghiera nella quale l’arciprete chiede al Signore e alla Vergine di essere liberato da una terribile ma non esplicita pena che lo affligge (pag.105-106) per proseguire poi con due prologhi, uno in prosa e uno in versi, due cantigas dedicate alla Vergine e una favola in cuaderna vía, nella quale si narra di una disputa tra greci e romani. La narrazione vera e propria ha come centro le avventure amorose di un arciprete e ha inizio alla copla 71. Lui stesso constata che tutti gli uomini sono trascinati dall’amore e si riconosce peccatore come gli altri Fin dall’inizio il testo presenta una serie di caratteristiche che lo accompagneranno f ino alla fine: una certa miscellanza di forme (prosa e versi di arte mayor e menor), varietà di temi, finzione autobiografica, narrazioni di tipo diverso. Proprio per questa grande eterogeneità (tenuta insieme solo dal tema erotico e dalle convenzioni autobiografiche) si è guadato a differenti fonti e modelli: opere e formule narrative della letteratura orientale araba, come El collar de la Paloma (XI secolo) e guarda agli arabi anche per gli apologhi e la descrizione della bella donna tratteggiata da amore; o ispano-ebrea, come il genere delle maqamat a cui guarda probabilmente per lo schema narrativo (un briccone e un narratore declamano in prima persona racconti frammentandoli con divagazioni da ogni genere) cui appartiene il libro delle delizie (XIII secolo, Zabarra). Tuttavia, in una realtà marcata da una forte presenza multiculturale e in assenza di una tradizione o di un modello chiaramente referenziale da cui Juan Ruiz attinse per creare la sua opera si possono certamente riconoscere influenze di vari generi e fonti della cultura cristiano- ebrea-musulmana, ma che l’autore rielaborò con indubbia autonomia. Si vede anche l’influenza della Bibbia, del Libro de Alexandre, di Ovidio (ars amandi), la commedia latina nel XII secolo il Pamphilus de amore, Esopo, le pseudo-autobiografie amore. Il titolo di Libro de Buen Amor, non contenuto nei codici, gli fu assegnato da Pidal. Buen Amor = ci spiega cosa intende nell’introduzione dell’opera. Esistono 2 tipi di amore. Un amore profano (mal amor) e un amore cristiano (buen amor). Le sue intenzioni sono di carattere didattico, come si vede nel titolo. Scrive per indicare la strada che si deve intraprendere per essere un buon cristiano. MA nel libro ci sono 14 avventure amorose di un arciprete! Preliminari:  Preghiera che l’arciprete rivolse a Dio (cuaderna via)  Prologo in prosa  Prologo in versi (cuaderna via)  Gaudi di Santa Maria (estribillo in quaternari + zéjel in ottosillabi)  Gaudi di Santa Maria (alternanza di ottosillabi e quaternari araba-ab/ccdccd)  Disputa tra greci e romani (cuaderna via vv. 44-70) Narrazione: 1. La gentildonna 2. La fornaioa Cruz 3. La donna onesta 4. Melon e Endrina (Trottaconventi) 5. Una giovinetta 6. La montanara Chata 7. La montanara Gadea de Riofrio 8. La montanara Menga Llorente 9. La montanara Alda -> tutte donne robuste che lo assaltano sessualmente 10. Una bella vedova 11. La donna di chiesa 12. Donna Garoza 13. La donna mora 14. La donna piccolina L’opera risulta ulteriormente complicata dall’annuncio, a fine esposizione di alcuni dei casi amoroso narrati in cuaderna via, di una o più composizioni liriche, che tuttavia mancano nei 3 manoscritti dell’opera che ci sono giunti. Nell’archetipo vennero incluse solo quella della fornaia Cruz e delle 4 serrane, che tornano a raccontare in versi di arte menor lo stesso episodio. È nel prologo in prosa che si insinua il vero nodo interpretativo dell’opera, quello legato all’ambiguità del messaggio proposto. Dopo un commento di un passo del Salmo XXXII di Davide dove si presenta il termine “saggezza” intesa come capacità di distinguere il bonus amor dal malus amor di origine agostiniana, e dopo aver indicato per buen amor “el de Dios” e per loco amor “el d’este mundo”, l’Arcipreste rivela la portata tutta ironica della citazione biblica, quando continua affermando che è intenzionato nel libro a mostrare il loco amor perché uomini e donne di buen entendimiento sappiano evitarlo e salvarsi. Il lettore, quindi, sa che l’opera tratterà di amore terreno e passionale e che sta a ciascuno utilizzarne i consigli secondo il proprio gradimento. Si tratta di un abile stratagemma per poter narrare cose profane con un pretesto moralizzante: Juan Ruiz insinua un concetto di letteratura molto moderno facendo riferimento alla polisemia del messaggio poetico (uno stesso testo è soggetto alle diverse interpretazioni dei destinatari). Questa polisemia del discorso umano è presente già nel prologo dove infatti l’autore afferma che l’opera gioverà a tutti i lettori indistintamente. In questo senso (polisemia), Juan Ruiz sarà ancora più esplicito nella Disputa entre un griego y un romano che segue l’invito a gioire della vita, quando presenterà la morale che se ne deve trarre (con enxiemplos tipicamente medievali). La fonte dell’aneddoto è presente in un diffuso testo giuridico di Accursio, De origine iuris (XIII): i romani reclamano le leggi ai greci, i quali però vogliono verificare se essi saranno capaci di intenderle e meritarsele, perciò propongono un dibattito dialettico fatto di gesti (non comprendono la rispettiva lingua). Il saggio greco e il ribaldo romano si fraintendono spesso ma alla fine i romani (immeritevoli) vengono giudicati all’altezza del diritto greco. L’esempio termina con una morale: il proverbio della vecchia astuta (ardida) che afferma la possibilità di ogni discorso di essere inteso in più modi (Relativismo). Tuttavia, Juan Ruiz mette anche in guardia il lettore sulla polisemia della sua opera invitandoli a collaborare (tratto giullaresco indice di oggettività) e sottolineando la sua fallibilità. Subito dopo il poeta applica il senso della disputa alla sua opera: non si capisce se il fine dell’opera sia giovare moralmente attraversi esempi negativi di amore sensuale (giacché delle 14 storie solo 2 vanno a buon fine e una di queste termina comunque con la morte della donna) e quindi insegnare effettivamente il buen amor nel senso di caritas cristiana, o di dilettare con il racconto di avventure erotiche = poetica dell’ambiguità. Il giusto cammino è quello verso l’amore sacro -> potremmo credergli visto che le avventure sono tutte marcate dalla sfortuna = letteratura nel quale il racconto è colto come EXEMPLUM A CONTRARIO (“non fare quello che ti sto raccontando se no finirai come me”). Lo ritroveremo nella Celestina Struttura molto complessa, una struttura paratestuale piuttosto ampia. A partire dalla strofa 71, quindi, ha inizio l’azione dell’opera: una narrazione in forma autobiografica in cui Juan Ruiz, arciprete de Hita, racconta in oltre 7000 versi (la maggior parte in cuaderna via) le sue sfortunate vicende d’amore (13 in totale). Di Juan Ruiz si sa solo quello che lui lascia intendere nell’opera stessa: nacque ad Alcalá de Henares (o la Real?), fu arciprete di Hita (Guadalajara) e forse fu prigioniero a Toledo. Nel testo si ha anche una sua descrizione fisica che corrisponde allo stereotipo medievale del buen amador. Vive forse tra il 1280 e il 1350, giacché nel 1351 era Arcipreste de Hita un certo Pedro Fernandez. Sono stati molti gli studi per ricercare un profilo più chiaro per avere maggiori dati biografici. Si è scoperto che ne esistettero vari! Il dubbio è che l’autore adottasse questo nome proprio perché così usato -> nome fittizio. Una delle ipotesi più concrete è l’identificazione con Juan Ruiz Rodriguez de Cisneros, figlio illegittimo di una coppia di cristiani prigionieri in territorio musulmano poi diventato arcivescono di Sigüenza. Difficile comunque credere all’autenticità di quel nome. Più plausibile è immagine una finzione autobiografica. Chiunque sia, l’autore del Libro de Buen Amor possiede una sicura Ximena chiede al re come riparazione di poter sposare l’assassino; lo sposo rifiuta però di tornare dalla moglie se non avrà vinto 5 battaglie campali. Iniziano le lotte con i mori e i traditori. Più tardi, il re Fernando invade la Francia e Rodrigo vince in battaglia in conte di Savoia e ne dà la figlia come concubina al suo re: la nascita di un figlio porterà alla tregua. In tutte queste vicende, ovviamente, non c’è nulla di storico. Notevole è inoltre la trasformazione del protagonista rispetto al Cantar de mio Cid: qui Rodrigo è arrogante e violento, privo di ideali. Anche se i risultati poetici sono modesti, il poeta dimostra un tentativo di adeguare una materia epica al nuovo gusto narrativo determinato dal successo dei primi romanzi cavallereschi e dal mutamento del pubblico. Non è un caso che sarà proprio questo poema a alimentare il romancero del Cid e poi il teatro. La poesia lirica durante i primi Trastámara Nella penisola iberica la tradizione lirica a livello letterario era stata in lingua galego- portoghese, anche quando i poeti erano castigliani. Tuttavia, dopo la morte del re trovatore don Dinís (1325) questa tradizione entra in crisi in Portogallo e quasi contemporaneamente ha inizio la lirica in lingua castigliana con il perduto Libro de los cantares di Juan Manuel e con Juan Ruiz, che si mostra ben poco influenzato dalla poesia galego-portoghese. Nella seconda metà del secolo c’è un gruppo di lirici che vivono a Castiglia, a corte o tra la nobiltà, e che compongono poesie sia in galego che in un castigliano spesso screziato, almeno nei primi tempi, di tratti fonetici o lessicali dell’altra lingua. La tematica è la stessa delle cantigas de amor, che a loro volta guardavano all’amore cortese provenzale. Il poeta castigliano elabora i consueti motivi della lode e del servizio d’amore. Tuttavia, la figura della donna inizia a presentarsi con una più sdegnosa crudeltà: il più famoso poeta della fine del Trecento, il galego Macías, (che proietta sul piano biografico dei temi lirici) passa alla leggenda come protagonista di un amore infelice che lo conduce alla morte. Aumenta inoltre, sotto l’influsso francese, la presenza di allegorie, soprattutto quella della figura sovrana di Amore che giudica e punisce. Dal punto di vista formale, è ancora più distante da quella galego-portoghese. Prevale l’ottonario, frequentemente accompagnato dal verso “de pie quebrado” che è l’emistichio di 4 sillabe usato come verso a sé, ed è assai comune la forma della ballata o zéjel, e quella destinata alla recitazione, il dezir, di contenuto dottrinale o narrativo e in genere in strofe isometriche di ottonari e poi in ottave di arte mayor. Tra questi poeti si distingue Alfonso Álvarez de Villasandino, non nobile che vive delle protezioni ottenute con la poesia. La maggior parte delle sue liriche sono di occasione, cantigas de elogio, scambi di domande e risposte, lamenti per la morte di protettori…prevale sempre e comunque la vena superficiale anche quando tenta costruzioni solenni. Sfrutta inoltre la tematica della poesia comica medievale e manifesta il suo gusto bizzarro di seguace dei goliardi. Il gusto della citazione si fa discreto suggerimento di un paragone che vale a dare rilievo alla descrizione, la ricerca della novità si dissimula ad esempio nella mistificazione dell’amore per una fanciulla musulmana, sospesa fra l’incanto descrittivo, il sottile erotismo e l’ironia del problema morale e religioso. Così Villasandino saggia i limiti e le possibilità della nuova lirica: il rinnovamento deve avvenire attraverso una più viva sensibilità morale o un più sicuro arricchimento della base culturale. Pero López de Ayala (1332-1407) Nasce nella provincia basca di Álaya, da una famiglia nobile ma modesta. Crebbe alla corte di Pedro I di Castiglia e poé assistere al matrimonio del re con Bianca di Borbone, poi abbandonata per l’amante Maria, alla ribellione dei nobili guidati dal fratello bastardo del re, Enrique conte di Trastámara. Nel 1336 Enrique entra in Castiglia con truppe francesi e si proclama re e Pedro il Crudele si ritira verso sud e anche Ayala lo abbandona. Pedro chiede aiuto agli inglesi e così la guerra civile castigliana si innesta con quella dei Cento Anni. Ayala combatte al fianco di Enrique che avrà la meglio e, ucciso il fratello, diventa Enrique II. La Castiglia dei Trastámara è alleata della Francia e Ayala, consigliere, sarà spesso ambasciatore lì. Succede poi a Enrique il figlio Juan I e con il disastro castigliano in Portogallo Ayala rimane prigioniero per 15 mesi. Nel 1390 diventa re il giovane Enrique III che nomina nel 1398 Ayala cancelliere maggiore di Castiglia. Muore in un convento dopo aver lasciato la vita pubblica. Ayala vede quindi la Spagna inserirsi nella grande politica europea accanto alla Francia e contro l’Inghilterra e il Portogallo. Si sviluppa l’esportazione delle lane castigliane e nasce la potenza navale castigliana. Il potere economico è nelle mani degli ordini militari; i partiti si basano sul nascente commercio internazionale. Inoltre, guardando all’Estero, inizia ad affacciarsi l’idea di monarchia assoluta ma i re sono ancora troppo giovani e deboli. Il contrasto di interessi raggiungerà il culmine nel XV secolo e si chiuderà solo con i Re Cattolici. Ayala si schiera con la nobiltà. Nulla sappiamo della sua formazione giovanile anche se egli stesso afferma di essere un lettore accanito. Conosceva il latino, aveva frequentato le corti avignonese e francese (centri culturali). La sua vocazione di scrittore è tarda. Prigioniero in Portogallo, compone delle poesie che includerà nel Romado de Palacio e il Libro de la caza de las aves (1386). La prima stesura della Crónicas è posteriore al 1383 (cronaca vicende storiche a lui contemporanee). Sotto Enrique III traduce i Moralia di san Gregorio Magno, Flores de los Morales de Job e il Libro de Job. Il Rimado de Palacio (titolo moderno) è un’opera composita costituita da parti scritte in tempi diversi. Conta più di ottomila versi in cuaderna via ma con frequenti inserti lirici. In una delle parti più tarde appaiono ottave di arte mayor (metro della poesia narrativa e dottrinale del Quattrocento). Nel poema si distinguono 3 parti principali di diversa lunghezza: una confessione, un quadro della corruzione del mondo, un estratto versificato dei Moralia di san Gregorio Magno. Appare chiaro il passaggio dal riconoscimento delle colpe individuali alla constatazione degli errori e delle ingiustizie nella vita sociale e religiosa per ripiegarsi infine in una meditazione dolente e rassegnata sulla vita. Il poema è in prima persona e ci sono degli evidenti tratti autobiografici. Tuttavia anche qui l’yo è sovrapersonale: indica l’umanità tutto, di cui il poeta è esponente. La costruzione del poema è quindi tutta accentrata sull’yo insieme personale e generico e sull’identificazione di storia individuale e storia paradigmatica dell’anima cristiana. La poesia si Ayala accende di luce scabra il panorama che egli traccia del mondo morale e della società, il cui vigore non nasce dalla denuncia ma dalla costatazione addolorata e indignata ma sempre lucida. Il sapore del reale si unisce alla durezza del giudizio, perseguendo il comportamento e le azioni degli uomini. Il Rimado mostra una visione della vita non meno disincantata di quella di Juan Manuel ma più amara perché aliena da quella tranquillizzante distanza tra comportamento e norma etica. Si intessa però dei problemi della quotidianità. La religiosità che traspare è intima e travagliata: informa la sua visione del mondo ma sceglie le forme più riservate e suggerite dal Vangelo e si risolve in colloqui solitari con Dio, in umili confessioni. Seppur non interferisca apertamente nella vita quotidiana, questa religiosità avverte implacabilmente l’uomo della sua inadeguatezza al dovere, gli impone una misura severa che scopre deficienti le azioni umane e mette in luce le colpe di tutti. Rimado e Crónicas sono in certo modo opere complementari (quadro storico + strutture intime). Ma il Rimado dà una misura insieme individuale e universale della vita umana mentre nelle Crónicas la meditazione personale e la riflessione generalizzante scompaiono dietro una considerazione apparentemente oggettiva dei fatti e dei personaggi nella loro irripetibile individualità, espressione massima di quella esperienza personale che nel Rimado si dissimulava in esperienza individuale. Il programma storiografico è generico: conservare memoria dei fatti e delle caballerías. Nel prologo alle Flores de los Morales di essere cronista ma di esserlo per volere non perché lo pagassero, pertanto il suo racconto è privo di ufficiosità. Inoltre, inserisce la vicenda storica in un quadro provvidenziale, chiaramente medievale, ma rimane dissimulato anche per il suo rifiuto di osare una spiegazione razionale del volere divino. Il giudizio dello scrittore sulle vicende non mai esplicito, sempre velato. La storia di Pedro il Crudele pare il capolavoro di Ayala proprio perché gli offre il destro di fondere nella sua pagina, stilisticamente così matura, la sicura padronanza del reale e il senso tragico ed esemplare della storia. Umanesimo e tradizione medievale Durante il Trecento la produzione letteraria castigliana era il risultato di una sintesi di materie e spiriti occidentali e orientali; nel secolo successivo acquistano peso dei fattori nuovi anche per il crescente antagonismo negli ambienti cristiani. Tuttavia, grazie al livello intellettuale di numerosi conversos (ebrei convertiti) come Pablo de Santa Maria, Alvarez Gato, Fernando de Rojas, la spiritualità ebraica opera all’interno della cultura spagnola. Un elemento del tutto nuovo è l’eco del rinnovamento umanistico italiano; la Spagna non aveva conosciuto nulla di simile all’attività dei traduttori che fin dal Duecento aveva permesso in Italia la diffusione dei classici, né si era diffuso un gusto per la retorica volgare come quello presente nell’Italia dei comuni. Soltanto alla fine del Trecento vediamo Pero López de Ayala volgere in castigliano opere antiche. L’aragonese Juan Fernández de Heredia è gran maestro dell’ordine dei Cavalieri di Rodi dal 1377 fino alla sua morte (1396). Risiede ad Avignone, dove maturavano i germi di rinnovamento culturale gettati da Petrarca, ha inoltre contatti con la corte di Barcellona (aperta all’umanesimo); viaggia spesso in oriente dove pone le mani su manoscritti greci e trova spesso gente in grado di tradurli. Il programma culturale per cui si adopera calca le orme di Alfonso X e risente forse delle contemporanee iniziative di Carlo V di Francia; la sua opera principale (1370) è la Grant Crónica de Espanya in tre partidas (la seconda è quasi del tutto perduta), che narra tutto quello che il compilatore ha trovato di attinente alla Spagna nelle fonti classiche e medievali. Contemporaneamente compome la Grant Crónica de los Conquiridores, in due parti, che raccoglie biografie da Nino di Babilonia a Giacomo I di Aragona. Per preparare queste compilazioni, Heredia ha fatto tradurre Orosio, Paolo Diacono, Zonara ma anche Tucidide e Plutarco ma la traduzione resta un periodo di grande stabilità e interesse culturale, grazie anche ai contatti con la Catalogna, la Francia e l’Italia. I poeti dei primi decenni del Quattrocento sono molti e provenienti da ambienti diversi: corte (Ferrán Manuel), nobiltà (Alfonzo Enríquez), chiesta (fray Lope del Monte), giullari. Di conseguenza anche il pubblico è molto eterogeneo, spesso dotato di cultura scolastica e ricco di esperienza all’estero. Anche i temi di questa poesia sono innovativi: sono frequenti le poesie d’occasione (cronaca poetica dei momenti cruciali della storia castigliana del tempo). È inoltre frequente lo scambio di componimenti tra più rimatori (rapporto attivo) permettendo così la circolazione di temi e forme. iniziano ad andare di moda i “decires” che trattano della Trinità e dell’Immacolata Concezione, della morte e del libero arbitrio, dell’Empireo e degli elementi. Gli autori si sforzano di realizzare un diverso ideale di poesia, sostituendo all’evasione e al gioco erotico dei lirici precedenti un preciso impegno culturale. Sul piano formale l’eredità della scuola galego-portoghese non viene rinnegata ma ci sono altri schemi preferiti, come l’arte mayor (presente già in Ayala) e diventuta la forma normale dei decires e della narrativa in versi. Il verso è ricco di vocaboli poco comuni, tecnici e metaforizzati, cercando di opposti alle grazie della tradizione trobadorica. Importante è l’influsso dantesco di cui si fa tramite Francisco Imperial, un genovese trasferitosi a Siviglia alla fine del Trecento. Si forma sui poeti italiani, Dante tra tutti. Dante è infatti sua guida nel Dezir de las siete virtudes, costruita come la Commedia sullo schema della visione. La poesia dantesca è per Imperial e per i suoi contemporanei, un modello di poesia dottrinale, esempio di costruzioni allegoriche complesse. L’influsso è contenutistico, stilistico, lessicale, sintattico, metrico e ritmico (il verso di arte mayor ammette una varietà endecasillaba). Gonzalo Martínez de Medina è un sivigliano di famiglia nobile che raccoglie spunti della “devotio moderna” che fioriva nei Paesi Bassi ed elabora una religiosità più intima e ombrosa. Vediamo inoltre svilupparsi una polemica con gli ebrei e i coversos ancora legati a impostazioni mentali e problematiche giudaiche o ansiosi di partecipare alla cultura cristiana: ne derivano delle composizioni con un’insistenza su temi teologici. La presa sulla realtà è aliena da ogni determinazione particolare (-Ayala), sempre ansiosa di significati generali, ma il verso scioglie la sua consueta durezza in note dolenti e amare, come quelle di Ruy Páez de Ribera nel Dezir sobre la fortuna. Citiamo anche il vigoroso e felice Dezir sobre la justicia e pleytos e de la gran vanidad d’este mundo, di attribuzione controversa. In esso, la considerazione vivace e amare dei difetti dell’umana giustizia si risolve in meditazioni sul destino effimero dell’uomo. C’è nella composizione un equilibrio di matura riflessione che si realizza in un discorso denso e severo; il tema della morte affiora con discrezione. Il Quattrocento vede svilupparsi una sensibilità nuova affascinata dai suoi aspetti più acri. Vediamo una satira dell’illusione umana di sfuggire a una rapina che tutti travolge e si rivela come orrenda corruzione. È da questa sensibilità che nascono le 79 strofe di arte mayor della Danza de la muerte, anonima e della fine del Trecento/metà del Quattrocento nella zona aragonese. Il componimento è caratterizzato da un dialogo tra la morte e esemplari individui ma generici, delle principali condizioni sociali, che ella invita alla sua danza; alla serie tradizionale degli “stati del mondo” il poeta iberico aggiunge le figure del rabì e dell’alfaquí, il religioso ebreo e quello musulmano. Il testo è di provenienza fratesca con intenzioni moraleggianti. Evidente una volontà di satira sociale e una voluttà del macabro; la morte è sofferta nei suoi aspetti organici, è disfacimento e corruzione. Tutti gli uomini vengono chiamati alla danza e tutti tentano invano di fuggirne con ripugnanza; pochissimi rivolgono il pensiero ai valori della fede, che sembrano troppo astratti per una realtà così corposa e tentatrice. Ognuno rivela il vizio, l’attaccamento all’effimero della vita. Tutti vengono travolti nel gelido abbraccio della squallida danzatrice: è questa assenza di un orizzonte cristiano a dare al componimento una tragicità desolata. Il marchese di Santillana La seconda parte del regno di Juan II vede don Alvaro de Luna, il favorito del debole sovrano, sforzarsi di instaurare un solido potere centrale, avversato dai magnati che trovano capi tenaci nei figli di Fernando di Antequara, gli infantes de Aragón, soprattutto Juan, re di Navarra e poi di Aragona, e Alfonso re d’Aragona e poi conquistatore di Napoli. Le lotte nobiliari e l’instabilità continua mettono alla prova uno stato che ancora non ha neanche risolto il problema della presenza mussulmana nella penisola. Sul piano letterario, la figura dominante è quella di Inigo López Mendoza, signore di hita e Buitrago (1398-1458). Discende da una potente famiglia della nobiltà castigliana, è nipote di Ayala e figlio di un ammiraglio. In gioventù trascorse alcuni anni alla corte di Fernando I d’Aragona, zio di Juan II, dove conobbe i maggiori poeti e pensatori catalani del tempo. Combatté con il re contro i mori e fu ricompensato con il marchesato di Santillana e la contea del Real de Manzanares. La sua ricca biblioteca è uno dei poli culturali castigliani del tempo. Nei Proverbios difende la compatibilità di armi e lettere, e incarna questo ideale. Conosceva poco il latino e per nulla il greco ma per la sua instancabile curiosità culturale contribuì comunque alla diffusione dei classici in Castiglia. Si devono infatti al suo patronato le versioni dell’Iliade, del Fedone platonico, dell’Eneide, delle Metamorfosi, delle Tragedie di Seneca. Si interessa anche a testi cristiani e a autori italiani (patrocinio della traduzione della Divina Commedia, del De montibus del Boccaccio); leggeva direttamente sia l’italiano che il francese (conosceva molto bene la poesia d’oil). Aveva pertanto una visione storica completa della letteratura medievale. Nel Prohemio e Carte segue l ’esempio del libro XIV del De genealogiis boccaccesco; qui non solo definisce la poesia come fusione fantastica di bellezza e utilità intellettuale o morale, e quindi come nobilissima scienza, ma si sofferma a disegnare un panorama della sua storia più recente abbracciando l’intera area romanza, distinguendo i vari generi, mettendo in risalto le maggiori personalità e opere (compresa la poesia popolare). La sua produzione letteraria vede quindi confluire tutte le tradizioni culturali del tento in un tentativo di sintesi. Il poeta ammira Imperial e ne riprende il gusto per l’allegoria, dell’erudizione preziosa e moralistica; in molti dei suoi decires lo schema è quello della visione, ma lo spunto più che dantesco è dalla produzione francese. Vediamo svilupparsi un interesse per il destino terreno dell’uomo (anche per la frequentazione dei moralisti classici). Lo stile è più sicuro rispetto ai suoi contemporanei, la retorica meno gratuita e il rigore concettuale più controllato. Fondamentali sono i sonetti, primo tentativo a Castiglia del genere italiano (modello petrarchesco). L’endecasillabo rimane spesso sordo, inclina al ritmo dell’arte mayor o inversamente se ne distanzia bruscamente. La difficoltà più grande è quella di inserire la sua ispirazione nella chiusa misura del sonetto. Si interessò anche a una poesia più leggera e musicale, compresa la musa popolare. Notevole, ma di attribuzione contestata è un’elegante lirica dedicata alle figlie in cui sono inseriti 4 villancicos popolari. Seguono le serranillas, immerse in un’atmosfera di serena felicità. Il contrasto tra i due protagonisti, il poeta innamorato e la montanara, è sviluppato con brio, delicatezza e discrezione. Un esempio è dato dalla Serranilla de Bores (IX) dove siamo in pieno sogno arcadico: società matura, poeta di consumata esperienza letteraria… È possibile che il marchese abbia raccolto dalla tradizione orale i Refranes que dizen las viejas tras el fuego, la prima collezione paremiologica spagnola, prova di un interesse per il folclorico in anticipo sul suo tempo. Nel 1437 compie, per istruzione del futuro Enrique IV, i Proverbios, 100 detti ricavati da fonti scritte antiche e moderne, rielaborati liberamente, corredati del prologo e di un commento erudito. In essi Santillana designa un paradigma umano di serena e elevata nobiltà dove l’esempio antico si fonde con la misura cristiana. Nel 1436 scrive il più ambizioso dei suoi componimenti narrativi: la Comedieta de Ponça (120 ottave di arte mayor) che prende spunto dalla sconfitta navale di Alfonso V d’Aragona a Ponza (1435). La regina madre Leonor e le spose dei regali, rimasti prigionieri, sono le protagoniste di una visione di tipo dantesco e lamentano la loro sventura con Boccaccio. Appare poi personificata la Fortuna che predice i futuri successi dei principi aragonesi. L’influenza dantesca (titolo) è chiara anche perché l’opera si apre su casi dolorosi e finisce lietamente. Il suo intento è impegnativo: canta con partecipe commozione la battaglia di Ponza come eroica e sfortunata impresa di tutta la comunità peninsulare meditando sul destino dell’uomo, interessandosi al tema della Fortuna e sottolineando una grande coscienza nazionale. All’uomo non resta che un’aristocratica “fortaleza” che è anche pazienza cristiana e fiducia in quel Dio che è bel al di sopra della Fortuna. Il tema ritorno nel Bías contra Fortuna, un dialogo in 180 strofe di arte menor che Satillana diresse a modo di consolazione, con un lungo proemio, al cugino il conte di Alba gettato in progione. Bias è uno dei 7 saggi di Grecia, uomo politico, militare e filosofo semileggendario. Il marchese lo rende esempio in cui armi e lettere raggiungono una sintesi felice, sottolineando anche la superiorità del saggio dinanzi alle prove della Fortuna, qui caso arbitrario e nemico. Santillana guarda qui soprattutto al De constantia sapientis senechiano e alle operette quattrocentesche di impostazione storica. Lo stile è conciso e denso e si snoda velocemente in un dialogo libero da schemi fissi. Nel Doctrinal de privados (53 strofe di arte menor) è lo stesso maestro di Santiago ad ammonire gli uomini con il suo esempio; qui fa confessare a Alvaro de Luna (suo antagonista per eccellenza) tutte le sue colpe ma viene giustificato come esempio del destino di illusione e disinganno comune a tutti noi. La vicenda terrena di un uomo si inscrive nuovamente nel ritmo oscuro della Fortuna che ne segna i trionfi e le cadute. La Fortuna/Fato è vista come una legge che Dio può sospendere e che comunque non incide sulla vera misura dell’uomo; al di là della forza morale c’è il destino eterno dell’uomo, la misericordia divina. Evidente l’orizzonte cristiano in un moralismo di tipo stoico acquisito dai classici antichi. L’opera non ebbe un grande successo per i suoi evidenti difetti e per il profondo mutamento della situazione storico-politica con i Re Cattolici e del panorama letterario della penisola (rinascimento e tradizione nazionale nel Cinquecento). Mena negli ultimi anni della sua vita assiste alla fine di don Alvaro e alla morte di Juan II (1454). Le conseguenze sono manifeste nella sua ultima opera, il Debate de la Razón contra la Voluntad o Coplas contra los pecados mortales (incomplete per la morta avvenuta nel 1456). Si conserva un’impostazione allegorica, ma si ritorna a uno schema tematico e formale di tipo medievale. Il poeta immagina di essere aggredito da Voluntad in forma di chimera che ha i 7 volti dei 7 peccati capitali, cui resiste grazie all’aiuto di Razón. Mena abbandona il pregiudizio pro-nobiliare e contrappone al laicismo del Laberinto la “christiana musa”; vengono meno anche lo stile alto e latineggiante e il preziosismo erudito. Lo stile è mediocre, accessibile a un pubblico eterogeneo. Pérez de Guzmán e la nuova storiografia Pérez de Guzmán è un nobile che coltiva le lettere. Nasce tra il 1377 e il 1379 da una famiglia della nuova nobiltà favorita dai Trastámara, nipote di Ayala e zio di Lopez de Mendoza. Al tempo di Juan II è prima legato all’infante enrique di Aragona e poi schierato contro don Alvaro de Luna in difesa dell’aristocrazia. Ma ebbero la peggio e anche lui fu imprigionato. Si ritirò poi a Batras dove morì nel 1460. Possedeva numerose opere storiche antiche e moderne, conosceva il latino e promosse l’opera dei traduttori (Sallustio, Seneca…). Egli è insieme poeta (tutta la sua vita) e prosatore (maturità). Per la lirica egli guarda a Imperial costruendo una poesia d’amore su spunti eruditi senza però rinunciare al lirismo più vivace. Tuttavia egli si distingue soprattutto per la poesia didattica e morale. Scrive le Coplas de Vicios e virtudes, la Cofesión rimada, i Proverbios e alcune opere minori (inni religiosi, coplas de arte menor) e Claros varonnes de Espana, sua opera più ambiziosa. Il tono è discorsivo e povero. Più notevole è la produzione in prosa, soprattutto per quanto riguarda il volumetto che raccoglie 34 Generaciones y semblanzas, cioè “los linajes e façiones e condiçiones de algunos grandes senores, perlados e cavalleros” delle corti di Enrique III e Juan II. È, in Castiglia, il primo libro di profili biografici per il quale guarda come modelli a Guido delle Colonne, a Giovanni della Colonna e alla tradizione svetoniana. I profili bibliografici ottengono validità autonoma, segno di una nuova valutazione dell’individualità dell’uomo e del suo peso nella storia, non più centrata solo sul sovrano. Nell’opera vi è la coscienza del sangue e un acuto senso della fama (ricompensa per chi agisce virtuosamente); lo storico ha quindi una grande responsabilità perché rischia di falsificare la verità, distribuire male la gloria e deludere i virtuosi. Per questo scrive solo di morti. In uno stile piuttosto asciutto, le azioni dell’uomo si ordinano in un quadro netto fondato su un codice di valori e misure, proprio dell’etica cristiana e cavalleresca. La cavalleria è per lui una tradizione di doveri sociali a consolazione del mediocre presente, con l’esempio di civico disinteresse dei romani. La prosa è secca, scarna di sintassi e lessico. I ritratti fisici e morali sono invece vividi (conoscenza della vita + penetrazione psicologica). Disegnate con realismo anche con esempi antichi, i personaggi diventano di alta esemplarità, verificando nella loro parabola un insegnamento o una meditazione per una nuova cultura laica e civile. La crisi della storiografia attestata da Pérez de Guzmán risulta chiara anche da atri indizi. La gloriosa tradizione delle Cronicas generale si chiude nel 1460 circa con la Quarta della serie. Gli annali ufficiali del regno di Juan II sono affidati a Juan de Mena, ma non pare siano mai stati stesi in forma definitiva e ciò che va sotto il nome di Crónica de Juan II non è che una rielaborazione data alle stampe nel 1517, basata su materiali di varia provenienza. La crisi storiografica risulta anche dalla fortuna di un’opera come la Crónica sarracina che Pedro del Corral compose nel 1430. Qui la storia del re goto Rodrigo e dell’invasione musulmana è arricchita dalla fantasia dell’autore trasformandos i in un ampio romanzo cavalleresco con vicende di amore, vendetta e morte in uno sfondo cortigiano. Tutto è immaginario ma legato a esigenze e valori della società quattrocentesca. È invece scrupolosa registrazione dei fatti, il Libro del passo hornoso di Pedro Rodríguez de Lena. Suero de Quin(gn)ones e nove compagni difesero il passaggio del ponte San Marcos (Leon) per un mese; lo scontro con gli sfidanti fu duro. Il torneo, autorizzato da Juan II, aveva un’occasione amorosa ma fu in realtà la celebrazione dei costumi e dell’onore cavalleresco. Suero lo fece registrare per garantirne l’autenticità e assicurarsi una memoria letteraria. Crónica de don Pero Nino, conde de Buelna (Victorial) viene composta tra il 1435 e il 1453 da Gutierre Díez de Games. Per la prima volta un semplice cavaliere diviene protagonista di un racconto storico come modello di cavalleria. Vita e letteratura, realtà e idealizzazione si fondono (chiara l’influenza francese nei numerosi gallicismi). Le fonti letterarie cui fa riferimento servono come giustificazione in prospettiva storica delle idealità cavalleresche, elevate a norma suprema di comportamento, praticate severamente da Pero Nino per affermare la sua personalità e meritare la gloria. La cronaca è al tempo stesso narrativa, celebrativa e didattica. Più rilevante per la storia generale è Crónica de don Alvaro de Luna, opera di un suo seguace e maestro di Santiago che l’avrebbe scritta dopo la morte dell’eroe (1453) fino al 1500. Vengono presentate numerose vicende della Castiglia di quei decenni senza mettere al centro il sovrano. Il proposito dello storico è celebrativo e riporta l’azione politica di don Alvaro (idealità cavalleresca + tratti biografici). La valutazione del fatto letterario è più accorta e cordiale, lo stile è calcolato ed è evidente l’influenza dei classici. È il frutto dell’ideale di fondere armi e lettere. Segue il regno di Enrique IV l’Impotente (1454-1474), uno dei momenti più inquieti della storia spagnola a causa della debolezza del sovrano e del nuovo tentativo dell’aristocrazia di acquisire potere. Le tensioni aumentano con il problema della legittimità dell’infanta Juana, detta la Beltraneja perché considerata frutto di adulterio della regina con don Beltrán de la Cueva. Enrique, pronto ad ammettere la sua incapacità fisiologica e a escludere Juana dalla successione, riapre la questione. Intervengono anche Alfonso V di Portogallo pretendente di Juana, Isabel, sorella del re, Ferdinando di Aragona fidanzato e poi sposo di Isabel. Il dramma storico è evidente. È questo tempo di satira più che di cronache. Poco interesse letterario ha la Crónica del rey don Enrique IV che dà una versione favorevole al re in uno stile retorico. Più interessanti sono gli Hechos del Condestable don Miguel Lucas de Iranzo con i quali un autore narra le vicende fra 1458 e 1471 dove l’ambizione alla fama si fa ragione di vita e sfiora il ridicolo. Relazioni di viaggi Tra Trecento e l’inizio del Quattrocento, i lettori amano le traduzioni di opere di diffusione europea come i viaggi, immaginari di Jean di Mandeville (Libros de las maravillas del mundo). Più tardi ebbe fortuna il Libro, o Historia, del Infante don Pedro de Portugal in cui un certo Gómez de Santisteban romanzò il viaggio che nel 1425-28 il figlio di Giovanni I di Portogallo aveva fatto in Inghilterra, Fiandre, Italia e terre dell’impero. Dal 1403 al 1406 Ruy Gonzáles de Clavijo viaggiò fino a Samarcada come ambasciatore di Enrique III e, tornato in patria, redasse un resoconto della sua esperienza cercando di inquadrare in schemi noti panorami e costumi ignoti per renderli accettabili. Non ricorre a una prospettiva romanzesca, ma mira all’oggettività. Diversi sono gli Andanças e viajes por diversas partes del mundo habidos di Pero Tafur, un avventuriero che ha errato per il Mediterraneo e l’Europa dal 1436 al 1439. In lui la realtà si colora di romanzo (Egitto = esotismo). Questi racconti di viaggi, reali o fantastici, preparano il pubblico ai racconti degli scopritori d’America e suggeriscono alcune soluzioni narrative inedite. Poesia minore alla metà del Quattrocento Dopo la conquista aragonese del 1443 Napoli diventa uno dei centri più vivi della cultura umanistica. Alfonso il Magnanimo si circonda anche di poeti in lingua castigliana, spesso nobili del partito degli Infanti di Aragona che a causa delle vicende politiche avevano lasciato la patria. Il poeta più valido del gruppo napoletano è Lope d’Estún(gn)iga che, anche se non documentato, deve essere stato il caposcuola. Apparteneva a una potente famiglia della nuova nobiltà, nemico di Alvaro de Luna che lo imprigionò. Nel 1446 canta la resistenza di Atienza all’assedio delle truppe reali. Nonostante conoscesse i temi politici e morali, la sua fama rimane legata a un’ispirazione congruente con la cultura caval leresca. Nelle liriche d’amore si presenta come servo della sua donna, destinato a un perenne dolore che si risolve nella morte (chiara l’influenza della Belle dame sans merci). Ci sono però delle novità sul piano formale: elimina ogni riferimento aneddotico, riduce la vicenda a un’immobile situazione lirica ridotta al nocciolo con un lessico essenziale e generico in testi ritmici semplici. A Napoli fu anche Carvajal, di cui sappiamo solo quello che lui ci dice nelle sue poesie. La varietà tematica in una fondamentale unità di stile cortese è la nota tipica del canzoniere di Carvajal (50 pezzi). Abbandona la poesia politica che non andava a genio al sovrano che preferiva la poesia d’occasione (amore del re, scambi di domande e risposte, elogi funebri). Le poesie d’amore sono fedeli alle consuetudini dell’amante leale, non corrisposto. Lo stile è elegante ma ricorre anche a toni popolari: è il primo a comporre romances letterari e torna alla tradizione delle serranillas. Il suo è un popolarismo calcolato e frigido anche se talvolta raggiunge una misura di raffinatissima grazia. Tornando in Castiglia, la satira prende spunto dagli sconvolgimenti politici. Cominciano le Coplas de !Ay, panadera!, scritte dopo la battaglia di Olmedo (1445); in esse i combattenti dello scontro inglorioso sfilano uno per uno colti nei loro tratti grotteschi, soprattutto nel contrasto fra l’ardimento verbale e la paura incontrollabile. La satira demitizza un tragico scontro che poeti aulici come Mena cercavano di investire di lustro. La satira è più acre sotto Enrique IV quando tra il 1465 e il 1474 si compongono le 149 Coplas del Provincial (anonime): una rassegna sul modello della “panadera” di cavalieri e Il teatro, praticamente inesistente durante il medioevo, inizia con Juan del Enzina, Lucas Fernández e Gil Vicente la grande tradizione iberica, e con Bartolomé de Torres Naharro assimila l’insegnamento dell’umanesimo. Vedremo sorgere inoltre l’opera più alta di questi anni, la Celestina, ricca di vitalità rinascimentale. Nella narrativa, vediamo svilupparsi la tradizione del romanzo sentimentale e quella dei libri di cavalleria: in essi vengono proiettati i temi della civiltà cortese in un gusto per il meraviglioso e il fantastico che corrisponde ai gusti del nuovo pubblico cortigiano. Nel 1508 si stampa a Saragozza Los cuatros libros del virtuoso caballero Amadís de Gaula, redatto fra il 1492 e i primi anni del Cinquecento da un “regidor”, Garci Rodríguez de Montalvo che modernizza e corregge “los antiguos originales”, nei quali l’opera contava 3 libri: lui ve ne aggiunge un quarto con le avventure di Esplandián, figlio di Amadís. L’originale usato da Montalvo è sicuramente medievale. Un Amadís esisteva già nella prima metà del Trecento menzionato anche da Pero López de Ayala nel Rimado. L’impianto narrativo dell’opera medievale doveva chiudersi con un duello tra Amadís e Esplandián, ignari l’uno dell’identità dell’altro, e con la morte del padre per mano del figlio. Accanto a tentativi isolati come il Zifar, in Spagna si hanno numerose traduzioni di romanzi arturiani dal francese. Già nel 1313 circolava nella penisola, in leonese, una Historia de la Demanda del Santo Grial e a poco dopo risalgono il Lançarote e il Tristán. Anche se di qualità letteraria scadete, sicuramente hanno avuto influenza decisiva sul primo Amadís, che risente anche delle storie troiane e di Leomarte. L’Amadís medievale è andato quasi interamente perduto. Fra il Trecento e il Quattrocento gli intellettuali spagnoli mostrano una concezione della cavalleria aliena dai valori cortesi e preferiscono il didatticismo al meraviglioso e al fantastico: il giudizio di Ayala risponde a una valutazione diffusa che ne riconosce la vanità e perciò condanna il romanzo cavalleresco alla vita sotterranea dello stato latente. Solo con il mutare dell’etica signorile e dei valori e stili letterari che scava un solco fra la società cortigiana e l’originaria idea di cavalleria, allora il genere trionfa. In questo senso, l’affioramento di un Amadís rivisto e corretto negli anni dei Re Cattolici finisce per essere una conferma del distacco dalla situazione culturale del medioevo. La storiografia Il settore culturale che sembra continuare l’indirizzo dell’epoca precedente è la prosa storica e didattica, anche perché molti scrittori si erano formati negli anni di Enrique IV (come diego de Valera). Tuttavia, la continuità di generi e forme presuppone un significativo mutamento che corrisponde alla volontà politica dei Re Cattolici; la corte reale è ora il centro unico della vita culturale. Viene meno il contributo della nobiltà, sia in funzione produttiva che di mecenatismo e si delinea una crescente importanza degli ambienti accademici. Si pensi al linguista Nebrija, il cui umanesimo introduce a imprese filologiche di grande respiro e di tono cosmopolita, come la Biblia políglota complutense (1514-1517) e favorisce lo sviluppo cinquecentesco dell’università di Salamanca. Tra i cronisti regi, nel quadro generale della continuità e insieme mutamento della produzione storiografia dalla Castiglia di Enrique IV a quella dei Re Cattolici, la figura di maggiore rilievo è quella di Diego de Valera. Nato, forse a Cuenca, nel 1412 da una famiglia di probabile origine giudaica, fisse a corte dove il padre era medico di Juan II; fu “doncel” del sovrano e per numerosi incarichi reali e non entrò in contatto con le corti europee del Quattrocento. La sua attività di scrittore inizia con la traduzione dal francese dell’Arbre des batailles di Bonnet per Alvaro de Luna e continua con l’Epejo de verdadera nobleza (1441) dedicato al re, la Defensa de virtuosas mugeres alla regina Maria (prima del 1443), il Tratado de las armas (1458-67) al re Alfonso V di Portogallo, il Cerimonial de Príncipes e il Tratado de providencia contra Fortuna, tutte e due del 1462-67 e dedicate a Juan Pacheco, marchese di Villena e favorito di Enrique IV, il Breviloquio de virtudes a Rodrigo Pimental, conte di Benavente, l’Origen de Troya e Roma a Juan Hurtado de Mendoza. Le dediche lasciano intendere l’ampiezza delle relazioni di Valera e una costante e aperta attività cortigiana. Si avverte la volontà di porsi come opinione pubblica cui il re deve dare ascolto; ma questo tentativo di attribuire alle persone colte dell’ambiente di corte una reale voce in capitolo non ottenne alcun eco nel caso di Valera, il cui spazio di azione fu ridotto alla didattica moraleggiante o al formalismo cavalleresco. Si avverte uno spostamento su un piano più cortigiano, pur mantenendo le forme di partizione ed argomentazione tipiche della cultura medievale, con il ricorso ad “auctoritates” e “exempla” ripartiti tra fonti antiche e medievali. Valera sembra la figura più completa di un uomo di corte discretamente colto, abile cavaliere, scrittore efficace, ma privo di incidenza politica e perfino culturale. Con l’avvento di Fernando e Isabel il nuovo regno è presto sentito come una svolta nella vita castigliana al punto che Valera si schiera ora dalla parte del potere centrale e non dell’oligarchia nobiliare. All’inizio del Doctrinal de Príncipes, rivolto a Fernando re di Castiglia, Leon e Sicilia e principe ereditario di Aragona, Valera ricorda una profezia che lo indica come colui che avrà la sovranità su tutte le Spagne e ristabilirà il trono imperiale dei goti. Valera si avvicina così alla storiografia: compone per Isabel una Crónica de Espana che è una compilazione sommaria (abreviada/valeriana) degli avvenimenti dall’antichità a l regno di Juan II, preceduta da una introduzione geografica (1481, 18 edizioni fino al 1567); c’era infatti una forte richiesta per un’esposizione della storia antica e di quella nazionale che rinunciasse all’ampiezza delle Cronicas generales alfonsine, segno della diffusione della prospettiva tradizionale che si considerava conclusa con il regno del padre di Isabel e con quello deprecato del fratello di lei. Il pubblico è molto vasto. Valera continua la sua opera di storiografo col Memoria de diversas hazanas (1486-87) che tratta senza regolarità né completezza del regno di Enrique IV, sfruttando la Cronica castellana attribuita al Alfonso de Palencia e le Decadi latine sempre sue. Segue poi una Cronica de los Reyes Católicos che giunge fino al 1488, scarsamente originale. Le sue opere sono importanti quindi soprattutto come testimoni del nuovo clima culturale e politico. Dall’avvento di Isabel, tutta la sua produzione si indirizza alla coppia reale e cessano le dediche ai magnati. Lo scrittore riprende la sua problematica moralistico-cavalleresca e ne dà la sistemazione più ampia e meglio riuscita nel Doctrinal de Príncipes, opera dei primi anni del regno. Nella nuova situazione politica Valera, che riceve incarichi più impegnativi di quelli puramente cortigiani (consiglio reale e sorveglianza), ritorna alle ambizioni giovanili di farsi coscienza laica e colta della via politica e le realizza con una serie di lettere che avranno qualche esito anche pratico visto che l’autore le raccoglie in un Tratado de las epístolas. Valera sorprende qui per la concretezza della problematica: si discute sul diritto di Fernando alle armi araldiche da lui scelte e sul cerimoniale dell’investitura marchionale, ma troviamo anche un vivace resoconto della successione di Enrico VII a Riccardo III d’Inghilterra, una vivida descrizione di uno scontro navale tra franco-portoghesi e genovesi, proposte di provvidenti, un’analisi particolareggiata della politica monetaria da seguire per la conquista di Granada. Questa volta il dialogo si stabilisce: anche se il re per molti anni non segue i consigli militari, risponde con apprezzamento ai suoi suggerimenti di politica economica. Il letterato si trasforma così in consigliere politico senza però rinunciare alla letteratura: le epistole sono riunite in Tratado e conservano l’impostazione tipica dell’esortazione medievale, con gli exempla e la cura della forma; né si rinuncia a riportare il caso particolare ad una prospettiva più generale. La ragione della vitalità culturale delle epistole è da ricercare nella fusione di tradizione medievale e cura formale umanistica. Altra figura di spicco è Fernando del Pulgar di cui non sappiamo né dove né quando sia nata; sicuramente è stato a corte di Juan II e Enrique IV e è stato segretario e cronista di Isabel. La sua attività è stata meno cavalleresca e più politica di quella di Valera e il suo rapporto con i sovrani è più immediato. L’arco della sua attività è limitato agli anni dei Re Cattolici. Scrisse una raccolta di Letras anteriori al 1485: dove si toccano argomenti politici non si esprime un’opinione dall’esterno perché abbia peso a corte, ma si riflette l’opinione di corte trasmettendola a personaggi che ne sono al di fuori. La tematica è molto varia, più personale, filtrata da una vena di fine umorismo; non c’è più la pesante costruzione medievale, ma un taglio più vivace e un ricorso più spontaneo alla citazione o al parallelo antichi. È un’opera letteraria di alto livello ma meno importante storicamente rispetto a quella di Valera. La fama di Pulgar è legata ai Claros Varones di Castilla, raccolta di 25 profili biografici di protagonisti della vita castigliana sotto Juan II e Enrique IV (scritti nel 1483 e stampati nel 1485) dedicati alla regina. L’autore vuole consegnare alla memoria dei posteri le imprese dei suoi conterranei come Plutarco e Valerio Massimo avevano fatto per gli eroi antichi, tradizione che però si arricchisce di una dimensione nuova in quanto ai castigliani vengono contrapposti non solo greci e romani ma anche francesi: all’autoaffermazione diacronica si integra quella sincronica, in corrispondenza di una nuova coscienza della posizione dei castigliani nell’Europa del tempo. Il motivo nazionalistico non è però quello più importante: le vicende dei nobili sono narrate soprattutto con un fine didattico e morale. Da Plutarco e Valerio, Pulgar ha appreso il carattere esemplare della storia, come paradigma di comportamenti e soprattutto di virtù; i valori che ricerca e celebra sono le qualità del politico e del cortigiano. La vita dell’uomo appare condizionata dalla permanente dialettica tra le sue doti e il libero uso che ne fa, da una parte, e il condizionamento dei disegni provvidenziali: un’antitesi in cui la riflessione sulla fortuna, così viva nel Quattrocento castigliano, converge con la polarità umanistica fra fortuna e virtù rivestendola di religiosità. Pulgar inserisce inoltre delle digressioni morali e dei commenti che trasferiscono il caso singolo su una misura più generale. Non si tratta più dell’esemplarità medievale, per cui racconto e senso didattico coincidono, ma a una moderna esegesi morale per la quale il fatto è spunto necessario ma esterno. Si colgono le peculiarità individuali e si ricava dai personaggi una misura di educazione storica. I sovrani affidarono a Pulgar nel 1481 la compilazione della loro cronaca (prima parte terminata nel 1484; la seconda narra la guerra di Granada fino al 1490. Proseguono dei rimaneggiatori). La Crónica de los Reyes Católicos di Pulgar è, tanto dal punto di vista sacro-profano) ad una produzione di tipo satirico che investe una problematica morale e politica resa scottante dalla violenta crisi del regno di Enrique e che si mantiene su di un tono lontano dalla violenza sfrenata e dal compiacimento del singolo lazzo. Il momento terminale della sua produzione sono le liriche religiose composte sotto i Re Cattolici, nelle quali la tematica sacra si traduce nella glossatura di letras e cantares popolari. Avviene così un doppio recupero: della religiosità al punto di incontro tra la sensibilità dei conversos e quella della regina, e di forme e toni di popolare semplicità che permettono la diffusione della lirica in strati più vasti. È interessante come un’impostazione letteraria che si origina in una politica culturale non si qualifichi in una rivoluzione ma in un recupero, in una restaurazione all’insegna della novità. Prendiamo l’esempio di Fray In(gn)igo de Mendoza, nato a Burgos verso il 1430 da un membro della potente famiglia aristocratica dei Mendoza e da una Cartagena. Entra nell’ordine francescano, fu legato alla corte di Enrique e poi di Isabel, della quale fu predicatore. Muore tra il 1502 e il 1508. La sua opera principale è Coplas de vita Christi (1467-1468). Il racconto non va oltre la strage degni innocenti e guarda esplicitamente a Mena, ma ne sostituisce i contenuti con temi forse ricavati dalla trecentesca Vita Christi di Ludolfo di Sassonia, ma comunque cari agli ambienti francescani (racconto evangelico, infanzia di Cristo, rapporto tra Madre e Bambino…). Ma il tema non allontana il poeta dalla realtà: sfruttando sempre spunti francescani, Inigo inserisce nel poema digressioni non solo moralistiche ma anche di critica sociale, che nella redazione originaria fustigavano i personaggi più potenti della corte di Enrique (una redazione eliminò i riferimenti espliciti). Ulteriormente ritoccato, il poema fu stampato nel 1483-84 nel primo canzoniere a stampa dedicato ad un solo poeta e ebbe molta fortuna. Considerando che Mendoza sfrutta il tema dell’adorazione dei Pastori per un dialogo che costituisce un importante precedente del dramma che fiorirà qualche tempo dopo e che nel poema sono inclusi canciones dal taglio popolaresco, un romance e una desfecha e vi si faccia ricorso a stilemi popolareschi come i proverbi, ben si intende come la Vita Christi anticipi una sintesi letteraria tipicamente isabellina. Il poeta produce anche composizioni religiose meno impegnative e anche poesie politiche (Dechado a Isabel, Sermón trobado sobre el yugo y ciyundas a Fernando e Coplas a entrambi, en que declara cómo es reparada nuestra Castilla) che prendono spunto dalla difficile situazione del regno. I rappresentanti migliori della poesia religiosa dell’età dei Re Cattolici sono Ambrosio Montesino e Juan de Padilla. Montesino nasce a Huete verso la metà del Quattrocento, fu francescano e predicatore di corte; visse nel convento toledano e divenne vescovo ausiliare del cardinale Cisneros nel 1512 per poi morire poco dopo. In Montesino non c’è l’impegno sociale e politico di Mendoza, egli riprende la tradizione esegetica evangelica dei secoli precedenti: è lui a tradurre su richiesta dei sovrani l’opera di Ludolfo di Sassonia ed è sua la versione delle Epistole e dei Vangeli inclusi nella liturgia, con i relativi sermoni. L’opera poetica, da lui raccolta in un canzoniere del 1508 nasce da commissioni di personaggi di alto rango quasi volendo utilizzare la sua vena poetica per la diffusione di una specifica religiosità. Anche se manca uno schema unificatore, il Montesino si ritrova la stessa concentrazione sui temi mariani e dell’Infanzia e della Passione di Cristo. Rimane al centro il problema della salvezza e il mistero dell’umanità di Dio e della maternità di Maria; tuttavia, il popolarismo evitato a livello tematico è accolto a pieno su quello stilistico (semplicità formale + uso di musica profana di tipo tradizionale). Più fedele a costanti culturali è Juan de Padilla (Siviglia, 1468-1522), frate certosino a Santa Maria de las Cuevas, di cui non sappiamo quasi nulla. È l’ultimo a usare il metro de arte mayor, continua a considerare esemplare la lezione di Mena riportandosi anche a Dante. Dopo il giovanile Laberinto del Duque de Cádiz, molto fprtunato fu il Retablo de la vida de Cristo, finito nel 1500 e stampato fino ai primi del 600. Il poema, che narra tutta la vita di Cristo, si presenta come imitazione di un “retablo” (pala d’altare) con 4 pannelli, corrispondenti ai 4 vangeli e ai fiumi del paradiso terrestre; evidente già qui la forte radice tradizionale (Ludolfo di Sassonia) ma con un’esposizione più semplice. Più ampio e ambizioso è Los doce triunfos de los doce Apóstoles, terminato nel 1518 e edito nel 1521, costruito su una trama di corrispondenze (apostoli, profeti, segni zodiacali = 12) e obbediente a un’allegoria di tipo dantesco con riprese evidenti dello stile elevato e complesso di Mena. Il meglio di Padilla sono le rappresentazioni realistiche. In questi poeti è evidente il recupero di forme e toni stilistici di livello popolaresco, recupero collegato con un programma culturale e religioso preciso. Ciò non esclude che esso corrisponda anche a un gusto disinteressatamente diffusosi negli ambienti colti; il che si riscontra in Gato e Mendoza, prima dei Re Cattolici. Questo gusto dilaga anche nella poesia profana, con il conseguente recupero di una tradizione altrimenti destinata a perdersi. Il Cancionero musical de Palacio, messo insieme tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, presenta il repertorio della cappella di corte dei Re Cattolici, repertorio che mostra come la tradizione abbia dato spunto per una nuova produzione che trova la sua misura di gusto nella linea raffinata di un discorso poetico che non nasconde la sua genitura calcolata ma la risolve in semplicità. Sul piano tematico i luoghi consueti della lirica cortigiana vengono spogliati in un’atmosfera rarefatta che punta all’emozione di un sentimento struggente e compiaciuto della propria eleganza. Sono quindi le stesse tendenza della poesia religiosa, indice che la corte riuscì a maturare un gusto ben caratterizzato. La lirica tradizionale Per quanto riguarda la lirica di tono popolare e tradizionale, agli inizi si situano i più antichi testi spagnoli, le jarchas mozarabiche, conservati grazie all’esistenza negli ambienti di Al- Andalus di un gusto per forme, toni e lingua del popolo, gusto tipico do circoli culturali evoluti. Nulla del genere si trova nella Spagna cristiana prima del Quattrocento, quando il canto lirico tradizionale torna ad attirare l’interesse offrendo spunti e temi nuovi, anche per la loro semplicità rispetto ai testi colti. Il gusto del popolare segue di qualche decennio il consolidarsi in Castiglia della tradizione lirica cortese e si afferma soltanto sotto i Re Cattolici quando si ricercano temi nuovi senza però rinunciare alla raffinatezza più ricercata. È un errore considerare la lirica popolare del tutto assente tra l’Al-andalus e gli ultimi anni del Quattrocento, anche se è difficile individuarne le forme, i toni, la vitalità: possiamo servirci solo dei documenti, del parallelismo tra la tradizione mozarabica, quella galego- portoghese e quella castigliana. Come si nota negli inserti di numerosi autori, alla metà del secolo siamo ormai all’affermarsi di un diffuso gusto per il popolare. Si pensa verosimilmente a una parentela che la lirica tradizionale castigliana ha con le forme più popolari della lirica galego-portoghese. Pidal nel 1919 suppone l’esistenza di una antica tradizione lirica comune ed indigena alla penisola, ipotesi cui le poesie mozarabiche hanno apportato conferma, per quanto parziale. Pare evidente che le liriche contrassegnate ai manoscritti o alle stampe nel Cinquecento siano più antiche e possano vantare di vitalità nella tradizione orale. Ogni testo ha ovviamente la sua storia, ne citiamo 3: 1. Il lamento (endechas) per la morte di Guillén Peraza fu raccolto nelle canarie dallo storico Galindo nel 1632 ma Paraza era morto a Las Palmas nel 1443; il breve testo si era dunque mantenuto per 2 secoli nella memoria popolare (con modifiche) 2. Il “Tres morillas me enamoraron” ci è pervenuto nel Cancionero musical de Palacio, ma continua un antico tema lirico arabo. È chiaro che il testo castigliano risponda a un gusto per l’esotismo 3. Il “No puedo apartarme” appare in un canzoniere catalano e nel Cancionero de Palacio e pertanto la poesia deve essersi diffusa sia in Catalogna che in Castiglia. Queste poesie, sempre destinate al canto, sono per lo più villancicos, nome che tocca propriamente al ritornello iniziale, formato da un distico (rimato, assonanzato o sciolto) o da un tristico o da un tetrastico; seguono una o più strofe variamente rimate, in cui l’ultimo o gli ultimi due versi si ripetono dal ritornello. Questi testi melici sono tutti opera di singoli poeti, rimasti anonimi perché i loro testi divennero patrimonio comune grazie alla diffusione orale. Non manca però talvolta l’incidenza della poesia colta. Il carattere popolare di queste liriche risiede non nell’origine o nella loro natura, ma nella diffusione e nella vitalità tradizionale-, né va trascurata la scelta dei temi prevalentemente amorosi, e la loro stilizzazione. Il romancero Affiora nella penisola iberica un altro tipo di poesia popolare, il “romance”. In una specie di zibaldone del 1421, Jaume de Olesa, un giovane maiorchino, mise per iscritto (incompleta) una versione del romance della Dame e del Pastore, una sorta di pastorella alla rovescia. In un canzoniere conservato a Londra si trascrivono di Juan Rodríguez del Patron (1430-40), tre romances, probabilmente raccolti dalla tradizione orale. Nel 1444 Mena accenna a una versione della morte di Fernando IV riprendendo tematiche romanzesche e poco dopo anche Santillana parla di “romances e cantares”. Alla corte di Napoli, Carvajal compone, a imitazione dei tradizionali, uno dei quali del 1454. Dopo questi primi affioramenti, sotto il regno di Enrique IV (1454-1474) comincia la moda del genere in Castiglia e durerà fino a metà del Seicento. Poi i romances scompaiono tra i colti pur essendo ripetuti dal popolo e dopo che il romanticismo ne ebbe restaurato il gusto al livello sociale e culturale più alto, essi sono andati riaffiorando ad opera di raccoglitori, tra cui Pidal. Nei secoli XIII e XIV la parola romance indicava una “composizione narrativa in versi” sia didattica che epica, ma nel Quattrocento il termine si specializza per un genere particolare. Il testo raccolto da Jaume de Olesa è in doppi ottonari con il primo emistichio piano e il secondo tronco e con assonanza in e dei secondi emistichi; i tre romances di Juan Rodriguez del Padron hanno la stessa struttura, ma il verso è meno regolare e uno dei aspetti si integrano in un drammatismo decantato, nel senso del destino in cui si risolvono tutti i contrasti, chiusi nella misura di un tempo soprannaturale, insieme incalzante e fermo. Il romance chiude in sé una coscienza della vita forse poco ragionata ma ricca di singolare modernità per la sua individualità e il suo drammatismo; vi è una coscienza nuova del rapporto tra vita e poesia. Qui la poesia è intuizione di un microcosmo individuale di fulminea durata eppure denso di realtà perenni. La narrativa: stilizzazione e tramonto della civiltà cortese In questi anni la cultura europea riceve un nuovo impulso dalla diffusione della stampa. Di conseguenza, il senso della custodia e della trasmissione del sapere perde significato, mentre nasce una concezione diversa dell’attività intellettuale. La parola scritta muta profondamente il rapporto tra l’autore e il destinatario: alimenta la richiesta di opere da parte del pubblico e getta le basi dell’economia libraria moderna; inoltre fonda un concetto più complesso di letteratura come possibilità perché estende, sia a livello pedagogico che di intrattenimento, la sfera di influenza del prodotto letterario su cerchie sempre più numerose di lettori. In questi anni si scrivono in Spagna alcune opere di fantasia destinate, col favore della stampa, a una grande diffusione durante il Cinquecento; rappresentano, sotto Carlo V e Filippo II i primi esempi di best-sellers della cultura spagnola moderna. Si tratta per lo più di romanzi, o meglio di modelli romanzeschi cui la riproduzione a stampa conferisce col passare degli anni più chiara etichetta di genere. Due si impongono particolarmente: il romanzo sentimentale e i libri di cavalleria. Nel primo caso è la Cárcel de amor di Diego de San Pedro, che diverrà un modello di passione infelice e di disputa amatoria per dame e cavalieri della società cinquecentesca; nel secondo, l’Amadís de Gaula, che presenta un emblema di eroe inverosimile, capace di soddisfare qualsiasi esorbitante smania di avventura al livello della fantasia. Scritti alla fine del 400, verranno ristampati e tradotti in tutta Europa fino al Seicento, mentre resteranno nell’ombra i romances, i canzonieri e le opere didattiche isabelline. I primi prodotti che la cultura di lingua castigliana riesce ad esportare oltre i confini appartengono a una letteratura di evasione e utilizzano o rielaborano miti del passato. Infatti, entrambi i generi romanzeschi hanno in comune una certa patina di arcaismo e una serie di convenzioni etiche e linguistiche del Medioevo, e forse sono proprio queste le cause della loro fortuna. Il gusto dell’antico equivale a una nostalgia superficiale: in pieno umanismo vengono rilanciati codici e miti di una civiltà cortese ormai verso il tramonto. I lettori apprezzano anche il mondo ruffianesco e crudele della Celestina, le commedie di Torres Naharro e di Gil Vicente, una galleria di tipi umani spregiudicati. Il rimpianto della cortesia è quindi controbilanciato da una letteratura realistica per lo più in forma drammatica che propone eroi degradati. La creazione di questi personaggi fantastici e dei loro miserabili e vigorosi antagonisti è uno dei grandi temi della cultura dei Re Cattolici: dualismo che è destinato a durare nella letteratura della Spagna moderna. Inoltre, grazie alla traduzione, alcune figure caratteristiche del goticismo spagnolo diventeranno miti popolari nella nuova Europa. Il romanzo sentimentale La narrativa sentimentale e cortese sembra interessare un lungo arco temporale: dalle origini bretoni e in parte italiane del tardo Trecento, fino agli epigoni pastorali del XVII secolo; tuttavia, il momento cruciale in Spagna riguarda pochi decenni. Se si eccettua il tentativo isolato di novella amorosa di Juan Rodríguez del Padrón con Siervo libre de amor (1430), gli esemplari più tipici del genere sono compresi in un arco di tempo che va dall’inizio del regno di Isabella e Fernando ai primi anni del Cinquecento. Fra il 1470 e il 1490, Diego de San Pedro compone il Tratado de amores de Arnalte e Lucenda e la Cárcel de amor (1491-92); degli stessi anni sono le operette di Juan de Flores il Breve tratado de Grimalte e Gradissa e la Historia Lérida nel 1495; e degli inizi del Cinquecento è l’anonima Questión de amor de dos enamorados. Osservando questi testi, si nota subito l’estrazione “cortese” di queste “novelas” e quella cortigiana in senso professionale e sociale degli autori. Diego de San Pedro, pur venendo da una famiglia di ebrei convertiti, mantiene sempre un posto ufficiale nella cerchia della grande nobiltà vicina ai monarchi e diviene poeta cortigiano alla moda, autore di canzonieri e prosatore: rappresenta lo scrittore professionista che dimostra nelle scelte pratiche e culturali, la maggiore stabilità che si va instaurando fra attività letteraria e corte. Lo stesso varrebbe per Flores. I loro romanzi raggiungono nell’arco di pochi anni unità e compattezza di genere letterario. La tradizione è varia e polimorfa: il mondo della cortesia si combina con lo sfondo magico- cavalleresco della letteratura arturiana, l’allegorismo della poesia e della narrativa francese tardo-medievale, l’autobiografia sentimentale, la retorica e il gusto della peripezia amorosa di Boccaccio, l’eco di modelli di eloquenza sentimentale in voga nella letteratura castigliana. La struttura tipica appare pertanto composita e diseguale: vi è un filo conduttore narrativo che salda insieme un certo numero di “anelli” o nuclei retorici (sermoni, sfide, lettere…) e, come argomento, in ossequio al codice cortese, una vicenda sentimentale dall’esito quasi sempre funesto (morte), sullo sfondo di una morale dell’autore o di un altro personaggio, che si finge spettatore e costituisce l’io narrativo. Ovviamente, basandosi su questo schema ogni autore poi interviene personalmente distanziandosi dai modelli medievali, creando variazioni “spagnole” sia nei comportamenti dei personaggi che nei loro gesti quotidiani. Il più tipico schema di intreccio è del tipo: un cavaliere ama una damigella, che ne accetta le lettere, ma non vuole o non può ricambiarlo per ragioni di onore; il cavaliere, aiutato dall’autore-testimone, dopo aver lottato contro i vari concorrenti, si isola e si toglie la vita. È il caso della Cárcel de amor di San Pedro. Ci sono però anche soluzioni diverse. Ad esempio: il cavaliere concorrente (secondo galán) sposa la princ ipessa amata dall’eroe, e questi lo uccide in duello ma sempre inutilmente (Arnalte). Oppure: l’amante e l’autore sono la stessa persona e il rifiuto dell’amata è legato al fatto di appartenere a una famiglia di più alto lignaggio (Siervo libre de amor). E ancora: l’amante d’una prima storia diviene il mediatore e testimone d’una seconda (Grimalde y Gradissa). Vi è poi la variante sostanziale in cui l’amore dell’eroe è ricambiato dalla principessa (Siervo libre de amor, parte centrale, Grisel y Mirabella); in questo caso l’impedimento è costituito da un re-padre che punisce uno o entrambi con la morte (Siervo, Grisel) Si tratta pertanto di un codice di massima piuttosto rigido che si dimostra dotato di una certa flessibilità nei materiali di contorno, negli sbocchi e nelle invenzioni secondarie. Questi scrittori, inoltre, si rivolgono a un pubblico ben preciso. La Carcel e il Grisel conquistano il successo perché simboleggiano nelle figure del servizio d’amore, nelle passioni e nelle morti, contenuti sociali tangibili, modelli di comportamento attuali per varie generazioni di lettori, in particolare per la nuova nobiltà che ancora guarda alla cortesia e per la futura borghesia. Per quanto riguarda lo scenario, è sempre quello immaginoso dei libri di cavalleria ma possiede legami con un tempo e uno spazio reali: corti dai nomi orientali ma di sapore quattrocentesco, angoli di natura…come per momentanee trasgressioni al ritmo atemporale della favola. Le allegorie sono calchi di modelli francesi. Nella Carcel, la prigione o torre in cui è rinchiuso Leriano è una congerie di stati d’animo personificati, i quali appaiono come sentinelle della malattia amorosa del protagonista. Cercano di rianimare l’eroe, come figure quotidiane e credibili di una piccola corte. Si pensi a Speranza che getta l’acqua in faccia all’eroe privo di sensi. Altro cardine di questi romanzi sono le epistole amorose. Enfatiche e prolisse, presentato un loro lucido didascalismo, una logica di tesi e controtesi amatorie che le rende esemplari. Gli eroi raramente agiscono o parlano: inviano messaggi scritti, attorno ai quali ruotano vari intermediari. Le lettere sopportano tutto il peso della denuncia, assorbono e sottintendono quanto di descrittivo e oggettivo è taciuto o solo accennato nell’opera. Per questo il loro stile abbonda di antitesi, parallelismi e vecchi concettuali proprio per persuadere. Essenziale è nelle lettere la preminenza che viene data al rapporto sociale fra i due sessi come depositari ciascuno di certi privilegi e doveri, di vizi e virtù (si guarda soprattutto al debate della civiltà medievale). Ciò appare chiaro sia in San Pedro che Flores che introducono digressioni sulle virtù e i difetti delle donne anche interrompendo il filo del racconto (Veynte razones di Leriano nella Carcel…). La stessa tematica è sviluppata nello stile epistolare: le lettere hanno un effetto di compromissione e di rivelazione dell’intimità dei protagonisti. Una nuova retorica epistolare si affina sulla scorta della vecchia retorica amorosa e l’incertezza degli eroi è un ottimo terreno per sviluppare il gioco delle parti. Le lettere stesse vengono sottoposte a giudizio dei destinatari perché i narratori non dimenticano che esse forniscono la prova della lontananza dell’amata. La distanza tra gli amanti è obbligata e quasi rituale, perché il decoro femminile la esige e ne prolunga la durata. La forza del codice d’onore, facendo obbligo alla donna di rifiutare o di resistere all’amore (o nascondere la propria relazione) crea anche la finzione di un tempo narrativo lungo. Le lettere sono gli esercizi di attesa che coprono questo lungo tempo, e si fanno lente, articolate e sottili quanto più la damigella resiste. Questo meccanismo è univoco ed è difficile spiegarlo con la sola appartenenza alla tradizione cortese. Un narratore come Diego de San Pedro accoglie, della cortesia, quasi tutte le regole “maschili” ma non quelle femminili: non si danno casi di interferenze amorose sullo sfondo di una legittima vita coniugale. Il moralismo severo delle corti spagnole in materia di matrimonio è forse all’origine di questa censura. Il rischio è eliminato molto semplicemente: le eroine spagnole non hanno marito, sono “doncellas”, libere quindi di sposare chiunque, di rifiutare, di far soffrire. Pertanto, l’impedimento a riamare viene reso attraverso il codice d’onore. Anche l’onore è un luogo comune della letteratura cortese, ma, nei romanzi spagnoli, se ne esalta il potere pensiamo solo alle ostruzioni e agli incantesimi, esiste nel romanzo un genere di impedimento che si svolge a livello implicito, una componente di diff icoltà affidata in apparenza al caso, ma in realtà ben calcolata. Le soluzioni che ne derivano sono una specie di intelaiatura simbolica dell’opera. Un primo caso è quando l’ostacolo si esaurisce nell’atto stesso del suo superamento. Mentre Amadis viaggia si levano contro di lui numerosi antagonisti (umani o naturali o soprannaturali) che egli abbatte ogni volta. È lo schema più elementare dell’avventura: è un viaggio ininterrotto, o meglio interrotto infinite volte e infinite volte ripreso. L’ostacolo appare come un punto di rottura prettamente ricucito. Vi è poi un genere di impedimento più complesso che interferisce a lungo sul destino del cavaliere. È quando l’ostacolo si presenta come una forza deviante, nascosta o indipendente dalla volontà dell’eroe. Un ostacolo che modifica la sua rotta, ne sconvolge tempi e obiettivi. Si pensi alla sua nascita: pur figlio di un re è soggetto a clandestinità, spostando il suo destino; dal salvataggio inizia il recupero dell’impedimento. Per quanto riguarda le soluzioni agli impedimenti queste sono spesso scontate. Nella prima serie di ostacoli, l’autore riesce a stento a rendere credibile la finzione che si sia un’alternativa di disfatta. Nell’altra serie di ostacoli, i conflitti e le conseguenti fatiche si incrociano e si susseguono per interi libri creando nel lettore meccanismi di attesa e identificazione. Altro motivo importante, oltre all’impedimento, è la verità apparente. Il mondo di Amadis è fino a un certo punto un mondo di situazioni precarie anche nel senso dell’identità dei volti e degli oggetti: immagini che sono reali ma si dispongono a un’esistenza illusoria soggetta a continui mutamenti. L’eroe stesso si presenta con una certezza ambigua, solido e vacillante; il suo cammino è seminato di false parvenze, si sogni impropri, di notizie sbagliate che procurano equivoci. (incontra i genitori e i fratelli senza sapere chi siano…). Vediamo un codice favolistico espediente ma suscitatore di rivelazioni e sorprese. Il tutto è però volto a una verità conclusa: l’autore dissemina di aspettative e di incertezze la sua mitologia cortese come uno stregone. Nell’Amadis troviamo un narratore onnisciente che ha nel pubblico il suo diretto interlocutore. È l’autore che arbitra gli scontri incerti, che riassume il già narrato, che offre delucidazioni e rassicurazioni. Non sta dentro al racconto in qualità di finto personaggio come nel romanzo sentimentale, ma ha l’autorità mediatrice del distacco con cui guarda l’opera: egli crea una finzione di oggettività su una materia volutamente fantastica. Si gettano così alcune premesse di quella che sarà la “commedia degli inganni” nel teatro barocco e nel futuro romanzo di cappa e spada, del moderno romanzo di avventure a puntate. La tecnica consiste nel disegnare un evento in ogni suo particolare senza svelarne subito il senso, di mettere in azione personaggi dalla falsa identità che compiono gesta misteriose, così da avere sempre una parte di verità nascosta. Alla fine, però, i grovigli saranno risolti. In questo disordine trova ampio spazio il cosiddetto lirismo narrativo: in una cronaca meticolosa, ci sono intervalli di contemplazione attoniti dinanzi ai misteri, ci sono coinvolgimenti del reale nel mito; c’è un simbolismo elementare delle descrizioni di incantesimi e sogni; c’è un realismo con cui si ferma e si scompone il mito senza disarmarlo interamente. Es. descrizione della torre e del giardino di Apolidon dove tutto è grazia e splendore misterioso e quella del drago dove ogni parola suona letteralmente. Pag. 203-204 I due passi illustrano i valori superlativi della tradizione favolistica: il Bene e il Male; in entrambi i casi rinvii più concreti a funzioni e associazioni pratiche attualizzano il clima rarefatto, atemporale del sogno, ne riducono il mistero. Da un lato quindi il lirismo dell’Amadis ha il valore di un ritorno all’irrazionale della favola, all’incontro primordiale con il mito; dall’altro mette in evidenza proprio i limiti di questa secolare attrazione. Si tratta di una favola tarda, incline alla stilizzazione, lascia trasparire i segni di una cultura ordinatrice, orientata verso un concetto più umanistico e platonico del bene e del male. In sintesi, si parte dalla favola e si arriva a codici di comportamento reali (moralismo). L’Amadis finisce per essere il romanzo delle tentazioni proibite. Prendiamo ad esempio l’erotismo: egli non è insensibile ai conflitti amorosi della materia bretone, ma li lascia allo stato latente, nascosti dietro l’artificio dell’edificazione morale o di un leggiadro intrattenimento. Il risultato è di un’ambiguità sconcertante: il romanzo è tutto percorso da una sensualità trattenuta quasi più provocatoria perché nascosta: gli impulsi repressi affiorano sotto mentite spoglie. Se non sfociano nei complicati rituali sado-masochisti del Carcel de amor, possono dar luogo, come qui, a una trama di lusinghe e di calcolati appostamenti, di tremiti stati d’attesa e di censure bugiarde. Possono favorire stati passionali e reazioni a un livello prosaico e particolaristico, che abbassano di tono la ferrea logica del servizio d’amore. Ad esempio il tema dell’altra donna (verso la quale Oriana è gelosa) diventa un espediente romanzesco che interferisce a lungo sull’unione dei due protagonisti: un ramo di litigi e di schermaglie amorose più vicino nei toni a una moderna triangolazione borghese (Oriana-Amadis-Briolanja) che a un conflitto di eroi e eroine da favola. Facendo ciò l’autore cerca di avvicinare gli eroi al loro pubblico creando delle rapide identificazioni, salvo a ricomporre più tardi l’autorità e le distanze del mito. Tutta la storia di Amadis è una storia di perfezione morale continuamente minacciata e ristabilita, di un istituto etico soggetto al turbamento di forze devianti e ricondotto all’armonia primitiva: Amadis nasce da un amore illecito e lo riscatta egli stesso con l’apprendistato cortese e con il reinserimento in una famiglia nel frattempo legittimata dal matrimonio; uccidendo il drago castiga l’incesto divenendo l’artefice di un esercizio a sfondo religioso. Sulle convenzioni giuste dell’eroe pesa questa continua imminenza di infrazione e di disordine che è rivolta ai cavalieri-lettori del XVI secolo, eccitati prima dal rischio che si profila, rassicurati poi dalla vittoria finale dell’istituzione (Amadis si sposerà con Oriana, si circonderà di una raffinata corte lasciando spesso le armi, si dedicherà al buon governo dello stato) Tutto ciò è il riflesso di una situazione culturale in movimento. Con l’Amadis, la cavalleria codifica i suoi simboli, esplicita la sua morale. Nel momento in cui cessa l’attualità sociale del servizio cortese, comincia la sua vita libresca come modello. Nasce, nella forma di un romanzo fantastico, il primo manuale moderno del cavaliere perfetto: espressione di quella cultura umanistica e neoplatonica che affinerà l’arte del “modello” nei diversi piani etico- pratico, politico e religioso durante il Cinquecento. Continuazioni e imitazioni dell’Amadis. Il Palmerón de Olivia” e la fortuna dei libri di cavalleria Il genere cavalleresco si afferma nel nuovo secolo in spagna, Italia, Francia, Italia e Inghilterra. Per lungo tempo l’Amadis resta un esemplare unico e ineguagliato. Comincia, a partire da lui, un’altra storia di libri di cavalleria come proliferazione di ingredienti di successo: ha inizio quello che può definirsi il primo e più vistoso fenomeno di moda letteraria della cultura moderna. La ragione di questo successo è innanzitutto l’Amadis: è il miraggio del racconto senza fine, che insinua e pretende un rinnovamento ciclico del mito col perpetuarsi della stirpe dell’eroe. Amadis ha avuto un figlio, Esplandián, che verso la fine del IV libro è già adolescente e si dice destinato a imprese maggiori di quelle del padre; chiaro è l’invito a continuazioni. Lo stesso Montalvo dà alle stampe nel 1510 un quinto libro intitolato Las sergas de Esplandián. Inizia così una saga letteraria (l’ultimo discendente di Amadis è di 40 anni dopo il primo libro) Altro caso letterario è quello che riguarda il Palmerín de Olivia (1511, scrittrice sconosciuta). La fortuna del nuovo personaggio è basata inizialmente su un calco di motivi e situazioni dell’eroe maggiore. Vi è il tema dell’origine precaria e clandestina (Palmerin nasce da amori segreti e scampa alla morte), la rivalsa sull’impedimento con una serie di avventure vittoriose (investito cavaliere compie varie imprese in Europa) e poi l’agnizione e il lieto fine con relativa consacrazione regale e prospettive di governo saggio (impero d’Oriente). Anche in questo caso è immediata l’attrattiva della continuazione. Nel 1512 vediamo un secondo libro, il Primaleón che racconta le imprese dei due figli di Palmerin, Primaleón e Polendos, e gli amori di Flérida, loro sorella, con Don Duardos d’Inghilterra. L’autore anche in questo caso anonimo dedica ampio spazio all’intreccio sentimentale, con note di attualità improntate a un realismo familiare, anche con riferimenti a persone reali. Facendo ciò assicura un’ampia popolarità ai suoi personaggi, primo fra tutti Don Duardos (Gil Vicente gli dedicherà una commedia). Poi il figlio di Don Duardos e Flérida continuerà la dinastia diventando protagonista di un altro libro, il Palmerín de Inglaterra, composto dal portoghese Cabral. Nati nel Medioevo, i libri di cavalleria mettono radici sotto l’impero fino a lambire l’età di Cervantes. La fioritura non è casuale. Sono gli anni del primato spagnolo in Europa, della crisi eterodossa e dei rapidi mutamenti del gusto nelle arti e nei modi di vita; il messaggio dei libri di cavalleria riesce a soddisfare esigenze più profonde di un semplice bisogno di evasione. La fortuna di queste opere è legata alla storia di una mentalità sociale che altrimenti non potrebbe essere scritta. Sui vari romanzi pesa, fin da subito, una riserva di natura morale, che ha un’impronta tipicamente erasmiana: quella dell’offesa della verità. L’Amadis e il Palmerin sono additati come veicoli di corruzione perché si fondano su castelli di menzogne. Il rifiuto degli umanisti e dei teologi avviene perché vedono l’ordine etico scardinato da un’ondata di disordine. Vi è però una contraddizione fra queste censure e il mito della cavalleria: anche a livello di élite, una certa ammirazione trapela in singoli casi per le qualità dello stile; anche i teologi, i mistici, i cortigiani confesseranno di essere lettori dei romanzi incriminati, come se si trattasse di una tappa inevitabile nel loro cammino intellettuale. È inoltre sintomatico che alla fine del regno di Carlo V il genere si dimostri disponibile a una riduzione “a lo divino” più conforme ai nuovi orientamenti culturali, assimilando santi e divinità alla cerchia dell’eroismo cortese (Caballero del sol). Questa divinizzazione segna il tramonto del romanzo cavalleresco primitivo con la sua definitiva assimilazione all’ideologia di stato. Non dimentichiamo che l’Amadis è segnato da una fitta possibilità di identificazione e associazione. C’è chi legge nei libri di cavalleria un’affascinante occasione di rischio, una Rojas fu un converso, un ebreo convertito, e esercitò l’avvocatura; aveva una cultura fondamentalmente umanistica; al tempo della stesura dell’opera era baccelliere a Salamanca e ancora giovane; a partire dall’edizione di Siviglia del 1501 è richiesta, presumibilmente da Rojas stesso, la collaborazione di un “correttore”, Alfonso de Proaza, con il quale integra e emenda il testo edito del 1499, aprendo anche spiragli sul suo nome e sulle ragione pratiche e ideali dell’opera (precisa di aver solo terminato una commedia che altri-forse Mena-avevano lascito incompleta al primo atto); nel 1502 vediamo un’altra edizione arricchita di 5 atti e di un prologo in nome “delle richieste dei lettori”. Alcuni hanno negato l’esistenza di un co-autore, identificandola come un’identificazione fittizia. Poi però vennero scoperti dei documenti che invece attestano una reale identità storica, compreso il suo testamento. In questi documenti si dice che è nato nella Puebla di Montalvan (Toledo) tra il 1470 e il 1476; muore nel 1541 in Talavera de la Reina. Scopriamo che era un giurista che effettivamente esercita la professione e che diventerà forse sindaco di Talavera de la Reina (o de los Reyes). Rojas cela così accuratamente il suo nome perché nella sua attività difende molti ebrei conversi (come lui stesso è) tra cui il padre della moglie Leonor Alvares de Montalvan dall’accusa di CRIPTO GIUDAISMO Digressione storica: Problema della diaspora ebraica + conversione forzata degli ebrei alla religione cattolica durante l’epoca dei Re Cattolici. Fino ad ora c’era stato un clima di grande tolleranza in Spagna (Spagna delle 3 religioni). Tutto questo dura fino al 1300 perché, più tardivamente rispetto all’Europa, in seguito a una profondissima crisi economica (+epidemie di peste del 1330 e del 1343, devastante l’ultima) -> impoverimento soprattutto del popolino + predicazione di certi religiosi che cominciarono a imputare agli ebrei l’origine di queste sventure -> il popolino si aizzò contro gli ebrei, che si erano distinti fin dall’alto medioevo per il commercio e il maneggio del denaro (come una sorta di nascente borghesia). Erano degli intermediari tra i musulmani e i cristiani, si distinsero come il patriziato burocratico. Diventarono facilmente il bersaglio e vennero accusati di far scarseggiare i viveri nei mercati. Queste incitazioni alla violenza razziale si arriva a dei PROGROM: assalto alle sinagoghe, ai ghetti (non ancora chiamati così- aljamas). Es. eccidi del 1391 che portarono a un vero e proprio sterminio di comunità ebraiche. Tramonta la Spagna delle 3 religioni. I sovrani che prima avevano sempre apprezzato l’intelligenza ebraica, a partire da Enrico IV (1454-1474) s comincia a chiedere alla Chiesa romana di impiantare in Spagna dei tribunali: TRIBUNALI DELLA SANTA INQUISIZIONE. Inizialmente il Papa rifiuta ma poi i Re Cattolici lo richiedono. La politica dei re cattolici cavalcarono il disappunto popolare e nobiliare come politica unificatoria, come una specie di crociata -> riconquista di Granada ai musulmani + politica anti-ebraica che impose a tutti gli ebrei la conversione. Chi non si convertiva al cristianesimo (conversos) doveva lasciare la spagna. Questo determinò l’esodo degli ebrei, queste comunità di sefarditi (ebrei in terra spagnola; per loro la spagna era Sefarad; per i musulmani era al-andalus). Il problema però non si esaurì con la conversione degli ebrei; l’inquisizione cominciò a indagare su quegli ebrei che si erano convertiti sinceramente e quelli che lo avevano fatto solo apparentemente per poter rimanere. Iniziò una sorta di caccia al Criptogiudaismo (adottano usi della religione cattolica ma privatamente conservano usi e costumi ebraici). Come si scopriva una conversione sincera e una NON sincera? Non c’erano sufficienti inquisitori/polizia inquisitoriale per poter verificare che in ogni casa i riti osservati fossero effettivi e quindi si stabilì una sorta di persecuzione sociale: tutti potevano accusare i vicini di criptogiudaismo. Gli ebrei colpevoli venivano condannati con la sottrazione di beni -> arricchimento di beni. È in questa Spagna, divisa e dilaniata, che vive Rojas. Gilman ha infatti parlato della prudenza di un converso/cristiano nuevo vs cristianos viejos (cristiani da sempre); è un uomo esiliato nel proprio paese, emarginato. La storia editoriale della Celestina è molto complessa e STRATIFICATA. Si hanno molte edizioni che divergono l’una dall’altra. Si ha prima una “Comedia de Calisto y Melibea” con 3 edizioni (Burgos, Toledo e Sevilla) che presentava 16 atti. Queste 3 edizioni sono relativamente simili, in quella di Burgos manca il fascicolo iniziale, è sprovvista dei preliminari dell’opera. Quelle di Toledo e Siviglia sono invece complete, hanno molti di questi preliminari, sia all’inizio che alla fine. -> 16 ATTI Abbiamo poi altre edizioni che presentano ora il titolo di tragicomedia: cambia il titolo e quindi il genere. Ci sono 5 atti aggiunti: 21 ATTI TOTALI. La prima edizione che conosciamo di Tragicomedia è quella di Roma del 1506 (sicuramente prima c’era una in spagnolo andata perduta); fino a 60 edizioni. A parte l’esistenza di una redazione limitata al primo atto e più antica di mano diversa, restano due diverse redazioni della Celestina: 1. Una in 16 atti con il titolo di Comedia de Calisto y Melibea, di cui rimangono la prima edizione di Burgos del 1499 (manca di frontespizio e del materiale introduttivo e finale delle altre edizioni; anonima); quella di Toledo (seconda edizione) del 1500 (presenta i preliminari con l’epistola e le ottave acrostiche, quindi non è anonima + l’epilogo con le ottave di Proaza); quella di Siviglia del 1501, con le aggiunte iniziali e finali 2. Una in 21 atti (Trata di Centurio), di cui la più antica edizione sembra essere quella di Siviglia del 1502 e che cambia il titolo in Tragicomedia di Calisto y Melibea. Tuttavia, per questa tragicommedia si ricordano anche quella di Roma del 1506 e quella di Zaragoza del 1507 che presentano dei ritocchi a preliminari ed epilogo, allusioni a Juan de Mena o Rodrigo Cota come possibili autori dell’atto iniziale, riferimenti a letture e commenti dei contemporanei. Seguono poi numerose Tragicomedia de Calisto y Melibea tra il 1510 e il 1520 (Toledo/Siviglia, Valenza, Roma); un Libro de Calixto y Melibea y de la puta vieja Celestina, Sevilla, ca. 1515; circa 60 edizioni tra 1523 e 1632 Ancora un atto verrà aggiunto, ma non da Rojas, nell’edizione di Valencia del 1514 (Auto de Traso). Questo testo con 22 atti conta 7 edizione, la prima a Toledo nel 1526 e l’ultima nel 1560. Alcuni presuppongono l’esistenza di un “edito princeps” anteriore al 1499) Il titolo, poi universalmente assunto, di Celestina appare per la prima volta nella tradizione italiana nel 1506. Viene scelto come titolo perché la figura della donna risalta con prepotenza e costituisce il motore dell’azione. Frontespizio Comedia de Frontespizio Tragicomedia Calisto y Melibea, Toledo 1502 Calisto y Melibea, Burgos, 1499 L’edizione di Burgos, in foto, mancava delle prime pagine. Presenta una xilografia dove sono presenti Calisto e Melibea. Questa xilografia è una specie di riassunto: ci dice che un giorno il cavaliere va a caccia e per rincorrere il suo falcone entra nel giardino di Melibea. La vede e se ne innamora MA non riuscendo a trovare il modo di ingraziarsela, ricorre a una mezzana, Celestina, e grazie a lei (intermediazione e sapienza magica- strega?) Melibea si innamora. Questo amore genererà una vera e propria catastrofe, un’ecatombe. Da questo amore-passione scaturiranno svariate morti. Tutti quelli che hanno partecipato all’organizzazione dell’incontro muoiono in modo più o meno fortuito. Si tratta di una tipica storia di amore-morte raccontata nella narrativa medievale con tanti altri esempi (es. Tristano e Isotta + in generale la novela sentimental spagnola). Stratificazione del testo e struttura finale 1. “auto primero” Autore sconosciuto (1499) Rodrigo Cota o Juan de Mena (1507) Fernando de Rojas? 2. Continuazione (fine auto 1 + autos da 2 a 16) Anonimo (1499) Fernando de Rojas, in acrostico (1500) 3. “argumentos” degli autos Tipografi (16 autos originali) Fernando de Rojas? (5 autos aggiunti) 4. Strofe finali Assenti (1499) Alonso de Proaza (1500) 5. Aggiunte (5 autos) e altri ritocchi Fernando de Rojas (1507) 6. Aggiunte e ritocchi alle strofe finali Alonso de Proaza (1514) XX-15 Melibea si suicida davanti al padre Pleberio gettandosi da una torre XXI-16 Lamento finale di Pleberio Forma drammatica e stile dell’eloquio: il commento delle azioni umane Per realizzare tutto ciò occorreva una forma duttile e aperta da abbracciare spostamenti di livelli e dinamiche così accentuate; pertanto Rojas sceglie il dialogo vivo (la prosa) che è implicitamente azione drammatica, scesa: teatro. È teatro a livello potenziale: uno schema di commedia travolto da una geniale inadempienza di norme. Il primo scompenso sta nel rapporto tra l’unità di tempo complessiva e la pluralità dei tempi in cui è divisa l’azione. Non c’è modulo teatrale fisso (4/5 giornate) ma sono i fatti e i pensieri dei personaggi a fissare la durata delle scene, l’economia delle parti. E’ come se l’autore adattasse agli ingredienti tipici della commedia un soggetto ideato inizialmente per la narrativa. È dunque teatro, ma scritto in progressione, senza preoccuparsi della messa in scena. L’autore del primo atto e Rojas hanno in mente uno schema preciso, un taglio di spazi e di tempi saggiamente calibrato. Anche l’incertezza nel qualificare l’opera (commedia/tragicommedia) dimostra l’importanza che assume il problema di una struttura unitaria. La pluralità degli atti non è frutto di accumulazione caotica, è un’unità di misura. La preoccupazione di Rojas è rimanere fedele al significato e allo stile della redazione primitiva: il frammento lo invita a soluzioni semplici e potenzialmente repentine, ma con tanti dettagli, concatenazione di frasi e di intervalli. E ne tra un primo spunto essenziale per la tecnica drammatica: la lentezza dell’esecuzione: gli atti che compone sono più brevi del primo ma numerosi, per non violare la norma della lenta dinamica. Gli eventi della Celestina sono il frutto di una preparazione accorta, capillare, simile a una lenta gestazione, che sono poi oggetto di riflessione e commento da parte degli altri personaggi (riassunti, riepilogati, esaltati, derisi). Questa cornice di eloquenza è il grande amplificatore delle dimensioni dell’opera. Rojas diviene così il drammaturgo dell’illustrazione totale dei pensieri e delle azioni dei suoi eroi. Allo stesso modo si comporta dopo i fatti. L’opera è tutto un susseguirsi di lente analisi di ciò che è accaduto o sta accadendo per volontà dei singoli o per il capriccio della fortuna. La Celestina è la prima opera moderna in cui prende corpo quel topos della riflessione interiore sulle azioni umane, che poi culminerà con Cervantes e Shakespeare. I pensieri dei protagonisti formano attorno agli eventi uno strato di attesa, un sedimento di razionalità apparente, un rovello di confessata debolezza. I personaggi si osservano enunciando tutti una morale generale, un principio di vita; è come se fossero gli ultimi depositari di un’antica dottrina del vivere, di una cinica saggezza. Da qui ne deriva un periodare sentenzioso, fatto di clausole brevi, che accoglie sullo stesso piano, i luoghi comuni della retorica libresca e della saggezza popolare. Vi è una tendenza all’astrazione che conferisce a tutti i personaggi una responsabilità esplicativa e parenetica, al di sopra delle loro azioni, nutrita di citazioni dotte o di proverbi popolari. I discorsi di Calisto, dei servi e di Celestina hanno infatti spesso l’impianto retorico dei dialoghi dottrinali: ricorrono alla letteratura antifemminista, alle dimostrazioni filosofiche…(pag. 227-228) Questa tendenza speculativa, che pure ha dei tratti di modernità per ciò che riguarda la funzione del personaggio, è invece stilisticamente ancora volta al medioevo, alla vecchia tradizione dottrinale, pur non essendosi cesure nette. Le lunghe digressioni della Celestina rientreranno nella fioritura di goticismo che comprende anche i sermoni della Carcel de amor, dell’Amadis. I personaggi di Celestina non si dilungano solo a persuadere e commentare in astratto: riferiscono le situazioni, tracciano affreschi di luoghi e persone; ne nascono così pagine di letteratura realistica. Es. ritratto che Parmeno fa di Celestina a Calisto nel I atto (pag. 229). Il ragazzo poi ricorda, è la fase della narrazione oggettiva: il personaggio evocato assume contorni più netti, se ne intuisce l’ambito sociale preciso. Dovremo aspettare il Lazarillo de Tormes per ritrovare la stessa concentrazione di toni, la stessa visione del personaggio reietto come protagonista di un ambiente di romanzo, visione che resterà immutata fino alla narrativa ottocentesca (pag. 230). Si passa poi dal ricordo alla fase descrittiva- analitica della perizia tecnica della vecchia, tra alchimia e stregoneria; è un lungo elenco di ingredienti, qualcosa che sta a metà tra l’enumerazione caotica e una classificazione virtualmente esatta, rigorosa come un inventario (-> forma di espressionismo). Si prefigura così un sospetto di favola nera nello squallore realistico della stamberga di periferia. Si salta così nell’irrazionale: è come la visita di un archivio diabolico, che maschera dietro la precisione del dettaglio un’oscura, indefinita violenza. Alla luce di ciò possiamo dire che siamo davanti a un esemplare tipico di struttura composita, costruita al di là di ogni intento di dimensione teatrale. MA l’autore del primo atto e Rojas non sono insensibili al linguaggio specifico del dramma! Attorno a queste digressioni, a questi squarci di eloquenza (rallentamento), si snoda un tessuto drammatico, calcolato, di spazi e di tempi reali. Gli stessi personaggi che si attardano a parlare, sanno anche scambiarsi battute brevi e repentine (pag. 232). Lo stile della Celestina è il risultato della tensione che si stabilisce tra questi due modi di comunicare: uno lento, pausato, astratto e subalterno; l’altro rapido, simultaneo al gesto, teso alla realtà concreta. La struttura itinerante Il funzionamento della commedia come opera drammatica si basa sempre sul legame unità-molteplicità. La crescita degli atti è il momento della molteplicità; è una distribuzione progressiva di tempi che si adegua alla trama di pensieri e parole, di preparativi e commenti che assedia la vicenda. Il numero cresce a dismisura perché a ciascun atto corrispondono brevi unità dinamiche, tappe di questa lenta strategia. C’è un ritmo interno, un incalzare di cause e effetti, per cui tanta lunghezza non impedisce all’opera di essere anche fulminea, precipitosa verso il suo esito mortale. (pag.233). Già nel primo atto, nelle brevi parole di Parmeno, abbiamo un primo avviso della struttura interna dell’opera. C’è sempre nella varietà dell’intreccio il recupero dell’unità. La Celestina, come favola, è molto più semplice di qualsiasi romanzo cortese o libro di avventura. La vicenda ruota attorno a 3 temi: 1. L’appagamento dell’amore 2. La sete di denaro 3. La morte È il racconto dei primi 2 temi verso il trionfo del terzo; il resto è tutto un groviglio, strategia di pensieri. L’equilibrio che ne deriva è insieme elementare e complesso, regolato da meccanismi che è facile individuare al di là della struttura dialogica. Uno di questi meccanismi è quello degli spostamenti e delle ambascerie. L’opera è tutta costruita su un preciso schema itinerante; in essa il dinamismo dei personaggi, seguendo la linea tortuosa dei 3 temi, acquista un’importanza che trascende quella dei normali movimenti di scena. Vi sono 2 ritmi principali: 1. Uno intermedio, preparatorio, che esprime indizi e avvertimenti di ciò che sta per accadere (soste e dibattiti nelle case di Calisto e Celestina, monologhi, conversazioni lungo la strada) 2. Uno centrale, che è il punto di arrivo dell’altro (visite e convegni in casa di Melibea) La struttura formale della Celestina è quindi data dall’alternanza fra pochi nuclei drammatici in cui si celebra l’evento-base (cioè l’adescamento, la soddisfazione dei sensi), e un itinerario di “viaggi in città” che ne costituisce la preparazione accurata, il lento sottofondo. Ma questo avvicendarsi di ritmi ha le sue costanti:  C’è una triangolazione precisa secondo una linea che va da Calisto a Melibea passando per Celestina, con varie ambascerie, e tutto nel senso di viaggi di andata e di ritorno, in due fasi successive  C’è un fitto gioco di interni e esterni: da una parte l’attesa, l’essere per essere (giardino, muro finestra); dall’altro il dialogo pieno, la battaglia incerta o vittoriosa (soggiorno, ingresso, alcova)  C’è un gioco, meno evidente, di alti e di bassi: un moto verticale che va dalla strada, dal pianterreno, a stanze o piani superiori cui si accede salendo le scale, saltando muraglie (si vince la resistenza e si gode dell’amore) Il fatto che i personaggi siano tutti in movimento da un punto all’altro, che siano sempre per partire e far ritorno…è una rappresentazione scenica di una ruota della fortuna medievale, in cui la simbolica rassegna dei casi e dei personaggi ha ceduto il posto a una concentrazione di eventi in una città e in un tempo oggettivi; di un labirinto divenuto reale e urbano. La triangolazione dei viaggi è il simbolo della tensione di Calisto verso Melibea nel senso di un cammino deviato. Incapace di arrivare all’oggetto del desiderio con la forza del proprio linguaggio, cioè con un cammino rettilineo, il cavaliere allunga il percorso ricorrendo al denaro e all’inganno e coinvolgendo nelle deviazioni i servi, Celestina e Melibea. Vi è una corsa dei due appetiti umani, lussuria e denaro, che si incrociano e si alleano tendendo a ciascuna delle 3 case/moradas.  Per Celestina il vero obbiettivo è la casa del cavaliere-amante, dove nasce la passione che può degradarsi ad affare; la casa di Melibea, invece, è solo lo strumento, il teatro dell’opera di mezzania.  I servi aspirano alla casa di Celestina che ospita le loro giovani amanti, che custodisce il denaro di cui vogliono appropriarsi; a questo fine diviene strumentale la casa di Calisto di cui conoscono i segreti  Per Calisto la casa di Celestina è in funzione di quella di Melibea
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved