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La Ciociara di Moravia: Un Capitolo Storico e Psychologico, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Italiana

Il romanzo 'La Ciociara' di Moravia, conosciuto anche come 'Il sentiero dei nidi di ragno'. della significativa rappresentazione dello stupro fisico e psicologico di Rosetta, oltre che come disastro storico, sociale, economico e culturale per l'Italia. Moravia riflette sulla guerra e sulla propria esperienza individuale, oltre a ragionare sul fatto che 'La ciociara' non è un libro di guerra nel senso tradizionale, ma un'estensione universale dell'esperienza individuale. Il documento include anche osservazioni di Barcelloni sul romanzo.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2018/2019

Caricato il 18/05/2022

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Scarica La Ciociara di Moravia: Un Capitolo Storico e Psychologico e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! ALBERTO MORAVIA E LA CIOCIARA. LETTERATURA. STORIA. CINEMA. Atti del Convegno Internazionale a Fondi, 18 dicembre 2010 INTRODUZIONE LA CIOCIARA: UN ETHOS ANTICO PER UN NUOVO PATHOS NEL «ROMANZO SULLA GUERRA» DI ALBERTO MORAVIA Quando scrive La ciociara Moravia ha ormai cinquant’anni e una lunga serie di successi letterari alle spalle. Lo scambio epistolare tra Alberto Moravia e l’editore Valentino Bompiani rivela la volontà dell’autore di dare un titolo diverso e una diversa immagine in copertina al suo romanzo, dimostrando lungimiranza, capacità di osare e competenze di marketing editoriale di gran lunga più avveniristiche del suo interlocutore. Egli propose per il titolo Lo stupro o, alla maniera classica, Lo stupro d’Italia e per la copertina ipotizzò immagini forti, per un romanzo che egli stesso definiva «una cronaca della guerra, un libro sugli orrori della guerra»1: Guernica di Picasso, I disastri della guerra di Goya. L’evento capitale del romanzo Moravia lo rileva nell’atto dello stupro, da intendersi in una duplice valenza: fisica e psicologica della giovane Rosetta, ma anche come disastro storico, sociale, economico e culturale sull’Italia. Era un nuovo pathos quello della guerra, che necessitava appunto immagini forti e parole sconcertanti. Lo stupro appare titolo inadeguato per l’edizione italiana, sia a causa dell’immediata terrificante brutalità che avrebbe allontanato i lettori piuttosto che incuriosirli, sia a causa della decisiva compiutezza e chiarezza semantica. Alla proposta di un quadro di Anna Salvatore, Moravia risponde che nel libro non c’è affatto amore, a parte quello per la propria terra, per la ricerca della verità e per una ‘figlia d’oro’; propone allora, avendo capito le intenzioni dell’editore, La treccia di Renoir2. Le copertine del romanzo che nel tempo si sono avvicendate potrebbe costituire altrettanti capitoli di una storia dell’orientamento prospettico editoriale, che di volta in volta ha messo in evidenza qualcosa a discapito di qualcos’altro: dal Quadro di donna di Lorenzo Tornabuoni per l’edizione 1974, a La madre e la figlia di Gino Severini per l’edizione di fine anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, fino alle immagini di Sophia Loren tratte dal film di De Sica, che sono diventate ormai icone insostituibili per la varietà dei messaggi che comunicano. I romanzi sulla guerra pubblicati dagli scrittori italiani durante quei dieci anni di pausa da La ciociara avevano occupato e impegnato la critica. Per citarne alcuni: Uomini e no (1945) di Vittorini, Il compagno (1946) di Pavese, Cronache di poveri amanti (1947) di Pratolini, Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, L’Agnese va a morire (1949) di Viganò, Il sentiero dei nidi di ragno (1954) di Calvino, Primavera di bellezza (1959) di Fenoglio, La ragazza di Bube (1960) di Cassola, Il giardino dei Finzi Contini (1963) di Bassani. Questi erano stati tutti catalogati all’interno della vaga categoria del Neorealismo. Nella prefazione dell’edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino scriveva qualcosa che può riguardare anche Moravia: (…) l’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua (…) La storia di Cesira e Rosetta, di Alberto ed Elsa, però, era affidata a una voce riconoscibile, che doveva esprimere insieme alla realtà della guerra, la fantasia generata dalla distanza di oltre dieci anni dagli avvenimenti narrati, nella finzione romanzesca. Ancora Calvino scriveva: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cose? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali (…) Il Neorealismo per noi che cominciammo di lì, fu quello. Anche per Moravia l’intenzione era esprimere e non documentare, e il suo non poteva e non voleva essere Neorealismo, ma l’incontro fra realtà e fantasia. Moravia non pensa più soltanto al Secondo Conflitto Mondiale e alla propria esperienza individuale, ma ragiona e riflette sul fatto che «La ciociara non è un libro di guerra nel senso ormai tradizionale del termine; è un romanzo in cui è narrata l’esperienza umana di quella violenza profanatoria che è la 1 Lettera del 24 dicembre 1956. 2 Lettera del 15 gennaio 1957. 1 guerra»; queste riflessioni riguardano dunque in modo paradigmatico ogni conflitto bellico. Si potrebbe ritenere superato il lungo dibattito sulla definizione realista o neorealista del romanzo La ciociara; la razionalità usata da Moravia è garanzia della possibilità di un’estensione universale dell’esperienza individuale. Così ciò che impara Cesira, cioè che «la guerra sconvolge tutto e, con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono» e così ciò che dice Michele, l’intellettuale dietro il quale si nasconde Moravia, cioè che «la malvagità non è che una forma dell’ignoranza e chi sa non può veramente dare il male». In una nota pubblicata un anno prima della morte, nel 1989, Moravia ripropone i densi aforismi scritti nel 1944 e raccolti nel Diario politico, in cui vi si ritrova l’immediatezza dell’esperienza esistenziale e umana che aveva voluto fugare scrivendo il romanzo La ciociara. [Gli aforismi] non sono stati scritti come ricordi ma come qualche cosa che vorrebbe rappresentare e magari influire su ciò che sta succedendo. Chi li ha scritti non è uno scrittore al suo tavolino ma un attore sulla scena della vita or ora vissuta o in procinto di essere vissuta. Non c’è alcun passato dietro di essi; soltanto un presente nel suo farsi. Dalla lettura degli aforismi appare la saturazione e la critica caustica a quegli anni di sottomissione e obbedienza, di censure e di paure, di quel catastrofico conflitto mondiale. Aveva avuto ragione: soltanto la distanza temporale dagli avvenimenti storici avrebbe potuto lasciar sedimentare ironia e cinismo, e consentirgli di raccontare la vicenda di Cesira e Rosetta come una vera tragedia, cui nulla manca, nemmeno la catarsi finale. Ci sono romanzi che conducono il lettore in mondi fantastici, nel senza tempo e nel non luogo. Ce ne sono altri che lo lasciano attonito a contemplare il proprio tempo, il proprio mondo. Poi ci sono le grandi narrazioni che lo proiettano a ritroso nella storia. Infine, ci sono quei romanzi che entrano nelle nostre vite di lettori, portandovi completa l’esperienza di disperazione e di speranza d’un passato, anche storicamente reperibile e ricostruibile, che giunge fino al presente come monito perdurante nella coscienza, e ci avvertono del male che proviene dall’ignoranza. La ciociara è un romanzo che continua a esortare il genere umano a non scordare la lezione d’un ethos antico, ma sempre valido, perché dall’uomo è stato concepito, per rivolgersi a ciascun uomo, in ogni momento della Storia. 2 GIANNI BARCELLONI, CON ALBERTO, A FONDI Barcelloni e Moravia si recano a Fondi, nel 1988, per presenziare a un premio letterario, premio vinto dalla cugina di Moravia, Amelia Rosselli. Il giorno seguente Moravia esprime il desiderio di tornare sulla montagna dove lui ed Elsa avevano abitato per quasi un anno durante la guerra. Lo scrittore si aggira per la campagna in silenzio, rievocando di tanto in tanto la convivenza con la moglie, le furiose litigate, la lettura dei pochi libri che si erano portati, la vista della piana di Fondi, da cui vedeva i caccia che si mitragliavano, i proiettili che illuminavano l’oscurità e le bombe che scoppiavano a Fondi. «Alberto mi descriveva tutto ciò senza infilarci neppure l’odore della guerra, ma come se fosse soltanto uno spettacolo, appunto». Barcelloni domanda: «Che tipi erano i contadini che abitavano lì?»; Moravia risponde: «Per lo più brava gente. Molto semplice. Ignorante. Una sera, dopo un bombardamento, mi venne l’idea di leggere loro un brano del Nuovo Testamento, quello che racconta la storia di Lazzaro e della sua resurrezione. Noi eravamo come Lazzaro, costretti in una specie di tomba, con alta probabilità di morire da un momento all’altro. Leggendogli la storia di Lazzaro e del suo ritorno alla vita, pensavo di sollevarli, di rafforzare le loro speranze, invece quasi non reagirono, come se non capissero quello che stavo leggendo. La verità era che loro avevano fame, temevano la fame più della morte. A volte anch’io. Non si mangiava mai, non c’era niente da mangiare». Infine, Barcelloni gli fa un’osservazione, pensando al romanzo La ciociara: «La prima parte, quella ambientata a Roma, a Trastevere, con la ciociara, sua figlia Rosetta, il carbonaio, ha una forte struttura romanzesca: la tua. Dall’arrivo a Fondi della madre e della figlia, fino a poco prima dello stupro il romanzo si trasforma in diario, il tuo. Quando la guerra finisce e le due protagoniste tornano a piedi a Roma, il libro torna ad essere un romanzo, con una Rosetta del tutto cambiata a cui dedichi una fortissima attenzione psicologica. Sembra quasi che tu voglia essere Rosetta». Moravia risponde che potrebbe essere così. NOVELLA BELLUCCI, LA CIOCIARA: PARABOLA E STORIA La ciociara appartiene al genere della narrazione-parabola; è un romanzo sulla guerra che si interroga sul non-senso di questa e che, attraverso la voce di Cesira, narra le fasi progressive di tanta distruzione. Ma per la sua impostazione di parabola, il romanzo va oltre il tema di guerra per farsi emblema del male profondo della vita; si pone come itinerario allegorico, come un viaggio di rinascita possibile da esperienze di inaudita violenza. Viene in mente il climax con cui Boccaccio nel Decameron descrive le fasi della degradazione prodotta sull’individuo e sulla società dall’epidemia di pesta, che si impadronisce di ogni aspetto della realtà materiale e spirituale. Esempio è la perdita del pudore, in particolare da parte delle donne, nel capodopera boccacciano. Allo stesso modo nel romanzo di Moravia una creatura pura e quasi santa (Rosetta), fatta oggetto di violenza bestiale, si metaforizza imbestiandosi; accucciata al torrente per tergersi del sangue che le si è indurito sulle cosce, si lava «senza fretta, con metodo, noncurante di esporre al sole e all’aria aperta le sue vergogne, e si asciuga alla meglio e con la stessa impudicizia quasi di bestia». Il termine bestia esprime potentemente la condizione della creatura offesa fino alla perdita delle sue caratteristiche più umane. L’autore nel romanzo fa della similitudine la trama retorica essenziale e utilizza similitudini inspirate per lo più al mondo animale. Una tra tante si trova nella descrizione che Cesira fa della figlia Rosetta nelle pagine iniziali del romanzo, dove la ragazza è paragonata a una pecorella per i tratti del suo volto. La pecora cui Rosetta è paragonata è portatrice di un forte valore simbolico: rimanda alla mitezza e all’innocenza, qualità amplificate nella figura dell’animale emblematicamente destinato al sacrificio. Così in quella similitudine si addensa e si esprime un destino che si svelerà solo molto più tardi. Dopo l’inaudito macello l’angelo («una figlia che era un angiolo») è deturpato e caduto in una condizione peggiore della morte, la condizione della desertificazione dei sensi, delle emozioni e dei sentimenti: «Ormai non provava più nulla come chi si è fatto una bruciatura e ci viene il callo e può mettere la mano sopra i carboni accesi e non sente niente». Alla specie animale simbolo dell’innocenza si sostituisce dantescamente la specie connessa alla bestialità istintuale, il cane: «Lui non la chiamava con la voce, ma con un fischio, come si fa coi cani; e a lei, a 5 quanto pareva, piaceva di essere trattata come un cane». La guerra si esprime nella sua forza distruttiva soprattutto nella metamorfosi subita da Rosetta. A guerra finita è necessario un estremo evento di insensata e inutile crudeltà perché dalle ceneri di quegli esseri bruciati e annichiliti risorgano le tracce di un’umanità destinata a riaffermarsi solo dopo aver attraversato il luogo purificatore del dolore. In seguito all’uccisione gratuita di Rosario, sono il canto e le lacrime di Rosetta a caricarsi del valore simbolico della purificazione e della resurrezione; canto di quella figura offesa e anestetizzata che sconvolta dal dolore ritrova la voce. Ultimo atto di totale rovesciamento morale è la trasformazione di Cesira, che si appropria dei soldi del morto, da simbolo di onestà a ladra: «Tutta la vita intera era diventata assurda, senza capo né coda, e le cose importanti non erano più importanti, e quelle che non avevano importanza erano diventate importanti». La purificazione avviene soltanto dopo quando, abbandonato il cadavere sulla strada verso Roma, Rosetta canta e piange e con le sue lacrime lava via l’impudicizia e la degradazione, caricandosi del valore simbolico rivestito fin dall’antichità di rimando alla speranza. Queste lacrime fanno pensare a quelle di Dante pellegrino che, alla fine del viaggio in Inferno e Purgatorio, sciolgono l’angoscia pietrificata della vergogna del proprio traviamento. È necessario passare attraverso l’esperienza purificatrice del dolore per restituire la speranza della fiducia nella vita e nel futuro. Il viaggio-fuga da Roma delle donne verso la Ciociaria per sfuggire i pericoli della guerra si chiarisce, alla fine, nel momento del nostos, come viaggio di formazione e di conoscenza: le due donne tornano lacerate ma consapevoli. Rosetta non è più una santa ma neanche una puttana, è una creatura umana che sa. L’attraversamento doloroso del male, del mondo alla rovescia, ha riportato in vita le due protagoniste, le ha fatte risorgere rendendole però più autentiche; come Cristo ha riportato alla vita Lazzaro. Il richiamo finale alla parabola di Lazzaro riconferma l’appartenenza della narrazione al genere dell’exemplum. RENE’ DE CECCATTY, FUORI DALLA TOMBA, MORAVIA E CESIRA Moravia comincia a scrivere La ciociara nel 1946, due anni dopo i fatti che gli avevano ispirato il romanzo. Tuttavia ebbe ben presto dei ripensamenti e preferì scrivere La romana. Questi due romanzi furono determinanti per la sua fortuna. La ciociara rappresenta il suo modo di osservare la guerra così come la visse insieme a Elsa Morate tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944, quando i due, per fuggire alla deportazione, si rifugiarono a Fondi, nel Lazio meridionale (originaria destinazione era Capri). Anche se influenzato da tale esperienza La ciociara non ne rappresenta una semplice trascrizione, in quanto in esso la vicenda bellica viene trasfigurata attraverso la narrazione di uno stupro e in quanto i protagonisti scelti sono una madre, donna di origine ciociara, e sua figlia. Perché nel 1946 Moravia accantonò la prima stesura della Ciociara e la riprese solo dieci anni più tardi? Nel corso del decennio egli scrisse numerosi romanzi: La romana (racconto attraverso la giovane prostituta Adriana del rapporto delle diverse classi sociali con sesso e potere. È terminata la repressione fascista e possono essere di nuovo affrontati questi argomenti; la vita della prostituta è in realtà un pretesto per definire uno spaccato più ampio della società borghese romana e per descriverne il popolo); Il conformista (sull’omicidio dei fratelli Rosselli, suoi cugini; cambia i tipi psicologici, affrontando i costumi e il modo di essere di un delinquente perverso e suicida); I due amici (non portato a termine; sull’amicizia tra un comunista e un fascista); Il disprezzo (vi confluiscono alcuni contenuti de I due amici e testimonia il forte interesse per i temi psicologici). Solo nel 1956 Moravia torna al tema della guerra con La ciociara. Diverso era allora il suo rapporto con gli eventi storici, con le vicende psicologiche e con i personaggi; inoltre vi era una rinnovata consapevolezza: era ormai un autore affermato che non aveva più l’ansia di conquistare il pubblico. Non aveva più bisogno di raccontarsi e avvertì la necessità impellente di raccontare una certa Italia, mezza coraggiosa e mezza vigliacca, l’Italia conosciuta nel soggiorno in Ciociaria. Come per altri suoi scritti sceglie di raccontare in prima persona e con voce femminile. Da tempo ha in mente i suoi personaggi: Cesira, una donna piena di senso comune e di saviezza, mezza onesta e mezza furba; Rosetta, una giovane cattolica ingenua e inesperta; Michele, un prete laico, filantropo casto e idealista. La scelta di parlare della guerra, ormai 6 finita, e facendolo dal punto di vista della gente comune, che non vi avevano partecipato, ma piuttosto che la avevano subita passivamente, lo preoccupò, preoccupazione espressa all’editore Bompiani. Senza raccontarsi direttamente, egli attinse in buona parte dall’esperienza a Fondi con Elsa. Formò una nuova coppia, che solo apparentemente non li riguarda: una madre e una figlia. Molto di Alberto confluisce in Cesira, e lo stesso per Elsa e Rosetta. Moravia può così raccontare in modo diverso, rispetto a nel Disprezzo, il suo rapporto con la Morante: Elsa/Rosetta è ora fragile, minacciata e impotente davanti alla tragedia dello stupro (Rosetta) o del distacco e della pazzia solitaria (Elsa), protetta dagli occhi premurosi di Alberto/Cesira. Si servi di questa “favolizzazione” degli eventi anche per analizzare il rapporto tra gli italiani, il fascismo e il nazismo (Michele spiega la guerra a Cesira che apprende e poi scrive il libro). Il libro non fu capito da molti. Prima tra tutti, dai ferventi cattolici della Ciociaria (Lettera del 26 settembre 1957 di Bompiani che gli svela la reazione del vescovo Carlo Livraghi). Il film di De Sica e l’interpretazione della Loren aiutarono il successo del romanzo. La ciociara non è un libro storico-realistico; in esso non c’è la volontà di raccontare e ricostruire le fasi della guerra (come ne La Storia della Morante); è semplicemente un libro interiore sull’esperienza della guerra come una vita di morte. E scrivere, testimoniare, è poter uscire dalla tomba, come Lazzaro, e tornare a vivere. ANGELO FAVARO, LA CIOCIARA O L’ESPRESSIONISMO DEL MALE I romanzi compresi fra Gli indifferenti e La noia propongono tutti un’attenzione alla fisiognomica dei personaggi, anche con il fine, di ascendenza ottocentesca, di costruire una relazione diretta fra l’aspetto fisico e i caratteri psicologici. Ne La ciociara si può notare uno scarto significativo rispetto agli altri romanzi; a eccezione di Rosetta, tutti gli altri personaggi sono presentati con corpi e volti dai tratti sgraziati, deformati e repellenti, caricaturali. I romanzieri dell’Ottocento (Stendhal, Balzac, Flaubert, Proust, molto letti da Moravia) avevano avuto lo scopo del “tutto tondo”, ovvero avevano tentato di coniugare la materialità corporea alle azioni e alle riflessioni di ciascun personaggio. L’abbondanza di descrizioni e di ritratti ne La ciociara ha, oltre che necessità di ordine drammatico, narrativo, storico e mimetico, lo scopo di evocare attraverso la narrazione una delle esperienze più drammatiche della vita del romanziere. Moravia, nella descrizione che ne fa, non ha come obiettivo la contemplazione dei suoi personaggi, ma l’impellenza necessaria dell’azione. La percezione che ne risulta è quella di una realtà deformata, espressionista, tale da far considerare più verosimile e disastrosa la situazione proprio perché la narrazione implica un coinvolgimento critico e dinamico nel lettore. Sembra voler affrontare di nuovo il romanzo ottocentesco, ma con intenzioni e metodo di composizione molto differenti da quelli tentati con Le ambizioni sbagliate (1935), in cui si riteneva ancora possibile raccontare tutto un mondo compiutamente; il disastro, il male della guerra, è scritto non solo nel sovvertimento del mondo, delle cose, delle situazioni, ma anche e soprattutto nei volti, nei dettagli dell’aspetto di ogni personaggio, nel disordine dei corpi. Ogni volto, ogni corpo, ogni atteggiamento contiene indizi e dettagli che raccontano la causa dell’abbruttimento cui conduce inesorabilmente la guerra. La devastazione che si attua dentro e fuori l’uomo si legge e si riconosce in quella mappa dei sentimenti che sono i volti e sui corpi che sostengono quelle vite. La galleria dei ritratti individuali dei personaggi principali e secondari non è resa oggettivamente, ma è filtrata dalle sensazioni e percezioni della persona loquens, Cesira. Non è la realtà ad essere deformata, ma è Cesira che vede e racconta ciò che vede attraverso il proprio personale e individuale sentimento degli eventi. Quasi nulla la impressiona fino al silenzio. Oggetti e persone sono descritti con tecnica espressionista; anche ciò che sembrerebbe indescrivibile trova una propria possibilità di rappresentazione verbale ed entra nel romanzo, sebbene distorta. È proprio tale tecnica applicata alla scrittura narrativa che rende possibile la densità del linguaggio, capace in tal modo di dire l’indicibile, di raccontare l’inenarrabile. La prima descrizione è quella che Cesira fa di sé all’inizio del romanzo; non la si potrebbe definire una bella ragazza, nonostante la procacità, così come il marito, Vincenzo, non è certo un uomo affascinante, come il carbonaio Giovanni, definito grasso e calvo, pur se buono. Procedendo da Fondi verso la campagna gli incontri si fanno più numerosi e i personaggi appaiono ancor più deformi. Cesira li descrive servendosi spesso di similitudini tratte dal mondo animale. Il procedimento descrittivo del personaggio è straordinariamente efficace: partendo da una visione d’insieme ci si sofferma sul volto e si prosegue con l’abbigliamento e la postura, si propone l’orrore fisico che provoca la percezione 7 malaffare». Talismano malefico annidato nel fondo della Ciociara, quel reggicalze è il simbolo dei sortilegi cattivi che a volte la storia impone alle sue vittime. RAFFAELE MANICA, LA VITA IN PROSA. MORAVIA INTERVISTA LA LOREN “Moravia intervista la Loren” non è lo scrittore che intervista l’attrice occasionalmente per un film tratto da un suo romanzo, ma suona come: il Grande scrittore intervista la Diva. Il titolo completo dell’intervista, che esce su «Show» e su «L’Europeo» nel settembre 1962, è Anatomia di una stella – Alberto Moravia interroga Sophia Loren. Siamo in uno di quei casi in cui il nome dell’intervistato e il nome dell’intervistatore, pur nella differenza dei campi di riferimento, sono sullo stesso piano di riconoscibilità; o meglio, siamo di fronte a uno di quei casi in cui il nome dell’intervistatore, per prestigio di firma, aggiunge valore al nome dell’intervistato. Non conta tanto quel che l’intervista alla Loren dice, ma conta che l’intervista alla Loren sia stata fatta. [Non mi sembra granché importante] SIMONETTA MILLI KONEWKO, LA CIOCIARA: LA FUNZIONE DELLA COMPASSIONE COME CRITICA SOCIALE La ciociara, ispirata alle esperienze personali della guerra vissute da Moravia, si focalizza sui personaggi di una madre vedova, Cesira, e della figlia, Rosetta, brutalizzate dagli eventi legati alla Seconda guerra mondiale. Le donne, fuggendo da Roma verso le montagne della Ciociaria, percorrono e occupano due ambienti: quello urbano e quello rurale, che funzionano da sottofondo per le loro tribolazioni. Moravia espone le due protagoniste a dolorose circostanze che alterano la loro capacità di affrontare il dolore e la loro predisposizione a essere compassionevoli. Definito forse il romanzo più riuscito di Moravia dopo Gli indifferenti, La ciociara ha attratto notevole attenzione critica sia per gli aspetti stilistici che storici. È possibile analizzare l’avventura di Cesira tenendo presente la sua partecipazione compassionevole verso le disavventure degli altri e investigare le implicazioni sociali connesse a tale coinvolgimento. Questa analisi dimostra come Moravia usa la componente emotiva della compassione per denunciare il suo rifiuto della guerra, analizzare la situazione sociale ed evidenziare la funzione sociale della protagonista femminile. Tale studio evidenzia le situazioni che istigano o inibiscono risposte emozionali aprendo nuove possibilità di comprendere la partecipazione sociale della protagonista e la sua condizione di donna. Inoltre, esaminando La ciociara dal punto di vista delle teorie delle emozioni e in particolare della compassione, questo studio sottolineerà specifiche caratteristiche di tale emozione. Al fine di esaminare i significati attribuiti all’immagine della compassione proposta da Moravia, saranno prese in considerazione teorie delle emozioni elaborate da Catherine Lutz, Lawrence Blum e Amelié Rorty. Il termine compassione sarà esaminato nel senso di “preoccupazione per la condizione di un altro individuo; coinvolgimento emotivo nella vita di un altro individuo, espresso attraverso un cambiamento di consapevolezza o azione diretta a migliorare la condizione dell’altro”. Questa alterazione emozionale può essere trasmessa attraverso parole, azioni o gesta che riconoscano le difficoltà dell’altro individuo. Aristotele individua tre elementi necessari per la compassione:  La sofferenza deve essere seria, non frivola;  La sofferenza non deve essere causata dalla responsabilità della persona sofferente;  L’osservatore deve percepire quella sofferenza come condizione possibile. Attraverso l’esame di questi aspetti è possibile stabilire come la componente emotiva esercitata dalla protagonista le permetta di aprirsi agli altri, acquisire una maggiore coscienza sociale, e liberarla dal suo isolamento. LA COMPASSIONE DI CESIRA. La ciociara si fonda sull’idea che un trauma importante influenza la capacità dell’individuo di sentire ed esprimere la sua partecipazione emotiva. La sofferenza di Cesira implica un’attenzione in senso esterno, cioè verso le circostanze sociopolitiche caratterizzanti il momento storico. Spesso i suoi commenti sono rivolti all’inabilità di comprendere l’attuale situazione politica o i ruoli dei partecipanti alla guerra; le sue osservazioni drammatizzano la condizione di miserabilità in cui la gente comune viveva. Inizialmente Cesira appare inesperta nei confronti della realtà della guerra, mentre successivamente diventa tangibilmente cosciente della crudeltà del conflitto. I 10 suoi momenti compassionevoli si evolvono da una fase originaria in cui ella esprime un sentimento indulgente verso tutti alla fase finale quando diventa insensibile e indifferente. Nel primo capitolo, quando mamma e figlia decidono di lasciare Roma, le espressioni di compassione di Cesira invitano una valutazione della situazione sociale, sottolineando l’intento della madre di alleviare il dolore con cibo e altre sostanze materiali («staremo da papi»). Successivamente le sue manifestazioni emozionali evidenziano la sua vulnerabilità verso gli avvenimenti politici e sociali. Entra in gioco la considerazione affettiva verso il sofferente: la madre avverte il dolore della figlia come un elemento importante del suo ambito emotivo e si impegnerà per cercare di mitigarlo. Il coinvolgimento emozionale di Cesira serve a evidenziare il senso di impotenza della gente comune verso scelte politiche. Focalizzandosi sul dolore di Rosetta, Cesira denuncia la guerra come motivo generante infelicità fisica ed emozionale e ristagno sociale. Con la rappresentazione della sofferenza di Rosetta, condizione degna di compassione e diretta conseguenza della situazione politico-sociale, Moravia suggerisce un esame critico degli effetti sociali connessi all’attività politica del tempo. Con lo svolgersi delle vicende Cesira è esposta a eventi gradatamente più difficoltosi che l’aiuteranno ad acquisire una crescente consapevolezza del suo ruolo sociale. La sua partecipazione emozionale iniziale verso l’amata Ciociaria o gli abitanti del luogo viene sostituita da un sentimento di distacco e indifferenza, risposta alla violenza («le nostre disgrazie ci rendevano indifferenti alle disgrazie degli altri. In seguito ho pensato che questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà»). Catherine Lutz crede che l’emozione sia un antidoto all’alienazione che preclude qualsiasi possibilità di relazione umana; «se l’emozione non è associata alla ‘razionalità’, è almeno da considerarsi cugina della saggezza». Con lo svolgersi della storia Cesira diventa persino incapace di esprimere compassione verso la propria vita. L’atto aggressivo finale contro madre e figlia mostra come gli eventi vissuti infrangano il loro spazio soggettivo e compromettano la loro stabilità emozionale. Dopo la violenza subita Rosetta offre se stessa a tutti gli uomini che incontra. Cesira dal canto suo non è più in grado di comunicare con gesti o parole alla figlia. Con la rappresentazione di una madre senza compassione verso la figlia, Moravia drammatizza i cambiamenti che lo spirito umano subisce in condizioni di orrore, quando le facoltà umane di interagire con gli altri e la comprensione compassionevole sono severamente danneggiate; l’autore comunica il cambiamento sociale implicito nel momento storico e le alterazioni subite a livello personale. La scena è significativa perché mette in discussione il paradigma della compassione fornito da Aristotele: gli elementi per il suo verificarsi sono presenti, ma l’emozione non viene prodotta. In questo caso Moravia è in accordo con M. Whitebrook, secondo la quale le risposte compassionevoli non sono sempre originate da condizioni stabilite metodologicamente, ma variano con le circostanze. La ciociara propone la compassione come antidoto all’insensibilità prodotta dalla violenza. L’afflizione, l’abuso, l’indifferenza che la guerra genera sono superati quando Cesira vede la figlia piangere di nuovo; la protagonista capisce allora che la fine del conflitto può restaurare speranza e fiducia in un coinvolgimento umano. Nonostante ciò, alla morte di Rosario ella ruba i soldi dal corpo e mostra la sua noncuranza e il suo deterioramento morale, mentre il coinvolgimento emotivo di Rosetta indica la sua ripristinata facoltà morale. CONCLUSIONE. Moravia presenta Cesira come una donna sensibile, né intellettuale né istruita, e vulnerabile fisicamente. La sua caratteristica principale è la percepita incapacità di provocare un cambiamento sociale. Il vocabolario di Cesira è essenziale, ripetitivo ed esprime una logica semplice che esclude speculazioni intellettuali. Le sue supposizioni sono basate sull’evidenza dei fatti vissuti e non prevedono possibilità d’azione rivelando l’incapacità della gente comune di proporre cambiamenti sociali e un temperamento femminile educato più all’esecuzione che all’iniziativa. Lo studio delle emozioni di Amelié Rorty coglie la relazione tra sviluppo emotivo e relazioni passate. Per Rorty, uno stato emozionale è influenzato da particolarità della sua storia passata e lo si deve esaminare nel contesto dei precedenti avvenimenti vissuti da un individuo. La condizione di donna di Cesira può aver contribuito a creare la situazione mentale di percepita impotenza. Cesira potrebbe rappresentare un’intera classe che non comprende gli eventi storici del momento, oppure interpretare un nuovo modello di partecipazione sociale femminile che, utilizzando la sua componente compassionevole, è autorizzata a narrare e diffondere la conoscenza di quelle circostanze. Negli ultimi anni la relazione tra miglioramento della condizione femminile e cultura umanistica è stato oggetto di varie analisi. Gli interventi compassionevoli di Cesira sono significativi poiché esemplificano come le donne, attraverso la loro sensibilità, diffondano la loro consapevolezza e rompano il loro isolamento da ogni discussione umanistica. 11 GIOVANNI SPAGNOLETTI, LA CIOCIARA TRA MORAVIA, DE SICA (E ZAVATTINI) La ciociara ha costituito un romanzo importante per il suo stesso autore e, nato a ridosso dell’esperienza della guerra e del rifugio forzato a Fondi, l’opera, che comincia a prendere forma sin dal 1946, subisce una battuta d’arresto lungo dieci anni, segno del bisogno di distanza e di distacco dai fatti narrati. L’esigenza fondante del romanzo sembra essere quella del realismo, un realismo dettato dall’etica, dal bisogno di dire le cose come stanno mantenendo una posizione che è innanzitutto morale e solo in un secondo tempo politica. Nell’adattamento cinematografica, Vittorio De Sica tiene conto delle ragioni dello spettacolo e di quelle della narrazione. La cura della fotografia, l’organizzazione delle luci e degli spazi si piegano al bisogno preponderante di portare avanti un discorso che è prima di tutto divistico. La scelta di Sophia Loren nella parte della protagonista è dettata, prime che da un preciso bisogno di aderenza alla parte, dallo strano effetto di straniamento che avrebbe prodotto su un pubblico abituato ad associare il volto dell’attrice alla commedia. Questa scelta risiede prima di tutto nella logica dello spiazzamento spettatoriale. Una delle prime inquadrature che la vede protagonista è una scena al buio, nella quale un taglio discreto di luce serve non solo a illuminarle gli occhi, centrando l’attenzione non sull’ambiente circostante, ma sul richiamo e sul sex appeal della diva. Tra l’altro proprio sotto l’aspetto dell’interpretazione si tocca la più evidente delle trasformazioni nei confronti del testo letterario: pensato inizialmente con Anna Magnani nella parte della madre e di Sophia Loren in quella della figlia, il film ha dovuto abbassare l’età di entrambe le protagoniste facendo di Rosetta non più una diciottenne ma un’adolescente di tredici anni, diminuendo l’importanza del personaggio (anche per i limiti dell’interprete, l’acerba Eleonora Brown). Altri tradimenti al romanzo sono evidenti non solo nella scelta di limitare e smussare la vis polemica e politica del testo originario, quanto in scelte narrative di contorno. Nel romanzo infatti Michele si rivela personaggio diverso: ancora preso dalla voglia di farsi prete, vive la sua passione politica in un assoluto distacco nei confronti del mondo femminile. Nel film, viceversa, obbligato forse dal bisogno di dare all’attrice il destro per una scena di grande appeal romantico, il ragazzo diventa un innamorato di Cesira con tanto di bacio rubato a favore della macchina da presa. Tolti i presunti motivi di contrasto tra pagina scritta e pellicola, La ciociara si rivela efficace soprattutto nella restituzione del clima dell’epoca e nei dettagli più minuti. L’universo della guerra è tratteggiato, con grande onestà intellettuale, con precisione e nitore. In questo La ciociara film appare vero figlio del suo tempo, oltre che del romanzo. Sino a quel momento i pochi ritratti cinematografici dell’orrore bellico e della resistenza erano stati confinati al mondo dell’istantanea sublime, a un cinema che sembrava cogliere quel mondo in diretta senza mediazione (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946; film al servizio del reale o di eventi comunque molto vicini). La ciociara invece nasce quindici anni dopo la realtà dei fatti narrati. La degenerazione del tessuto sociale di fronte al pericolo e alla paura dei bombardamenti, il degrado dei sentimenti che sconfina nel rapporto madre/figlia che sembrava il più saldo di fronte all’orrore, costruiscono il nerbo portante del fascino ancora attuale del film; anche se bisogna ammettere che la propensione melodrammatica delle scene forti impedisce al regista di recuperare quello spirito polemico che invece è presente sulla pagina scritta, quel lucido furore che rende pregnante e bello il romanzo di partenza. In definitiva fedele nei fatti o nei dialoghi, il film è invece spesso infedele nella sostanza della motivazione alla necessità di raccontare. Per Moravia la distanza temporale dai fatti narrati si traduce in distacco, per De Sica in rievocazione. Al centro di tutto resta, comunque, il rapporto madre/figlia che nel film, più ancora che nel libro, si sostanzia nella resa di un delicato e credibilissimo “lessico familiare”. Nella pellicola forte è la resa della psicologia delle due sfortunate protagoniste e il finale, anche se più dolciastro rispetto alla secchezza del romanzo, si apre a un pianto riparatore che ancora oggi ha la forza di commuovere. 12 EMMA KEANE, UN’ALTERITA’ MASCHILE: LA FUNZIONE PEDAGOGICA DELL’EROE NE LA CIOCIARA Pubblicato nel 1957, La ciociara viene spesso associato alle opere scritte da Moravia negli anni Cinquanta, come Il conformista (1951) e Il disprezzo (1954). In realtà il romanzo basato sull’esperienza bellica dell’autore e della moglie Elsa Morante durante il loro rifugio sulle montagne della Ciociaria andrebbe affiancato meglio a un’altra opera del 1947, La romana, in cui il personaggio principale è una donna popolana che narra la propria vicenda in prima persona. Le analogie tra i due romanzi non finiscono qui: lo scrittore cominciò la stesura de La ciociara subito dopo l’uscita de La romana, ma poco dopo l’abbandonò per concentrarsi sulle bozze de La disubbidienza e su altre opere. La collocazione temporale è importante perché suggerisce che verso la fine della guerra Moravia non era ancora pronto ad abbandonare del tutto le proprie convinzioni politiche allo scopo di offrire un ritratto oggettivo della sua esperienza di guerra a Sant’Agata. Bisogna inoltre considerare il saggio esistenziale incentrato sul Moravia del dopoguerra: L’uomo come fine (1954). Nel saggio emergeva già l’idea dell’alienazione dell’uomo moderno, dotato di autocoscienza nei riguardi della propria responsabilità personale, inserito in un mondo in cui egli è solo il mezzo e non più il fine. Idea di cui è intriso il personaggio di Michele e che viene già abbozzata nel personaggio di Mino nel romanzo del ’47. Michele personifica una tipologia di mascolinità diversa e al tempo stesso uniforme rispetto ai precedenti personaggi maschili dell’autore; gli intellettuali di Moravia appaiono al tempo stesso inadeguati ed eccessivamente coscienti di tale inadeguatezza, spinti verso l’azione ma raramente capaci di agire. L’inetto o intellettuale è sempre contrapposto alla figura del prepotente. Michele rappresenta l’ascetismo che contraddistingue una condizione emblematica dell’intellettuale nel periodo fascista, in quanto egli contrappone agli altri uomini il proprio disprezzo nei confronti di ogni desiderio materiale, considerato basico e peccaminoso. Ascetismo opposto a uno stile di vita corrispondente all’ideologia fascista. Michele è stato definito l’unico ‘eroe positivo’ della letteratura di Moravia; sebbene le sue idee politiche non siano originate da alcuna esperienza mondana, egli rivela un forte altruismo e un sentimento fortemente marxista e ateo per cui il bene collettivo svolge un ruolo centrale. LA CRISI DELL’INTELLETTUALE E LA SUA DE-FORMAZIONE LETTERARIA. La figura di Michele è inusuale per la struttura narrativa generalmente adottata da Moravia. Esperto in romanzi di formazione, l’autore generalmente esplicita la conversione dall’infanzia alla maturità, dall’adolescenza alla mascolinità, dall’innocenza alla sessualità. La formazione ne La ciociara riguarda (come ne La romana) Rosetta, una figura femminile. La mancanza di una trasformazione spirituale nel personaggio di Michele risulta rara se si considera il ruolo di rilievo della psicologia dei personaggi nell’economia testuale. Egli lotta, al pari di Cesira e Rosetta, contro la soppressione della fede e della speranza che la guerra a poco a poco determina. Lo incontriamo nel terzo capitolo, quando espone il proprio punto di vista critico nei confronti della mentalità della propria gente. Per il padre Filippo, per il quale la guerra non rappresenta altro che un’occasione di profitto economico, Michele è “un fesso”. A dispetto della sua giovinezza, Michele è un padre, tanto per Rosetta quanto per lo stesso Filippo, senza però un’effettiva voce all’interno di una società fascista e antiborghese. Simile è Mino, quando tenta invano di insegnare ad Adriana la propria fede, ossia il valore della letteratura. Se da un lato Michele identifica nella contemplazione l’unico modo per salvarsi dalla realtà moderna, mino con il suicidio finisce per compiere un gesto decisamente più esistenziale, legato alla negatività e di sicuro meno eroico. Con Michele sentiamo maggiormente la disillusione dell’intellettuale piuttosto che la sua ira e crudeltà; possiamo quindi affermare che l’autore voleva esprimere qualcosa di non tradotto in altri personaggi, ossia la purezza dello spirito di un’ideologia non praticata ma solo teorizzata, la sola in grado di rimanere intatta, innocente e autentica. La sua unica azione è veramente passiva e principalmente cristiana, il suo sacrificio per “i dannati”. Nel quinto capitolo appare ancora più evidente l’intento di Moravia, che sembra suggerire che per chi è dotato di una maggiore “coscienza” della degradazione dell’umanità in un tale momento storico il solo percorso possibile equivale alla distruzione e alla rivolta. Riteniamo che soprattutto in questo romanzo lo scrittore intenda utilizzare il protagonista maschile come portavoce delle proprie opinioni sulla violenza umana, espresse peraltro anche nel famoso saggio L’uomo come fine. Egli afferma qui che «la violenza che sembrerebbe a un primo esame del tutto irrazionale, è legata invece strettamente alla ragione». La violenza per l’autore è quindi una reazione all’alienazione soffocante dell’uomo moderno che sente profondamente di essere usato come mezzo più che come fine: il senso di rivolta è quindi l’unica possibilità per l’uomo di sentirsi ancora vivo e non estraniato dalla società moderna. Per Moravia è allora l’intellettuale che soffre di più perché dotato di una iper-coscienza della realtà, coscienza che lo porta a reagire moralmente agli orrori quotidiani della guerra. 15 UNA DIALETTICA DELLA MASCOLINITÀ – MICHELE E LA SUA ALTERITÀ POSITIVA . Ne La ciociara Moravia utilizza un personaggio maschile come catalizzatore della corruzione di una figura femminile, Rosetta, e della conversione di Cesira, la quale trasformazione avviene attraverso la conoscenza acquisita dalle lezioni di Michele. La visione di autorità prevalente è ancora quella maschile, in linea con l’idea di una società essenzialmente patriarcale. Tuttavia, rispetto ai romanzi precedenti, la focalizzazione deriva da una serie di dicotomie (maschile/femminile, attivo/passivo, istinto/ragione, natura/storia) e non si lega a una schizofrenia del protagonista maschile come avviene in altri testi. Dall’emergenza di simili dicotomie il personaggio di Michele ne esce come profondamente ambiguo e esterno ad ogni tipologia di comportamento di genere, perché la sua castità e la sua mancanza di malvagità rimandano a una mascolinità anticonformista nei confronti dell’epoca storica e lo collocano persino al di fuori dell’opposizione uomo/donna. Attraverso il suo personaggio, l’autore vuole presentare un’alterità maschile in quel determinato periodo storico italiano; un’alterità che rischiava di indebolirsi o cancellarsi per gli effetti devastanti della guerra sull’anima umana. La castità di Michele è messa a confronto con la violenza e la sessualità estreme del mondo maschile che lo circonda: i due vizi principali della società neocapitalista, sesso e denaro, non gli interessano affatto. Ancora più complessa è la dialettica dell’identità maschile nel sesto capitolo, dove Michele incontra un tenente nazista, uomo di lettere, per il quale senza la guerra, esperienza insostituibile, l’uomo non può dirsi tale. L’assenza di Michele dal regno della mascolinità standardizzata lo rende di nuovo diverso; ciò nonostante anche lui vede la guerra come qualcosa di positivo, in cui l’idea di un aksesis personale potrebbe prevalere, mentre la propria funzione pedagogica potrebbe risultare rinforzata. Michele, dopo questo incontro, subisce una crisi di valori: non può immaginare possibile una coesistenza tra la capacità di sentire l’ingiustizia e il piacere provato nell’atto di uccidere. LA CONVERSIONE TRAMITE IL DOLORE. Michele tenta di insegnare a contadini, sfollati (e a Cesira) il senso della compassione e dell’autentica empatia, utilizzando la lettura religiosa. Egli vede la possibilità di una conversione in Cesira mentre non crede esista speranza per gli sfollati. Cesira è corrotta e colpevole non solo per la propria appartenenza alla piccola borghesia italiana; ella rappresenta una mentalità comune del popolo italiano in questi anni bellici, una sorta di malattia spirituale che corrisponde a una mancanza di compassione verso gli altri prodotta dalla guerra. Senza la pietà e l’empatia siamo morti, predica Michele, e cosi parla direttamente a Cesira, l’oggetto più diretto del suo insegnamento. In Moravia il dolore costituisce un valore positivo nel suo rapporto con l’amore e il riscatto umano; mai come in questo romanzo assistiamo a una visione così catartica e genuinamente religiosa della sofferenza. L’uomo è solo ed è responsabile di tutte le sue azioni, e, per dirla con Sartre, la sua libertà è anche la sua condanna. Moravia suggerisce quindi che l’unico modo per salvarsi dalla degenerazione modale della guerra coincide con la conversione, ovvero con la trasformazione della propria esperienza terrestre in una compassione-amore universale. Senza l’amore, con la sua capacità di far mantenere un contatto con la realtà, domina l’alienazione totale in una società disumana e degradata. In quest’opera, attraverso le figure degli sfollati e dei contadini, notiamo certamente tracce di sofferenza e di rivolta, tuttavia possiamo osservare anche una normalizzazione del dolore, manifestata attraverso dinamiche egoistiche della sopravvivenza. Un simile atteggiamento viene duramente criticato da Michele, come pure dallo stesso autore se citiamo da L’uomo come fine: «il mondo moderno è convinto che soffrire sia esistere, che il dolore sia la prima e ultima prova dell’esistenza. Bisogna invece che il dolore sia sentito come impotenza, come non esistenza, come incapacità». Tramite la sofferenza è possibile secondo Moravia una rifondazione del contatto con la realtà, in quanto il vero dolore purificatore e liberatore porta alla redenzione (Schopenhauer). Inoltre, attraverso il personaggio di Michele, suggerisce che l’ascetismo, la contemplazione, l’empatia, sono i mezzi più efficaci per combattere l’oppressione umana. Michele si sacrifica per salvare le persone dalla loro cecità morale. Non riesce con Rosetta (subisce al contrario la conversione dall’innocenza alla corruzione), ma sì con Cesira, che alla morte dell’amico ne comprende le lezioni e apprezza il valore pedagogico del dolore. La morte dell’infanzia di Rosetta viene contrapposta alla “vita nuova” della madre, attraverso una moralità più sana. SUSANNE LYON HOENE, LA CIOCIARA IN SCENA? INTERVENTI PER UN ADATTAMENTO TEATRALE DEL ROMANZO L’adattamento per la scena teatrale può avere il medesimo impatto del romanzo o dell’opera filmica sul pubblico? Se ne discute durante il Convegno su La ciociara a Fondi, il primo dopo la pubblicazione del romanzo e la proiezione del film di De Sica. 16 Per effettuare un discorso fondato bisogna partire dal fatto che Moravia ha scritto drammi e saggi sul teatro e dunque ha una competenza che esula dal campo puramente romanzesco.si ricordi che quando scrive Gli indifferenti egli pensa a una tragedia, e in non pochi romanzi ritornano citazioni e allusioni al teatro. Ma i personaggi de La ciociara, più di quelli di ogni altro romanzo di Moravia, sono personaggi vivi e veri e quindi per la loro stessa natura scenici, teatrali, costruiti quasi per essere compiutamente espressi proprio sul palcoscenico. Molti sono gli esempi (la famiglia di Concetta che Cesira e Rosetta incontrano nell’aranceto a Fondi; tedeschi, fascisti, i buoni e i cattivi, i marocchini e gli anglo-americani); Moravia sembra scrivere il suo romanzo come se pensasse a delle didascalie di un copione teatrale, delineando fisicamente, nell’abbigliamento e psicologicamente i personaggi del suo romanzo. Il tema profondo del romanzo risiede in quella continua scelta di comportamento ed etica che deve compiere chi non vuole essere schiacciato da qualsiasi regime autoritario nazi-fascista, e ci riguarda oggi più che mai. Così l’efficacia della narrazione romanzesca può essere riportata in scena grazie all’espediente della ricostruzione scenografica della situazione storica, che consente in tal modo la sintesi necessaria al teatro. È possibile adattare al teatro qualsiasi testo (epica, narrativa, poesia e giornalismo); il testo parlato funziona comunque e sempre, la messa in scena è quasi un’attività accessoria, indipendente. Oggi la maggior parte delle produzioni teatrali realizzano gli spettacoli direttamente durante le prove, senza studio o lavori propedeutici, tralasciando così importanti testi d’autore, ritenendoli troppo complicati o troppo costosi. Il discorso varrebbe anche per la messa in scena de La ciociara: in primo luogo tutta la compagna, formata da non meno di venti persone, dovrebbe leggere integralmente il romanzo; poi si dovrebbero compiere insieme sopralluoghi a Fondi e dintorni, effettuare un’attenta ricerca storica, documentaria e iconografica, un lungo training psicologico per entrare nelle parti, un attento lavoro sul suono e così via. Prove, ricerche, preparazione degli attori, sono operazioni che richiedono tempo e denaro. Resta il fatto che il cinema non è teatro. Al cinema le parole sono trasformate in immagini immediate, che conducono lo spettatore subito sul luogo, che lo buttano nella situazione, ma il luogo rimane comunque al di là dello schermo; a teatro invece non si ha l’immagine, ma corpi e tridimensionalità. Uno studio approfondito sull’autore sarà poi necessario poiché chiunque voglia intervenire sul testo si assumerà la responsabilità completa nei suoi confronti. Nell’intervista a Elkann, Moravia afferma che già con Gli indifferenti aveva tentato di «fondere la tecnica teatrale con la narrativa», e definisce il teatro come «un luogo religioso nel quale l’uomo s’interroga sui grandi problemi dell’umanità». Egli amava distinguere il ‘teatro della chiacchiera’, in cui si dicono cose insignificanti, quotidiane, e che è disposto a finire in silenzio, dal ‘teatro della parola’, nel quale il dramma si svolge sulla scena e il discorso quotidiano è ridotto al minimo. Dice: «il mio teatro appartiene piuttosto alla seconda categoria. Penso che il dramma non soltanto non vada taciuto, ma deve anche essere più forte del vivere quotidiano». La riscrittura in forma teatrale e drammaturgica di un qualsiasi romanzo di Moravia non può prescindere dalla sua poetica teatrale e deve prendere sul serio l’idea e il principio del ‘teatro della parola’. Al teatro si ha poco tempo a disposizione per raccontare l’intreccio nella sua interezza. Non potendo rappresentare il romanzo per intero, si dovrà procedere per frammenti significativi. Ad Elkann lo scrittore ha raccontato l’incontro con Malaparte, nell’estate del ’43, quando il collega gli consigliò di lasciare Roma e lo invitò nella sua casa di Capri. Moravia gli rispose che voleva restare per vedere cosa sarebbe successo. La ciociara e La Storia della moglie, Elsa Morante, sono due capolavori della letteratura europea che nascono dall’aver affrontato quell’esperienza, dal fatto che nessuno dei due volle fuggire o nascondersi nell’esilio dorato a Capri, dalla curiosità ingenua e dallo sprezzo del pericolo. Oltre al motivo politico del fascismo e della sua caduta, un altro nodo tematico motore dell’azione romanzesca è il fatto che La ciociara funziona come un’educazione sentimentale. Cesira osserva tutto e quasi non cambia durante la guerra; Rosetta, il suo alter ego, è una figlia che è quasi una santa e che, mentre tutti cambiano in peggio, rimane ingenua. Dopo lo stupro cambia però carattere e non sarà più quella di prima. Rosetta è l’esempio di un essere religioso che è stato educato nel tempo di pace, cosa che però non l’ha aiutata ad affrontare la guerra. Michele è invece l’intellettuale fra gli sfollati, che osserva in modo pessimistico la fine della morale. A teatro la figura di Michele è davvero essenziale, anzi potrebbe essere utilizzato insieme a Cesira come voce narrante. Bottegai e contadini, sconvolti dalla guerra, continuano a pensare solo alla proprietà; appaiono quindi come ‘fessi’. Il discorso del ‘fesso’ e del ‘furbo’ è uno dei fili rossi del romanzo, che potrebbe anche apparire comico a teatro. 17 I RUMORI DELLA GUERRA. Rombi degli aerei, suoni penetranti delle sirene, rumori degli autocarri e delle mitragliatrici sono i veri protagonisti della colonna sonora, fina dalla scena iniziale. Le fonti dei rumori rimangono sempre rigorosamente fuori dalle inquadrature, l’attenzione è tutta sugli effetti che rombi, sirene ed esplosioni provocano sulla gente. Una scena affine, in cui l’ingresso del terrore è affidato al sonoro, è quella della morte del ciclista sulla strada che porta le due donne via da Roma (lo stesso Moravia dimostra una grande attenzione al dato acustico). Il rumore è il simbolo del potere, potere che si manifesta attraverso il fragore delle macchine da guerra e delle armi. CANTI E CANZONI DIEGETICHE. Nella colonna sonora de La ciociara figurano continui passaggi in cui singoli individui o gruppi di persone intonano canti o canzoni. Il canto ha, ad esempio, per gli sfollati la funzione di distogliere l’attenzione dai discorsi tristi, impegnativi e per di più ideologicamente pericolosi. Le scene del film evidenziano il carattere affatto neutro di canti e canzoni; non si tratta di semplici elementi riempitivi, ma di elementi sonori che generano momenti di forte tensione emotiva. La presenza di tanti canti popolari in numerose scene del film è da interpretarsi come un rifugio che uomini e donne cercano per sfuggire all’angoscia causata dal potere sonoro dei rumori di guerra: sono uomini e donne semplici che appena possono cantano per affermare che è possibile un altro mondo sonoro rispetto all’assordante e violento fragore delle macchine belliche. Non si tratta di un’affermazione consapevole, ma della necessità istintiva di ritagliarsi spazi che siano al riparo dalle distruzioni della guerra. Sono i valori della vita affermati contro quelli della morte, i valori della quotidianità popolare contro quelli dell’imperscrutabile potere. CRISTINA UBALDINI, LA CIOCIARA DI ALBERTO MORAVIA: UNA RILETTURA ‘DE- MORALIZZANTE’ Moravia, nell’intervista rilasciata a Giuliano Malacorda, Clandestino in Ciociaria, afferma che La ciociara è il suo «omaggio di romanziere alla Resistenza come fatto collettivo». Simone Casini spiega: «l’esperienza drammatica della guerra costituì per Moravia un eccezionale materiale di riflessione al quale continuò ad attingere per molti anni, pur evitando di confondersi nella stagione neorealistica o di vestire il ruolo improprio di testimone. Per intendere la rilevanza e l’intelligenza del giudizio storico che Moravia arriva a formulare in La ciociara è particolarmente utile il confronto con la memoria che della stessa drammatica esperienza di guerra in Ciociaria hanno elaborato e conservato la popolazione e la cultura ciociare»6 Emblema di questo reticolo di questioni è Cesira, che racconta, testimonia, confessa in prima persona. Moravia le affida tutto: la propria voce, il proprio punto di vista, la delega di incarnare tutte le contraddizioni di un’esperienza epocale e la responsabilità di portarlo fuori da quell’esperienza nell’unico modo possibile, cioè per via di arte e non di cronaca. René de Ceccatty osserva che «scrivendo il romanzo in prima persona, mettendosi nella pelle di una bottegaia intelligente ma senza cultura, Moravia riteneva di poter comprendere, dall’interno, il funzionamento psichico di una mente culturalmente arretrata, ma nobile d’animo»7 Seguiamo quindi l’itinerario della coscienza di questo personaggio. Siamo a Roma nel 1943, Cesira si presenta al centro di una scena personale e universale apparendo immediatamente come una donna incapace di qualsiasi compromissione col mondo: la sua casa è pulita, in ordine, immobile e chiusa agli estranei. Poi il bozzolo sicuro di questa normale e banale esistenza si incrina, così come la sua fede in se stessa e nella propria forza; e non per il confronto con ciò che sta accadendo nel mondo, ma per il suo cedere al desiderio con Giovanni. A Cesira pare che, dopo il suo concedersi per la prima volta nella vita il piacere di fare davvero l’amore con un uomo, «la vita si fosse sgangherata come una cassa che casca giù da un carretto e si sfascia tutta e la roba si sparge per strada», e lei stessa si stente «sgangherata come la vita, e ormai capace di fare qualsiasi cosa, anche rubare, anche ammazzare, perché avevo perduto il rispetto di me stessa e non ero più quella di prima». Come lo stesso autore afferma, La ciociara è un libro senza amore, il lirismo è azzerato e le cose appaiono nel racconto esattamente come sono nella realtà. La scena tra Cesira e Giovanni viene immediatamente rimossa una volta terminata e ha inizio il viaggio delle due donne verso la cittadina natale della madre, dove tuttavia non arriveranno mai. Si apre una nuova geografia, quella degli sfollati e dei fuggiaschi; i vecchi punti di riferimento 6 S. Casini, in MORAVIA, Opere/3, Bompiani, Milano 2004. 7 R. de Ceccatty, Alberto Moravia, Bompiani, Milano 2010. 20 perdono valore e nuovi rapporti regolano le vite di tutti. Il momento più significativo di questo disorientamento totale è l’incontro con il capo della contraerea tedesca nella casa dell’avvocato proprietario degli aranceti. Cesira afferma: la guerra è una gran prova; e gli uomini bisognerebbe vederli in guerra e non in pace, non quando ci sono le leggi e il rispetto degli altri e il timor di Dio; ma quando tutte queste cose non ci sono più e ciascuno agisce secondo la propria vera natura, senza freni e senza riguardi. E, riguardo alla nuova vita in ambiente contadino, descrive analiticamente tutto ciò che scopre e che muta dalla città. Riscopre il piacere e il ristoro che concede il sonno e tutti quei piaceri fisici, come la pulizia quotidiana, che si danno per scontati fino a quando si hanno e parla così di se stessa: era, insomma, come se fossi diventata una bestia, perché immagino che le bestie, non avendo a pensare che al proprio corpo, debbano provare i sentimenti che provavo io allora, costretta com’ero dalle circostanze ad essere niente più che un corpo il quale si nutriva, si lisciava e cercava di stare il meglio possibile. Il vero e proprio processo di ‘de-moralizzazione’, che sembrava iniziato nel magazzino di Giovanni, procede e non avrà per oggetto Cesira, ma, attraverso il sacrificio di Rosetta, unica creatura completamente innocente, definita dalla madre santa e angelo, riguarderà l’umanità intera. Più si scende nel pozzo di questa esperienza atroce, più si ha la sensazione che insieme alla crudeltà dei fatti Moravia abbia voluto infliggere al proprio personaggio anche la crudeltà sua personale di regista senza pietà. Chi descrive questa adolescente dai pensieri casti e dal comportamento irreprensibile è la madre che, lentamente, è condotta a confessare e confessarsi quanto quel ritratto sia frutto di una sua illusione di perfezione della figlia, illusione su cui Cesira indugia più volte. Rosetta è come la casa romana costruita e ordinata da Cesira: pulita, perfetta e intatta, bianca e serena, lucida come uno specchio lindo; Rosetta è l’esito di un orrendo e inconsapevole artificio («Insomma non mi rendevo conto che la vera santità è conoscenza ed esperienza, sia pure di un genere particolare, e non può essere mancanza di conoscenza e ignoranza, come invece era il caso di Rosetta»). L’illusione torna simile anche in Michele, prete mancato educato dal fascismo e al fascismo avverso visceralmente, che difende la conoscenza e la cultura come uniche armi contro la violenza. Cesira lo definisce dopo la sfuriata contro i contadini per la loro morta coscienza, un uomo che non si ritiene simile agli altri uomini. Tutto è ‘de-moralizzato’, confuso nelle contraddizioni incarnate da tutti i personaggi. La guerra sta mostrando a Cesira che a differenza imposta dalle morali non salva se non all’interno di un preciso mondo strutturato e chiuso. Non ci si può opporre ai cambiamenti, la coerenza è un’illusione e il mondo è un perpetuo e insensato risolversi di cose e uomini nel quale ci si deve immergere e confondere. Eppure Cesira sembra non imparare granché dagli eventi; assiste, si accorge di tutto, ma ne rimane separata. Anche lo stupro di Rosetta non produrrà la trasformazione della donna; ella non farà altro che sentirsi la vera carnefice della figlia («Rosetta era come un agnello che lecca la mano che lo trascina verso il coltello. Purtroppo questa mano era la mia e io non sapevo che proprio io di mia iniziativa, la portavo al macello»). Non capisce, però, la natura dei suoi errori. Al contrario, Rosetta è cambiata e ha capito il mondo, ha accettato gli eventi e ne è diventata parte. Cesira racconta di aver sognato di provare ad impiccarsi e di non averlo fatto solo per l’apparizione di Michele che glielo aveva impedito; al suo vieto era seguita la spiegazione del senso della vita che la donna non era riuscita a sentire, avendo l’impressione che tra loro ci fosse come un vetro. Aveva allora letto la sua impossibilità ad udire un così importante messaggio come la conferma della sua indegnità morale («Così dovevo continuare a vivere; ma come prima, come sempre, non avrei mai saputo perché la vita era preferibile alla morte»). Questo giudicarsi secondo morale, ancora, le impedisce di uscire dalla trappola della colpa e della retribuzione. La donna non comprende il mistero della partecipazione della vita, ne chiede una spiegazione, non è in grado di accettare che la comprensione del mondo è accettazione della morte delle proprie certezze e delle proprie proiezioni. MAGDA VIGILANTE, IL SOGGIORNO IN CIOCIARIA DI MORAVIA E DELLA MORANTE NEL ROMANZO LA CIOCIARA E NEL RACCONTO DELLA SCRITTRICE IL SOLDATO SICILIANO Il soggiorno in Ciociaria di Moravia e di Elsa Morante è stato ampiamente ricordato dallo scrittore nell’intervista rilasciata ad Elkann e trasposto nel romanzo La ciociara diversi anni dopo la fine della guerra. Elsa Morante invece non ha mai parlato direttamente di questo periodo per lei così cruciale. A sua volta però ne ha dato testimonianza nel racconto Il soldato siciliano, edito nel 1945, proprio alla fine del conflitto mondiale. 21 Per quanto riguarda La ciociara è difficile stabilire quanto la realtà sia stata “romanzata” o fino a che punto il romanzo coincida con i ricordi personali dell’autore. Tuttavia si può ben notare come alcuni episodi reali, menzionati dallo stesso autore, siano stati trasferiti con opportune trasformazioni nel libro, senza però essere del tutto trasfigurati. (1) Come Cesira, anche Moravia aveva raggiunto insieme ad Elsa la cittadina di Fondi in circostanze del tutto analoghe. Da un’intervista alla famiglia Mosillo, che per prima accolse la coppia in fuga, emergono episodi reali che sono alla base di alcune situazioni ritratte nel romanzo. Dopo l’8 settembre 1943 Moravia venne a sapere di essere stato inserito nella lista delle persone da deportare per via delle sue origini ebraiche e in quanto inviso al regime fascista. Decise allora di abbandonare Roma e dirigersi a Napoli, dove non arriveranno perché le rotaie sono state distrutte dai bombardamenti. Scesi a Fondi si rivolgono ai Mosillo, i quali mettono loro a disposizione (2) una casetta, quella che nel romanzo sarà la stanza da letto di Concetta. Lo scrittore conserva nel romanzo il particolare dei due pitali alti e stretti mai stati lavati. Quando i tedeschi cominciarono a dare le retate nella zona, (3) Moravia e la moglie si trasferirono in montagna, a Sant’Agata, dove trovarono ospitalità in una specie di ripostiglio di proprietà del contadino Davide Marrocco. La descrizione della (4) capanna reale coincide con quella che nel romanzo è offerta dal contadino Paride alle due donne presso Sant’Eufemia. Ciò che sperimenta Cesira rivela ciò che Moravia aveva vissuto con Elsa. (5) Marito e moglie partecipavano alla ricerca del cibo come tutti gli altri sfollati, rifornendosi di provviste di borsa nera o raccogliendo cicoria e altre erbe commestibili. Moravia ricorda anche il rito della misera cena consumata insieme ai contadini che lo ospitavano, ripreso tale e quale ne La ciociara. Lo scrittore sembra poi essere rimasto affascinato dal crudele (6) rito della macellazione, che nel romanzo assume poi un valore sacrificale, suscitando la pietà di Rosetta verso la capra che sta per essere macellata. (7) In Michele che legge la parabola di Lazzaro agli sfollati si può riconoscere lo stesso Moravia, il quale aveva compiuto la medesima lettura ai contadini presso i quali alloggiava. L’auditorio si dimostra nella realtà e nella storia del tutto indifferente a una simile lettura, e ciò conferma la sfiducia di Cesira sulla possibilità di un cambiamento sociale ad opera dei contadini, enunciata da Michele. Anch’egli pessimista di fronte a un’umanità ormai morta di fronte a valori che non siano quelli del denaro e dell’interesse, introduce però un piccolo seme di speranza, convinto che quando l’uomo sarà diventato completamente insensibile come un morto, come Lazzaro appunto, arriverà allora il momento del riscatto e tutti si scopriranno ‘appena, appena vivi’. La profezia di Michele si realizzerà nel finale; Cesira ricorderà la parabola e ne comprenderà il significato: lei e Rosetta erano morte a ogni segno di umanità a causa della guerra, ma attraverso la sofferenza si sono salvate per tornare a essere vive. Molti altri esempi si potrebbero fare; basti ricordare ciò che Moravia afferma nell’intervista a Elkann: «tutte queste cose le ho dette meglio e più dettagliatamente nel mio romanzo La ciociara». Ma in che modo la Morante aveva vissuto questa stessa esperienza? Manca una testimonianza diretta, ma ne Il soldato siciliano ella prende spunto da un episodio realmente accaduto durante il soggiorno in Ciociaria e raccontato da Moravia. La scrittrice si reca a Roma dalla Ciociaria per recuperare vestiti pesanti al sopraggiungere del freddo invernale. In apparenza l’identificazione tra la protagonista del racconto e la scrittrice sembrerebbe collocare il testo nel genere autobiografico e memorialistico, ma nel corso della narrazione la componente autobiografica si stempera in una dimensione che oscilla tra l’onirico e il fantastico, molto diversa dalla realistica ricostruzione de La ciociara. All’inizio del racconto la Morante allude alla vicenda con termini che la inseriscono in un tempo lontano, in cui gli eventi possiedono già una valenza favolosa; a parte la specificazione geografica del fiume Garigliano, i termini utilizzati potrebbero indicare qualsiasi guerra anche remota. In breve, il racconto Il soldato siciliano narra di un soldato che entra nella misera capanna dove la protagonista si è rifugiata per la notte durante il suo viaggio verso Roma e con il suo accento svela le sue origini siciliane; egli raccolta la di storia di un padre minatore e della sua figlioletta. Costretto a lavorare molte ore e a lasciare sola la bimba le aveva costruito un piccolo giocattolo con una vecchia lanterna. Una volta cresciuta, il padre perde il lavoro e comincia a sfogare su di lei la sua rabbia; la figlia (Assunta) comincia a lavorare come cameriera presso la casa del maresciallo e viene insidiata dal giovane figlio del padrone. Non avendo conosciuto altro che violenza durante la sua vita, e non potendo, in quanto donna, ribellarvisi apertamente, una sera si gettò nel pozzo, coprendosi prima gli occhi con i capelli intrecciati, a mo’ di benda. Anche dopo la morte Assunta è ancora oltraggiata perché ai suicidi non è concessa la beatitudine. Il padre prova rimorso, lo stesso sentimento scoperto da Cesira e Rosetta nel finale de La ciociara. Questo sentimento lo spinge ad arruolarsi sperando di morire sul fronte per raggiungere la sua povera figlia e chiarirsi con lei e magari farla addormentare tra le sue braccia come quando era piccola. Per il resto della sua vita, il padre non si dette mai pace. Terminato il racconto, all’alba, il soldato siciliano se ne va e così l’io narrante della protagonista. Sulla strada per Roma comincia a domandarsi se quella visita fosse stata una realtà o soltanto una cosa immaginata nell’insonnia. La scrittrice riesce così a trasformare l’episodio reale della 22
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