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Riassunto Autori italiani. Da Goldoni a Saba, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

AA.VV Autori italiani. Da Goldoni a Saba - Vita, pensiero e opere di tutti gli autori italiani che vanno da goldoni a saba.

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

In vendita dal 20/07/2015

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Scarica Riassunto Autori italiani. Da Goldoni a Saba e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Autori italiani Da Goldoni a Saba Carlo Goldoni (1707-1793) Nacque a Venezia, Figlio di un medico di origini modenesi, nel 1719 raggiunse il padre a Perugia, dove iniziò gli studi di retorica e grammatica presso il locale Collegio dei gesuiti. Dopo un breve soggiorno a Rimini, nel 1723 si immatricolò al Collegio Ghislieri di Pavia per studiarvi giurisprudenza, ma dalla città lombarda venne espulso nel 1725 in seguito allo scandalo provocato da una sua satira contro le donne cittadine. Abbandonati gli studi di legge, li riprese nel 1727 a Modena per interromperli nuovamente poco tempo dopo. Richiamato dal padre a Venezia, s’impiegò prima alla Cancelleria di Chioggia, poi in quella di Feltre. Nel 1731, alla morte del padre, riprese gli studi e si laureò quello stesso anno a Padova. Nel 1736 sposò Antonietta e iniziò a scrivere opere teatrali. Vennero rappresentate le sue prime opere. Melodrammi, tragedie e scenari per la commedia dell’arte, sostituendo alla commedia dell’arte o a soggetto (cioè quell’improvvisata su una traccia, ciascuno dei quali rappresentava una maschera) la commedia scritta, fondata su un carattere. La commedia dell’arte era un genere dove gli attori per strappare l’applauso del pubblico usavano forme di comicità volgare e improvvisazione. Alla maschera fissa il Goldoni volle sostituire il personaggio colto della vita, con una sua vicenda psicologica. Respinge il sorprendente e il meraviglioso e sostituisce ad essi il semplice e il naturale. Egli non portava più sulla scena delle macchiette, ma uomini, con le loro avventure povere e tuttavia interessanti, soliti a chiudere con un lieto fine le loro modeste peripezie di affanni. Le opere Il Goldoni scrisse un libro di memorie in francese “I memoires” che dovevano servire alla storia della sua vita e del suo teatro. L’opera è divisa in tre parti: nella prima, che è la più felice, l’autore ricorda la propria fanciullezza e la giovinezza avventurosa con tono vivace. Nella seconda parte parla della sua riforma teatrale e dei problemi che dovette affrontare e riassume le sue numerose commedie. Nella terza parte parla del suo soggiorno in Francia, delle sue amicizie e dei suoi protettori. “La locandiera” e stata rappresentata per la prima volta al teatro Sant’Angelo di Venezia nel gennaio del 1753. Goldoni scrisse l’opera teatrale per Maddalena Marliani, una delle attrici della compagnia Medebac. la commedia è incentrata sulla figura di Mirandolina, padrona morì lasciandogli una piccola rendita, a condizione che il nipote, divenuto sacerdote, dicesse ogni giorno una Messa in suo suffragio. Rappresenta una particolare tradizione letteraria italiana al confronto con i temi e le riflessioni della nuova cultura illuministica. Nasce dalla piccola borghesia e frequenta, come insegnante, le case degli aristocratici milanesi, ispirate dalla “natura” (amicizia, gioie del matrimonio), da una religiosità interna, dall’impegno morale… La poesia doveva essere utile, intesa a giovare alla civile conversazione; doveva offrire a tutti il dono della bellezza. L’ideale del Parini è quello del buon cittadino, che vive responsabile in una comunità e aiuta il progresso comune e l’ideale della patria. Le opere “Le Odi”, sono 19 liriche; le prime odi appaiono più legate alla polemica illuministica, morale, sociale e umanitaria. Nella “Vita Rustica” il Parini desidera la pace e la serenità dei campi, ma con severità e impegno civile. Nella “Salubrità dell’aria” lotta per un miglioramento igienico a Milano, “nell’innesto del vaiolo” si batte per la diffusione del nuovo ritrovato scientifico contro il terribile morbo, nel “Bisogno” desidera una giustizia non solo repressiva, ma anche preventiva, che elimini le cause della delinquenza e della miseria, “L’educazione” sottolinea la funzione educativa della poesia. Quella del Parini è una poesia di occasione, perché trae spunto dalla realtà e a lei ritorna per trasformarla; le ultime odi: la caduta, il pericolo, il dono, il messaggio, alla musa il poeta esprime la sua interiorità. Nel dono o nel messaggio la bellezza femminile si propone a simbolo massimo di un’armonia che sembra quasi poter calmare nell’anziano poeta l’idea della sofferenza e della morte. Il poeta ci appare in una solitudine severa, consapevole della dignità e purezza della sua vita e degno di rivolgere agli uomini un messaggio non effimero, fondato sul sentimento della dignità umana, dai semplici affetti, dalla bellezza. L’opera più importante è “il Giorno” un poema satirico in endecasillabi sciolti dove il Parini finge di essere l’insegnante di un nobile (il giovin Signore) e di insegnargli come meglio trascorrere la sua giornata, attraverso questa funzione mette in luce l’ozio, la corruzione dei nobili e la superbia e la vanità che li fa sentire semi dei terreni e a disprezzare gli altri uomini. L’opera si divide in: • Nel mattino sono descritti il tardo risveglio del giovin signore, la colazione, il suo intrattenersi con una piccola corte: maestri di canto, di ballo… seguono il rito della pettinatura e l’incipriata, la vestizione, l’uscita in carrozza per recarsi alla casa della sua dama. • Nel mezzogiorno è descritto il pranzo in casa di lei e Parini mette in caricatura i meschini convitati e i loro sciocchi discorsi. • Il vespro presenta la passeggiata in carrozza nel corso, ritrovo della buona società, del giovin signore della dama fino al calar del sole. • Infine nella notte domina una folla di eroi e di dame che prendono parte a un ricevimento in uno splendido palazzo. Il vero protagonista del giorno è la coscienza nobile del Parini, cioè il suo classicismo penetrato di moralità, il suo sdegno contro un mondo corretto, la sua difesa appassionata dell’uguaglianza e della dignità della persona umana e quindi degli umili, del popolo che lavora e soffre contrapposto ai nobili. La coscienza morale del Parini si esprime nell’ironia che conosce tutti i toni dalla caricatura alla parodia alla satira. Vittorio Alfieri (1749-1803) Nasce ad Asti da una delle più nobili famiglie piemontesi. Rimasto orfano di padre a meno di un anno, visse nella nuova famiglia della madre finché non entrò, a nove anni, nell'Accademia militare di Torino, da cui uscì nel 1766 ineducato, insofferente alle convenzioni sociali e ribelle a ogni forma di autorità. Più per dare sfogo alla sua irrequietudine che per costruirsi un'autonoma formazione, viaggiò per l'Europa per circa un decennio, inappagato dal formalismo vuoto della società aristocratica e da qualsiasi forma di organizzazione sociale e invece affascinato e soggiogato dalla forza della natura colta nella vastità dei paesaggi nordici o nelle imperiose solitudini della Spagna. Risalgono a quel periodo intense letture degli illuministi francesi e di alcuni dei suoi autori preferiti come Machiavelli e Plutarco. Nel 1775 fece rappresentare a Torino la prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che segnò la scoperta della vocazione tragica. Dovendo darsi una strutturazione culturale e linguistica adeguata al nuovo obiettivo, si immerse nella lettura dei classici italiani e latini con una fermezza di volontà divenuta proverbiale per l'estremismo con cui seppe manifestarla. Lesse i classici italiani da Dante a Tasso e si recò in Toscana per meglio educare la sua sensibilità linguistica, perché fino ad allora si era servito del francese, la lingua dell'aristocrazia torinese e internazionale. Nel 1778, per sottrarsi alla sudditanza alla monarchia sabauda, rinunciò al titolo nobiliare, assegnò le sue proprietà alla sorella, conservandosi un vitalizio annuale, e si trasferì definitivamente in Toscana, dove si legò a Luisa Stolberg, contessa d'Albany. All’illuminismo l’Alfieri è debitore della sua formazione culturale; ne ricavò la decisa impostazione laica del pensiero, l’odio per la tirannide, l’interesse per lo studio psicologico dell’uomo, la fiducia nella forza illuminatrice del libro. Lo studio dell’uomo lo porta a esaltare gli elementi irrazionali della psiche, mentre la ragione è sentita avversa a una desiderata morale individualistico-eroica, la poesia è contrapposta alla filosofia e alla scienza e concepita come educatrice del forte sentire negli individui e nei popoli. Mentre gli scrittori illuministi hanno spesso In loro dapprima vi era l’ideazione, cioè una rapida sintesi in prosa dell’argomento, poi la stesura, cioè la distribuzione in prosa degli atti, delle scene e dei dialoghi e infine la verseggiatura o stesura definitiva ripetuta più volte. Alfieri accetta le rigide convenzioni del genere tragico e anzi le esaspera, compattando l'azione entro una fissità spaziotemporale che esprime l'assoluta concentrazione dei personaggi sulle tensioni tragiche che vivono e nelle quali emergono, prive di ogni mediazione, forze sconosciute e distruttive. Queste tragedie, spesso costruite come variazioni di rapporti familiari destinati alla catastrofe, sembrano esprimere un malessere profondo. Ma, nonostante la dimensione autobiografica e l'atemporalità degli eventi narrati, queste tragedie, le più grandi di tutta la tradizione letteraria italiana, indicavano istanze libertarie anche di tipo politico e contribuirono a educare le generazioni che fecero il Risorgimento. La tragedia di Alfieri è lineare, cioè povera di azione e colpi di scena, e ha un numero di personaggi ridotto, sin dall’inizio ci porta in un clima di tensione e di attesa della catastrofe. Soltanto nel sapere affrontare la morte senza vigliaccheria, l’uomo afferma la propria dignità nei confronti del destino che lo schiaccia. Il suicidio dei personaggi è la soluzione tragica ed eroica del contrasto che questi avvertono fra la limitatezza del vivere e l’insopprimibile desiderio a una vita più vera e più grande. Il motivo politico nelle sue tragedie non è il motivo essenziale, anche se è presente. In genere l’Alfieri contrappone il tiranno, con la sua cupa passione di dominio, all’eroe eccitato da un’intensa passione di libertà. Alfieri scrisse anche “Vita”, ovvero la propria autobiografia. L’intenzione dichiarata fu quella di lasciare ai posteri un’immagine compiuta di sé. La vita è la storia di una vocazione poetica, colta nell’animo da fanciullo, seguita nell’agitarsi confuso dell’adolescente, con la sua tristezza finché tutto si fa più chiaro e certo. E dopo la scoperta della vocazione si ha il racconto di una vita spesa per la poesia. Leggendo l’opera, ci si rende conto di cosa ha rappresentato per Alfieri la poesia. Scrisse l’autobiografia alle soglie della vecchiaia, quando si sentiva vicino alla morte. Tuttavia la vita è un’opera protesa verso l’avvenire; la fedeltà gli dà la speranza e la forza per affrontare l’ultima battaglia: la morte. Egli ha sempre sostenuto che affrontarla senza paura è la rivelazione di un animo forte e adesso la attende senza paura. Meli Giovanni (1740-1815) Giovanni Meli nacque in Sicilia nel Settecento, da Antonio di professione orefice e da Vincenza Torriquas, durante la monarchia riformista di Carlo III di Borbone e raggiunse notorietà in tutt'Italia aderendo ai modi e allo stile dell'Arcadia con una dimensione tutta sua e con l'uso della lingua siciliana. Venne educato presso le scuole dei padri Gesuiti e si appassionò giovanissimo agli studi letterari e filosofici soprattutto della corrente illuministica, che – nata in Francia – allora imperava in Europa . Il Meli non mancò di coltivare anche da autodidatta i classici italiani e latini e fra i contemporanei gli Enciclopedisti francesi da Montesquieu a Voltaire, trovando ispirazione per un poemetto giovanile rimasto incompiuto, Il Trionfo della ragione. Il suo esordio poetico, che avvenne a soli quindici anni con versi d'occasione, lo fece talmente apprezzare nella ristretta ed esigente cerchia dei letterati palermitani da farlo nominare socio dell'“Accademia del Buon Gusto”, una delle tante che caratterizzavano il costume letterario del tempo, dove ci si riuniva a declamare versi e a disputare di questioni culturali. Passò via via a più importanti circoli esclusivi della nobiltà e più alla moda; nel '61 come socio dell'Accademia della Galante conversazione e nel '66 a quella degli Ereini nelle quali declamava con crescente successo le sue composizioni in dialetto e in lingua. La celebrità arriva nel 1762 col poemetto La Fata galante, in cui il Meli immagina d'incontrare una fata, figura allegorica della fantasia, che gli propone sotto forma di fiabe mitologiche, tematiche filosofico-sociali, in cui egli trasferisce in forma poetica la sua filosofia, non certo omogenea ed ordinata secondo un organico disegno e modellata sui cosiddetti romanzi filosofici francesi o sui più antichi modelli allegorici della letteratura europea. Per poter vivere aveva intanto intrapreso gli studi di medicina, spinto anche dalla madre, e nel 1764 conseguì il titolo professionale presso l'Accademia degli Studi di Palermo. Esercitò la professione di medico soprattutto a partire dal '67, trasferendosi come condotto nel paesino di Cinisi, dove veniva chiamato l'abate Meli, poiché vestiva come un prete anche senza aver ricevuto gli ordini sacerdotali minori. La sua attività letteraria divenne più fertile ed ivi compose le Elegie, parte del poema la Bucolica e scritti vari d'argomento scientifico . La sua fama crescente lo richiamò a Palermo, conteso dalle dame dell'aristocrazia nei loro salotti. Sensibile alla bellezza femminile, questo singolare medico-poeta ebbe vari amori che cantò alla maniera arcadica nelle sue Odi e nelle Canzonette, che sarebbero state imitate da tanti “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” è un romanzo epistolare, orientato sui modelli di Jean-Jacques Rousseau (Giulia o la nuova Eloisa) e di Goethe (I dolori del giovane Werther), ma con l'originale inserzione della tematica politica, le cui radici stanno nella storia contemporanea e nelle vicende autobiografiche cui si è fatto cenno. Il romanzo, che presenta un autoritratto dell'autore e denuncia una forte sensibilità preromantica, è stato definito dal critico letterario Mario Fubini una 'tragedia alfieriana in prosa': il protagonista, di fronte alla tirannia di Napoleone, che gli toglie la patria, e alla tirannia delle convenzioni sociali (incarnate dal padre di Teresa), che gli tolgono la donna amata, afferma la propria libertà attraverso il suicidio, secondo il modello alfieriano. Il racconto si costruisce attraverso una serie di lettere che il protagonista scrive all’amico Alderani. È la storia di un giovane patriota che vede svanire tutti i propri sogni, spinto dalla disperazione amorosa e politica e vede nella morte l’unica via di uscita, il modello a cui guarda è Goethe nella cui opera il protagonista Werther si toglie la vita per amore di una donna già destinata in sposa ad un altro. Jacopo Ortis è un uomo che si rifugia sui colli Euganali per sfuggire alle persecuzioni; qui si innamora di Teresa, ma il suo è un amore impossibile perché la giovane è già promessa ad un altro uomo. La disperazione amorosa e politica spinge Jacopo ad uccidersi. L’unica via che si offre ad Ortis per uscire da una situazione negativa è la morte, intesa in termini materialistici, come distruzione totale e nulla eterno. L’opera appare come un lungo monologo cui l’autore si confessa con violento pathos e al tempo stesso si abbandona a una lunga serie di meditazione filosofica. Un tentativo di resistenza alla desolazione è andare alla ricerca di valori alti e umani, che Jacopo chiama illusioni. Ma questa possono anche esistere nella realtà. Prendono vita cosi l’amore, la patria, la tomba, la poesia, la bellezza consolatrice. “I sonetti”, si ritrovano le stesse problematiche presenti nel romanzo, in particolare nei 4 sonetti maggiori (“a Zacinto”, “alla sera”, “in morte del fratello Giovanni”, “alla musa”) compaiono quasi tutti i temi. Scrive anche “I sepolcri” (che sono Carmina, epistola, sintesi filosofica. Sono un’opera dialettica basata sul continuo incontrarsi e scontrarsi di immagini e sensazioni opposte), un poemetto sotto forma di epistola poetica indirizzata all’amico Pindemonte. L’occasione fu appunto una discussione avvenuta con questo intorno al problema delle sepolture. Sia la legislazione francese che quella austriaca imponevano che le sepolture fossero poste fuori dell’abitato e vietavano i monumenti vistosi. Pindemonte, da un punto di vista cristiano, aveva negato il valore della sepoltura individuale, mentre Foscolo, da un punto di vista materialistico, aveva negato l’importanza delle tombe. Nel carme, Foscolo riprese queste discussioni, ribadendo all’inizio le tesi materialistiche sulla morte, ma superandole con altre considerazioni che rivalutavano il significato delle tombe. Nel carme si ha il motivo della morte, ma è superata l’idea che sia solo nulla eterno. A questo contrappose una sopravvivenza dopo la morte, garantita dalla tomba, che continuerà a vivere nella memoria e nel cuore di chi l’ha amato. Grazie alla tomba i vivi possono continuare con i loro estinti quella corrispondenza di amorosi sensi, che esisteva prima della loro morte. Il sepolcro si configura come un’illusione che aiuta il vivo a vivere, perché ogni volta si reca presso la tomba del parente morto e si illude di poter conversare con lui come una volta. E infine scrive “Le grazie” durante un periodo felice e tranquillo. Arriva a concepire tre inni dedicati alla dea Venere, Vesta e Minerva indicate come informatori allegorici della bella natura apparente, de fuoco eterno, che anima i cuori gentili e delle arti consolatrici. I veri oggetti della celebrazione sono i valori rappresentati dalle dee: bellezza della natura, nobili sentimenti e il sapere e quindi bontà, ingegno e virtù. Egli si indirizza verso una poesia non più civile, quanto religiosa che vuole essere profezia e rivelazione; il suo messaggio non è diretto, ma tende a esser misterioso, va interpretato. Saranno la varietà e la musicalità a catturare il lettore, trascinandolo oltre le barriere del tempo e trasmettendo alti insegnamenti attraverso l’allegoria e la favola. La frammentarietà del testo, all'interno di un'intelaiatura logica chiara, conferisce spessore ai singoli brani e apre a una modernissima ricerca dell'analogia. Del resto lo sforzo continuo di Foscolo fu quello di dare compostezza (e ordine e grazia) a una tensione conoscitiva e vitale che lo apparenta, nonostante la sua poetica classica, alla dispiegantesi sensibilità romantica. contrappone in modo assolutamente netto, per la rigidità imposta dal genere, gli “eroi della forza” e gli “eroi della fede”. Il tema è la fine della dominazione longobarda in Italia e la sconfitta del re Desiderio per opera di Carlo Magno. Particolarmente significativi sono i cori (in realtà due liriche) in cui Manzoni affronta il tema politico della libertà che non può non essere conquista degli italiani, e il tema della “provvida sventura”, centrale nel successivo romanzo. La stesura dell’Adelchi fu accompagnata da un’approfondita ricerca storico-documentaria sulla dominazione longobarda in Italia, pubblicata con il titolo di Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Del 1821 sono le 2 odi piloriche: “Il 5 maggio”, in morte di napoleone un testo intenso e insolitamente appassionato che si presenta quale grande esempio di come la Provvidenza agisce nella storia. E “Marzo 1821” un esempio di ballata romantica centrata sull’attualità politica (i moti patriottici di quell’anno) scritta durante la rivoluzione piemontese, la cui ultima strofa fu aggiunta nel 48. “I promessi sposi” La scrittura lirica e quella tragica si erano rivelate troppo condizionate, sul piano linguistico, dalla tradizione e incapaci di offrire una scrittura “popolare”, secondo le ambizioni romantiche, e di catturare un pubblico “nazionale”. Da qui la scelta del romanzo, un genere letterario romantico, capace di fare presa su un largo pubblico, e la lunga costruzione di una prosa di tono medio e di ambizione nazionale. A ciò contribuì anche la suggestione dei romanzi storici di Walter Scott e in particolare dell’Ivanhoe, ma anche la lettura dell’Historia patria del milanese Giuseppe Ripamonti. La storia della costruzione dell’unico romanzo di Manzoni si protrasse per più di un ventennio. Una prima redazione, sconosciuta fino al 1915, che prese il nome di Fermo e Lucia, occupò il periodo tra il 24 aprile 1821 e il 17 settembre 1823. Subito dopo l’autore passò a una ristrutturazione del materiale (con eliminazione delle parti attinenti alla riflessione sul romanzo e sul lavoro letterario) e, attraverso il titolo provvisorio di Sposi promessi, arrivò al titolo definitivo, I promessi sposi, e alla prima edizione a stampa (in tre tomi) realizzata tra il 1825 e il 1827 a Milano. Subito dopo Manzoni progettò una revisione sostanzialmente linguistica del romanzo, per eliminare i troppi lombardismi o francesismi (egli parlava normalmente in dialetto milanese o in francese) e per dare un orizzonte nazionale al suo testo, orientandosi sulla lingua “viva”, cioè parlata dai ceti colti della Toscana contemporanea. Per questo si recò a Firenze nel 1827 allo scopo di “risciacquare i panni in Arno”. Ragioni familiari e di salute ritardarono fino al 1840-1842 la seconda edizione, quella definitiva; uscita a dispense, recava un nuovo sottotitolo, Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta. In appendice alla seconda edizione venne pubblicata, in edizione ampliata rispetto all’originaria Appendice, la Storia della colonna infame, che, prendendo spunto dalle vicende della peste del 1630 narrate nel romanzo, ricostruisce in modo documentario gli eventi e, in particolare, il processo agli untori, per concludere, diversamente da come aveva fatto Pietro Verri in un suo precedente riesame del processo, con la condanna dei giudici. È la storia di due contadini che non possono sposarsi per il divieto del signorotto invaghitosi di Lucia. È un romanzo storico; i due protagonisti, pur essendo portatori delle virtù considerate da Manzoni più alte, non cessano di essere due contadini e della loro condizione conservano la mentalità, il linguaggio, i comportamenti. La storia è vista dal basso, la società di cui Manzoni vuol fornire un quadro nel suo romanzo è quella del 600, sotto la dominazione spagnola. Quando comincia il racconto siamo dinanzi a una lunga descrizione che pare scritta da un naturalista e non da un poeta. L’uomo descrive ciò che gli appare davanti; è osservatore intelligente. Tutto è natura messa in moto, che dà vita come a una persona. Nel sistema di personaggi del romanzo don Rodrigo e Geltrude sono la parte aristocratica negativa; il cardinale Federigo costituisce il modello positivo; l’innominato con la sua finale conversione, da negativo diviene positivo. Per i ceti popolari l’esempio negativo è dato dalla folla violenta di Milano, quello positivo da Lucia con la sua rassegnazione e quello che dal negativo passa al positivo è Renzo con la sua maturazione. Dei ceti medi negativi abbiamo Don Abbondio e l’Azzeccagarbugli e positivo fra Cristoforo. Ritorna la provvidenza sulla terra. Renzo e Lucia vedono nella provvidenza l’identificazione di virtù e felicità, per loro Dio interviene sempre a difendere e a premiare i buoni per garantir loro il trionfo della giustizia. Per Manzoni invece virtù e felicità possono coincidere solo nell’eterno, solo alla fine dei tempi c’è la certezza che i buoni saranno premiati e i malvagi puniti. Sulla terra la volontà divina può anche dare sofferenza. La provvidenza sta nel fatto che non bisogna dare felicità ai buoni, ma che proprio la sventura fa maturare in esse più alte virtù. È il romanzo dei rapporti di forza nella storia, il romanzo del male e della sofferenza collettiva e individuale nella storia, ma è anche il romanzo del riscatto dell’individuo e della natura decaduta (ne è emblema la vigna di Renzo) che si salva; insomma, un grande esempio di come Dio agisce e conferisce senso al dolore. La grandezza dell’opera sta però soprattutto sul piano linguistico: con I promessi sposi Manzoni dette all’Italia l’istituto di una lingua nazionale, svolgendo un ruolo analogo, sul piano culturale, a quello che altri svolsero sul piano politico attraverso il compimento dell’unità d’Italia. Resta il fatto che la lingua di questo romanzo è diventata la lingua dei dizionari e delle grammatiche, oltre che un modello per gli scrittori successivi (con il fenomeno del manzonismo), e ancora nel Novecento (con Riccardo Bacchelli). E poiché Manzoni, nel raccontare la sua storia, si fece per così dire “occhio di Dio”, visse con particolare scrupolo il problema della verità storica fino al punto, prima, di rinnegare sul piano teorico l’esistenza del romanzo storico (Del romanzo e in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione, 1845) e poi di cercare una soluzione psicologicamente rassicurante nel dialogo filosofico Al pessimismo storico subentra il pessimismo cosmico, cioè l’infelicità non riguarda solo un determinato fattore storico, ma è per tutti allo stesso modo. Leopardi scrisse anche 5 componimenti, chiamati “Idilli”. Si tratta di una lirica tutta interiore. Ciò che li caratterizza è uno stile lineare, studiato per dare un effetto di semplicità, anche il linguaggio, seppure elegante, non ha nulla di dato. Parla del vago e dell’indefinito; indefinite e vaghe sono le sensazioni che si presentano attraverso il ricordo, la rimembranza che riporta la mente alla fanciullezza, momento felice della vita, in cui l’animo dell’uomo è poetico in quanto non coglie i confini esatti della realtà. La verità che si nasconde invece tramite la ragione adulta è dura, arida, il vero è brutto. Oltre a queste due tematiche se ne riscontrano ancora altre: infinito, lontano, antico, notte, notturno, oscurità, profondo. “Le operette morali”, sono prose filosofiche dove lui espone miti e paradossi, in alcuni casi i personaggi sono inventati, in altri casi tutti reali, in altri casi ancora mischiati. Il messaggio centrale lo ritroviamo nel “Dialogo della natura e di un islandese”, qui l’islandese, che dopo aver tentato invano di sfuggire in tutti i modi possibili le sofferenze inflittegli dagli uomini e dalla natura, finalmente domanda alla natura stessa (personificata in una figura femminile dal volto bello e terrificante) perché ella gli sia come nemica, questa risponde che in realtà nelle sue operazioni il benessere o l’infelicità dell’uomo non hanno alcun peso né interesse e che quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione. “Le ricordanze” dove sono evocate immagini e sensazioni della fanciullezza che attraverso la doppia vita generata dal ricordo si pongono come il segno della distanza irrevocabile tra passato e presente. “La quiete dopo la tempesta” e “il sabato del villaggio”, traendo spunto da scene di vita quotidiana del borgo, rielaborano due aspetti della teoria leopardiana del piacere, che si configura nella quiete come cessazione del dolore e nel sabato come aspettativa della felicità. “La ginestra” o fiore del deserto, ritornano gli stessi spunti polemici ad accompagnare l’accusa verso il suo secol superbo e sciocco che ha voltato le spalle alla luce della ragione conquistata nell’età dei lumi, per affidarsi al progresso. Rinasce nella Ginestra un’ultima illusione che non ha stavolta il carattere sentimentale ed individualistico di quell’amore, ma la carica coinvolgente di una grande visione collettiva. Con quest’opera Leopardi sembrò avere un tardivo risveglio dell’antica giovinezza e cantò la ribellione contro la natura e il destino. La sua ultima poesia è Il tramonto della luna (1837), di smisurata tristezza, la cui ultima strofa pare sia stata dettata dal poeta all’amico Ranieri in punto di morte. Giovanni Verga (1840-1922) Nacque a Catania da una famiglia di agiati proprietari. Autore di romanzi, racconti e opere teatrali, massimo esponente del verismo. La sua attività letteraria può essere divisa in tre fasi: la narrativa storico- patriottica degli esordi; i romanzi mondani; la produzione verista. (il verismo è una Corrente artistica italiana della seconda metà dell’Ottocento, caratterizzata da un attento studio della realtà e da una strenua ricerca del vero; il movimento verista nacque dagli stessi presupposti poetici e stilistici del realismo, accentuandone tuttavia spesso l’aspetto ideologico di denuncia sociale. Numerose figure del complesso panorama artistico italiano degli ultimi decenni del secolo parteciparono dell’ispirazione verista, sperimentando con esiti spesso felici l’impostazione rappresentativa che la identificava. A 16 anni scisse “Amore e patria” rimasto inedito. Iscrittosi a 18 anni alla facoltà di legge, cambiò presto indirizzo e si dedicò al lavoro letterario e giornalismo politico. Nel 1865 lascia Firenze dove si era trasferito e nel ‘69 vi tornò dove finisce “Storia di una capinera”, romanzo sentimentale, storia di un amore impossibile e di una monacazione forzata. È evidente come Verga regredisca fino alla prospettiva irrazionale del mondo in cui vive il protagonista per farci entrare nell’opera culturale e sociale di una Sicilia arcaica e brutale. Sono proprio la brutalità delle condizioni di vita da cui deriva quella dei gesti e dei sentimenti, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, la sottomissione alle leggi del bisogno, a formare lo sfondo comune alle storie di “Vita dei campi”, storie di passione e sangue, di miseria e dolore, di rassegnazione e morte. È un mondo senza luce, quello delle miniere e delle campagne desolate, dove gli animi più delicati vengono vinti da una vita che non concede loro alcun arrivo, dove non c’è posto per l’amore, ma solo per impulsi selvaggi e dove i rapporti sociali sono regolati da una ritualità violenta e arcaica. Ma sono i fattori economici che peggiorano e condizionano le relazioni tra gli individui. Questa risulta sempre più poi in “Cavalleria rusticana” dove il Verga raggiunge la vera celebrità. Il successo teatrale era dovuto alla presentazione di un mondo che appariva esotico (straniero), al pubblico cittadino, affascinato dalla passionalità della vicenda e dalla crudeltà dei costumi. Nasce cosi una nuova forma di teatro, volto a rappresentare dal vero una realtà arretrata e locale che fino a quel momento era rimasta lontana dal palcoscenico. Nelle sue opere l’autore si eclissa nella pelle dei personaggi, vede le cose con i loro occhi e le esprime con le loro parole. Il punto di vista dello scrittore non si avverte mai; nelle opere di Verga la voce che racconta si colloca all’interno del mondo rappresentato; è allo stesso livello dei personaggi, adottando lo stesso modo di pensare e sentire. Scrive “i malavoglia” che racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive e lavora ad Aci Trezza, un piccolo paese vicino a Catania. Protagonista del romanzo è tutto il paese, fatto di personaggi uniti da una stessa cultura ma divisi da antiche rivalità; grazie a una scrittura sapiente che riproduce alcune caratteristiche del dialetto e che riesce ad nobiltà a cui il denaro lo ha elevato. È un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla roba, ma è pur sempre generoso con la famiglia, aiuta i fratelli, ama la moglie e i figli. È deluso dalle sue ispirazioni, il padre invidia la sua fortuna, tanto da voltargli le spalle pure in punto di morte, i fratelli lo derubano, la moglie non lo ama e lo guarda con freddezza, i figli si vergognano di lui e il paese lo odia. Nella sua vita ha ricavato solo odio e dolore. Il tono della narrazione è freddo e amaro: ciò diventa possibile perché ritorna a sentirsi la voce, distaccata e impersonale, dell’autore. Il linguaggio semplice e proverbiale, il tono corale che costituivano i Malavoglia viene ora abbandonato e ritorna quello dello scrittore più complesso e raffinato. Strumento per eccellenza è il discorso indiretto libero, che trasmette nel racconto pensieri e voci dei personaggi. Nel Gesualdo diventa strumento di focalizzazione interna, cioè della penetrazione nell’interiorità del protagonista. Il Gesualdo è un vincitore materialmente e un vinto sul piano umano. De Roberto Federico (1861-1927) Fu uno scrittore verista italiano. Ventenne, ebbe i primi contatti con il mondo letterario catanese collaborando al "Fanfulla della domenica" e fondando il settimanale "Don Chisciotte", grazie al quale avvicinò Giovanni Verga e Luigi Capuana. Nel 1887 esordì con le poesie di Encelado, ma i racconti di "La sorte" e i successivi tre volumi di novelle (Documenti umani, 1888; Processi verbali e L'albero della scienza, 1890) attestano come la ricerca di De Roberto si fosse indirizzata subito verso la narrativa. In queste raccolte infatti non è assente la tematica paesana e rusticana, ma l'attenzione dello scrittore si concentra soprattutto sul mondo della nobiltà in disfacimento, sia socio-economico, sia fisiologico e su quello dei nuovi borghesi che cercano di confondersi con l'ambiente dei nobili. Seguirono i romanzi di analisi psicologica Ermanno Raeli (1889) e L'illusione (1891), primo del "ciclo" dedicato alla famiglia Uzeda. I personaggi saranno ripresi ne I Viceré (1894), la cui trama include, in ordine cronologico, gli avvenimenti de L'llusione e fa da premessa a quelli de L'Imperio. In questi romanzi la tematica psicologica e intimistica gioca sull'interiorità dei personaggi e ruota intorno al contrasto tra illusione e realtà, con i conseguenti motivi della nevrosi e delle inibizioni. La tematica psicologica è presente anche nella raccolta di novelle Processi verbali (1889) e ne L'albero della scienza (1890), nei quali verranno però anche ripresi i temi e i metodi veristici. Pubblicò infatti il saggio "La morte dell'amore" nel 1892, "L'amore. Fisiologia. Psicologia Morale" nel 1895 e nel 1897 il romanzo "Spasimo" che era apparso a puntate tra il novembre del 1896 e il gennaio del 1897 sul "Corriere" e una monografia su Leopardi del 1898, oltre alle "Lettere d'amore immaginarie", "Gli amori" nel 1898 e i saggi "Una pagina della storia sull'amore" dello stesso anno, "Il colore del tempo" nel 1900 e sempre nel 1900 "Come si ama". Quando per condizioni di salute dovette trascorrere lunghi periodi a Zafferana Etnea si dedicò alla compilazione di guide turistiche: e nel 1908, dopo un viaggio a Roma, iniziò il romanzo "L'Imperio", rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1929. Sostenitore convinto della poetica naturalista e verista, De Roberto ne applicò rigorosamente i termini, portando alle estreme conseguenze quegli aspetti di impersonalità del narratore e di osservazione rigorosa dei fatti che, però, contribuiscono a volte ad appesantire la narrazione. Le tecniche narrative di De Roberto sono funzionali alla narrazione impersonale ma diverse da quelle di Verga. Innanzi tutto non è presente la regressione della voce narrante nella realtà rappresentata, è presente invece, come nel Mastro-don Gesualdo, il discorso indiretto libero ma in larga misura la narrazione si fonda sul dialogo e sulla presenza di didascalie descrittive. La narrazione tende a far propria la tecnica teatrale e infatti nella Prefazione ai “Processi verbali” De Roberto afferma: “L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive per il teatro. Giovanni Pascoli (1855-1912) Ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali, la tragedia familiare e la crisi di fine 800. Colpito da gravi disgrazie familiari (il 10 agosto 1867 gli fu ucciso il padre, seguì la morte della madre, della sorella maggiore Margherita e dei fratelli Giacomo e Luigi) e della scoperta di un mondo dominato dall’ingiustizia, il poeta elaborò una concezione della vita fatta di pensieri improntati spesso sul pessimismo. In primo luogo venne meno in lui la fiducia positivistica nella scienza, la quale non fornisce all’uomo alcuna certezza e non è in grado di risolvere i problemi. L’umanità appare avvolta dal mistero, per cui non esistono vere risposte ai problemi del male, del dolore e della morte. Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto: uomini e cose. (1909) segnarono una diversa tendenza, basata sulla volontà di 'raccontare'. Oltre ai temi già sperimentati (il mondo della campagna, la contemplazione della natura, l'aspirazione a una vita semplice), risalta lo spazio dato alla rappresentazione delle vicende degli emigranti verso l'America: il lessico si fa particolarmente sperimentale, una commistione di italiano e inglese assolutamente estranea alla tradizione lirica italiana. Nel 1903 scrive “canti di Castelvecchio”, continuità di Myricae, dove è presente il tema della memoria e assume importanza il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte. Nei canti di Castelvecchio ricorre con frequenza ossessiva il motivo della tragedia familiare e dei morti che si stringono intorno al poeta. Un carattere diverso presentano “i poemi conviviali”, si tratta di poemetti dedicati a personaggi e fatti del mito e storie di antichi, dalla Grecia al cristianesimo, Achille, Ulisse, Elena…. Anche in forma di riflessione, e con una precisa ricaduta sulle tecniche della versificazione, che ricalcano modelli antichi. Ai poemetti si accostano i “Carmina” latini; sono 30 componimenti brevi con protagonisti umili e schiavi. Il pessimismo è l'aspetto filosofico che caratterizza tutto l'evolversi del pensiero di Giacomo Leopardi, assumendo nel tempo connotazioni diverse. Esse possono essere seguite attraverso le pagine dello Zibaldone e si manifestano con evidenza nei testi letterari, come i Canti e le Operette morali. Le fasi del pessimismo leopardiano sono: • IL PESSIMISMO INDIVIDUALE: Le esperienze dell'adolescenza e della prima giovinezza conducono Leopardi a pensare che la vita sia stata spietata con lui, ma che altri possono essere felici (pessimismo personale o soggettivo). Questa contrapposizione emerge, ad esempio, nel canto La sera del dì di festa e, con qualche incrinatura], nella canzone Ultimo canto di Saffo. Il dolore diviene dunque strumento di conoscenza in quanto fonte di una riflessione che accompagna tutta la vita del poeta. • IL PESSIMISMO STORICO: Leopardi giunge ben presto a considerare il dolore come il frutto negativo dell'evoluzione storica: lo sviluppo del sapere razionale ha negato a tutti gli uomini quella spontanea e libera immaginazione che permetteva di trovare conforto al dolore. L’infelicità dell'uomo è dunque un prodotto della ragione moderna; secondo il poeta di Recanati soltanto gli antichi, non condizionati dall'incivilimento dovuto alla ragione nel loro accostarsi alla natura e alla vita stessa, hanno potuto raggiungere una condizione, per quanto illusoria, di felicità. Per Leopardi le epoche passate sono quindi migliori di quelle presenti. La natura, in questa fase del pensiero leopardiano, è ancora considerata benigna, perché, provando pietà per l’uomo, gli ha fornito l’immaginazione, ovvero le illusioni, le quali producono nell’uomo una parvenza di felicità. Nel mondo moderno queste illusioni sono però andate perdute perché la ragione ha smascherato il mondo illusorio degli antichi e rivelato la realtà nuda. • IL PESSIMISMO COSMICO: Approfondendo ulteriormente la riflessione (come attestano numerose pagine dello "Zibaldone"), Leopardi perviene al cosiddetto pessimismo cosmico, ovvero a quella concezione per cui, contrariamente alla sua posizione precedente, afferma che l'infelicità è connaturata alla stessa vita dell'uomo, destinato quindi a soffrire per tutta la durata della sua esistenza. La natura è infatti la sola colpevole dei mali dell’uomo; essa è ora vista come un organismo che non si preoccupa della sofferenza dei singoli, ma svolge incessante e noncurante il suo compito di prosecuzione della specie e di conservazione del mondo: è un meccanismo indifferente e crudele che fa nascere l’uomo per destinarlo alla sofferenza. Infatti la natura, mettendoci al mondo, ha fatto sì che in noi nascesse il desiderio del piacere infinito, senza però darci i mezzi per raggiungerlo. Questa concezione, che è alla base della maggior parte della produzione poetica di Leopardi, emerge per la prima volta con assoluta chiarezza nel " Dialogo della Natura e di un Islandese", un'Operetta morale scritta nel 1824. In questo Dialogo la Natura si mostra del tutto indifferente alla sofferenza dell'uomo, che è soltanto un elemento del ciclo universale di produzione e distruzione. Nella Ginestra, del 1836, Leopardi ribadisce che la Natura non ha per gli uomini riguardo maggiore di quello che ha per le formiche: eppure "l'uom d'eternità si arroga il vanto". Leopardi sviluppa quindi una visione meccanicistica e materialistica della natura , una natura che egli con disprezzo definisce "matrigna" L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato, come un saggio che pratica l’atarassia (per la dottrina epicurea "assenza di turbamento") e la lucida contemplazione del reale. Il destino dell’uomo, ovvero la sua malattia, è in fondo lo stesso per tutti, pur nelle differenti condizioni materiali, sociali, culturali (cfr, A Silvia e Canto notturno di un pastore errante dell'Asia). In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi, ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi, in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. Leopardi reputa proprio la sofferenza la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo, arrivando perfino a dire che “tutto è male”. Significativa è, a questo proposito, la conclusione del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dalla quale emerge tutta la sfiducia del poeta verso la condizione umana nel mondo, una condizione fatta di sofferenza e di diuturna infelicità. Gabriele D’Annunzio (1863-1938) Nacque a Pescara da una ricca famiglia. Diplomatosi si trasferì a Roma per frequentare l’università. Abbandonò presto gli studi preferendo vivere facendo il giornalista. Sono gli anni in cui si crea la figura dell’esteta, dell’individuo superiore che si rifiuta nel mondo fatto solo di arte e che disprezza la morale corrente, accettando come regola di vita solo il bello. seguire nel suo futuro, perché è legata in casa ad accudire alla sua famiglia. La decadenza e la morte esercitarono sui personaggi, che dovrebbero esser eroi, una forte attrazione. Il protagonista risulta sempre inetto, malato, corrotto. “Le laudi” sono 7 libri. Nel 1903 uscirono i primi tre: “Maia”è un lungo poema con 8000 versi, adotta il verso libero. Nasce come esaltazione della vita, dono terribile di Dio, i cui cardini sono. Volontà, voluttà, orgoglio e istinto. “Elettra” dedicata all’esaltazione e alla commemorazione degli eroi. È poesia celebrativa, anche qui vi è un polo positivo rappresentato dal passato e dal futuro di gloria e bellezza e un polo negativo: il presente da riscattare. “Alcione” è lontano dagli altri due. Al discorso politico si sostituisce il tema lirico della visione panica con la natura. È come il diario ideale di una vacanza estiva. Succede una ricerca di musicalità con l’impiego di un linguaggio analogico che si basa sul gioco continuo di immagini. Solo al superuomo è concesso stare a contatto con la natura, attingendo a una vita superiore. “Merope” dedicato all’impresa coloniale in Libia. “Il periodo notturno” è una nuova forma di poesia, di memoria. Presentano ricordi d’infanzia, confessioni soggettive, interiorità, pensieri di morte. Viene usato il frammento, un procedere per libere idee, un fondere presente e passato attraverso i ricordi della memoria. La più importante poesia è proprio notturno. Italo Svevo (1861-1928) Questo è il suo nome d’arte, il suo vero nome era Ettore schmitz ed era nato a Trieste. Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come Trieste, allora parte dell'impero austroungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Al centro di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall'altra, l'interesse per i maestri del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori russi quali Gogol', Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij e Čechov. Svevo compì o approfondì queste letture nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro di impiegato in banca, iniziato nel 1880 dopo il fallimento della ditta paterna. Intanto collaborava come critico teatrale e letterario a 'L'indipendente', giornale triestino sul quale nel 1890 comparve a puntate la sua novella L'assassinio di via Belpoggio. Scrive tre grandi romanzi e i protagonisti maschili di questi ricalcano una condizione esistenziale simile alla sua e generò quello che potremo definire inetto, quello dell’intellettuale e aspirante scrittore fallito, costretto a rinunciare ai propri sogni. Le opere Scrive “Una vita” dove Alfonso Nitti non è fallito solo perché costretto ad un continuo lavoro di banca, ma perché vive nella convinzione di una sua improbabile superiorità intellettuale e perché si dimostra debole davanti a ogni situazione. Non sa scegliere…. Non sa vivere. Di fronte a un amore contrastato fugge e sfidato a duello per un equivoco si uccide. La narrazione in questo romanzo viene condotta da una voce fuori campo che si riferisce alla terza persona. Il lettore vede le cose come Alfonso, le vede e ogni tanto si introduce nel narrato la voce del narratore che interviene per giudicare, per correggere e per smascherare l’eroe. “Senilità”, scritto nel 1898. E’ la storia di Emilio Brentoni, un uomo tormentato da paure, che vive con la sorella Amalia. Un giorno Angiolina, una ragazza di facili costumi che vuole vivere alla giornata proprio come l’amico di lui Stefano Belli. Emilio però si innamora perdutamente di Angiolina e le attribuisce qualità e sentimenti che lei non ha, infatti, è falsa e opportunista e ha i vari amanti, ma alla fine si innamora di Balli. Emilio si giura allora di non cercarla più e cade in depressione, mentre è geloso dell’amico. Intanto anche Amalia vive un’esperienza simile alla sua perché si innamora del Balli, ma anch’essa rifiutata cerca un conforto nella droga… il suo fisico però è debole e non supera un attacco di polmonite e muore. Emilio, rimasto solo, diventa noioso e malinconico. Significativa la conclusione dove il protagonista, dopo l’abbandono di Angiolina, dichiara di godere dell’amore per lei nel ricordo. “La coscienza di Zeno” scritta nel 1923, è il romanzo più maturo ed originale che abbandona la tradizione narrativa dell’800 e riprende la tematica di narrativa su se stesso, anch’egli inetto. differisce dai precedenti due romanzi per il quadro storico in cui matura l’opera che, infatti, risulta particolarmente mutato dal cataclisma della guerra mondiale la quale chiude effettivamente un’epoca aprendo le porte a nuove concezioni filosofiche che superano definitivamente il Positivismo sostituito dall’esplosione delle avanguardie e dall’affacciarsi della teoria della relatività. Appare evidente, dunque, che il romanzo di Svevo non potesse non risentire di questa diversa atmosfera, cambiando, per questo, prospettive e soluzioni narrative ed arricchendosi di nuovi temi e risonanze. L’autore abbandona il modulo ottocentesco di matrice naturalistica del romanzo narrato da una voce anonima ed estranea al piano della vicenda e adotta l’espediente del memoriale. Svevo, infatti, finge che il manoscritto prodotto da Zeno su invito del suo psicoanalista, venga pubblicato dallo stesso dottor S (iniziale che sta per Sigmund Freud o per Svevo?) per vendicarsi del paziente che si è sottratto alla sua cura frodandolo del frutto dell’analisi. Novecento che sotto esteriori certezze avverte il vuoto, causa principale dell’inquietudine e dell’angoscia esistenziale. Per questo l’opera di Svevo è idealmente vicina a quella di Luigi Pirandello, di James Joyce, di Marcel Proust: essa testimonia il male dell’anima moderna. Emerge all’analisi di Svevo una condizione di alienazione dell’uomo che risulta lucidamente incapace di avviare un rapporto operoso con la realtà che lo circonda. Zeno ad esempio è un vinto consapevole ma senza grandezza, perché l’inettitudine esclude la lotta. I protagonisti dei suoi romanzi, sia Alfonso Nitti (Una vita), sia Emilio Brentani (Senilità), incapaci di affrontare la realtà si autoingannano, cercano cioè di camuffare la propria sconfitta con una serie di atteggiamenti psicologici che Svevo con puntigliosa precisione svela. Ma tutto è inutile: è la vita ambigua e imprevedibile contro la quale a nulla vale l’autoinganno ad avere partita vinta, ed alla fine essa stritola i protagonisti dei romanzi di Svevo, che in comune hanno la totale inettitudine a vivere. All’autore dunque interessa proprio il modo di atteggiarsi dell’uomo di fronte alla realtà; ma questa partita con la vita si risolve sempre in una sconfitta per l’uomo. I tre romanzi di Svevo costituiscono una sorta di trilogia narrativa, che progressivamente sviluppa una tematica spirituale a sfondo autobiografico la quale tende non tanto ad una narrazione oggettiva dei fatti quanto a cogliere, attraverso un’analisi spregiudicata, i recessi più segreti ed inconfessabili della coscienza. Per questo i protagonisti dei tre romanzi appaiono sostanzialmente affini. Essi sono vinti dalla vita, uomini incapaci di vivere se non interiormente, intenti a sottoporsi ad un continuo esame e a sondare i meandri più segreti del loro Io, incapaci, specie i primi due, di inserirsi e di intervenire attivamente nel mondo. La senilità diviene consapevolmente un momento non solo cronologico, ma ideale dell’esistenza umana e diviene il simbolo di una radicale assenza dalla realtà, icona dell’incapacità di dominarla e trasformarla. Per questo l’uomo sveviano può essere definito un antieroe, un uomo senza qualità che non sa vivere come gli altri e con gli altri e che però, a differenza degli altri, è pienamente consapevole del proprio fallimento. Dunque i protagonisti dei romanzi di Svevo sono dei vinti, vittime non tanto degli eventi, spesso i più comuni, che qualunque persona sana saprebbe affrontare a proprio vantaggio; bensì sono vittime del Caso o delle strutture sociali, quanto di una loro indefinibile malattia composta di immobilismo ed accidia, quella che l’autore chiamò appunto senilità. Pirandello Luigi (1867-1936) Scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani del XX secolo che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo. Alla base della visione del mondo pirandelliano vi è una concezione della vita. La realtà è vita, movimento vitale, però tutto ciò che l’uomo è e vuol fare è puramente illusione. Le persone con cui l’uomo vive gli assegnano delle maschere, cosi l’uomo crede di essere uno, quando in realtà è tanti individui diversi a seconda di chi lo guarda. A questo punto l’individuo non conta più e perde la sua identità. In un primo momento i personaggi provano dolore e angoscia seguiti dalla solitudine, quando si accorgono di non essere nessuno, in secondo luogo soffrono per essere fissati dagli altri in modo diverso. Cosi viene dapprima criticata: la famiglia, poi il campo economico e infine la condizione sociale e il lavoro. L’unica via di uscita è il rifugio nell’irrazionale o nella follia. Nell’opera di Pirandello viene introdotto un nuovo personaggio “il forestiero della vita” che ha capito il gioco della vita e si isola rifiutando di assumere la sua parte ed osservando gli uomini con un atteggiamento umoristico. Le opere “L’esclusa” è la storia di una donna che viene cacciata di casa dal marito perché ritenuta adultera, quando invece non lo è, ma poi viene riammessa, quando l’adulterio è stato realmente commesso. “Il turno”, dove un innamorato deve aspettare il turno per sposare la donna che ama, dopo cioè la morte di altri due mariti. “Il fu Mattia pascal”. Il romanzo narra la singolare vicenda di Mattia Pascal che, cercando una momentanea evasione da un matrimonio fallimentare e dal noioso impiego nella biblioteca di un centro di provincia, arriva a Montecarlo, dove vince una grossa somma al gioco. Per caso apprende dai giornali la propria morte: la moglie, i parenti e gli amici lo hanno riconosciuto nel cadavere di uno sconosciuto trovato in un canale. Decide allora di approfittare della situazione e di costruirsi una nuova identità e una nuova vita. Si inventa il nome di Adriano Meis, si costruisce un passato plausibile e si stabilisce a Roma, dove pian piano gli si ricrea attorno alla rete dei rapporti sociali, gli amici, i nemici, l’amore. Presto però si rende conto dell’impossibilità di esistere al di fuori di ogni legge: non può trovarsi un lavoro, non può far valere i propri diritti, non può abbandonarsi con sincerità al sentimento amoroso né difendere la donna amata. La sua libertà senza anagrafe non serve a nulla, perché rimane sempre un morto, e come vivo è un clandestino. Tenta quindi di riacquistare la sua primitiva identità, simulando il suicidio di Adriano Meis. Ma, tornato al paese natale, scopre di essere ormai un estraneo per i compaesani e per la moglie, che si è felicemente risposata. Non gli resta quindi che sopravvivere a se stesso adattandosi sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica, nel secondo sente l’effimero, in relazione con l’eterno, l’ultima parte ha per titolo “l’amore” e in essa si accorge dell’invecchiamento. La raccolta si divide in 7 parti: prime, la fine di Crono, sogni e accordi, leggende, inni, la morte meditata, l’amore. Qui abbiamo il passaggio da un tempo storico a uno metafisico donde si parla della tematica del viaggio e della ricerca mitica dell’eden, la conquista del sentimento religioso. Avrebbe costituito il modello formale per il nascente ermetismo. (Gli ermetici si rifacevano alle esperienze del simbolismo, in particolare quello di autori come Stéphane Mallarmé e Paul Valéry, cercando di riconsegnare alla parola poetica una carica espressiva assoluta e rifiutando gli aspetti comunicativi del linguaggio così come l'effusione sentimentale diretta. Cercarono invece di fare della parola poetica un momento 'puro' e 'assoluto', in cui si risolvessero e culminassero le tensioni esistenziali e conoscitive di ciascuno e, ancora di più, il senso della vita, con valenze religiose più o meno accentuate.) Le sue ultime raccolte sono “Il dolore” dove si raccolgono liriche divise in 6 sezioni dedicate al figlio perduto. Qui si ha quasi la ricerca di un colloquio intimo con Dio. Lo stile è vivo, incentrato sulla parola guidata, abbandona le forme nominali; l’uso dei tempi è stravolto. E poi “La terra promessa” comprende i frammenti di un progetto che rimane solo un abbozzo. La vicenda avrebbe dovuto rappresentare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l’amore di Didone e la sua morte. Eugenio Montale (1896-1981) Nasce a Genova dopo giovanili studi di canto, interrotti dalla chiamata alle armi durante la prima guerra mondiale, si dedicò all’attività letteraria. Visse a Torino poi si trasferì a Firenze e qui iniziò l’attività di giornalista, di critico e traduttore di scrittori stranieri. La sua produzione poetica comprende 5 libri principali: “Ossi di seppia”, improntato sul pessimismo. È nel mondo delle cose che Montale trova la giusta ispirazione, è la poetica dell’oggetto, cioè la capacità del poeta di esprimere e raccontare i propri stati d’animo attraverso l’uso dei correlativi oggettivi. Il vero primo correlativo oggettivo è il nome della raccolta… essi raffigurano la lotta delle cose e degli uomini per non svanire e resistere al destino che vuole ridurli a rottami. Dietro il male di vivere il poeta tenta di difendersi avverando a uno stato dello spirito.. la divina indifferenza. Compare nella raccolta il primo visiting angel, la figura di Annetta- Arletta, la fanciulla dalle sfumature crepuscolari. Qui il male di vivere è espresso con il linguaggio pietroso, asciutto che nasconde una diffusa musicalità. “Le occasioni” sono immagini, episodi, sensazioni, eventi importanti o banali: rappresentano la vita; tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non s’è mai fatto. Le occasioni, poesie in parte già precedentemente pubblicate su riviste. In esse Montale continua l'indagine esistenziale degli Ossi di seppia. Nel modificarsi e svanire di una realtà indecifrata e incupita, acquista forza il tema della memoria (anch'essa gracile), sollecitata da 'occasioni' di richiamo, e si delineano le figure salvifiche di alcune donne. Il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi appaiono più nascosti; Montale però non muove verso l'irrazionale gorgo analogico degli ermetici, ma riafferma la sua tensione razionale e pudicamente sentimentale. Quindi ciò che lui rappresenta è il non vissuto, gli appuntamenti saltati, le apparizioni del visiting angel, l’attesa della salvezza… qui ritorna la dialettica assenza-presenza; da un lato la negatività del tempo e della storia, dall’altro la presenza metafisica di Clizia. Il volume si divide in 4 sezioni: • 1 sezione, scorre sul filo del paesaggio, del ricordo non escludendo figure femminili. • 2 sezione, comprende 20 componimenti brevi, detti “mottetti” espressi con tomi musicali a Clizia, alla sua assenza, al trascorrere del tempo. • 3 sezione, comprende il poemetto “tempo di bello sguardo” che si basa sull’efferatezza della storia. • 4 sezione, c’è il tema del paesaggio ligure, del rapporto tempo-memoria e Arletta-Annetta. Qui il male di vivere è espresso con un linguaggio più articolato, con il dramma dell’incomunicabilità ma anche desiderio di apertura. “La bufera e altro”, accanto alla figura di Clizia si richiamano altri temi dell’opera precedente: l’evocazione angelicale di Arletta-Annetta e il tema della memoria. Qui la seconda guerra mondiale ha lasciato il segno e nelle pagine si addensano immagini dell’incubo e della violenza scatenata dagli uomini sulla terra. Qui il poeta non è più distaccato, ma confronta la sua vicenda personale con quella degli altri. In queste tre opere il tema dell’esistenza è al centro della sua poesia, ma spinta dal dolore e dalla solitudine. L’uomo non può che andare alla ricerca di una verità che lo concili con se stesso. Per questo motivo il tema dell’esistenza è visto come tema della memoria, ma secondo il poeta, il ricordo per la trasformazione che subisce nel corso del tempo, non si può sostituire alla realtà e farlo rivivere… quindi esclude ogni possibile funzione consolatrice. E poi va ricordato il tema dell’amore. Nelle altre due opere “Satura” e “Diario del 71 e 72” Montale non da molta importanza al tema dell’esistenza, ma alla storia. Accanto a queste 5 opere vanno poi ricordate due raccolte di articoli “Farfalla di Dinard”, dato da racconti brevi, ricordi dell’adolescenza e giovinezza, luoghi familiari e descrizione di persone; “Auto da fè” (atto della fede) sono articoli culturali, politici… rosa, la sorella di Quasimodo. Contribuì alla conoscenza da parte del lettor italiano di moltissima narrativa anglo-americana. Le opere “Il garofano rosso”, è la storia di due giovani il cui amore è contrassegnato dal garofano rosso che lei gli dona come pegno. Lo sfondo storico è quello dei primi anni del fascismo (intorno alla marcia di Roma) nonostante le difficili vicende, non mancano pagine, però di freschezza narrativa, che racconta l’innamoramento dei due. In questo romanzo nasce un dato molto importante per la narrativa: la tendenza a partire dal dato concreto e poi trasfigurarlo nel mito, nella favola. “Viaggio in Sardegna”, lo scrittore guarda all’isola come un naufrago, sentendosi quasi Robinson Crusoe, pronta ad esplorarla con avventura e vuole vivere il presente alla luce delle memorie infantili. “Conversazione in Sicilia”, è la storia di un nostos, ovvero un ritorno dal presente al ricordo dell’infanzia trascorsa.. le lunghe conversazioni fra il protagonista e la madre rievocano una Sicilia reale, rivissuta nei luoghi, negli abitanti e nelle storie di miseria. Accanto al tempo e allo spazio reali si immischiano benissimo quelli della memoria, in termini strutturali il romanzo riprende alcune cose della fiaba di magia: l’allontanamento da casa, le prove da superare, il ritorno a casa. Qui il soggetto non è espresso alla terza persona, qui il protagonista si identifica con la voce che narra e si esprime con la prima persona. “Erica e i suoi fratelli”, è la storia di una bambina cresciuta in un ambiente povero e anche se è amante di ideali puri e freschi, dovrà lasciarsi andare al male del mondo, alla cattiveria degli uomini e prostitute. “Uomini e no” è ambientato nel clima della resistenza che si combatteva a Milano nel ‘44 e sulla vicenda storica di Enner, un partigiano che va alla ricerca di se stesso e che soffre per un amore impossibile per una donna. Dopo l’armistizio e la fuga del re da Roma col governo, i tedeschi occuparono il nord Italia. Milano a questo punto vive sotto le repressioni fasciste di Cane Nero. Enner è ricercato, ma ora è stanco di fuggire. Ha perso tanti compagni, ma l’odio per cane nero non è diminuito. Circondato in una casa da cane nero e dai suoi uomini, questa volta non scapperà…ucciderà cane nero e poi cadrà in mano dei fascisti. Salvatore Quasimodo (1901-1968) Era primogenito di una modesta famiglia; a causa di continui spostamenti del padre, che era capostazione, visse i primi anni di vita senza una dimora fissa e in mezzo ai disagi. Ancora in età scolare maturava i primi interessi letterari, da Platone a Dante, al simbolismo francese. Cominciò a scrivere versi giovanissimo, all'età di quindici anni. Dopo il conseguimento, nel 1919, del diploma di maturità tecnica a Messina, si trasferì a Roma per continuare gli studi, che fu costretto ad abbandonare per problemi economici. Figura importante della giovinezza fu monsignor Rampolla del Tindaro, che gli insegnò il greco e il latino. Le opere La prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre (1930), è incentrata sul tema della sua terra natale, la Sicilia, che l'autore lasciò già nel 1919: l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere. Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno. La raccolta si basa sulla dialettica sole-tenebre, dove da un lato si assapora la favola antica, i momenti di calma e pace, dall’altro ci sono momenti di tristezza e solitudine, soprattutto col sopraggiungere della notte. Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936) il poeta raggiunge la piena maturità espressiva. Oboe sommerso è data da 37 poesie. Anche qui ritorna il tema della lacerazione interiore; dall’adolescenza perduta si passa alla solitudine, all’esclusione, all’esilio. Ritorna il rapporto con la donna che diventa angelicata. Nel 1938 uscivano le “poesie”, una raccolta di 80 liriche dove ritornano sempre più drammatiche i significati delle opere precedenti. A queste seguivano “le nuove poesie”, sono danze di fanciulli di elica leggerezza, sono l’antico richiamo del corno dei pastori, paesaggi illuminati dalla luna e cullati dallo stormire delle foglie degli ulivi; sono emozioni legate alla propria isola, la prediletta degli dei, viva nel ricordo e nel sangue. È in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione. Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936) il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo: il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale
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