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riassunto balena procedura civile 2 volume, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

molto dettagliato e ben fatto, preciso

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica riassunto balena procedura civile 2 volume e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! LIBRO II, INTRODUZIONE IL PROCESSO DI COGNIZIONE DAL 1865 AD OGGI I. IL PROCESSO DI COGNIZIONE NEL CODICE DEL 1865: CARATTERI ORIGINARI ED EVOLUZIONE SUCCESSIVA. La storia del processo civile italiano inizia col primo codice post unitario, basato su di un progetto di testo redatto con una certa fretta. Non nasceva dal nulla, perché quasi tutti gli stati dopo la restaurazione si erano dotati di un codice di rito, eccezion fatta per l’area del lombardo-veneto in cui era rimasto in vigore il regolamento austriaco del 1796. Il regno di sardegna si era dato 2 codici nel giro di 5 anni, e fu proprio il secondo (nato come revisione del primo) ad essere l’antecedente più prossimo del regno d’italia. Il codice del 1865 disciplinava 2 modelli di processo diversi: uno formale (davanti a tribunali e corti d’appello) e l’altro sommario (innanzi a conciliatori e pretori e, nei soli casi stabili dalla legge, davanti ad altri uffici giudiziari. Il rito formale iniziava senza la fissazione di un’udienza, ma con l’assegnazione di un breve termine al convenuto per la sua comparizione, che in realtà indicava solo il momento entro cui i procuratori delle parti dovevano costituirsi in cancelleria, depositando i mandati. Dopodiché iniziava uni scambio di comparse utile ad approfondire tutte le questioni preliminari, processuali o di merito prima che la causa giungesse definitivamente davanti al giudice. Nella fase preparatoria le parti non avevano limiti rispetto alle attività difensive (possibilità di proporre nuove istanze o produrre nuovi documenti) fin quando una di esse non avesse fatto iscrivere la causa sul ruolo c.d. di spedizione, e solo così il giudice veniva concretamente investito della controversia. Il rito sommario, il convenuto era citato per comparire a udienza fissa direttamente davanti al giudice, e la causa era iscritta immediatamente sul ruolo. La prassi mostrò di preferire il procedimento sommario a quello formale, per la sua maggiore semplicità e per il fatto che instaurasse un immediato contatto tra parti e giudice. Tale rito, da eccezionale divenne presto il vero procedimento ordinario. Ciò spiega perché il legislatore ne integrò e riformò la scarna disciplina con una l. del 1901, corredata di disposizioni attuative e di coordinamento contenute in un r.d. dello stesso anno, elaborate con l’aiuto del massimo processualista del tempo (L. Mortara), segnando la definitiva caduta del rito formale. Il cc del 1865 era liberale e garantistico, ispirato al principio che l’iniziativa di parte fosse il motore del processo e che il giudice dovesse essere scarsamente coinvolto nella determinazione dei suoi ritmi. La comparizione delle parti avveniva innanzi al solo presidente, e poi – salvo rinvio- poteva continuare nella stessa udienza davanti all’intero collegio per la discussione delle questioni insorte o per l’intera causa. A differenza del rito formale, la causa arrivava all’udienza ad istruttoria ancora aperta, non si prevedevano rigidi sbarramenti temporali per le allegazioni delle parti. Le parti potevano presentare nuove domande, eccezioni o mezzi di prova o documenti direttamente all’udienza davanti al collegio, nel qual caso – se si tratta di nuovi elementi che per numero o importanza richiedevano un maturo esame- il presidente avrebbe rinviato ad udienza successiva. Il presidente doveva provvedere a qualunque incidente (es. questioni sulla litispendenza o competenza) e all’ammissione delle prove, a condizione che le parti fossero d’accordo tra loro. In caso contrario, la decisione era riservata al collegio, che vi provvedeva con sent appellabile. II. L’INIZIO DELLA PROPAGANDA DI CHIOVENDA CONTRO IL CODICE IN FAVORE DELL’ORALITA’ Il procedimento appena descritto funzionava dignitosamente, in quanto in media durava solo pochi mesi. Fin dagli anni successivi alla riforma del 1901, si diffuse la convinzione che occorressero opportuni interventi legislativi volti a migliorarne l’efficienza. Apparì sulla scena processualistica italiana Giuseppe Chiovenda, professore emerito considerato padre fondatore della moderna scienza processualistica italiana. A lui si deve il mutamento della denominazione della disciplina da “procedura civile” a “diritto processuale civile”. Di chiovenda più che i risultati colpisce il metodo: egli fu il primo ad importare in italia l’impostazione sistematica e dogmatica della scienza giuridica germanica. Sulla fine della prima metà del ‘900, chiovenda iniziò una propaganda contro il cc del 1865, a suo dire ispirato ad idee e principi superati nelle moderne legislazioni processuali. I principi su cui chiovenda impostava la sua battaglia per la revisione del cc sono 3 (ricordati perché sono slogan più volte menzionati in occasione delle varie riforme processuali). Il primo, fulcro del pensiero chiovendano, era quello dell’oralità (preferenza della parola allo scritto): trattazione della causa a viva voce piuttosto che con lo scambio di comparse. Gli altri 2 principi erano corollari e condizioni necessarie per l’attuazione del primo: immediatezza (cioè la coincidenza tra giudice- persona fisica , o gruppo di persona, che istruisce la causa e giudice che decide) e concentrazione (il processo si esaurisce, se non in un’unica udienza, in uno stretto numero di udienze ravvicinate). A tali canoni si accompagnava un certo rafforzamento dei poteri del giudice: per C., lo scopo fondamentale del processo non era tanto la composizione della controversia e la realizzazione del diritto, quanto l’attuazione della volontà della legge (diritto oggettivo), di cui il giudice era garante e protagonista. In un progetto parziale di riforma nel 1919, scrisse che “il giudice deve disporre quanto necessario per chiarire la verità dei fatti e assicurare alla causa una decisione conforme a giustizia” (esasperazione della rilevanza pubblicistica del processo). C. era cauto quanto ai poteri da riconoscere al giudice nella ricerca della c.d. verità materiale, in tema di prove utilizzabili d’ufficio. Il giudice, lungi dall’essere un inquisitore, era paternalisticamente dipinto come un suggeritore delle parti, invitando queste ultime a chiarire le loro conclusioni, completare l’esposizione dei fatti e indicare i più utili mezzi di prova. Le sue proposte inizialmente non riscossero grande successo. D’altronde l’oralità non era stata una sua scoperta, perché il rito sommario era sia scritto che orale; egli credeva forse troppo nell’oralità (ricetta segreta per un processo giusto), mentre l’esperienza ha poi provato che in realtà l’oralità va solo ad integrare la scrittura. III. GENESI E CARATTERISTICHE ORIGINARIE DEL CODICE DEL 1940. I lavori di riforma del codice del 1865 iniziarono dopo l’ascesa del fascismo, quando una l. del dicembre 1923 autorizzava il governo ad emanare un nuovo cpc. I lavori della commissione reale per la riforma dei codici portarono già nel 1926 un primo progetto di codice organico, sostanzialmente redatto da Francesco Carnelutti. Tale progetto, proprio perché è dovuto ad un unico studioso, non ebbe particolare fortuna o seguito. Dobbiamo aspettare la prima metà degli anni 30 affinché il governo imprima un'accelerazione ai lavori per il nuovo codice La prima iniziativa fu quella di commissionarne la redazione a Redenti, altro illustre processualista, in collaborazione col guardasigilli del tempo, la redazione di un nuovo progetto. Nel 1937 e 1939 vennero presentate la versione preliminare e quella definitiva, che la dottrina accolse senza entusiasmo poiché vi era rimasta estranea. La La l.n. 533/1973 fu un'importante intervento settoriale che riscrisse la disciplina del processo del lavoro , sostituendo il titolo IV del libro II del codice. Il relativo progetto fu approntato da sindacalisti, avvocati e magistrati dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia. Nonostante il ruolo marginale degli studiosi del processo, ed il fatto che sia una riforma discutibile dal punto di vista tecnico, il nuovo rito sembrò avviato al successo. Alla base delle iniziale exploit, la citazione dell'autorità di Giuseppe chiovenda, sul presupposto che rappresentasse un fedele attuazione dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione. Anche l'idea chiovendiana del rafforzamento dei poteri del giudice, quale garanzia di una sentenza giusta ebbe un certo fascino sulla successiva dottrina, convinta che un giudice forte fosse un fattore di riequilibrio del processo in favore della parte più ontologicamente debole, come il lavoratore subordinato. In realtà, anche qui siamo piuttosto distanti dalle idee di chiovenda. Il processo del lavoro è connotato da un sistema di preclusioni rigido, precoce e forse anche rozzo: esclude ogni nuova allegazione o prova successiva agli atti introduttivi delle parti, costringendo a formulare le proprie richieste istruttorie al buio, senza sapere quale sarà la posizione difensiva dell’avversario. Ciò non toglie che il nuovo rito presenti alcune significative novità sul piano processuale (es. l’esecuzione immediata della sent di 1 grado favorevole al lavoratore) e anche sul piano sostanziale. Il vero punto di forza della riforma sta nei profili strutturali ed organizzativi: in primis la scelta del giudice unico e monocratico, munito di competenza ratione materiae. Una serie di elementi fecero sì che la sua entrata in vigore fosse accompagnata da una ventata di ottimismo, ma già dopo i primissimi anni, i dati statistici sulla durata del nuovo processo cominciarono a fornire indicazioni non rassicuranti: da disfunzioni furono attribuite perlopiù a carenze organizzative, e si coltivò all'idea che la legge del 1973 rappresentasse un modello sperimentale, da esportare alla generalità delle controversie, sia pure con i dovuti adattamenti. Tuttavia Virgilio Andrioli, autorevole difensore della riforma del 73, manifestava perplessità aspetto della generalizzazione del rito speciale. VI. I PODROMI DELLE RIFORME DEGLI ANNI ‘90 La novella del ’50 non aveva arrestato il deterioramento della giustizia civile, che anzi aveva visto crescere la durata media dei giudizi. Col passare degli anni era cambiata la distribuzione del carico di lavoro tra i vari uffici giudiziari, poiché il giudice conciliatore – che dapprima sbrigava oltre i 2/3 delle cause civili – finì con l’occuparsi di poche cause, che gravavano soprattutto su tribunali e preture. Ancora intorno agli anni ’80, le discussioni sulla riforma del codice erano state vane ed inefficaci. Proprio in quegli anni, però, la crisi del proc civile ebbe un’impennata, sì da far apparire drastica la situazione, visto che l'intervallo medio tra un'udienza e l'altra era cresciuto continuamente, e quando la fase istruttoria era terminata e si trattava solo di rimettere la discussione al collegio per l'ultima udienza, l'intervallo si era attestato nell'ordine di 2-3 anni. innanzi a questa emergenza, consapevoli della necessità di misure strutturali relative all’ord giudiziario, i processualisti proposero un intervento legislativo urgente e circoscritto in attesa di una riforma globale del codice, per incrementare quantomeno l'efficienza del processo ordinario. VII. LA NOVELLA DEL 1990 E L’ISTITUZIONE DEL GIUDICE DI PACE LA l.n. 353/1990, relativamente al processo ordinario di cognizione, punterà (come aveva fatto il codice del ’40) sulla prima udienza, nodo centrale della trattazione della causa. la novità rispetto al sistema originario del codice e alla legge del 1973 era rappresentata da un maggiore realismo l'intervento riformatore: più che affidarsi al potere di iniziativa del giudice puntava su un sistema elastico di preclusioni, più graduali rispetto a quelle del rito del lavoro, volte non a scandire rigidamente le attività processuali più significative delle parti, ma ad attuare una più razionale separazione tra la fase di trattazione della causa (ove si definirà il c.d. thema decidendum; e i fatti realmente bisognevoli di prova , il thema probandum) e quella dell’istruzione probatoria. Il legislatore sapeva che si trattava solo di una razionalizzazione dell'esistente, e che la soluzione ai problemi della giustizia civile andava ricercata altrove, cominciando da una redistribuzione del contenzioso tra gli uffici giudiziari. In tale prospettiva, il vecchio conciliatore non era adeguato ad affrontare maggiori responsabilità; sul finire degli anni 80 si ebbero dei progetti miranti alla istituzione di un giudice onorario nuovo e più affidabile. Il risultato si concretizzò nella l.n.374/1991 che, ispirandosi ad una terminologia anglosassone, sostituì il conciliatore con il giudice di pace, affidando a quest'ultimo una competenza per materia e valore che sarebbe dovuta servire ad alleggerire il carico gravante sui giudici togati. Il battesimo di quest'ultimo sarebbe coinciso con l'effettivo insediamento di un nuovo giudice l'entrata in vigore della legge del 1990 fu differita al 1993, ma con l'approssimarsi dalle data fu chiaro che i ritardi nella emanazione delle norme attuative della legge del 1991, Uniti alle difficoltà nel reclutamento dei giudici di pace avrebbero impedito di rispettare anche questa scadenza punto prima che il nuovo giudice onorario fosse operativo, si dovette intervenire con vari decreti legge per ulteriori rinvii. Con la conversione del d.l. 571/1994, la travagliata riforma del processo civile fosse ormai giunta al termine, giacché l'entrata in vigore delle l. del 1990 e 1991 venne fissata al 30 Aprile e 1 maggio 1995. quando la data del 30 Aprile era ormai vicina l'avvocatura insorse contro il diniego di un'ulteriore rinvio e proclamò uno sciopero a tempo indeterminato, confortata da alcune critiche dottrinali. Le proteste dell'avvocatura sortirono come unico effetto qualche ritocco dell'ultim'ora ad alcune norme cardine della legge del 1990 nella direzione di un certo ammorbidimento delle preclusioni e una lieve attenuazione della concentrazione del giudizio. VIII. LE RIFORME PIU’ RECENTI Nonostante sia passato molto tempo dall'entrata in vigore della riforma del 90, i pareri sulla sua bontà ed efficacia non sono concordi, anche perché le valutazioni risentono delle diverse situazioni locali, ossia del differente carico di lavoro degli uffici giudiziari non omogeneo su tutto il territorio nazionale. È indiscutibile ch’essa, nonostante il supporto indiretto dato dall’istituzione del giudice di pace, non abbia risolto o alleviato la crisi della giustizia civile, che avrebbe invece richiesto più vigorosi interventi di tipo strutturale, volti a modificare l'organizzazione degli uffici giudiziari, ampliare la competenza o l'utilizzazione dei giudici onorari e potenziando la produttività di quelli professionali. per parecchi anni il legislatore si è ostinato ad intervenire in maniera frenetica e poco accorta sulla disciplina processuale. la nuova stagione di riforme fu inaugurata da un d.lgs. del 2003, introduttivo di un modello processuale inedito in materia societaria e intermediazione finanziaria, bancaria e creditizia. Tale rito speciale diede ai pessima prova di sé e rimase in vigore pochi anni, venendo abrogato nel 2009. Nel prosieguo della legislatura l'idea di procedere ad un rifacimento globale del codice fu abbandonata e si preferì ripiegare su interventi settoriali, ritenuti urgenti. tali interventi avvennero prima con la l.n. 89 del maggio 2005, che tocco soprattutto la disciplina del processo esecutivo, dei procedimenti cautelari e possessori e dei giudizi di separazione personale e divorzio, nonché quella dello stesso procedimento di cognizione ordinario; e poi col d.lgs. del 2006 che incise sul processo di cassazione, riformativo anche dell’arbitrato. Ulteriori interventi successivi: 1. L.n. 69/2009, presentata come un'incisiva riforma del processo civile, che in realtà contiene solo modifiche sparse delle norme codicistiche, talune idonee ad incidere in modo apprezzabile sulla durata media dei giudizi 2. Il d.lgs n.28/2010, contestatissimo, che rese obbligatorio il previo esperimento voi della mediazione in ampi settori del proc civile 3. Il d.lgs. 150/2011, concernente la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, che avrebbe tentato di sfoltire i riti speciali, riconducendoli a 3 modelli base 4. la legge di stabilità, che contiene disposizioni processuali volte a potenziare l'uso della posta elettronica certificata 5. d.l. n. 132 del 2014, introduttivo della negoziazione assistita, obbligatorio in tutte le controversie in materia di risarcimento danno da circolazione di veicoli o natanti e in tutte quelli aventi ad oggetto domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 € 6. 2 dd.ll. del 2015 e 2016 concernenti l’esecuz forzata In passato le uniche riforme ordinamentali degne di nota, ma prive di ricadute in termini di efficienza del processo civile, si erano avute col d.lgs. Del 1998 che aveva dato attuazione all'idea dell'unico giudice togato di primo grado sopprimendo l'antichissimo ufficio del pretore. Il d.lgs. n.116 del 2017 modifica la figura ed i compiti del giudice di pace prevedendone la possibile utilizzazione anche all'interno dei tribunali e ne amplia la competenza. CAPITOLO I LA MEDIAZIONE E LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA 1. RILIEVI INTRODUTTIVI Negli ottimistici auspici del legislatore, gli istituti della mediazione e della negoziazione assistita dovrebbero essere degli strumenti deflattivi del contenzioso, spesso passaggio obbligato nell'avvio del processo. l'idea di deflazionare il numero delle cause, incentivando il ricorso ad istituti di composizione stragiudiziale delle controversie (che, con una terminologia importata dell'esperienza anglosassone, si è soliti indicare come ADR: alternative dispute resolutions) non è nuova per il nostro ord., che in passato ha sperimentato tentativi obbligatori di conciliazione prima dell’avvio del giudizio, senza risultati soddisfacenti. Nonostante ciò, e nonostante il legislatore delegante non avesse accennato ad una giurisdizione c.d. condizionata, il d.lgs 28/2010 non solo prevede la facoltatività del ricorso alla mediazione per ogni causa civile e commerciale riguardante diritti disponibili, ma ne rese obbligatorio il previo esperimento in molti ambiti del contenzioso civile. La cc ha ritenuto illegittime, per eccesso di delega, le disposizioni relative alla mediazione obbligatoria, ma il d.l. 69/2013 le ha reintrodotte, seppur con qualche modifica. L'avvocato dell'attore è tenuto ad informare l'assistito, chiaramente e per iscritto a pena di annullabilità del contratto di patrocinio, della art 5 d.lgs.28/2010, in materia di condominio, diritti reali, divisione, patti di famiglia locazione e comodato risarcimento danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo dello stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi bancari e finanziari; con l'esplosione delle azioni collettive e di classe previste dal cod cons, pur quando attengano a siffatte materie. in tali ambiti l'esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale: la sua eventuale mancanza non preclude la proposizione della domanda, ma impedisce al processo di proseguire finché la mediazione non sia stata instaurata ed esaurita, o fino a quando non sia decorso il termine di 3 mesi (sua durata max). la condizione di procedibilità si avvera già dopo il primo incontro delle parti innanzi al mediatore, quando questo si concluda senza accordo. Dall’obbligo della preventiva mediazione sono esentati: a) Procedimenti per ingiunzione e il relativo giudizio di opposizione, questo fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione b) procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino alla conclusione della fase sommaria c) procedimenti di consulenza tecnica preventiva volti alla composizione della controversia d) procedimenti possessori fino alla conclusione della fase sommaria c.d. interdittale e) procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata f) Procedimenti in camera di consiglio, indipendentemente dal fatto che abbiano ad oggetto provvedimenti di giurisdizione volontaria o materie contenziose g) l'azione civile esercitata nel processo penale mentre i procedimenti di cui alle lettere c, e, f, g sono sottratti all'applicazione della disciplina in esame, in quelli di cui alle lettere a,b,d , l'obbligo di esperire la mediazione diviene attuale nel corso del giudizio, nella fase a cognizione piena. Ex art 5 si precisa che lo svolgimento delle mediazioni non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari, nella trascrizione della domanda giudiziale. Circa l’ipotesi sub a), dott e giuri di merito sono divise circa l’individuazione della parte onerata dall'instaurazione del procedimento di mediazione. Stando alla Cassazione, questo graverebbe sul debitore opponente e la sua inosservanza comporterebbe l'improcedibilità dell'opposizione. Poiché l'art 5 riferisce l’improcedibilità della domanda giudiziale, è preferibile ritenere che sia il creditore opposto attore in senso sostanziale, ad avere interesse all'adempimento. Gravità dubbi sorgono in relazione alle domande riconvenzionali o comunque nuove (es. proposte da terzi intervenute nel corso del giudizio oppure nei loro confronti), visto che la formulazione dell’art 5 I co bis è abbastanza generica da potersi attagliare anche ad esse. Tenuto conto che la mediazione ha poche chance di successo quando riguardi alcune soltanto delle varie domande oggetto della lite, è preferibile un'interpretazione restrittiva dell'art 5, circoscritta alle sole domande originarie, come sembra suggerito dall’equivoca direzione della norma, nella parte in cui si prevede che sia il convenuto ad eccepire l'improcedibilità della domanda, dando per scontato che questa provenga dall'attore. se non si volesse seguire questa strada, una soluzione minimale sarebbe quella di escludere l'obbligo della mediazione per tutte le domande riconvenzionali caratterizzate dalla connessione oggettiva ex art 36 cpc (quelle dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello appartenente alla causa come mezzo di eccezione), comprese quelle volte ad ottenere l'accertamento con efficacia di giudicato di un rapporto pregiudiziale a quello oggetto dell'originaria domanda. Ma si limita a tale obbligo alle domande che non presentino un simile nesso, che potrebbero essere oggetto di un provvedimento di separazione ex art 103 5. SEGUE: LE CONSEGUENZE DEL SUO MANCATO ESPERIMENTO l'eventuale improcedibilità, derivante dal mancato esperimento della mediazione, può essere eccepita dal convenuto o rilevata ex ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. 2 distinte ipotesi: a. la mediazione non è stata affatto esperita, il relativo procedimento non è neppure stato iniziato. il giudice assegna alle parti 15 gg per la presentazione della domanda di mediazione, rinviando la causa ad un’udienza successiva alla scadenza del termine entro cui deve concludersi il procedimento b. la mediazione è stata richiesta ma il procedimento non si è ancora concluso, né può considerarsi tale. In altre parole, cioè, non è ancora stato depositato il verbale di conciliazione o mancata conciliazione ex art 11 d.lgs., e non siano neanche trascorsi i 3 mesi dal deposito della domanda di mediazione, sua durata max. si ha semplicemente la fissazione di un’udienza successiva rispetto alla durata massima del procedimento di mediazione. Una terza ipotesi, priva di una disciplina specifica, si ha quando il procedimento di mediazione, pur essendo iniziato da meno di 3 mesi e non essendo ancora concluso, sia già pervenuto al primo incontro davanti al mediatore senza che le parti abbiano raggiunto l'accordo. in tal caso, visto che l'art 5 d.lgs. considera avverata la condizione di procedibilità, il giudice provvede (come nell’ipotesi sub b) a rinviare la causa ad altra udienza, solo se nessuna delle parti vi si oppone, documentando l'esito negativo dell'incontro innanzi al mediatore. In concreto nulla esclude che l'attore, quando certo che la mediazione non porti ad esiti positivi ed abbia fretta, proponga la domanda giudiziale più o meno contemporaneamente a quella di mediazione, al fine utilizzare per l'esaurimento del procedimento di mediazione il periodo compreso tra l'atto introduttivo del processo e la prima udienza, tenendo conto che a tale udienza sarà scaduto il termine massimo di durata della mediazione, o si sarà già avuto il primo incontro col mediatore. Sebbene il legislatore non l'abbia esplicitato, nell’ipotesi sub a), qualora la nuova udienza cui il giudice ha rinviato non risulti avvenuta l'instaurazione della mediazione, il processo si definirà con una declaratoria di improcedibilità della domanda, che rivestirà la forma di sentenza (a meno che non sia un processo sommario che prevede decisioni con ordinanza) impugnabile nei modi ordinari. Il legislatore non ha definito perentorio il termine fissato dal giudice per l'instaurazione della mediazione; la sua ordinanza sarà irrilevante ogni qualvolta il procedimento stesso risulti concluso, o debba considerarsi tale essendo decorso il termine Max di 3 mesi. Se le parti documentano l'avvenuta conciliazione, la conclusione del processo sarà sancita da una pronuncia di cessazione della materia del contendere. l'eventuale pronuncia di improcedibilità della domanda non impedisce, di per sé, che è la stessa domanda si riproponga in un nuovo processo, quando non vi siano ostacoli legati al maturare della prescrizione o alla decadenza o di altro tipo. 6.MEDIAZIONE OBBLIGATORIA PER ORDINE DEL GIUDICE Oltre alle ipotesi di mediazione obbligatoria, l'originario art 5 II co. d.lgs. prevedeva che lo stesso giudice, persino in appello, “valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti”, potesse invitare quest'ultime a ricorrere alla mediazione. Se all'invito aderivano tutte le parti, la causa era rinviata ad altra udienza per consentire l'espletamento della mediazione. Era una disposizione molto ragionevole, concepita per i casi in cui il giudice intravedesse delle concreta possibilità di una risoluzione bonaria della controversia. Il nuovo art 5 II co. ha inopportunamente convertito l'invito in un ordine, stabilendo che il giudice possa senz'altro disporre- nelle condizioni indicate – l’esperimento della mediazione, purché il provvedimento sia adottato prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni, ovvero prima delle discussione della causa nei processi in cui tale udienza non è prevista. l'effetto di quest’ordine (consentito anche nei casi in cui, essendo la mediazione obbligatoria ex lege, il procedimento sia stato già instaurato, anche infruttuosamente) è quello di subordinare la procedibilità della domanda giudiziale, anche in sede di appello, al previo esperimento della mediazione. Anche qui il giudice rinvia la causa ad una udienza successiva rispetto alla scadenza del termine massimo di durata della mediazione, e se tale procedimento non sia stato già avviato, assegna alle parti 15 gg per la presentazione della relativa domanda. 7.LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA, IN GENERALE È stata introdotta dal d.l. n.132/2014, ed è definita ex art 2 di tale d.l. come “un accordo con cui le parti decidono di cooperare in buona fede e lealtà per risolvere amichevolmente una controversia”, con l’assistenza di 1 o più avvocati. È consentita per ogni lite riguardante diritti disponibili, eccezion fatta per la materia del lavoro. È dovere deontologico dell’avvocato informare il cliente di tale possibilità, salvo i casi in cui essa sia obbligatoria. È un istituto con finalità analoghe a quelle della mediazione, ma le differenze rispetto a quest’ultima derivano dal mancato coinvolgimento di un soggetto terzo ed imparziale (quale il mediatore), nonché dalla scarna disciplina della negoziazione. Il legislatore lascia ampia libertà alle parti, disciplinando solo quanto segue: a. L'invito a stipulare l'accordo di negoziazione rivolto all'altra parte. dev’essere redatto per iscritto tramite avvocato, deve indicare l'oggetto della controversia e contenere l'avvertimento che la mancata risposta entro 30 giorni dalla ricezione o il suo rifiuto potrà essere valutato del giudice ai fini delle spese del giudizio. In altre parole, per incentivare l'adesione della controparte, il giudice del successivo giudizio può tener conto del rifiuto o della mancata risposta tanto nella ripartizione delle spese processuali (in vista di una possibile condanna aggravata) quanto nella concessione nella provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, quando la parte autrice dell'invito faccia valere il proprio diritto con un procedimento per ingiunzione. la comunicazione dell'invito all'altra parte produce rilevanti effetti sostanziali conservativi: interrompe la prescrizione ed impedisce, seppur per una sola volta, il compiersi della decadenza a cui la proposizione della domanda e eventualmente soggetta. In quest'ultimo caso, se la negoziazione non da esiti positivi, il termine di decadenza riprende a decorrere a seconda dei casi, dalla scadenza del termine non c'è dubbio che la disciplina in esame possa e debba integrare, ove serva, la disciplina di altri processi a cognizione piena (detti speciali per contrapporli a quello ora esaminato), disseminati nello stesso cpc o fuori di esso; in primis quello del lavoro (artt. 413 ss). in questa ipotesi la disciplina ordinaria serve a colmare poche o molte lacune della disciplina speciale, anche se non di rado (soprattutto quando quest'ultima costituisca un corpus normativo compiuto, come nel caso del rito del lavoro), tale operazione può suscitare seri dubbi sulla compatibilità di alcune norme ordinarie con le peculiarità del procedimento speciale. Se poi si tiene conto del carattere generale che si riconosce in materia processuale a tutto il cpc, voi ho detto di espliciti e continui richiami normativi al di fuori del settore della giustizia civile, si comprende che la disciplina del processo innanzi al tribunale possieda una certa vis espansiva. SEZIONE I L’ATTO INTRODUTTIVO 10. LA DOMANDA GIUDIZIALE E I SUOI EFFETTI, PROCESSUALI E SOSTANZIALI In relazione all’art 112 cpc, si è vista l’importanza della domanda nel delineare l’oggetto del processo; si è anche detto che in un unico processo possono cumularsi più domande, provenienti non solo dall’attore, ma anche dal convenuto o da chi vi intervenga. La domanda giudiziale produce effetti sul piano sostanziale e processuale: o gli effetti processuali ruotano attorno alla nozione di litispendenza, ricollegandosi alle disposizioni in cui si presuppone che una causa sia divenuta , e sia tuttora, pendente. La proposizione di una domanda, ad es, individua il momento a partire dal quale: a) nessun altro giudice adito successivamente potrà conoscere e decidere la stessa causa; b) i mutamenti della legge o dello Stato di fatto, incidenti sulla giurisdizione o sulla competenza del giudice adito, non potranno sottrargli la causa (principio della perpetuatio iurisdictionis); c) il trasferimento del diritto controverso non farà venir meno la legittimazione ad agire o a contraddire del suo originario titolare. a tali effetti si riconduce anche l'impedimento di eventuali decadenze che operino sul piano strettamente processuale, es. i termini cui sono soggette le domande di impugnazione o la domanda di opposizione al decreto ingiuntivo o Circa gli effetti sostanziali, numerose norme di natura sostanziale ricollegano determinate conseguenze alla proposizione di una domanda giudiziale. Nell'ambito di tali effetti, si distingue tra quelli che la domanda produce di per sé (indipendentemente dall'esito del processo), e quelli che presuppongono che il processo arrivi ad una sentenza, se del caso di un certo contenuto (es. accoglimento della domanda o comunque di merito). alla prima categoria appartiene l’effetto interruttivo della prescrizione. Ex art 2943 cc, la proposizione della domanda giudiziale, pur se rivolta ad un giudice incompetente o privo di giurisdizione, interrompe la prescrizione del diritto. è un effetto c.d. conservativo, perché paralizza le conseguenze negative che la durata del processo potrebbe creare rispetto al diritto. non è solo un effetto interruttivo istantaneo (analogo a quello che potrebbe discendere da un qualunque atto di messa in mora): la prescrizione, oltre ad essere interrotta, è sospesa fino al passaggio in giudicato della sent che definisce il giudizio, ed è solo da qui che decorre un nuovo termine prescrizionale. Alla medesima categoria possono ascriversi gli effetti che la domanda produce non in via necessaria ed esclusiva ma accidentalmente, cioè quando costituisce il mezzo per l'attuazione di un potere che il suo autore avrebbe potuto esercitare anche al di fuori del processo. es.: Il creditore utilizzi la domanda giudiziale per operare la scelta tra più obbligazioni alternative o per mettere in mora il debitore. a questa categoria di effetti appartiene anche l'impedimento di decadenze sostanziali, in relazione alle ipotesi in cui un diritto deve esercitarsi entro un certo termine a pena di decadenza. Es.: Il termine annuale dell'azione di disconoscimento della paternità. prova il più delle volte l'effetto impeditivo della decadenza non può operare al di fuori del processo in cui la domanda è proposta, sicché cade ogni qualvolta il processo si concluda senza una decisione di merito. il secondo gruppo di effetti sostanziali (attributivi) è implicitamente condizionato dal fatto che il processo giunga a sentenza e che la domanda sia accolta. Si parla comunque di effetti della domanda perché una volta intervenuta la sent di accoglimento, essa retroagisce al giorno in cui la domanda era stata proposta, Evitando che la parte vittoriosa si apre giudicata dalla durata del processo. es.: è dal giorno della domanda che si applica allo specifico tasso di interessi legali previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, o che gli interessi scaduti Producano a loro volta interessi. La trascrizione nei pubblici registri immobiliari delle domande giudiziali ex artt 2652 e 2653 ha l'effetto di rendere inopponibili all'attore vittorioso i diritti acquistati da terzi con un atto trascritto o iscritto prima della sentenza ma dopo la trascrizione stessa è possibile parlare di una terza categoria intermedia di effetti sostanziali, per cui la produzione della domanda giudiziale è condizione necessaria e sufficiente. Tali effetti sono destinati a caducarsi quando la pendenza del processo venga meno e non sia possibile giungere ad una sent (di rito o di merito). a parte i casi di impedimento della decadenza non producibile in via stragiudiziale, si pensi alle preclusioni ex art 1453, Per cui una volta proposta la domanda di risoluzione l'attore non può più optare per la domanda di adempimento ed il debitore stesso non può più adempiere. Secondo l'opinione preferibile, tali preclusioni operano solo all'interno del processo in cui la risoluzione era stata chiesta, e cadono quando il processo non possa giungere alla decisione sulla domanda di risoluzione. Altro es.: La sospensione del corso della prescrizione, interrotta dalla domanda giudiziale : è un effetto che rimarrebbe travolto qualora il processo si estinguesse prima di pervenire alla sentenza definitiva 11. I MODELLI DI ATTO INTRODUTTIVO: CITAZIONE E RICORSO Ex art 163, la domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa. La citazione non è l’unico modo in cui possono essere proposte delle domande, è solo la forma prescelta dal legislatore per l’instaurazione del processo ordinario di cognizione. La formulazione dell’art 163 si giustifica tenendo in conto che l’atto introduttivo non può non contenere almeno una domanda (vale per ogni processo, anche per quelli in cui la legge prescrive il diverso modello del ricorso). Assumendo come paradigma dei processi da ricorso il rito del lavoro (il più compiutamente disciplinato), le differenze tra i due modelli possono riassumersi come segue. la citazione si dirige direttamente al convenuto, deve contenere – oltre agli elementi comuni al ricorso, che si concretano nella c.d. editio actionis (utili cioè all’individuazione dell’una o più domande sottoposte al giudice: soggetti, petitum, causa petendi), anche quelli necessari ha provocare e consentire la partecipazione del convenuto al processo (c.d. vocatio in ius), inclusa l'indicazione dell'udienza in cui ci sarà la prima comparizione delle parti. il ricorso ha come naturale ed immediato destinatario il giudice. di regola, salvo quando il legislatore ne richiede la preventiva notificazione, come accade per il processo di Cassazione, mira ad investire della causa all'ufficio giudiziario in quanto esige solo la determinazione della domanda. La vocatio in ius e l'instaurazione del contraddittorio seguono ad una distinta e successiva attività del giudice, chiamato a fissare con decreto la data dell'udienza di comparizione o dell'audizione delle parti, nonché ad un'ulteriore attività dell'attore, che deve poi provvedere alla notificazione dell'atto introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza. oltre dalle ipotesi in cui s’impone il ricorso, poiché il giudice- in alcuni processi speciali- può o deve provvedere senza la previa attuazione del contraddittorio, questo secondo sistema di introduzione della controversia dovrebbe avere il vantaggio di consentire all'ufficio una più razionale distribuzione del carico di lavoro. Eccezion fatta per i casi in cui la decisione inaudita altera parte è prevista ex lege, il principio ex art 101 cpc esclude che l'introduzione della causa con ricorso possa rendere inutile l'instaurazione del contraddittorio: anche quando il giudice dovesse ritenere invalido il ricorso o manifestatamente infondata la domanda, non può esimersi dal fissare la comparizione delle parti, provvedendo solo dopo che abbiano avuto modo di interloquire sulle varie questioni. 12. CONSEGUENZE DELL’ERRORE SULLA FORMA DELL’ATTO INTRODUTTIVO (E SUL RITO DELLA CAUSA) Il fatto che l'ordinamento conosca 2 modelli di l'atto introduttivo del processo a cognizione piena, pone il problema di stabilire cosa accade qualora l'attore utilizzi un modello diverso da quello prescritto (es.: ricorso in luogo della citazione o viceversa). tale problema non investe il solo atto introduttivo ma si estende al rito dell'intero processo, ricollegandosi ad un'errata qualificazione della materia della causa. Può accadere che si proponga con citazione una causa compresa tra quelle ex art 409 per cui dovrebbe adoperarsi il rito del lavoro (e quindi il ricorso); al contrario, che si prospetti come controversia di lavoro una causa estranea ai rapporti ex art 409, che dunque dovrebbe iniziarsi con citazione. la casistica è molto ricca e non sono rari i casi in cui l'errore sul modello da utilizzare per l'atto introduttivo si origini nella poca chiarezza del legislatore: all’indomani dell’entrata in vigore della l.n. 74/1987 (che modificò la disciplina della l.n. 898/1970) si discusse a lungo sulla forma corretta per l’instaurazione del processo d’appello del giudizio di divorzio, e tali incertezze – prima che la cassaz optasse definitivamente per il ricorso- produssero tanti errori. Vista la rilevanza pratica del problema, la giuri prevalente si è sempre mostrata indulgente, ammettendo una certa equipollenza e fungibilità dei 2 modelli, escludendo che l'erronea adozione dell'uno piuttosto che dell'altro sia motivo di nullità o impedisca al processo di pervenire alla decisione di merito. tutto ciò senza distinguere la fattispecie in cui sia stata impiegata la citazione in luogo del Completa e sottoscritta a norma dell'art 125 (dalla parte stessa, se sta in giudizio personalmente, oppure dal suo difensore- procuratore), la citazione va consegnata ufficiale giudiziario affinché questi provveda alla notificazione, cioè la condicio sine qua non affinchè l'atto introduttivo - uscendo dalla sfera interna all'attore- produca gli effetti processuali e sostanziali. 14. LA SCELTA DELLA DATA DELLA PRIMA UDIENZA; I TERMINI MINIMI DI COMPARIZIONE L’art 163 parla di “citazione a comparire a udienza fissa”: in linea di principio, è l'attore a scegliere ed indicare, a norma del n.7 dello stesso art., la data del primo incontro tra parti e giudice (udienza di prima comparizione). la scelta non è del tutto libera. L'attore dovrebbe tener conto del decreto con cui il presidente del tribunale adito, entro il 30/11 di ogni anno, stabilisce i giorni della settimana e le ore destinate, nel successivo anno giudiziario, alla prima comparizione delle parti. La scelta di un giorno diverso da quelli indicati non produce conseguenze negative, poiché è previsto un meccanismo legale in grado di sovrapporsi all'indicazione dell'attore. è più importante la limitazione relativa ai termini minimi di comparizione, ex art 163 bis. la norma, per assicurare che il convenuto abbia un certo lasso tempo per approntare le proprie difese, prevede che tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di prima comparizione, intercorra un termine libero non minore, rispettivamente, di 90 o 150 gg, a seconda che il luogo di notificazione sia in Italia o all'estero. il termine può essere abbreviato fino alla metà (“dimidiato”) nelle cause che richiedano pronta spedizione (connotate da urgenza), su istanza del lettore e con decreto motivato del presidente del tribunale. Considerato che lo stesso convenuto potrebbe avere interesse ad una sollecita trattazione della causa, si prevede che qualora il termine assegnato dall'attore nella citazione ecceda considerevolmente il minimo poc'anzi indicato, il convenuto - costituendosi prima della scadenza del termine min - chieda al presidente del tribunale un’anticipazione della prima udienza, nel rispetto del termine min. Anche qui il presidente provvede con decreto che sarà reso noto all'attore, almeno 5 giorni liberi prima della nuova data. la data dell'udienza fissata dall'attore è provvisoria, poiché è spesso soggetta ad uno slittamento in avanti, conseguente all'individuazione del giudice istruttore. In conclusione, quella indicata nell'atto di citazione rappresenta solo la data prima della quale non potrebbe tenersi l'udienza di prima comparizione (salvo che, come detto, il convenuto chieda un'anticipazione). SEZIONE II LA COSTITUZIONE DELLE PARTI 15. LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO DELLE PARTI: in generale La costituzione è l'atto attraverso cui la parte -che ha già assunto tale qualità per aver proposto una domanda giudiziale o per esserne stata soggetto passivo- rende effettiva la propria partecipazione al processo, accreditando anche il proprio difensore procuratore presso il giudice. con la costituzione il procuratore diviene, a norma dell'articolo 170, il destinatario di tutte le notificazioni e comunicazioni virtualmente dirette alla parte, per le quali la legge non dispone altrimenti (indicando come destinatario la parte stessa). Alla costituzione in giudizio, personale o a mezzo del procuratore, è subordinata la possibilità di esercitare concretamente i poteri processuali della parte, in particolare le attività di allegazione e di impulso istruttorio. Ad es, il convenuto non potrebbe, senza essersi previamente costituito, proporre la domanda riconvenzionale o un'eccezione in senso stretto (non rilevabile d'ufficio) ne deferire all'attore un giuramento decisorio o un interrogatorio formale. La costituzione vale per l'intero giudizio, indipendentemente dall'effettiva partecipazione alle singole fasi del processo: la contumacia, cioè la situazione derivante dalla mancata costituzione di una parte, non va confusa con la mera assenza della parte già costituita, ad una o più udienze o all'esperimento di un determinato mezzo istruttorio, che semmai determina conseguenze diverse. La costituzione si attua in generale attraverso il deposito in cancelleria del fascicolo di parte, contenente: l'originale del primo atto processuale della parte stessa (citazione per l'attore, comparsa di risp per il convenuto), le copie destinate al fascicolo d'ufficio, la procura e i documenti eventualmente offerti in comunicazione. Stando alla disciplina del codice, negli articoli 72 e ss delle disposizioni attuative, il fascicolo è destinato ad ospitare successivamente, in sezioni separate, tutti gli altri atti compiuti dalla parte o notificati ad essa e tutti i documenti prodotti dalla parte; a conferma del deposito avvenuto è previsto che ogni atto e documento sia riportato in un apposito indice del fascicolo, che il cancelliere -dopo il controllo sulla regolarità fiscale dell'atto del documento-, sottoscrive in occasione di una nuova inserzione o produzione. È previsto anche che nel corso del procedimento il fascicolo di parte rimanga custodito in una cartella col fascicolo d'ufficio, salva la possibilità che la parte sia autorizzata dal giudice istruttore a ritirarlo temporaneamente. in seguito all'attuazione del processo telematico, questa disciplina deve considerarsi superata in parte, poiché per ciascuna causa è previsto che accanto al tradizionale fascicolo d'ufficio cartaceo, ci sia un fascicolo virtuale nel quale confluiscono tutti gli atti e i documenti in formato elettronico depositati dalle parti con modalità telematiche (trasmessi tramite pec). Nei processi che iniziano col deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adito, e non la citazione, non è configurabile un'autonoma attività di costituzione del ricorrente, poiché essa coincide per l'appunto con quella attraverso cui si instaura il giudizio: in tali processi non può aversi, quantomeno inizialmente, la contumacia dell'attore. 16. LA COSTITUZIONE DELL’ATTORE La costituzione dell'attore, disciplinata dall'articolo 165, deve avvenire entro 10 giorni successivi alla notificazione della citazione, termine che si riduce a 5 giorni se l'attore ha usufruito dell'abbreviazione dei termini di comparizione prevista nell'articolo 163 bis II comma. Come già detto la costituzione si effettua attraverso il deposito in cancelleria del fascicolo che contiene anche l'originale della citazione, comprovante l'avvenuta notificazione. Se la notificazione deve essere notificata a più parti, il termine decorre pur sempre dalla prima notifica, ma l'originale della citazione può essere inserito nel fascicolo entro 10 giorni dall'ultima notifica. Quando l'attore si costituisce personalmente, se non ha già provveduto nell'atto di citazione, deve dichiarare la propria residenza oppure eleggere domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito, per agevolare le notificazioni e le comunicazioni a lui dirette. 17. LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO A norma dell'articolo 166, il convenuto deve costituirsi almeno 20 giorni non liberi prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, oppure in caso dimidiazione dei termini di comparizione, almeno 10 giorni prima dell'udienza stessa. Ciò significa che anche quando la data della prima udienza è posteriore a quella indicata dall'attore, il termine di costituzione va comunque calcolato in relazione a quella indicata dall'attore. Fa eccezione l'ipotesi in cui l'udienza di prima comparizione viene differita ai sensi del 5 comma dell'articolo 168 bis: in questo caso il termine per la costituzione del convenuto si calcola con riferimento alla nuova data effettiva dell'udienza. Il termine indicato dall'articolo 166 ha importanza non tanto per la costituzione in sé, che potrebbe avvenire in un momento successivo, ma in considerazione di alcune preclusioni che scattano con lo spirare del termine tanto che una costituzione posteriore impedirebbe al convenuto alcune attività difensive. per quanto riguarda le modalità, anche la costituzione del convenuto si attua attraverso il deposito del fascicolo di parte, che deve contenere, oltre agli atti i documenti prescritti per l'attore, la copia della citazione notificata al convenuto e la comparsa di risposta, cosiddetta perché rappresenta la prima replica del convenuto all'atto di citazione. 18. segue: IL CONTENUTO DELLA COMPARSA DI RISPOSTA Nell’analizzare il contenuto della comparsa di risposta si erano distinti: gli elementi che, corrispondendo ad attività difensive soggette a decadenza, possono essere contenuti solo in tale comparsa, a condizione che essa sia depositata in cancelleria entro il termine del 166, da quegli elementi ulteriori che, pur essendo presenti nella comparsa di risposta, potrebbero essere introdotti anche in un momento successivo. Le attività che possono essere compiute dal convenuto soltanto con la comparsa di risposta sono: a) la proposizione di domande riconvenzionali, comprese quelle formulate nei confronti di un altro convenuto e delle eventuali domande di cd accertamento incidentale, attraverso cui il convenuto chiede che una questione pregiudiziale, in deroga al principio dell'articolo 34, venga decisa con efficacia di giudicato b) La proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio (eccezioni in senso stretto): ad es, le eccezioni di prescrizione o di compensazione e quella di incompetenza, che, pur essendo a volte rilevabile d'ufficio alla prima udienza, può essere eccepita dal convenuto nella sola comparsa di risposta c) la chiamata di un 3, a norma dell'articolo 106: laddove si chiama in causa un 3, il convenuto non deve soltanto dichiarare questa sua intenzione nella comparsa di risposta ma deve, a pena di decadenza, chiedere al giudice istruttore, contestualmente, lo spostamento della prima udienza; allo scopo di Se è l’ attore a non costituirsi, l'articolo 290 fa dipendere la prosecuzione del giudizio dalla volontà del convenuto, che potrebbe avere interesse alla sentenza di merito: se egli chiede, il giudice senz'altro da le disposizioni previste nell'articolo 187 e questo significa che ha inizio la trattazione ai sensi dell'articolo 183; in caso contrario sarà ordinata la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. 21. LE NOTIFICAZIONI E LE COMUNICAZIONI NEL CORSO DEL PROCEDIMENTO Dal momento della costituzione in giudizio, il difensore-procuratore diviene il naturale destinatario di tutte le notificazioni e le comunicazioni, in luogo della parte rappresentata; ciò spiega perché, quando egli rappresenta più parti, la notificazione o la comunicazione gli è eseguita con la consegna di una copia soltanto dell'atto. Si consideri inoltre che l'avvocato, qualora la rappresentanza di una parte giudizio si svolga al di fuori della circoscrizione del tribunale cui è assegnato, è tenuto ad eleggere domicilio nel luogo in cui ha sede il giudice adito, per evitare che le notificazioni e le comunicazioni a lui dirette possano eseguirsi presso la cancelleria dell'ufficio giudiziario. se la parte è costituita personalmente, le notificazioni e le comunicazioni ad essa dirette si faranno nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto al momento della costituzione. Per quanto riguarda la comunicazione delle comparse e delle memorie fra le parti, l'ultimo comma dell'articolo 170 prevede tre diverse modalità: il deposito in cancelleria, la notificazione e lo scambio diretto, documentato attraverso la posizione di un visto del destinatario, in calce o in margine sull'originale dell'atto. CAPITOLO III L’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE E LE VERIFICHE PRELIMINARI 22. LE VERIFICHE PRESCRITTE ALL’UDIENZA DI PRIMA COMPARIZIONE L'udienza di prima comparizione rappresenta il primo contatto tra le parti e il giudice e segna l'inizio della fase di trattazione della causa. Verifiche preliminari che il giudice compie in questa occasione, anche sulle questioni che ne possono derivare: A) l'articolo 182 I comma, pur non riferendosi espressamente all'udienza di prima comparizione, prevede che il giudice istruttore debba verificare d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e invitare queste ultime a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. tale disposizione è stata utilizzata ad es per il caso in cui una delle parti aveva messo di produrre la procura già tempestivamente rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata; e anzi si ritiene che essa possa interpretarsi in senso estensivo con riferimento a qualunque vizio che implica la mera irregolarità di un atto processuale B) Il I comma dell'articolo 183 invece prende in considerazione le vere e proprie nullità, che potrebbero essersi verificate nella fase introduttiva del processo, prevedendo che il giudice debba verificare d'ufficio la regolarità del contraddittorio, cioè se le parti si sono costituite oppure se la mancata costituzione sia dipesa da qualche vizio, e pronunciare, se serve, i provvedimenti destinati a: porre rimedio all'omessa citazione di un litisconsorte necessario, alle nullità dell'atto introduttivo e della domanda riconvenzionale, ai difetti di rappresentanza, assistenza o autorizzazione o infine ai vizi della notificazione della citazione. Qualora tutti questi inizi non fossero tempestivamente individuati o sanati resterebbero rilevabili d'ufficio anche dopo la prima udienza. 23. I VIZI CONCERNENTI L’INSTAURAZIONE DEL CONTRADDITTORIO: la nullità della notificazione della citazione Qualora il convenuto non si sia costituito entro la prima udienza, il giudice prima di dichiararlo contumace, deve verificare che la citazione gli sia stata regolarmente notificata e quando rileva un vizio che implica nullità della notifica o inesistenza, deve ordinare all'attore la rinnovazione della notificazione, fissando un termine perentorio ed una nuova udienza. La rinnovazione sana la nullità con effetto ex tunc retroattivo e impedisce ogni decadenza: nel senso che il processo si considererà pendente fin dal giorno della prima notificazione e da quel momento decorreranno tutti gli effetti sostanziali della domanda di natura conservativa. il convenuto comunque sarà tenuto a costituirsi in cancelleria almeno 20 giorni prima della nuova udienza e ovviamente sarà dichiarato contumace qualora non si costituisca entro l'udienza stessa. Se poi l'ordine di rinnovazione non viene rispettato, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. 24. L’INVALIDITA’ DELLA CITAZIONE: le fattispecie L'articolo 164 disciplina in modo analitico l'invalidità dell'atto introduttivo, enumerando due categorie di vizi e ricollegando loro un regime diverso. Parlando di questa differenziazione, il legislatore ha preso come punto di riferimento la distinzione funzionale tra gli elementi della editio actionis, preordinati alla formulazione della domanda propriamente intesa, e quelli della vocatio in ius, che servono a provocare e a consentire la corretta instaurazione del contraddittorio nei confronti del convenuto. Il primo gruppo di vizi da cui può derivare la nullità della citazione attiene alla vocatio in ius e comprende: a) L’omessa o incerta indicazione del tribunale adito b) L’omessa o assolutamente incerta indicazione delle generalità di taluna delle parti, sempre che il vizio sia tale da impedire la sicura e univoca individuazione dell'attore o del convenuto c) L’omessa in negazione della data dell'udienza in cui il convenuto è chiamato a comparire, che si equipara al caso in cui questa indicazione si è erronea, contraddittoria o incerta d) L'assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello minimo previsto dall'articolo 163 bis e) l'omissione del formale avvertimento prescritto nell'articolo 163 numero 7 il secondo gruppo di vizi riguarda la editio actionis e comprende: a) l’omessa o assolutamente incerta determinazione della cosa oggetto della domanda (petitum mediato o immediato b) la mancata esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda. considerando che la norma allude ai fatti costitutivi, una parte della dottrina ritiene che questa seconda ipotesi di nullità dovrebbe ricorrere solamente quando l’omessa specificazione dei fatti costitutivi, rende impossibile individuare con certezza il diritto stesso o comunque il rapporto giuridico per cui si invoca la tutela giurisdizionale, e non anche quando la domanda verta su un diritto autodeterminato. Di fronte all'articolo 164, però, questa interpretazione restrittiva non sembra condivisibile, anche perché i fatti menzionati non vengono in rilievo soltanto per l'identificazione dell'oggetto del giudizio, ma vanno correlati all'ulteriore funzione che compete alla citazione, che è un atto preparatorio alla successiva trattazione ed istruzione della causa, nonché al sistema delle preclusioni che caratterizza il processo ordinario: In altre parole essi servono comunque a consentire al convenuto di difendersi adeguatamente e al giudice di esercitare i poteri che gli sono attribuiti in relazione alla trattazione della causa. Si deve aggiungere che l'articolo 164 non esaurisce le fattispecie di invalidità della citazione. la nullità, infatti, potrebbe discendere ad esempio dall'assoluto difetto di sottoscrizione del procuratore, oppure da un vizio di natura extra formale, attinente alla rappresentanza tecnica dell'attore o alla legittimazione processuale; e in queste ultime ipotesi sarebbe sanabile ex tunc, a seconda dei casi, tramite rilascio o rinnovazione della procura dell'item, oppure tramite la costituzione del soggetto cui spetta la rappresentanza processuale o l'assistenza dell'incapace. 25. segue: IL REGIME DEI VIZI DELLA VOCATIO IN IUS La disciplina delle nullità concernenti la vocatio in ius può riassumersi così: A) la costituzione del convenuto sana comunque i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali dell'atto introduttivo nullo. Con una formula tralatizia si continua a discorrere di sanatoria ex tunc, come se fosse la costituzione a determinare una retrodatazione degli effetti della condanna; in realtà però questi ultimi si erano già prodotti dal momento della notificazione della citazione anche se invalida, poiché si tratta di effetti della domanda, ricollegabili propriamente alla editio actionis, che in questi casi non viene toccata dalla nullità B) La sanatoria elimina la nullità senza residuo , indipendentemente dalla volontà del convenuto. l'unica eccezione si ha quando la nullità dipende da inosservanza del termine minimo di comparizione oppure da omissione dell'avvertimento prescritto dall'articolo 163 numero 7: in entrambi i casi, il convenuto costituendosi al più tardi all'udienza di prima comparizione, potrebbe dedurre il vizio al solo fine di ottenere che il giudice fissi una nuova udienza nel rispetto dei termini. Ciò equivale ad una sorta di automatica remissione in termini, poiché è chiaro che il convenuto potrà perfezionare a quel punto o integrare la propria costituzione e la propria comparsa di risposta, 20 giorni prima di tale nuova udienza. Questo regime vale solo nel caso in cui il convenuto si costituisce tempestivamente, entro la prima udienza. in caso di costituzione tardiva si deve tenere conto della disciplina della contumacia involontaria, la quale prevede che il convenuto, se si costituisce nel corso del procedimento di primo grado, deducendo che la sua contumacia è dipesa dalla nullità della citazione o della relativa notificazione, può essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la nullità medesima gli ha impedito di avere giudice sia comunque tenuto a dichiararle inammissibili, sebbene le altre parti non ne dolgono e l’abbiano perfino accettata. L'opinione fino ad ora riferita appare, per un verso fondata su una premessa ideologica molto discutibile, per altro verso risulta contraddetta da alcune precise indicazioni di ordine positivo. Per quanto riguarda il primo profilo, è dubbio che un sistema rigido di preclusioni sia indice univoco di una concezione pubblicistica del processo, perché al contrario le preclusioni sviliscono e penalizzano la fondamentale ricerca della verità materiale, che costituisce la prima e significativa caratteristica di un processo orientato in senso pubblicistico. Per quanto riguarda il secondo aspetto, si deve considerare per la rilevabilità d'ufficio della tardività delle nuove allegazioni, oltre a collidere -nel caso di nuove domande- con elementari esigenze di economia processuale, appare difficilmente conciliabile con la disciplina delle nullità della citazione e della domanda riconvenzionale, frutto della stessa riforma del 90; da cui si evince che le parti possono provvedere ad indicare uno degli elementi essenziali della domanda, inizialmente omessi, in qualunque momento del processo di primo grado. Ciò conferma indirettamente che la proposizione di domande nuove in corso di causa non contrasta con alcuna ragione di ordine pubblico. 29. LA TENDEZIALE CONCENTRAZIONE DELLA TRATTAZIONE E L’EVENTUALE INTERORGATORIO LIBERO DELLE PARTI La disciplina della prima udienza di trattazione è contenuta nell'articolo 183. la trattazione della causa è per principio orale, anche se devo ovviamente redigersene un processo verbale. La norma dell'articolo 183 dispone che la trattazione abbia inizio già nell'udienza di prima comparizione e si concluda in questa stessa udienza. Per quanto riguarda il primo profilo, le ipotesi in cui è previsto un differimento dell'inizio della trattazione ad una nuova udienza ricorrono: a) quando il giudice, in seguito alle verifiche preliminari rilevi un vizio relativo alla costituzione delle parti o all'instaurazione del contraddittorio e ordini le misure sananti; nonché b) qualora debba procedersi a norma dell'articolo 185, ossia quando il giudice, di propria iniziativa oppure su richiesta congiunta delle parti, disponga la comparizione personale di queste al fine di interrogarle liberamente e di tentarne la conciliazione. Nell’ipotesi sub b) le parti dovrebbero comparire personalmente, salva la facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, che sia munito di procura conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, comprensiva del ‘’potere di conciliare o transigere la controversia’’, e sia a conoscenza dei fatti della causa. L’art. 185 inoltre non contempla sanzione per il caso in cui taluna delle parti ometta semplicemente di comparire e prende, invece, in considerazione l'ipotesi in cui il procuratore designato dimostri di non essere a conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti della causa, stabilendo che il giudice può valutare tale comportamento desumendone degli argomenti di prova in danno della parte rappresentata. Quanto al secondo profilo, prima ancora di chiarire in cosa consista la trattazione della casa, si deve sottolineare che, sebbene l’art. 183 riferisca tutte le relative attività, delle parti e del giudice, alla prima udienza, in quest’unica udienza è da ritenere che si tratti, in realtà, di un’indicazione tendenziale, la cui rigidità fa i conti con esigenze obiettive del processo, legate al rispetto del principio del contraddittorio, le quali possono rendere inevitabile il frazionamento delle attività in più udienze, se non addirittura il semplice differimento dell’inizio della trattazione. Il legislatore, in particolare, ha omesso di considerare che il convenuto può costituirsi tranquillamente alla prima udienza e che l’attore può avere il legittimo interesse a chiedere un rinvio dell’udienza, al fine di esaminare con la dovuta attenzione -prima di compiere qualsiasi ulteriore attività difensiva- la comparsa di risposta del convenuto e i documenti da lui prodotti. Almeno rispetto a questa ipotesi, un’interpretazione correttiva dell’art. 183 appare doverosa, sul piano dei principi costituzionali. Più avanti, si avrà modo di sottolineare che non tutte le attività contemplate dall’art. 183 restano precluse, in realtà, al termine di questa prima fase. 30. segue: le attività dirette a definire l’oggetto del giudizio e i mezzi di prova da assumere. Cenni sul possibile passaggio al rito sommario di cognizione. Dopo le verifiche criminali, che riguardano la regolare instaurazione del processo e del contraddittorio, e dopo l'esperimento dell'interrogatorio libero e del tentativo infruttuoso di conciliazione, l'articolo 183 prevede una serie di possibili attività delle parti diretta pervenire ad una compiuta definizione dell'oggetto del giudizio e dei fatti sui quali dovranno poi assumersi delle prove (thema decidendum e t. probandum). In dottrina, si discorre a tal proposito di collaborazione del giudice con le parti nella trattazione della causa, riferendosi al complesso di poteri di direzione del processo che competono al giudice in questa fase preparatoria; ma la formula non sembra troppo felice, dal momento che nella realtà applicativa gli uffici giudiziari più grandi non permettono che il giudice arrivi a questa udienza conoscendo gli atti della causa e le rispettive posizioni processuali delle parti, ma anche in base alle disposizioni che attribuiscono al giudice un ruolo secondario rispetto a quello che compete alle parti. L'articolo 183 bis, introdotto dal d.l. 132 del 2014, consente al giudice, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, di optare d'ufficio, all'udienza di trattazione, per la prosecuzione del giudizio secondo le norme del rito sommario di cognizione, che rappresenta un modello semplificato rispetto a quello ordinario e che dovrebbe essere riservato alle cause meno complesse. L’art. 183 bis infatti prevede che, in vista di tale provvedimento, debba valutarsi la ‘’complessità della lite e dell'istruzione probatoria, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta tra le parti’’. L'ordinanza non impugnabile che dispone il passaggio a rito sommario potrebbe imprimere al processo una accelerazione, in quanto deve contestualmente invitare le parti ad indicare nella stessa udienza, a pena di decadenza, i mezzi di prova e i documenti di cui intendono avvalersi, e anche la relativa prova contraria; salva la possibilità per il giudice di rinviare la causa su istanza di parte ad una nuova udienza, assegnando un primo termine perentorio non superiore a 15 giorni, per indicare i mezzi di prova e la produzione di documenti, e poi un secondo termine perentorio di 10 giorni per la sola indicazione di prova contraria. L'applicazione della disciplina del rito sommario inoltre potrebbe implicare la decisione immediata della causa, quando le parti non abbiano chiesto l'assunzione di prove o il giudice la ritenga comunque superflua. Al di fuori di questa conversione del rito, che costituisce un evento raro, vediamo quali sono le tappe della trattazione della causa secondo la disciplina ordinaria: A) in primo luogo, è previsto che il giudice chieda alle parti -più precisamente ai difensori delle stesse- sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari. Questa attività serve a far luce sulle rispettive posizioni difensive e a far emergere i fatti realmente controversi B) in secondo luogo, l’art. 185 bis attribuisce al giudice il potere di formulare, ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La prima ipotesi evoca esplicitamente la figura della transazione ex articolo 1965 CC, lasciando intendere che il giudice -pur prescindendo dalle valutazioni sul merito della causa-può proporre un accordo risolutivo della controversia che sia un compromesso tra le contrastanti posizioni del litiganti. La seconda ipotesi, pare presupporre che il giudice può già intuire l'esito del giudizio e dunque propone alle parti una soluzione conciliativa che si adegua a questo prevedibile esito, rendendo superflua la decisione della causa ed evitando conseguenze negative sotto il profilo della condanna alle spese processuali. Lo stesso art. 185 bis consente al giudice la formulazione di una siffatta proposta anche nel prosieguo del giudizio, ‘’sino a quando è esaurita l’istruzione’’. C) Il giudice deve indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuno la trattazione, al fine di tutelare l'effettività del contraddittorio ed impedire che il giudice stesso pronunci su una di queste questioni senza aver sentito le parti. Oggi tale prescrizione costituisce l'applicazione della generale disposizione racchiusa dell'articolo 101 secondo comma, dunque la sua violazione - qualora il giudice non vi ponga rimedio prima della decisione- determina la nullità della decisione stessa. D) L'autore può proporre, nella prima udienza di trattazione, le domande e le eccezioni che sono conseguenza delle domande riconvenzionali o delle eccezioni proposte dal convenuto. Per quanto riguarda le domande nuove, questa facoltà deroga al principio secondo cui l'oggetto del giudizio viene determinato negli atti introduttivi e non può essere ampliato -o ristretto-, in corso di causa. Quanto alle eccezioni, deve ritenersi che questa fase iniziale della trattazione rappresenti un limite invalicabile per le sole eccezioni in senso stretto, non rilevabili d'ufficio, dell'attore (le eccezioni in senso stretto del convenuto hanno la preclusione maturata prima con la scadenza del termine di costituzione in cancelleria). Quelle rilevabili d'ufficio invece restano consentite ad entrambe le parti anche nel prosieguo del giudizio. Per entrambi i profili, si tratta di una disposizione importante e opportuna perché consente all'attore di adattare modulare le proprie domande ed eccezioni in base alle posizioni difensive del convenuto, nonché alle eventuali contro domande formulate in tale comparsa; e oltretutto tenendo conto che le nuove domande resterebbero nella maggior parte dei casi proponibili in un separato giudizio, viene anche tutelata un'esigenza di economia processuale. non vi è alcun motivo di intendere in modo restrittivo il presupposto indicato dal legislatore per cui le nuove domande dell'attore devono essere conseguenza delle domande o eccezioni del convenuto, al contrario, dovrebbe essere sufficiente che la L’opinione da preferire è che la preclusione, di cui all’art. 183, riguardi esclusivamente l’allegazione di nuovi FATTI PRINCIPALI che implichino la proposizione di domande o di eccezioni nuove, oppure la modifica di quelle già proposte. Nessun limite è previsto per: a) La proposizione di mere difese, consistenti nella contestazione dei fatti allegati dall’avversario a fondamento della propria domanda b) L’allegazione di fatti secondari, ossia di quelli che rilevano esclusivamente sul piano probatorio in quanto da essi può desumersi l’esistenza o inesistenza di un fatto principale c) L’allegazione di fatti (principali) estintivi, impediti o modificativi che il giudice potrebbe rilevare d’ufficio: la deroga, si desume non soltanto dall’art. 167, II co, ma anche dall’art. 345, II co, che consente la formulazione di tali nuove eccezioni finanche in appello Nonostante quanto previsto dall’art. 183, non è verosimile che l’esaurimento di questa prima fase del processo possa precludere la mera ‘’precisazione’’ delle domande e delle eccezioni originariamente formulate, trattandosi di un’attività che non incide sull’oggetto del processo e che non implica neppure apprezzabili mutamenti nei fatti già allegati. Quanto alle ‘’conclusioni’’ delle parti, vedremo più avanti, possono essere variate fino al momento in cui la causa passa nella fase decisoria. Grazie alla disposizione generale (ora) contenuta nel II comma dell’art. 153, è chiaro che tutte le preclusioni esaminate possono trovare temperamento nella rimessione dei termini, se la parte dimostri di ‘’essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile’’, e dunque ogni volta che il mancato rispetto di un termine perentorio o il tardivo compimento di attività soggette a preclusione possa considerarsi giustificato o quanto meno scusabile: si pensi, ad es. alle nuove tardive allegazioni aventi ad oggetto fatti (principali) sopravvenuti nel corso del giudizio, oppure a fatti che potrebbero aprire la strada ad un’impugnazione straordinaria; e si pensi anche alle ipotesi in cui le nuove allegazioni trovino causa nel comportamento processuale dell’avversario, che nel corso del processo, abbia modificato -in qualche misura- le proprie originarie allegazioni o difese. CAPITOLO V LA DISCIPLINA DELL’INTERVENTO DI TERZI (lez- 26/10) 33. MODALITA’ E TERMINI DELL’INTERVENTO VOLONTARIO Riprendiamo il tema dell’intervento dei terzi, volontario e coatto. Ex artt 267-268 l’intervento è ammesso finchè non si precisano le conclusioni, e si realizza con la semplice costituzione in giudizio del terzo, disciplinata analogamente a quella delle parti originarie: l’interveniente deve depositare col proprio fascicolo una comparsa avente lo stesso contenuto previsto ex art 167 per la comparsa di risposta del convenuto, con le copie occorrenti per l’altra parte, i documenti in comunicazione e la procura, quando conferita con un atto separato. Tale deposito può avvenire direttamente in udienza (e se ne darà atto nel relativo verbale) ovvero in cancelleria (il cancelliere deve darne comunicazione alle altre parti). Il II co art 268 precisa che il terzo, salvo quando intervenga per l’integrazione del contraddittorio (cioè quando sia un litisconsorte pretermesso), non può compiere atti che nel momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcun’altra parte: deve accettare il processo così com’è, con tutte le preclusioni fino a quel momento maturate. tenuto conto che la proposizione di nuove domande è possibile solo nella fase introduttiva del processo o, dietro alcune condizioni, in seno all'attività di trattazione della causa ex art 183, la precedente limitazione ha portato parte della dottrina e della giuri a ritenere che l'intervento principale e quello adesivo autonomo (che implicano la proposizione di un'autonoma domanda del terzo) siano ammessi esclusivamente entro la prima udienza di trattazione o, secondo alcuni, entro il termine di costituzione del convenuto. Dopo tale momento è possibile solo l'intervento (adesivo dipendente, c.d. ad adiuvandum) di chi si limiti a sostenere le ragioni di una delle parti (105 II co.). alla base di tale orientamento c'è anche la preoccupazione di non pregiudicare il terzo ammettendolo ad un giudizio in cui potrebbe non essere in grado - in conseguenza delle preclusioni prodottesi- di far valere adeguatamente le proprie ragioni. la soluzione non sembra corrispondere allo spirito dell'art 268: se il legislatore avesse voluto limitare così drasticamente dal punto di vista temporale l'intervento lo avrebbe detto espressamente come in altri casi (es. l'art 419 cpc, quanto al rito del lavoro). Quindi, la proposizione della domanda - essenza dell'intervento principale o adesivo autonomo- è sempre implicitamente consentita al terzo (in deroga al divieto di nuove domande, per le parti) quando interviene, e che le limitazioni di cui al II co. art 268 siano solo di natura istruttoria. queste ultime dipendono da una libera determinazione del terzo, il quale, anziché far valere il proprio diritto in un separato giudizio (nei casi in cui vanti un diritto autonomo, ex art 105 I co.), opta per l'intervento in un processo già iniziato e si assoggetta alle preclusioni derivanti dal relativo stato di avanzamento (oltre che agli effetti della futura sent, cui rimarrebbe estraneo altrimenti). Il che, se per un verso non risparmia gravi critiche sotto il profilo dell’opportunità all’art 268 – nella misura in cui penalizza il diritto di azione e di difesa dell’interveniente, per altro verso può consentire di superare i dubbi di legittimità costituzionale. si impongono valutazioni diverse per la posizione delle parti originarie, che potrebbero essere spiazzate dalla nuova domanda del terzo, specialmente quando interviene in una fase avanzata del giudizio, in cui sarebbero loro precluse nuove eccezioni e richieste istruttorie o documenti volti a contrastare la pretesa dell'inserviente. Per evitare che la disciplina si traduca in un attentato al diritto di difesa delle parti originarie, qualora l'intervento si abbia dopo la prima udienza di trattazione deve ammettersi che esso comporti, rispetto alla nuova causa introdotta dal terzo, un'ampia rimessione in termini delle parti, entro i limiti in cui è concretamente giustificata dalle nuove domande ed allegazioni. Se le parti, avvalendosi di tale facoltà, dovessero mutare le rispettive originarie allegazioni, sarebbe inevitabile permettere all'interveniente - e nei limiti di quanto serva per assicurare l’effettivo contraddittorio – il superamento delle preclusioni istruttorie già maturate. 34. MODALITA’ E TERMINI DELL’INTERVENTO SU ISTANZA DI PARTE quando ricorrano i presupposti ex art 106 (una “comunanza di causa” oppure una garanzia), La chiamata del terzo è un diritto per il convenuto, che può provvedervi con un normale atto di citazione a condizione che: a. ne abbia fatto tempestiva dichiarazione, a pena di decadenza, nella propria comparsa di risposta (costituendosi altresì nel termine ex art 166) b. che chieda contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della data della prima udienza, affinché possa citare il terzo nel rispetto dei termini minimi di comparizione di cui all'art 163 bis diverso il caso in cui è l'attore a volere l’intervento del terzo: il legislatore esclude ch’egli possa tardivamente chiamare in causa chi avrebbe potuto citare, unitamente al convenuto, fin da subito (con lo stesso atto introduttivo). Per tale ragione l'art 269 stabilisce che in questo caso la citazione del terzo deve essere autorizzata dal giudice, sempreché: a. l'interesse alla chiamata del terzo sia sorto a seguito della difesa del convenuto nella comparsa di risposta b. l'attore ne faccia richiesta, a pena di decadenza, nella prima udienza di trattazione se il giudice accoglie la richiesta fissa una nuova udienza affinché il terzo venga citato nel rispetto dei termini di comparizione, nonché il termine perentorio entro cui l'attore deve notificare la relativa citazione. In tal caso, ferme le preclusioni già maturate fino alla prima udienza di trattazione, i termini eventuali per l'appendice di cui all'art 183 saranno fissati da giudice istruttore, qualora le parti o il terzo interveniente ne chiedano la concessione, nella stessa udienza di comparizione del terzo. indipendentemente dal fatto che l'intervento sia stato chiesto dall’ attore o dal convenuto, chi chiama in causa il terzo deve depositare la relativa citazione nel termine di cui all'art 165 (entro 10 gg dall’avvenuta notifica), mentre il terzo deve costituirsi entro il termine ex art 166 (almeno 20 gg prima dell’udienza). 35. MODALITA’ DELL’INTERVENTO IUSSU IUDICIS A differenza dell’intervento su istanza di parte, quello ordinato dal giudice ex art 107 non è soggetto ad alcun termine: può essere disposto in qualsiasi momento del giudizio di primo grado (non in appello perché gli toglierebbe un grado di giurisdizione). La chiamata del terzo si realizza materialmente con la notifica di un normale atto di citazione, in cui dovrà ovviamente menzionarsi il processo già pendente tra le parti ed indicarsi – quale udienza di prima comparizione – quella fissata nel provvedimento del giudice. Per la citazione, non si prevede che il giudice assegni alcun termine: è sufficiente che avvenga in tempo utile per l’udienza cui la causa è stata rinviata. Se a tale udienza nessuna delle parti ha ancora provveduto, il giudice dispone con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo: ciò consente alle parti- entro 3 mesi dal provvedimento- di ridare impulso alla causa con riassunzione, adempiendo all’ordine del giudice. La differenza rispetto all’ordine d’integrazione del contraddittorio ex art 102 è che la sua inosservanza comporta l’estinzione immediata del processo. 36. LA COSTITUZIONE DEL TERZO CHIAMATO ED I POTERI DELLE PARTI ORIGINARIE. La costituzione del terzo, indipendentemente da chi ne ha richiesto l’intervento, è disciplinata in modo analogo a quella del convenuto: per non incorrere nelle decadenze ex art 167, deve rispettare il termine di cui all’art 166 (almeno 20 gg prima dell’udienza fissata per la sua comparizione) e proporre, con la comparsa di risposta, le proprie domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto. Circa l’eventuale richiesta di chiamare in causa, a propria volta, un altro sogg, l’art. 271 detta una disciplina a metà strada tra quella del convenuto e quella ordinanze non sono mai impugnabili. l'espressa menzione non impugnabilità = il provv non si può revocare o modificare c. le ordinanze per cui la legge predisponga uno speciale mezzo di reclamo, giacché quest'ultimo è l'unico mezzo per ottenere la modifica del provvedimento. Prescindendo dall'ipotesi ex art 179, l'unica ordinanza reclamabile al collegio è quella dichiarativa dell'estinzione del processo. con la riforma del 2009, a quest'ultima ipotesi si assimila l'ordinanza con cui il giudice decida sulla sola competenza, impugnabile con regolamento di competenza 40. ORDINANZE DECISORIE: RINVIO il giudice istruttore, pur nelle cause in cui il potere decisorio è riservato al tribunale in composizione collegiale, può pronunciare ordinanze dal contenuto decisorio. Sono provvedimenti con contenuto ed efficacia analoga a quelli di una sentenza (di condanna), soggetti in tutto o in parte al regime formale delle ordinanze. Una prima fattispecie è quella disciplinata nell'art 179. Il codice contempla vari casi in cui l'istruttore possa o debba pronunciare condanne pecuniarie, anche di importo non trascurabile (es.: l’art 118 circa il rifiuto del terzo a consentire l’ispezione giudiziale o il caso della mancata comparizione del testimone), l’art 179 prevede che tali condanne siano rese con ordinanza, e costituiscano titolo esecutivo. L'ordinanza non è impugnabile se pronunciata in udienza in presenza dell'interessato e previa contestazione dell'addebito. In caso contrario deve essere notificata, entro 3 gg, al condannato, a cura del cancelliere. Il condannato potrà impugnarla con un reclamo all'istruttore, il quale però deciderà con ordinanza non impugnabile- valutate le ragioni del reclamante. In entrambi i casi l'ordinanza non impugnabile ha un chiaro contenuto decisorio, idonea al giudicato e per ciò stesso ricorribile in Cassazione ex art 111 cost. CAPITOLO VII L’ISTRUZIONE PROBATORIA SEZIONE I I PRINCIPI IN MATERIA DI PROVE 41. L’OGGETTO E LA DISPONIBILITA’ DELLA PROVA Si è soliti schematizzare la decisione del giudice come il risultato di un'attività c.d. di sussunzione che, muovendo dalla fattispecie concreta, mira a ricondurla ad una certa fattispecie legale, ricavata dal diritto sostanziale, per dedurne le conseguenze giuridiche da dichiarare nel proprio provvedimento. In tale attività il giudice è chiamato: a. individuare e accertare il complesso di fatti rilevanti per la corretta determinazione della fattispecie astratta di riferimento b. individuare ed interpretare la/le norma/e che meglio si adatta alla fattispecie concreta. Circa questo ultimo aspetto, che comprende il momento della qualificazione giuridica dei fatti (l’attività di sussunzione in senso stretto), il giudice non è assoggettato ad altre regole all’infuori di quelle previste per l’interpretazione (art 12 disp prel cc), poiché in base al principio iura novit curia, l’ord presume che l’intero sistema normativo sia di sua conoscenza. Conseguentemente il giudice deve sempre procedere autonomamente alla ricerca e all’interpretazione della norma da applicare al caso concreto, senza che le eventuali allegazioni delle parti lo vincolino o limitino. Ciò vale per qualunque norma di diritto, anche quando la sua individuazione è tutt’altro che agevole: es.: si pensi alle norme regolamentari a carattere locale, agli usi (specie se non inclusi nelle raccolte ufficiali ex art 9 disp prel cc), al diritto antico o a quello straniero. In tali casi non si esclude che il giudice trovi supporto nell’attività delle parti, ma ciò non l’esonera dal procedervi anche d’ufficio. Tale principio è confermato nell’art 14 della l.n. 218/1955, per cui l’accertamento della legge straniera avviene d’ufficio dal giudice, che può avvalersi degli strumenti indicati nelle convenzioni internazionali, delle informazioni acquisite tramite il ministero della giustizia e interpellare esperti/istituzioni specializzate. Rispetto ad una norma giuridica, non può mai porsi un problema di prova in senso stretto. È diverso il rapporto giudice-fatti. In questo caso non solo non si può presumere che il giudice conosca direttamente i fatti rilevanti per la decisione (vd. fatti principali e secondari), ma anzi – per intuibili ragioni legate alla sua imparzialità e alla necessità che sia oggettivamente verificabile l’iter logico con cui perviene all’accertamento dei fatti- gli è vietato l’uso della sua c.d. scienza privata, cioè la diretta e personale conoscenza dei fatti, così come gli è anche vietato di ricevere informazioni private sulle cause pendenti davanti a sé. L’unica eccezione è data dalla possibilità (meglio: dovere) di porre a fondamento della decisione “senza bisogno di prova, le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Questo concetto individuerebbe i c.d. fatti notori, quei fatti che nel tempo e nel luogo ove si svolge il processo, possono dirsi patrimonio di comune conoscenza dell’uomo medio, in un certo senso “storicizzati” (es.: un evento naturale o bellico), che rilevino come secondari o (meno frequentemente) come principali. A prescindere dai fatti notori, il giudice, salvi i casi previsti ex lege, deve porre a fondamento della decisione il risultato delle prove proposte dalle parti o dal pm. È un principio espresso nel I co art 115 (rubricato “disponibilità delle prove”), e costituisce sia un riflesso del principio dispositivo di cui è informato il processo civile, sia una regola tecnica volta a preservare la terzietà ed imparzialità del giudice, che sarebbero compromesse qualora gli si desse il potere-dovere di ricercare direttamente le fonti materiali di prova. Ove si consideri che il legislatore ha stabilito quale delle parti subisca le conseguenze del mancato raggiungimento della prova dei fatti rilevanti per la decisione, è opportuno che la responsabilità riguardante l’utilizzazione dei mezzi di prova venga riservata alle parti stesse, per le quali la prova dei fatti allegati è un vero e proprio diritto processuale, strumentale all’attuazione del diritto di azione e difesa ex art 24 cost. alla luce dell’art 115, sono eccezionali i casi in cui il giudice è abilitato a disporre di propria iniziativa i mezzi di prova. Se si guarda al processo ordinario, i poteri istruttorii esercitabili d’ufficio paiono circoscritti (seppur molto incisivi). Riguardano, prescindendo dalla consulenza tecnica che non si considera neppure un vero e proprio mezzo di prova: l’ispezione giudiziale, la richiesta di informazioni alla p.a., l’interrogatorio libero, e in termini ristretti la prova testimoniale. Il principio ex art 115 va coordinato col principio di acquisizione della prova: questa, una volta richiesta o introdotta nel processo, esce dalla sfera di disponibilità della parte istante, con la conseguenza che: a) tale parte non può rinunciare alla sua assunzione o revocare la sua produzione (a seconda che sia una prova costituenda o precostituita) se non ci sia il consenso delle altre parti o l’autorizzazione del giudice; b) i risultati della prova possono giovare ad una qualunque delle parti, non solo a quella che l’aveva richiesta. 42. NOZIONE DI PROVA E LE SUE PRINCIPALI CLASSIFICAZIONI. L’AMMISSIBILITA’ E LA RILEVANZA DELLA PROVA Appreso che l’oggetto della prova è sempre un fatto, sottolineiamo la pluralità di significati che il termine “prova” può avere. Spesso il legislatore parla di “prova” come sinonimo di mezzo di prova, per riferirsi all’insieme di strumenti e procedimenti con cui il giudice forma il proprio convincimento circa l’esistenza o meno (nel presente o nel passato) di determinati fatti che debba utilizzare per la decisione. Altre volte “prova” indica il risultato dell’iter logico-intellettivo con cui il giudice è pervenuto ad accettare tali fatti, o a convincersi del loro verificarsi. Le fonti materiali di prova individuano il punto di partenza dell’attività conoscitiva del giudice, che a seconda dei casi può essere costituito: da una cosa, dal cui esame possano percepirsi i fatti oggetto dell’accertamento; da un documento, una cosa rappresentativa di determinati fatti; una dichiarazione di scienza delle parti o di un terzo. Più in generale, fonte di prova può anche essere un fatto dalla cui esistenza il giudice può dedurre l’esistenza o meno di un diverso fatto, che costituisca l’oggetto ultimo della prova. CLASSIFICAZIONI DELLE PROVE: A. prova diretta e prova indiretta. Tale distinzione, secondo la tesi prevalente, attiene alle modalità di conoscenza del fatto (oggetto della prova) da parte del giudice, in relazione alla fonte materiale della prova: in questo senso l'unica prova realmente diretta sarebbe l'ispezione, cioè l’esame obiettivo di una cosa (o più raramente di una persona) da cui il giudice immediatamente percepisce i fatti da provare. In tutti gli altri casi la conoscenza è solo mediata, attuandosi con l'esame di documenti o dichiarazioni rappresentative del factum probandum. secondo una diversa accezione la distinzione attiene all'oggetto della prova. Sarebbe diretta la prova destinata ad accertare il fatto principale, ed indiretta quella riguardante un fatto secondario, dalla cui conoscenza il giudice risalga all'esistenza o inesistenza di un fatto principale. B. Prova diretta e contraria. Tale distinzione si riferisce alla circostanza che la prova verta sull'esistenza o sulla inesistenza di un certo fatto, positivo o negativo che sia C. Prova precostituita e prova costituenda. la prova precostituita preesiste al processo, o comunque si forma all'infuori di esso e si identifica con la prova documentale, nelle sue varie specie. La prova costituenda si forma direttamente nel processo, grazie ad un'apposita attività istruttoria, più o meno complessa e dispendiosa. Tale differenza spiega perché mentre la prova precostituita è acquisita al processo con la sua mera produzione, su cui di regola non vi è alcun sindacato preventivo da parte del giudice, la prova costituenda è subordinata ad un espresso provvedimento di ammissione, che presuppone la verifica dell'ammissibilità e della rilevanza della prova stessa. il giudizio di ammissibilità è un controllo di legalità volto ad accertare che sia un mezzo di prova consentito dall'ordinamento, non solo in via generale ma anche con specifico riguardo alle peculiarità del fatto da provare. es.: la prova testimoniale dichiarazioni contra se è possibile attribuire un'efficacia maggiore e risolutiva, negando che siano semplici argomenti di prova b. il generico contegno processuale delle parti, compresa la mancata comparizione all'udienza fissata per l'interrogatorio libero, non può, di regola, avere alcuna autonoma valenza probatoria, poiché (a differenza della mancata comparizione per rendere l'interrogatorio formale ammesso su articoli separati e specifici) non è riferibile a fatti determinati di cui si possa lasciar dedurre l'esistenza o linea esistenza c. in qualche caso l'argomento di prova, deducibile anche da uno specifico comportamento processuale come l'ingiustificato rifiuto di consentire l’ispezione o l'inadempimento dell'ordine di esibizione, può essere la base per l'utilizzazione del meccanismo della presunzione, che permette al giudice di risalire autonomamente da un fatto noto ad uno ignoto. l'unico punto su cui le opinioni ora ricordate appaiono inconciliabili e quello relativo all'efficacia delle prove raccolte nel processo estinto. 44. LA REGOLA DI GIUDIZIO FONDATA SULL’ONERE DELLA PROVA L'art 2697 cc enuncia il principio per cui: “ chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (I co.), mentre chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto sia modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l'eccezione si basa” (II co). Detto principio può ricondursi a 2 esigenze diverse ma connesse. in primo luogo, poiché il giudice non può sottrarsi al dovere di giudicare adducendo l'incertezza dei fatti controversi (c.d. divieto di non liquet), Serve che l'ordinamento gli fornisca un criterio oggettivo in base a cui possa decidere comunque, pur quando pensi di non avere abbastanza elementi per accertare l'esistenza o l'inesistenza di taluno dei fatti rilevanti, e che permetta al contempo di verificare ex post la correttezza dell'iter logico seguito nella ricostruzione dei fatti, alla base della decisione. In secondo luogo si tratta di ripartire equamente e ragionevolmente tra le parti l'onere di provare l'esistenza dei fatti controversi, nonché le conseguenze negative legate al mancato raggiungimento della prova. Per il primo profilo il principio dell'onere della prova è una fondamentale regola di giudizio in qualunque processo, compresi quelli riguardanti i diritti indisponibili. Per il secondo aspetto, può risultare più o meno attenuato a seconda dei poteri istruttori officiosi che la legge eventualmente conferisce al giudice. Sono poteri che non mancano nessun processo, ma che quando il giudizio verta su diritti in tutto o in parte sottratti alla disponibilità dei litiganti, sono particolarmente significativi ed incisivi e si atteggiano come veri e propri poteri- doveri di autonomo accertamento dei fatti, nei limiti delle allegazioni delle parti. In queste ultime ipotesi il giudice può assumere un ruolo attivo nella ricerca della c.d. verità materiale (principio inquisitorio), che può anche interferire con l'astratta distribuzione degli oneri probatori ex art 2697, portando ad un risultato diverso da quello cui sarebbero approdate le prove portate dalle parti. È ben possibile che i mezzi di prova utilizzati dal giudice di sua iniziativa surroghino le carenze di prova che dovrebbero portare alla soccombenza di taluna delle parti. L'art 2697 presuppone e legittima la distinzione dei fatti principali (Quelli appartenenti alla fattispecie legale di riferimento) infatti costitutivi impeditivi estintivi e modificativi. Per il secondo profilo citato, significa che l'onere di provare ( per il convenuto) l'esistenza di un fatto impeditivo estintivo o modificativo sorge solo dopo che l'attore abbia assolto l'onere di provare l'esistenza di tutti i fatti necessari a che il diritto da lui vantato venga in vita. si creano problematiche particolari con riguardo all'applicazione del principio dell'onere della prova le azioni di mero accertamento negativo punto la situazione, dal punto di vista delle rispettive allegazioni delle parti, in un certo senso è rovesciata: l'attore deduce l'inesistenza di taluno dei fatti costitutivi del diritto vantato dal convenuto, ovvero l'esistenza di un fatto estintivo impeditivo o modificativo del diritto. L'opinione tradizionale spinta dalla preoccupazione di evitare che la domanda di mero accertamento negativo si traduca in una provocatio ad agendum per il convenuto, ritiene che la ripartizione degli oneri probatori debba attenzionare la posizione processuale delle parti, e che sia comunque l'attore a fornire la prova dei fatti a fondamento della domanda. Di recente indottrina si è osservato che una simile soluzione fa dipendere l'operare dell'arte 2697 da un elemento contingente, cioè dalla parte che per prima ricorda al giudice. Logica vorrebbe, invece, che la distribuzione di tali oneri dipendesse dalla posizione sostanziale delle parti rispetto al diritto controverso. Appurato che l'ammissibilità dell'azione di vero accertamento negativo presupponga il vanto stragiudiziale del diritto da parte del convenuto, quest'ultimo non può dolersi se l'iniziativa giudiziaria dell'attore lo costringe - in concreto- a provare il diritto stesso 45. SEGUE: I PROBLEMI LEGATI ALLA CLASSIFICAZIONE DEI FATTI PRINCIPALI La predetta classificazione dei fatti principali, mentre dà luogo a poche incertezze quanto alla contrapposizione tra f. costitutivi da un lato, e f. estintivi o modificativi dall’altro (ciò non esclude che anche a questo proposito sorgano dubbi. Si pensi al controverso ruolo dell'inadempimento nel settore delle obbligazioni contrattuali, ancorché dedotto a fondamento di un'azione di risoluzione del contratto o di un'azione risarcitoria : su tale problema intervennero le SU, chiarendo che in queste ipotesi non è l'attore a provare come fatto costitutivo l'inadempimento del debitore, bensì quest'ultimo deve dimostrare, come fatto estintivo della propria obbligazione, di aver esattamente adempiuto. La stessa Corte ha ritenuto che tale principio non operi quando sia dedotto l'inadempimento di un'obbligazione negativa, poiché in tali casi sarebbe l'attore a doverne fornire la prova) , giacchè questi si collocano in un momento distinto e posteriore rispetto a quello in cui i primi determinano il sorgere del diritto, può risultare problematica rispetto all'individuazione dei fatti impeditivi che operano simultaneamente a quelli costitutivi, sebbene in direzione opposta, paralizzandone la loro efficacia. Sul piano logico, ogniqualvolta una fattispecie sostanziale indichi un certo elemento come rilevante per la nascita del diritto, potrebbe trattarsi di un fatto costitutivo o di un fatto impeditivo, a seconda che lo si prospetti in una certa forma (positiva o negativa) o nella forma inversa, cioè come esistenza di un certo fatto ovvero come inesistenza dello stesso. Alcuni esempi per comprendere meglio. La colpa è uno degli elementi occorrenti affinché sorga il diritto al risarcimento del danno, sia nella responsabilità contrattuale che in quella aquiliana. è opinione comune che in quest'ultimo caso la colpa sia un fatto costitutivo (il cui onere probatorio ricade sull'attore), mentre nel primo caso è l'assenza della colpa ad essere fatto impeditivo, la cui prova incombe sul convenuto che voglia sottrarsi al risarcimento (v. art 1218 cc). si pensi poi alla fattispecie ex art 2103 cc : qualora il lavoratore sia stato assegnato a mansioni superiori, dopo un certo periodo tale assegnazione è definitiva “ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto”. Ove il lavoratore temporaneamente adibito alle mansioni superiori agisca per ottenere la definitività dell'assegnazione, deve provare - come fatto costitutivo- che il lavoratore sostituito non aveva diritto alla conservazione del posto; oppure, al contrario, è il datore di lavoro che - per contrastare la domanda - deve provare il fatto inverso (impeditivo), cioè che il lavoratore sostituito aveva diritto alla conservazione del posto? spesso il legislatore interviene direttamente sul piano degli oneri probatori: vuoi per chiarire, più o meno esplicitamente, il ruolo (costitutivo o impeditivo) di un fatto (qualche es: ex art 1218 cc il debitore inadempiente risponde dei danni se non prova che l'inadempimento/ritardo è determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, fatto impeditivo; per gli artt.1494 1578 e 1821 cc, il venditore, il locatore ed il mutuante rispettivamente, sono tenuti a risarcire il danno cagionato dai vizi della cosa se non provano di averli ignorati senza colpa.), vuoi per derogare al criterio di ripartizione. In questo secondo caso, che può realizzarsi tanto attraverso l'inversione dell'onere della prova, quanto per mezzo della tecnica delle presunzioni legali relative, l'intento è agevolare una delle parti o distribuire i carichi probatori in modo equo e ragionevole, per evitare che la prova di taluni fatti sia eccessivamente ardua per una delle parti stesse. All'infuori di tali casi, il problema non si presta a soluzioni generalizzanti. Uno dei criteri più seguiti in dottrina e in giurisprudenza è quello della normalità: sarebbero impeditivi tutti i fatti che, specie per comè’ delineata la fattisp sul piano sostanziale, siano di eccezionale o non normale ricorrenza. In base a tale criterio, la prova che il sinistro è dipeso da dolo o colpa grave dell'assicurato, in qualità di fatto impeditivo, grava sull’assicuratore che si voglia sottrarre all'obbligo di indennizzo; analogamente, se il compratore fa valere la garanzia per i vizi della cosa, è il venditore a dover provare che questi, all’atto della conclusione del contratto, sapeva di tali vizi. anche qui si deve guardare alla formulazione delle norme di riferimento, da cui può spesso evincersi che il legislatore ha considerato non normale la ricorrenza (o la non ricorrenza, viceversa) di un fatto, impiegando formule come “salvo che” “tranne quando”, “a meno che non”, e affini. Per ragioni di semplificazione, consideriamo la sola ipotesi in cui un certo fatto sia prospettato da una norma come non normale in relazione ad altri fatti costitutivi cui è subordinata la nascita di un diritto punto nella realtà può accadere che l’ anormalità riguardi un fatto inserito nell'ambito di una fattispecie impeditiva, nel qual caso si tratterà di un elemento costitutivo del diritto vantato dall'attore. Ad es.: L'art 2046 configura come fatto impeditivo del diritto al risarcimento l'incapacità naturale dell'autore del danno nel momento in cui il fatto è stato commesso, a meno che l'incapacità di intendere e di volere derivi da sua colpa. È evidente che laddove il danneggiante provi la propria incapacità, sarà l'attore a dimostrare che quest'ultimo è imputabile a colpa del convenuto. Peraltro è un criterio empirico che non offre risultati certi, lasciando non poche zone d'ombra. altro criterio cui spesso la giuri fa ricorso, è quello della vicinanza o disponibilità della prova, che addossa l'onere probatorio alla parte che si trova nella condizione migliore per dimostrare un certo fatto. è un mero correttivo, operativo in ipotesi marginali ove la rigida applicazione dell’art 2697 condurrebbe a risultati iniqui, incompatibili con l'art 24 cost, rendendo eccessivamente difficoltosa la prova per la parte che ne sarebbe, naturalmente, onerata. 46. I FATTI NON CONTROVERSI… Prescindendo dai fatti notori, che per espressa previsione di legge non necessitano di prova, pur in assenza di una disposizione ad hoc si è soliti ritenere che le allegazioni concordi delle parti (rendendo non controversi i fatti che ne sono oggetto) destinataria dell’allegazione, né possano presumersi da lei conosciuti. Es.: circa le azioni risarcitorie, le allegazioni relative ai danni effettivamente subiti dall’attore e alla loro quantificazione, oppure alle allegazioni di comportamenti attribuiti al dante causa dell’altra parte. in tali casi, salvo che dall’atteggiamento processuale del controinteressato non si desuma un’ammissione espressa o tacita della verità di tali fatti (che li renda non controversi),non pare che il difetto di specifica contestazione possa esonerare l’allegante dalla prova di tali fatti. Tanto più che ci si dovrebbe accontentare di una contestazione formale e generica, non essendo esigibile che la parte fornisca una propria versione di fatti cui è estranea.  Escludere che l’omessa contestazione vincoli il giudice a ritenere veri i fatti non contestati, porta ad ammetterne l’utilizzazione anche in giudizi relativi a diritti indisponibili, ove si deve stabilire se la non contestazione sia liberamente apprezzabile, alla stregua del principio ex art 116 I co, o se possa utilizzarsi (II co. stesso art) come argomento di prova  L’ultimo problema riguarda gli eventuali limiti temporali alla contestazione. Partendo dal duplice presupposto che la contestazione fosse soggetta allo stesso regime delle allegazioni dei fatti, e che queste fossero confinate nella fase di trattazione della causa, l’orientamento antecedente la novella del 2009 pensava che le contestazioni successive a tale fase fossero inammissibili, salvo che ci fossero gli estremi per la rimessione in termini (quindi che la mancata contestazione tempestiva non fosse imputabile alla parte). tale soluzione non sembra riproponibile alla luce della nuova impostazione legislativa: si è dettata una regola volta ad operare al momento della decisione, e poi ci si è ben guardati dall’assoggettare la contestazione a termini di decadenza. Avendo l’art 115 ribadito che contumacia non è uguale a mancata contestazione, si deve escludere che la contestaz sia soggetta ad una vera e propria preclusione. Se così fosse, non si capirebbe perché ne sarebbe esentata la parte contumace che soggiace a tutte le preclusioni a carico delle parti costituite e che, in caso di tardiva costituzione, deve accettare il processo nello stato in cui è pervenuto. In teoria non è escluso che la contestazione possa utilmente intervenire, sempre nel rispetto del contraddittorio, nel corso del giudizio di 1 grado e persino in appello, facendo sorgere in capo alla controparte l’onere di provare il fatto allegato e inizialmente non contestato, pur se la prova non sarebbe più ammessa per le preclusioni istruttorie. Si tratta di un inconveniente meno grave di quanto sembri, perché da un lato la parte interessata alla prova potrebbe invocare la rimessione in termini ex art 153 II co., e dall’altro la contestazione tardiva – se priva di giustificazioni – sarebbe utilizzabile come argomento di prova, in modo sfavorevole alla parte cui proviene. SEZIONE II LE REGOLE GENERALI DELL’ISTRUZIONE PROBATORIA 48. LUOGO E MODALITA’ D’ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA. ASSUNZIONE PER DELEGA O PER ROGATORIA. Anche la fase strictu sensu istruttoria, come quella volta alla trattazione della causa, si snoda in udienze il cui intervallo (ex art 81 disp att) non dovrebbe essere superiore a 15 gg, termine che nella prassi è costantemente ignorato. Quando dispone mezzi di prova, il giudice istruttore – salvo che li assuma immediatamente – stabilisce tempo, luogo e modo d’assunzione, fissando un’udienza ad hoc a meno che non sia una prova da assumere necessariamente fuori dall’udienza (es. l’ispezione giudiziale degli immobili). In questo caso, fermo che è di regola lo stesso istruttore a provvedervi, l’art 203 prescrive che se l’assunzione deve avvenire fuori dalla circoscrizione del tribunale, sia delegato il giudice istruttore del luogo (cioè relativo ufficio giudiziario), salvo che le parti chiedano, ed il presidente del tribunale consenta, che vi si trasferisca lo stesso giudice procedente. Quando si ricorra a tale delega, che la giuri lascia alla valutazione discrezionale dell’istruttore, l’ordinanza che la dispone deve fissare il termine max entro cui la prova va assunta, e la successiva udienza ove le parti dovranno comparire per la prosecuzione del processo. il giudice delegato procede all’assunzione del mezzo di prova su istanza della parte interessata, e d’ufficio rimette il relativo processo verbale al giudice delegante, prima dell’udienza da lui fissata per la continuazione del processo, anche se l’assunzione non è ancora ultimata; a meno che le parti, direttamente o per mezzo del g. delegato, abbiano chiesto al g. delegante la proroga del termine e lo spostamento dell’udienza già fissata. La disciplina esaminata si applica (art 204) anche nel caso in cui l’esecuzione di provv istruttorii si attui attraverso rogatoria ad autorità estere, da trasmettersi per via diplomatica o, quando la rogatoria riguardi italiani residenti all’estero, tramite delega al console competente, che vi provvede secondo la legge consolare (dpr n.200/1967). La materia è specificatamente disciplinata nella convenzione dell’Aja del 1970, e più di recente, in ambito UE, nel regolamento (CE) n.1206/2001 del consiglio. La disciplina convenzionale prevede che ogni stato contraente designi un’autorità centrale con l’incarico di ricevere le richieste di rogatoria provenienti dall’autorità giudiziaria di un altro stato contraente, e di trasmetterle all’autorità interna competente per l’esecuzione. Il regolamento comunitario va invece oltre, giacchè permette la trasmissione diretta di richieste di assunzione di prove tra autorità giudiziarie di diversi stati membri, nonché persino l’assunzione diretta della prova all’estero (dietro determinate condizioni, come quando sia possibile procedervi su base volontaria). 49. MODALITA’ DI ASSUNZIONE DELLA PROVA E LA SUA CHIUSURA Il giudice che procede all’espletamento della prova è competente a risolvere ogni questione che dovesse sorgere in tale sede (art 205). Le parti possono assistere personalmente all’assunzione dei mezzi di prova, per la quale si redige un processo verbale sotto la direzione del giudice. In esso le dichiarazioni di parti e testimoni son riportate in prima persona e devono essere lette al dichiarante. Si prevede che, se il giudice lo ritiene opportuno, possa descrivere nel verbale il contegno di chi ha reso la dichiarazione, per tener traccia di elementi che lo aiuteranno nel valutare l’attendibilità della dichiarazione. L’art 208 prevede una decadenza dal diritto di far assumere la prova quando la parte, sulla cui istanza dovrebbe iniziarsi o proseguirsi la prova stessa, ometta di presentarsi. La decadenza è dichiarata d’ufficio dal giudice, a meno che non sia l’altra parte presente, in applicazione del principio di acquisizione della prova, a chiederne l’assunzione. La decadenza non opera rispetto ai mezzi di prova disposti d’ufficio dal giudice, nonché quando nessuna delle parti sia comparsa all’udienza (situazione disciplinata dal comb. Disp. Artt 181 e 309, da cui discende la fissazione di una nuova udienza, eventualmente prodromica all’estinzione del processo). inoltre, dichiarata la decadenza, la parte interessata può chiedere al giudice la revoca del provvedimento, quando la mancata comparizione sia dovuta a causa ad essa non imputabile. La chiusura della fase di assunzione delle prove è dichiarata dall’istruttore : a. Quando esauriti tutti i mezzi di prova ammessi b. Quando, essendo le parti decadute dal diritto di assumerne taluno, non ce ne siano altri da esperire c. Quando, per i risultati già ottenuti, il giudice reputi superflua l’assunzione di ulteriori prove L’ipotesi sub c) è la più delicata, perché implica una valutazione complessiva dell’esito dell’istruttoria, anche alla luce dell’inquadramento giuridico della fattispecie. Affinchè tale potere del giudice non si risolva in una violazione del diritto alla prova, le ulteriori prove sono superflue solo se tendono ad un risultato pienamente conforme al convincimento che il giudice abbia già raggiunto, ovvero hanno ad oggetto un fatto irrilevante per tale convincimento (es. le prove esperite hanno convinto il giudice della fondatezza di un’eccezione preliminare di merito del convenuto, mentre le prove residue vertono sull’esistenza o meno di un fatto costitutivo). CAPITOLO VIII I SINGOLI MEZZI ISTRUTTORII SEZIONE I LA CONSULENZA TECNICA 50. NATURA E FUNZIONE DELLA CONSULENZA TECNICA Spesso, per accertare i fatti controversi o per valutare correttamente le risultanze delle prove, servano precise cognizioni tecniche che il giudice, di regola, non ha. L’art 61 gli permette, ove necessario, di farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per l’intero processo, da 1 o più consulenti di particolare competenza tecnica, che il codice cataloga come ausiliari del giudice. La nomina di più consulenti è consentita, oltre che nei casi espressamente previsti ex lege, solo in casi di grave necessità (es. serve una pluralità di competenze diverse). In ogni tribunale c’è un albo dei consulenti tecnici, diviso in categorie a seconda delle specifiche competenze, disciplinato ex artt 13-ss disp att, cui il giudice è tenuto ad attingere per la scelta del consulente. Anche dalla collocazione dell’istituto (artt. 191 ss.) emerge che l’idea del legislatore del’40 è stata quelle di negare alla consulenza la natura di un mezzo di prova volto all’accertamento dei fatti, muovendo dall’idea che debba piuttosto servire a fornire al giudice quel sapere tecnico-scientifico eventualmente utile per interpretare bene le risultanze delle prove. Ciò spiega perché sia un mezzo istruttorio di cui il giudice può avvalersi d’ufficio, pur non essendo mai obbligato a farlo. Si è soliti affermare ch’egli, quale peritus peritorum, può sempre avvalersi delle cognizioni tecniche che casualmente possieda (senza che ci sia l’ostacolo del divieto di ricorso alla scienza privata), fermo restando che non è mai vincolato alle conclusioni/indicazioni fornite dal consulente, salvo l’obbligo di motivazione in caso di dissenso. La prospettiva codicistica è poco aderente alla realtà dell’istituto: sebbene i compiti del consulente siano, in astratto, molteplici, nella prassi la consulenza si richiede solo il caso in cui esigenze di servizio gl’impediscano l’allontanamento dalla sede). L’unica eccezione è data dall’ispezione corporale, cui il giudice può astenersi, delegando il c.t.u. Visto che ex art 194 il giudice ha la possibilità di disporre che il c.t. compia da sé le indagini delle quali è stato incaricato, nulla esclude la legittimità di un’ispezione affidata al solo consulente, sempre che ricorrano le condizioni per la sua nomina, trattandosi di indagini e accertamenti che richiedono una particolare competenza tecnica. Nella prassi recente, è assai rara l’ispezione condotta dal giudice, e la consulenza è divenuta un espediente per esonerare il giudice da tale incombente istruttorio. In tal caso, non è una vera e propria ispezione, sia perché manca la percezione diretta dei fatti da parte del giudice (problema dell’efficacia probatoria degli accertamenti compiuti dal consulente, risolto con l’applicazione del principio ex art 116), sia perché il consulente non ha i poteri di cui dispone il giudice ai sensi degli artt 261-262. Il potere d’ispezione non può mai trasformarsi in un potere di perquisizione (mezzo istruttorio estraneo al proc civile), né può avere finalità meramente esplorative, visto che devono essere preventivamente allegati i fatti ch’essa mira ad accertare (anche per verificare se a tal fine l’ispezione sia indispensabile). Soggetto passivo dell’ordine di ispezione può essere una delle parti o un terzo. Diverse sono, nei 2 casi, le conseguenze dell’eventuale inottemperanza del provvedimento del giudice. Mentre dal rifiuto della parte possono trarsi (ex art 116 II co.) argomenti di prova contro la stessa, il rifiuto del terzo comporta l’applicazione di una pena pecuniaria (tra i 250-1.500€). da ciò, parte della dottrina deduce che l’ordine di ispezione sia sempre incoercibile, ma ciò non è del tutto vero, laddove l’art 262 dà al giudice il potere di disporre e far eseguire – anche coattivamente -l’accesso ai luoghi, persino se appartenenti a persone estranee al processo. si noti che l’art 374 cp sanziona come reato (c.d. frode processuale) il comportamento di “chi, nel corso di un processo civile o amministrativo, per ingannare il giudice in un atto di ispezione o esperimento giudiziale, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o delle cose o delle persone”. 54. IL PROVVEDIMENTO E I POTERI DEL GIUDICE IN SEDE DI ISPEZIONE L’ordine d’ispezione compete normalmente all’istruttore, che deve indicarne tempo, modo e luogo. Il relativo provvedimento ha la forma di un’ordinanza e può intervenire in qualunque fase del giudizio di primo grado ed in appello, visto che si tratta di un mezzo istruttorio disponibile d’ufficio. Ex art 696, l’ispezione può chiedersi anche in via cautelare, persino prima che inizi il giudizio di merito. Sono prescritte particolari misure per l’ispezione corporale, “cui il giudice deve procedere con ogni cautela, per garantire il rispetto della persona”. Il soggetto passivo ha qui il diritto i farsi assistere, durante l’esecuzione della prova, da persona di sua fiducia, riconosciuta idonea dal giudice. La giuri ha, talvolta, ricondotto nell’ambito dell’ispezione corporale, per applicare l’art 118 in caso di rifiuto, anche l’ordine di sottoporsi alla prova genetica ed ematologica per l’accertamento o per il disconoscimento della paternità, sebbene vi siano dubbi su tale assimilazione. Gli artt 261-262 conferiscono al giudice vari poteri (officiosi), che mirano ad un proficuo svolgimento dell’ispezione o alla documentazione dei suoi risultati. In particolare, in sede d’ispezione, egli può: a. ordinare l’esecuzione di rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche di oggetti, documenti e luoghi, nonché rilevazioni cinematografiche o altre che richiedono l’impiego di mezzi o strumenti meccanici b. ordinare, avvalendosi di un esperto, un esperimento giudiziale, cioè la riproduzione di un certo fatto per verificare se questo sia o possa essersi verificato in un dato modo. c. Sentire testimoni per informazioni (non è una vera e propria prova testimoniale) d. Dare i provvedimenti necessari per l’esibizione della cosa o per accedere alla località, e persino disporre l’accesso i luoghi appartenenti a persone estranee al processo, sentite se possibile queste ultime, e prendendo le dovute cautele a tutela dei loro interessi. SEZIONE III L’ESIBIZIONE DELLE PROVE E LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 55. L’ORDINE DI ESIBIZIONE DELLE PROVE: NATURA, PRESUPPOSTI, LIMITI. Ex art 210, con gli stessi limiti con cui può disporsi l’ispezione di cose, il giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. L’ordine di esibizione serve all’acquisizione di un documento (non necessariamente cartaceo) o di una diversa cosa mobile (nei limiti entro cui possa materialmente concepirsene la conservazione insieme al fascicolo d’ufficio), che sia in possesso dell’altra parte o di un terzo. L’esibizione ha dimensione schiettamente processuale, giacchè non è richiesto che la parte istante possa vantare un qualsiasi diritto, sul piano sostanziale, riguardo al documento o alla cosa che chiede di acquisire. il presupposto essenziale è invece dato dal fatto ch’esso debba utilizzarsi come prova nel processo, cioè che sia indispensabile per conoscere i fatti di causa. Ciò comporta che deve trattarsi di oggetti ben determinati o documenti dal contenuto già noto, dovendosi escludere che l’ordine abbia finalità meramente esplorative, e che l’acquisizione non possa ottenersi aliunde (es. un documento di cui potrebbe ottenersi una prova da un pubblico depositario). Uno dei profili più delicati dell’istituto attiene alla necessità di fornire la prova, quasi diabolica, non solo dell’esistenza del documento o della cosa, ma anche della sua attuale disponibilità da parte del soggetto cui è richiesto l’ordine di esibizione. Per quanto riguarda i limiti, il riferimento a quelli dell’ispezione significa che l’esibizione non si ammette quando produrrebbe un grave danno alla parte o al terzo, oppure quando li costringerebbe a violare il segreto professionale/d’ufficio/di stato. L’esibizione implica l’istanza di parte e non può mai disporsi d’ufficio, salvo che la legge non lo preveda espressamente. Parte della dottr e della giuri ritiene di poter superare tale limite per i documenti che le parti abbiano esplicitamente citato nei propri atti difensivi, ma è da sostenere che si tratti non già di un vero e proprio ordine di esibizione, bensì di una sollecitazione del giudice alle parti. Un’opinione minoritaria reputa che il giudice possa sempre utilizzare il potere d’ispezione (anche d’ufficio) per visionare- senza acquisirli al processo – i documenti o le cose di cui le parti non abbiano chiesto l’esibizione. 56. SEGUE: IL PROVVEDIMENTO DI ESIBIZIONE E LA SUA CONCRETA EFFICACIA L’ordinanza con cui si dispone l’esibizione deve indicare tempo, luogo e modo dell’esibizione; quando l’ordine sia rivolto ad una parte contumace o ad un terzo, il termine per la notificazione dell’ordinanza stessa e la parte deve provvedervi. Quando l’esibizione implichi una spesa, deve porne la relativa anticipazione a carico della parte che l’ha richiesta. Se l’ordine è richiesto nei confronti di un terzo, il giudice deve conciliare al meglio possibile l’interesse della giustizia coi diritti del terzo, e prima di pronunciarsi può disporre che il terzo sia citato in giudizio (al solo fine di poter contraddire la richiesta di esibizione, eventualmente). Il terzo, dal canto suo, anche se non citato, può sempre contestare l’ordine di esibizione (es. vi oppone il segreto personale o d’ufficio), intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli per esibire il documento o la cosa. Il punto più dolente nella disciplina e nella concreta realtà applicativa dell’istituto sta nell’effettività del provv di esibizione. l'opinione prevalente ritiene che in assenza di disposizioni ad hoc che ne prevedano la coercibilità, il generico rinvio ai limiti ex art 118, significa che l’inottemperanza dell’ordine genera le stesse conseguenze della violazione dell’ordine d’ispezione (sanzione pecuniaria o desunzione di argomenti di prova). L’unico caso in cui può attribuirsi una certa coercibilità all’ordine, seppur indiretta, è quello in cui la parte istante, potendo vantare un diritto sostanziale sul documento (es.: il socio che voglia far acquisire come prove alcune scritture contabili della società), sia possibile ricorrere al sequestro giudiziario ex art 670 n.2), per ottenere che all’esibizione provveda il custode designato dal giudice. All’infuori di tali casi, l’utilità dell’ordine di esibizione è scarsa. 57. LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA P.A. In seno ai pochi mezzi istruttorii d’ufficio, il giudice, fuori dai casi ex artt 210-211, cioè quando non sussistano i presupposti per un ordine di esibizione, può richiedere alla p.a. le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, necessari da acquisire. Il rapporto tra l’istituto in oggetto e quello dell’esibizione non è limpido. Poiché anche le p.a. possono essere destinatarie di un ordine di esibizione ai sensi dell’art 210 (oggi superato dalla possibilità di pretendere l’accesso ai documenti amministrativi, ex artt 22-ss. l.n. 241/1990), è lecito ritenere che il provvedimento ora esaminato, rimesso alla disponibilità del giudice, riguardi non uno specifico atto o documento in possesso della p.a., bensì – più generalmente e persino con finalità esplorative – informazioni e notizie circa la documentazione di cui la p.a. dispone, non necessariamente preordinate all’acquisizione della documentazione stessa. Anche qui manca una disciplina volta ad assicurare che la richiesta del giudice trovi effettiva soddisfazione. SEZIONE IV GLI INTERROGATORI E LA CONFESSIONE 58. L’INTERROGATORIO LIBERO E L’INTERROGATORIO FORMALE. IN PARTICOLARE, L’AMBIGUA NATURA DELL’INTERROGATORIO LIBERO capacità di agire oppure che non sia titolare del diritto azionato in giudizio, avendo agito in virtù di una legittimazione straordinaria. Nel caso che sia resa da un rappresentante della parte, la confessione è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui può vincolare il rappresentato, cioè quando non esorbiti i poteri attribuiti al rappresentante dalla procura o dalla stessa legge. 60. LA CONFESSIONE GIUDIZIALE In seno al giudizio, la confessione può essere spontanea, se la parte di propria iniziativa dichiara fatti a sé sfavorevoli, ovvero provocata con interrogatorio formale (art 228). La confessione spontanea può esser contenuta in qualsiasi atto processuale firmato personalmente dalla parte, salvo il caso ex art 117. Secondo l'interpretazione più persuasiva, ciò va inteso nel senso che le eventuali dichiarazioni contrasse rese dalla parte nell'interrogatorio libero, pur se contenuta in un verbale sottoscritto dalla parte, non possono dirsi confessioni ma mere ammissioni. ciò giustifica l'orientamento giurisprudenziale per cui il giudice può formare il proprio convincimento sulla base delle sole risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero. Alcuni autori ritengono invece che possano valere come confessioni le sole dichiarazioni rese spontaneamente in quella sede; ciò presuppone che dal verbale dell'interrogatorio liberano siano ricostruibili le domande rivolte dal giudice alla parte. Tale eccezione si giustifica perché sarebbe incongruo assegnare a tali dichiarazioni è lo stesso valore di prova legale e la irretrattabilità proprie delle dichiarazioni di eguale contenuto rese nel più garantistico interrogatorio formale. indipendentemente dal fatto che sia spontanea o provocata dall'interrogatorio formale la confessione forma piena prova contro chi l'ha resa, ed è idonea a vincolare il giudice sulla verità dei fatti confessati. a detto principio l'art 2733 cc deroga in 2 casi: 1. quando i fatti riguardano diritti non disponibili delle parti (es.: accertamento della paternità naturale oppure all'esistenza di motivi di annullamento del matrimonio 2. quando, essendoci un litisconsorzio necessario, la confessione proviene da alcuni soltanto dei litisconsorti. in questo caso, non essendo possibile vincolare tutti i litisconsorti alle dichiarazioni di uno e facendo salva l'esigenza di un accertamento unitario dei fatti rispetto a tutte le parti, la legge stabilisce che la confessione sia liberamente apprezzata dal giudice, degradando da prova legale a prova libera nei confronti di tutti. Analogo efficacia deve ritenersi che spetti anche alla confessione nell'ipotesi 1. nella realtà accade spesso che il confidente non si limiti ad una dichiarazione contra se, bensì l'accompagni all'affermazione della verità di altri fatti o circostanze a sé favorevoli tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato, ovvero modificarne o estinguere gli effetti. A questo proposito si parla di confessione complessa, quando la giunta sia un fatto del tutto distinto, capace di modificare o estinguere gli effetti del fatto sfavorevole al dichiarante. Es.: è vero che l’attore mi ha prestato del denaro (fatto costitutivo del diritto di credito), ma è anche vero che l’ho restituito (fatto estintivo). La confessione è qualificata quando la dichiarazione pro se riguardi un fatto strettamente connesso a quello confessato, sì da reagire sulla qualificazione stessa della fattispecie. Es.: è vero che l'attore mi ha dato una certa somma di denaro, ma era una donazione e non un mutuo. in entrambe le situazioni vi l'efficacia probatoria delle dichiarazioni dipende dall'atteggiamento dell'altra parte: se non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, fanno piena prova vincolando il giudice nella loro integrità, cioè senza distinguere tra fatti sfavorevoli e favorevoli al loro autore; se l'altra parte contesta, è rimesso al giudice di apprezzare l'efficacia probatoria delle dichiarazioni. Il legislatore vuole evitare che la parte della dichiarazione contraria al dichiarante possa essere scissa d'arresto, a lui favorevole, ed essere considerata per quella parte soltanto, una confessione. A tal proposito si parla di inscindibilità delle dichiarazioni, la quale dovrebbe valere in entrambi i casi: sia quando, in assenza di contestazione, le dichiarazioni abbiano in toto efficacia di prova legale; sia quando vengano rimesse al prudente apprezzamento del giudice e costituiscano prova libera. In quest’ultimo caso, la confessione complessa o qualificata potrebbe provare in egual misura, sempre che il giudice si convinca della sua attendibilità, tutti i fatti dichiarati: tanto quelli sfavorevoli al dichiarante quanto quelli di segno contrario. La soluzione appare insoddisfacente giacché rischia di risolversi a proposito delle dichiarazioni pro se, in un'inammissibile deroga al principio dell'onere della prova. Riflettiamo su di un banale esempio: Se il convenuto si limitasse ad eccepire di aver già adempiuto l'obbligazione dedotta in giudizio dall'attore non c'è dubbio che graverebbe su di lui l'onere di provare il fatto estintivo (l’adempimento), Voi non potendosi attribuire alcun valore alla sua affermazione (neppure come mero argomento di prova). sarebbe assurdo pensare che per il solo fatto che questa dichiarazione pro se si accompagna ad un'altra dichiarazione contra se il giudice possa reputarla sufficiente per ritenere provato anche il fatto estintivo e rigettare la domanda. Dobbiamo pensare che l'art 2734, nel caso in cui le circostanze aggiunte siano contestate, debba intendersi nel senso che in presenza di una dichiarazione complessa, il legislatore (con la consapevolezza che la parte potrebbe aver dichiarato fatti a sé sfavorevoli, non veri, sol perché vi ha unito l'allegazione di altri fatti favorevoli, anch'essi non veri) ha preferito escludere che le affermazioni contrarie all'interesse del dichiarante potessero vincolare il giudice, al pari di una confessione. L'apprezzamento delle dichiarazioni contra se è rimesso alla prudenza del giudice, e le circostanze , aggiunte allegate dal dichiarante a proprio favore, dovranno essere pur sempre provate in altro modo. 61. LA CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE La tipologia della confessione stragiudiziale è piuttosto varia: può essere una prova precostituita quando la dichiarazione contra se è contenuta in un documento di cui sarà sufficiente l'acquisizione nel processo; Oppure può richiedere l'assunzione di prove costituende quando è stata resa oralmente (es. deve provarsi tramite testimoni). per questa seconda ipotesi il legislatore esclude la prova per testi quando la confessione verta su fatti che, a loro volta, non potrebbero essere provati in tal modo. Es.: non è possibile provare con testimonianza che l'altra parte abbia, al di fuori del giudizio, espressamente riconosciuto di aver concluso il contratto di assicurazione (di cui nel processo nega l'esistenza), giacché quest'ultimo deve essere provato per iscritto e non ammette la prova per testi. Dal punto di vista dell'efficacia, distinguiamo: Se la dichiarazione confessoria è rivolta all'altra parte o al suo rappresentante, ha la medesima efficacia della confessione giudiziale; se è diretta ad un terzo ovvero è contenuta in un testamento, e liberamente apprezzabile dal giudice. Il legislatore ritiene possibile, in questo secondo caso, che la dichiarazione contra se sia stata resa per finalità particolari, ed esclude che costituisca una prova incontrovertibile della realtà dei fatti. 62. L’INTERROGATORIO FORMALE ED IL SUO RAPPORTO CON LA CONFESSIONE a norma dell'art 230, la parte che vuol far sottoporre l'avversario ad interrogatorio formale è tenuta a dedurre tale interrogatorio “per articoli separati e specifici”. Ciò perchè l’interrogando dev’essere messo in condizione di conoscere in anticipo i fatti sui quali dovrà riferire, e le domande non potranno vertere su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli (anche se l'identità non va intesa in senso formale), a meno che non siano domande su cui le parti concordano e che il giudice reputa utili (rilevanti), ed è fatto salvo il potere del giudice di chiedere opportuni chiarimenti sulle risposte date. la parte interrogata non ha alcun obbligo giuridicamente sanzionabile di dire la verità, anche i contro i propri interessi. Ciò non toglie il dovere di rendere l'interrogatorio e rispondere personalmente alle relative domande (senza servirsi di iscritti preparati, ad eccezione le note e gli appunti che il giudice ha consentito di utilizzare in caso di riferimento a nomi o cifre, o se particolari esigenze lo consigliano). La mancata comparizione in assenza di giustificato motivo (che permetterebbe al giudice di fissare una nuova udienza oppure di disporre per l'assunzione dell'interrogatorio fuori dalla sede giudiziaria), al pari del rifiuto di rispondere, come conseguenza produrrebbe la possibilità -valutato ogni altro elemento di prova- di ritenere ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio. Ciò va inteso nel senso che tale condotta omissiva, pur non producendo conseguenze automatiche ed ineluttabili (a differenza del giuramento), costituisce una prova libera esposta al prudente apprezzamento del giudice, da cui egli può desumere - anche in via esclusiva - l'esistenza dei fatti oggetto dell'interrogatorio, contrari all'interesse dell'interrogato. È in realtà un punto piuttosto controverso: secondo un'altra tesi sarebbe un argomento di prova, equiparabile a qualsiasi altro comportamento processuale (art 116 II co.), o comunque un elemento indiziario, da valutare in un contesto probatorio più ampio. tale soluzione riecheggia spesso in giuri. Non va tralasciato che nella stessa giuri, la contrapposizione tra prova libera ed argomento di prova (netta in dottrina) risulta sfumata: spesso si ammette che anche l'argomento di prova (il comportamento processuale di una parte) sia fonte esclusiva del convincimento del giudice. In concreto la soluzione della giuri non è lontana da quella prospettata dal testo, o comunque non può contrapporsi ad essa. Per comprendere la concreta efficacia delle risposte fornite dalla parte in sede di interrogatorio, deve considerarsi quanto detto circa l'efficacia probatoria della confessione. parte della dottrina, traendo spunto dall'art 228, per cui la confessione giudiziale può essere provocata mediante l'interrogatorio formale, costruisce uno stretto rapporto tra i due mezzi istruttori, deducendone che l'interrogatorio formale avrebbe come scopo precipuo l'ottenimento della confessione della parte cui esso è deferito. nella realtà non è scontato (e neppure solo probabile) che l'interrogatorio conduca ad una confessione. esso sortisce più frequentemente delle dichiarazioni complesse, in parte contrarie e in parte favorevole l'interrogato, la cui efficacia deve essere desunta ex art 2734 cc. è preferibile ritenere che l'istituto dovesse piuttosto servire a costringere la parte a dichiararsi, assumendo una specifica posizione circa i fatti allegati dall'avversario, per selezionare quelli effettivamente bisognevoli di prova (poiché contestati e non pacifici). non a caso, l'interrogatorio formale, nella prassi, è sempre ammesso dopo l'eventuale interrogatorio libero ma prima di ogni altro mezzo di prova. l'interrogatorio formale si svolge su circostanze note in anticipo al l'interrogato, dobbiamo ritenere che le risposte pro se siano irrilevanti e non possono valere neanche come argomenti il legislatore ha previsto la possibile conversione dell'atto pubblico- viziato o dall'incompetenza/incapacità dell'ufficiale da cui proviene, oppure dalla violazione di prescrizioni formali -in una scrittura privata, a condizione che questa rispetti il requisito formale dato dalla sottoscrizione delle parti. 66. LA SCRITTURA PRIVATA A differenza di quella di atto pubblico, la nozione di scrittura privata non è direttamente definita dal legislatore, e la si deve ricavare – in un certo senso- in negativo. dagli artt. 2702 ss. cc, può dedursi ch’essa è qualunque documento scritto attribuibile ad uno o più soggetti, non qualificabile come atto pubblico. sono inclusi gli atti che un pubblico ufficiale abbia prodotto al di fuori di tale sua funzione. il maggiore interesse legislativo riguarda le scritture sottoscritte dal soggetto o dai soggetti da cui provengono le dichiarazioni ivi contenute. L'idea dalla quale muovono tanto il cc quanto il cpc, è che siano scritture private anche altri documenti dei quali non è prescritta la sottoscrizione (es. il telegramma o i registri domestici). nella scrittura privata ha un preciso rilievo la sottoscrizione autografa: è l'espediente tecnico- giuridico con cui un sogg si assume la paternità delle dichiarazioni rese nel documento. Un documento scritto può formarsi nei modi più disparati: può essere redatto a mano, oppure con una macchina da scrivere o una stampante, ovvero avvalendosi di moduli prestampati. Con l’ apposizione della propria firma, il sottoscrittore accetta che le dichiarazioni qui racchiuse gli siano giuridicamente imputate. a norma dell'art 2702: “ la scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, fino a querela di falso”. Nella pratica si verifica spesso che una delle parti produca un contratto, stipulato per scrittura privata, sottoscritto unicamente dall'altra parte. Il che si spiega per il fatto che ciascuno dei contraenti, al momento della conclusione del contratto, aveva sottoscritto la sola copia rimasta in possesso dell'altro. La giuri risolve il problema nel senso che la produzione in giudizio è sufficiente a surrogare la sottoscrizione mancante, e a perfezionare ex nunc il contratto, a condizione che la produzione avvenga per invocare l'adempimento del contratto e sia ascrivibile direttamente al contraente. L'efficacia probatoria della scrittura privata sottoscritta è qualitativamente identica all’atto pubblico (prova legale fino a querela di falso), ma con un oggetto più circoscritto, limitato alla sola provenienza delle dichiarazioni dalla parte che l'ha sottoscritta, cioè all’estrinseco del documento. Per converso, non prova nulla circa il contenuto e la veridicità delle dichiarazioni (l’intrinseco), la cui effettiva rilevanza probatoria dipenderà dalla loro natura. Se avessero ad oggetto circostanze sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all'altra parte, spetterebbe loro l'efficacia probatoria della confessione stragiudiziale; Se invece riguardassero fatti di altro tipo (affermazioni pro se), non avrebbero rilievo probatorio. per la scrittura privata il problema della falsità può porsi solo sul piano materiale, allorché sia stata contraffatta la firma dell'autore, oppure quando dopo la sottoscrizione siano state indebitamente aggiunte o modificate parti del suo contenuto. affinché la scrittura abbia la sua (limitata) efficacia probatoria, serve che la sua sottoscrizione sia riconosciuta da colui contro il quale è prodotta, oppure che la sottoscrizione stessa sia legalmente considerata come riconosciuta (art. 2702). 67. SEGUE: L’AUTENTICAZIONE DELLA SOTTOSCRIZIONE Affinché la scrittura privata acquisisca fin dall'origine la piena efficacia probatoria ex art 2702, serve farne autenticare le sottoscrizioni da un notaio o da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L'autenticazione è l'attestazione, da parte del pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, da parte di una persona di cui egli stesso ha prima accertato l'identità. In tal caso, per negare l'autenticità della sottoscrizione, si debba contestare l'operato del pubblico ufficiale ricorrendo alla querela di falso. l'autenticazione delle sottoscrizioni è spesso richiesta dalla legge (che solitamente parla di scrittura privata autenticata) anche per altri fini (es.: forma necessaria per la validità di certi atti). Ad essa si ricollega un effetto di natura sostanziale, consistente nel rendere la data della scrittura privata certa e computabile riguardo ai terzi, nei casi in cui tale requisito sia richiesto affinché l'atto sia opponibile ai terzi titolari di situazioni giuridiche confliggenti con quella delle parti. In mancanza di autenticazione (che per gli atti a contenuto patrimoniale comporta l'obbligo di registrazione, e quindi il pagamento dell'imposta di registro), la certezza della data potrebbe dedursi solo: a. dal giorno della registrazione dell'atto b. dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica (a sottoscrivere) di colui o di taluno di coloro che l'avevano sottoscritto c. dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atto pubblico d. da giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo certo l'anteriorità della formazione del documento. a tal proposito, è dubbia la possibilità di desumere la data certa dalla spedizione a mezzo posta dell'atto, e dalla posizione del timbro postale, tenuto conto che quest'ultimo non può garantire che la redazione dell’atto non sia avvenuta dopo la spedizione. L’orientamento della giuri, formatosi ai tempi in cui il servizio postale era in mano allo stato, è per la soluzione affermativa, ma si è anche precisato che il principio non può valere quando il servizio postale sia erogato da una azienda privata. Per questo aspetto, fanno eccezione le scritture contenenti dichiarazioni unilaterali non destinate a persona determinata, per cui la data può accertarsi con ogni mezzo di prova; e le quietanze, cioè le ricevute di avvenuto pagamento, per l'accertamento della cui data e previsto che il giudice ammetta qualsiasi mezzo di prova. L'art 474 n.2, include le scritture private autenticate fra i titoli esecutivi stragiudiziali, se pur relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute. 68. SEGUE: IL RICONOSCIMENTO, ESPRESSO O TACITO, ED IL DISCONOSCIMENTO DELLA SCRITTURA PRIVATA la modalità più semplice frequente con cui la scrittura privata può acquisire l’efficacia probatoria ex art 2702 cc è quella del suo riconoscimento, espresso o tacito, ad opera di colui contro il quale essa è prodotta in giudizio. Questi non sempre coinciderà col soggetto cui la scrittura è attribuita, potendosi dare il caso che sia fatta valere contro l’erede o avente causa del suo preteso autore. Il riconoscimento ex art 2072 riguarda inequivocabilmente e specificatamente la sola sottoscrizione della scrittura privata, non quest’ultima nel suo complesso, per il fatto che, appuratane l’autenticità, tutte le dichiarazioni contenute nella scrittura in questione vengono attribuite al sottoscrittore, che potrà contrastare tale conseguenza probatoria solo con la querela di falso (es.: per dimostrare che il testo della scrittura è stato in tutto o in parte modificato dopo l’apposizione della propria firma). Il riconoscimento della sottoscrizione può essere espresso o tacito. La prima fattispecie (art. 2702) non richiede particolari chiarimenti. Quanto a quello tacito, può realizzarsi in due ipotesi: a. la scrittura è prodotta nei confronti di una parte contumace (che potrà far venir meno gli effetti del riconoscimento, costituendosi in giudizio e disconoscendo le scritture contro di lei precedentemente prodotte b. quando la scrittura è stata prodotta contro una parte costituita e comparsa, e questa non la disconosca o dichiari di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. Il riferimento alla comparizione sembra intendersi nel senso che la parte dev’essere stata in grado di rendersi conto della produzione del documento, allorchè questa sia avvenuta nel corso del processo. a volte la giuri ha affermato che il riconoscimento tacito potrebbe aversi anche prima e fuori del giudizio, precludendo un successivo disconoscimento della scrittura in sede giudiziale. Tale estensione è poco persuasiva e contrasta con l’opinion per cui il riconoscimento tacito produce effetti solo all’interno del processo ove si realizza. Per impedire il riconoscimento tacito è necessario il disconoscimento, cioè una dichiarazione con cui si nega formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione, oppure, se si tratta di eredi o aventi causa dell'apparente sottoscrittore, con cui si afferma di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del proprio dante causa. Tenendo conto che il riconoscimento riguarda la sola sottoscrizione, non è chiaro perché il disconoscimento possa avere ad oggetto anche la sola scrittura: se la parte riconosce l'autenticità di quest'ultima l'intera scrittura dovrebbe per ciò stesso imputarsi al sottoscrittore (applicando il 2702 cc), che se volesse negare che le dichiarazioni in essa contenute provengano effettivamente da lui, dovrebbe procedere alla querela di falso. La spiegazione più verosimile è che il disconoscimento della sola scrittura è ammissibile solo per alcuni documenti (olografi, cioè scritti di proprio pugno) per cui non è richiesta la sottoscrizione e che il cc include tra le scritture private. Così, le carte e i registri domestici che in alcuni casi fanno prova contro chi li ha scritti, nonché le annotazioni del creditore su di un documento volte ad accertare la liberazione del debitore. 69. SEGUE: LA VERIFICAZIONE quando una scrittura privata è stata disconosciuta, è inutilizzabile come prova (seppur libera e non vincolante per il giudice), salvo che la parte che voglia comunque avvalersene (di regola, la stessa che l'aveva prodotta) ne chieda la verificazione ex art 216. Sebbene l'art 216 non preveda limitazioni temporali, la Cassaz. ha ritenuto che la relativa istanza debba assimilarsi alla richiesta di nuovi mezzi di prova, e resti preclusa con lo spirare del relativo termine. L’istanza di verificazione introduce un procedimento incidentale, che si conclude con una sent sull’autenticità della scrittura. se affermativa, consentirà di ritenere il documento legalmente riconosciuto, facendo gli acquisire l'efficacia probatoria privilegiata ex art 2702. La verificazione verterà sull'autenticità della sottoscrizione, tranne nelle ipotesi eccezionali in cui può avere ad oggetto la scrittura stessa dell'autore (d'altronde l'art 220 conferma che la sent di verificazione può dichiarare la scrittura o la sottoscrizione di mano della parte che l'ha negata). Secondo l'opinione preferibile è una domanda incidentale di mero accertamento che trae interesse dall'avvenuto disconoscimento del documento e si caratterizza per il fatto che verta su di un mero fatto piuttosto che sull'esistenza o meno di un diritto o di uno status. se la querela è proposta in via incidentale, l'art 222 impone al giudice istruttore una doppia verifica: a. deve chiedere alla parte che aveva prodotto il documento se intende ancora avvalersene, nonostante la proposizione della querela (c.d. interpello). se così non fosse e la parte rinunciasse a servirsi del documento, questo sarebbe inutilizzabile e non avrebbe senso il ricorso alla querela b. se la risposta all’interpello è positiva, deve controllare che il documento sia rilevante per la decisione solo se ci sono entrambi i presupposti, il giudice dà via libera alla presentazione della querela nella stessa udienza o in una successiva. Analogamente alla verificazione, anche qui il legislatore detta delle disposizioni volte ad assicurare che il documento impugnato non possa essere sottratto o materialmente alterato in pendenza delle attività istruttorie che potranno accertarne la falsità o la genuinità. La pronuncia della sent spetta sempre al collegio (è una delle ipotesi in cui il tribunale opera come organo collegiale, stante l’obbligatorietà del pm), ma è previsto che questo possa essere investito dalla sola decisione riguardante la querela indipendentemente dal merito, e che in tal caso l'istruttore possa disporre la continuazione della causa innanzi a sé, limitatamente alle domande che possono essere decise indipendentemente dal documento contestato. può avvenire che la querela sia proposta in via incidentale in un giudizio che si svolge davanti al giudice di pace, oppure dinanzi alla Corte d'appello. Non potendosi derogare alla competenza per materia del tribunale, è necessario - sempre che abbiano avuto esito positivo le verifiche e si tratti di un documento rilevante per la decisione- sospendere il processo principale, in attesa della decisione sulla querela di falso; salva la possibilità che il giudice di pace proceda nella trattazione delle domande che possono essere definite indipendentemente dal documento impugnato. prescindendo dai provvedimenti che potrebbero accompagnare la sent di accoglimento o rigetto della querela, diretti nel primo caso ad evitare che il documento possa essere ancora utilizzato, e nel secondo a dar conto dell’accertata genuinità del documento, nonché sanzionare la parte querelante, un punto molto controverso riguarda i limiti soggettivi dell'efficacia di tale sentenza. l'opinione prevalente , risalente a Chiovenda, e nel senso che il relativo giudicato abbia un valore assoluto e sia efficace erga omnes, indipendentemente dal fatto che abbia ritenuto falso o genuino il documento impugnato, e anche quando reso nei confronti di alcuni soltanto dei legittimati. Ciò non dovrebbe impedire l'esperibilità di un'impugnazione straordinaria da parte di coloro che non abbiano partecipato al relativo giudizio. 72. L’EFFICACIA PROBATORIA DELLE COPIE Accade spesso che nel processo, in luogo dell'originale atto pubblico o della scrittura privata, se ne produca una copia o perché l'originale non è nelle mani della parte, o per ragioni di prudenza (non sono rari i casi in cui il contenuto dei fascicoli sia smarrito, in tutto o in parte). l'efficacia probatoria delle copie è disciplinata in modo analitico, ma non del tutto chiaro, negli artt 2714-ss. cc. Circa l’atto pubblico, la consueta efficacia fidefacente compete alle copie (e persino alle copie delle copie) di atti pubblici originali, spedite (rilasciate) nelle forme prescritte da pubblici depositari autorizzati; per la scrittura privata, analogamente, le copie di scritture depositate presso pubblici uffici e spedite da pubblici depositari autorizzati hanno la stessa efficacia della scrittura da cui sono estratte, a meno che non presentino cancellature, abrasioni o altri difetti esteriori. in tali casi è rimesso al giudice di apprezzarne l'efficacia probatoria sulla base del suo prudente apprezzamento. l'ipotesi più frequente, per la scrittura privata, è la sua produzione in fotocopia e, a tal proposito, l'art 2719, stabilisce che la copia fotografica ha la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità con l'originale è attestata da pubblico ufficiale competente, oppure non espressamente disconosciuta. il primo caso non pone particolari problemi, in quanto è chiaro che l'eventuale contestazione della conformità della copia all'originale passa dalla querela di falso nei confronti dell'attestazione resa dal pubblico ufficiale. nell'altro caso si pone un delicato problema di coordinamento con l'art 215, che considera la sola ipotesi in cui sia stata prodotta, in luogo della scrittura originale, una copia autentica. in tal caso il giudice, su istanza della parte contro cui il documento è stato prodotto, assegni alla parte stessa un termine ulteriore per decidere se disconoscere o meno la scrittura (meglio: la sottoscrizione della scrittura). Ciò induce a pensare che il disconoscimento ex art 2719, che ha un oggetto diverso (la conformità della copia fotostatica all'originale della scrittura) e produce conseguenze diverse rispetto a quello ex art 215, sia svincolato da termini e modalità particolari. la giurì prevalente e di contrario avviso, e ritenendo che anche per questo debba valere la disciplina dell'art 215. 73. LE RIPRODUZIONI FOTOGRAFICHE, CINEMATOGRAFICHE E MECCANICHE IN GENERE L'art 2712 cc prende in considerazione le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, registrazioni fotografiche e ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e cose, stabilendo che costituiscano piena prova di fatti e cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose stesse. l'elenco ha natura non tassativa, ed oggi ricomprende, ad es., le videoregistrazioni su supporto magnetico, le registrazioni digitali audio- video su cd o dvd, o il messaggio di posta elettronica. l'unica deduzione certa è che la norma attiene all'esistenza di un onere di contestazione o disconoscimento da parte di colui nei cui confronti sia stata prodotta una di tali prove documentali. Non è chiaro se tale disconoscimento sia esposto agli stessi termini e modalità di cui agli artt 214-215 per il disconoscimento della scrittura privata, se sia ammissibile un qualche procedimento di verificazione del documento eventualmente di sconosciuto, ed infine sia quest'ultimo possa riconoscersi - in caso di disconoscimento- un'efficacia diversa e minore rispetto alla piena prova, limitata ad un mero argomento di prova. La soluzione più plausibile è che verso questo tipo di documenti non si concepisca una verificazione simile a quella della scrittura privata di sconosciuta (avente un preciso oggetto e finalità), ma al contempo non possono escludersi accertamenti di natura tecnica diretti ad escludere eventuali manomissioni, sì da confermare la genuinità della rappresentazione di fatti o cose in essa contenuta, che il giudice valuterà in base all'art 116. 74. IL TELEGRAMMA, IL TELEX E IL TELEFAX Un’altra prova documentale cui il legislatore si dedica, contrapponendola alla scrittura privata vera e propria, è il telegramma. Il telegramma può essere sottoscritto dal mittente, sebbene limitatamente all’originale consegnato all’ufficio postale, e la relativa sottoscrizione potrebbe essere autenticata da un notaio. Deve ritenersi equivalente in tutto e per tutto ad una scrittura privata, a seconda dei casi, con o senza autenticazione. L’art 2705 prevede una ipotesi intermedia: l’identità del sottoscrittore sia stata accertata nei modi stabiliti dai regolamenti, ed in tal caso ammette prova contraria. L’art 2705 attribuisce al telegramma la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, anche quando non sia stato sottoscritto dal mittente, ma consegnato o fatto consegnare dal mittente stesso. in questo caso tuttavia non potrà soddisfare il requisito della forma scritta, laddove questa sia richiesta ad substantiam actum. Il fatto che il telegramma pervenga al destinatario solo in una copia, non sottoscritta o comunque firmata dal mittente, pone il problema di una sua possibile difformità dall’originale. L’art 2706 prevede, a proposito, una mera presunzione di conformità superabile con prova contraria. La rilevanza pratica del telegramma è stata ridimensionata, ultimamente, da nuovi strumenti di trasmissione dati (che non hanno riscontro nel codice). Il primo documento “nuovo” è il telex, che consente all’utente munito di un apposito terminale ed abbonato al relativo servizio gestito da poste italiane, di collegarsi alla rete telegrafica pubblica per scambiare messaggi telegrafici con altri utenti aventi un analogo collegamento. È controversa la possibilità di utilizzare analogicamente la disciplina per il telegramma, specie in virtù del fatto che l’originale telex – a differenza del telegramma – resta nelle mani del mittente. questa tecnica di trasmissione dà maggiori garanzie rispetto all’effettiva ricezione del messaggio da parte del destinatario: la telescrivente appone automaticamente, all’inizio e alla fine del messaggio, un codice identificativo di mittente e destinatario. è comunque impossibile verificare con certezza l’identità del mittente, non potendosi escludere l’eventualità che la telescrivente sia adoperata, con o senza autorizzazione, da un sogg diverso dall’intestatario. In questo caso parrebbe più congruo applicare estensivamente la disciplina ex art 2712 cc, considerando che il messaggio recapitato al destinatario rappresenta solo una copia ottenuta con un particolare procedimento di trasmissione dati per via telematica. In epoca ancor più recente, il telex è stato a sua volta soppiantato, nella pratica, dal telefax (più semplicemente, fax), che richiede apparecchiature meno costose ed usa una qualunque linea telefonica (a differenza del primo) senza un abbonamento ad hoc. Il fax ha anche l’innegabile vantaggio di trasmettere non un semplice messaggio di testo, ma un’immagine completa del documento originale, compresa la sottoscrizione se si tratta di scrittura privata. Dal punto di vista dell’efficacia probatoria, il telefax pone problemi parzialmente diversi rispetto al telex, specie per la prova: a) dell’avvenuta trasmissione e ricezione del documento; b)conformità della copia trasmessa rispetto all’originale. Le soluzioni indicate da dottr e giuri oscillano tra l’applicazione dell’art 2712 cc, quando si riferisce ad ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose, e l’utilizzazione (anch’essa estensiva) dell’art 2719 cc, che parla specificatamente di copie fotografiche di scritture. Se si considera il problema a), che riguarda in primis il mittente del fax, è lecito ricondursi all’art 2712, poiché ciò che può dimostrare l’effettiva ricezione della copia del documento da parte del destinatario è solo il c.d. rapporto di l’attendibilità della prova, dimostrando che una certa “voce” contabile non corrisponda nelle proprie scritture. In ogni caso, l’efficacia probatoria ex artt 2709-2710 sottostà al generale principio ex art 116 I co. SEZIONE VI IL GIURAMENTO 77. IL GIURAMENTO IN GENERALE Il giuramento è il mezzo istruttorio in cui una delle parti è chiamata ad affermare in forma solenne (con una dichiarazione giurata da cui la cc ha espunto ogni riferimento ai valori religiosi) fatti a sé favorevoli, che così si hanno per definitivamente accertati nel processo, senza possibilità di prova contraria. da questo punto di vista, l’efficacia probatoria del giuramento è massima (se non superiore alla confessione, sebbene non abbia la sua persuasività logica, basata sulla regola d’esperienza per cui nessuno avrebbe interesse a dichiarare fatti contra se qualora non fossero veri). Per questo motivo, il giuramento è stato spesso criticato, apparendo uno strumento anacronistico. Sul piano positivo, ex art 2736 cc distinguiamo 2 tipi di giuramento: o g. decisorio, che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa o g. suppletorio, deferito d’ufficio ad una qualunque delle parti, per decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma neanche del tutto sfornite di prova, ovvero per stabilire il valore della cosa domandata, se non lo si può accertare altrimenti (g. estimatorio). Il fatto che l’uno sia rimesso all’iniziativa di parte e l’altro al giudice, finisce col farne 2 strumenti istruttorii dalla diversa funzione pratica, da valutare distintamente. 78. GIURAMENTO DECISORIO: FUNZIONE E PRESUPPOSTI la formulazione dell’art 2736 cc farebbe pensare che la parte che deferisce il giuramento decisorio sia arbitra di farne comunque dipendere la definizione della causa, e che tale istituto (sotto le mentite spoglie del mezzo di prova) sia un vero e proprio strumento di composizione delle controversie. Il giuramento in esame è decisorio perché: a. verte su fatti decisivi, cioè oggettivamente idonei – anche in relazione all’inquadramento giuridico della fattispecie e agli altri fatti per cui il giudice ritenga già raggiunta la prova – a portare all’immediata definizione della causa, totale o parziale b. è una prova legale, prevalente sempre e comunque sulle altre prove, tanto nel caso in cui venga prestato, quanto nel caso in cui la parte si rifiuti di renderlo. Col deferimento del giuramento, ciascuna delle parti può “sfidare” l’altra (parte c.d. delata) ad affermare la verità di fatti ad essa favorevoli, ponendole un’alternativa secca (salva la possibilità di riferimento del giuramento): rendere la dichiarazione giurata sì che la verità di tali fatti sia definitivamente accertata in suo favore senza prova contraria, oppure rifiutarsi di giurare rimanendo soccombente rispetto alla domanda o al punto di fatto su cui il giuramento era stato ammesso (239 cpc). considerando che l’art 371 cp commina pesanti sanzioni per il falso giuramento (c.d. delitto di spergiuro), ciò si traduce – in deroga al principio per cui nemo tenetur contra se edere- nell’imporre il divieto di mentire alla parte cui il giuramento è stato deferito. La parte, allorché i fatti siano comuni all'altra parte, può sottrarsi all'alternativa descritta solo col riferimento del giuramento, chiedendo che a giurare sia la parte che glielo aveva deferito. Nella realtà è difficile che una parte si ritrovi a deferire all'altro il giuramento solo perché conta sull'efficacia deterrente della sanzione penale; più spesso è una scelta “obbligata”, o perché la parte non ha altri mezzi di prova idonei, o perché non ha altre possibilità per sperare di vincere la causa. Ad es.: nell’ambito delle prescrizioni presuntive ove il creditore che si veda eccepire la prescrizione può ricorrere al solo giuramento per accertare che si sia verificata l'estinzione del debito. La capacità richiesta per deferire o riferire il giuramento è la stessa prevista per la confessione, quindi serve che sia una persona capace di disporre del diritto controverso (artt 2731 e 2737 cc), il che esclude la legittimazione del sostituto processuale. nulla si dice circa la capacità necessaria per la parte chiamata a prestare il giuramento. Si ritiene che il deferimento possa avere come destinataria anche la persona fisica cui compete la rappresentanza di una persona giuridica o di una società parte del processo. quanto all'oggetto, il giuramento può essere de veritate, quando riguardi un fatto proprio della parte a cui si deferisce, ovvero de scientia quando verta sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. ehm il legislatore esclude la possibilità di avvalersi di tale mezzo di prova (art 2739 cc): a. Nelle cause relative ai diritti di cui le parti non possono disporre. Es.: un giudizio di divorzio o disconoscimento di paternità b. quando esso dovrebbe vertere su di un fatto illecito, non solo illecito penale, ma più in generale come ogni fatto da cui possa derivare un giudizio di riprovazione sociale a carico della parte (ma anche nel senso che l'inammissibilità si estende a qualsiasi fatto produttore di responsabilità aquiliana). La ratio di tale limitazione risiede nell'opportunità di evitare che il delato, Qualora il fatto a lui ascritto sia vero, si trovi nella scomoda alternativa di commettere delitto di spergiuro o di riconoscere la propria turpitudine, esponendosi alle sue conseguenze negative c. quando sia diretto a provare l'esistenza di un contratto per la cui validità si richiede la forma scritta, che sarebbe nullo se non fosse stato consacrato in un documento. Tale limitazione non si applica quando la forma scritta è richiesta ad probationem e non ad substantiam. d. quando il giuramento mira a negare un fatto che, da un atto pubblico, risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale: in questo caso servirebbe ad eludere la necessità di utilizzare la querela di falso per privare l'atto pubblico dell'efficacia pienprobante che ex lege gli deriva. 79. SEGUE: DEFERIMENTO E RIFERIMENTO, PRESTAZIONE E CONSEGUENZE DELLA MANCATA PRESTAZIONE. il giuramento decisorio può deferirsi in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, pertanto fino alla precisazione delle conclusioni (pur dopo che siano maturate le eventuali preclusioni istruttorie); nonché, derogando al divieto di nuovi mezzi di prova, in appello e in giudizio di rinvio. Si ritiene che il giuramento possa occuparsi di fatti già accertati, in positivo o in negativo, con prove anteriormente assunte, tenuto conto ch’esso prevale su ogni altro mezzo di prova. Il deferimento (come il riferimento) va compiuto personalmente dalla parte, con atto da essa sottoscritto o con dichiarazione resa all'udienza, ovvero sempre con dichiarazione in udienza dal difensore che abbia procura ad hoc. al momento del deferimento, il giuramento deve essere formulato in articoli separati in modo chiaro e specifico. uno degli aspetti più delicati dell'istituto riguarda la concreta articolazione della formula sulla quale l'altra parte è chiamata a giurare: la dichiarazione deve avere ad oggetto fatti favorevoli al giurante - che non potrebbe modificare in nessun caso la formula ammessa dal giudice - quest'ultima dovrà fedelmente riprodurre la sua tesi definitiva affinché l'effetto della prestazione del giuramento sia quello di far vincere in tutto o in parte la causa al delato. in caso di riferimento, tale formula sarà invertita per riprodurre la tesi difensiva della parte che aveva originariamente deferito il giuramento, e che viene così chiamata essa stessa a giurare. Di regola, tanto il deferimento quanto il riferimento sono revocabili solo fino a che l'avversario non si sia dichiarato pronto a prestare il giuramento (ovvero, nel caso di giuramento deferito, non l'abbia a sua volta riferito); Se però il giudice, nell'ammettere la prova, abbia modificato la formula indicata dalla parte, essi potranno essere revocati anche dopo tale momento fino all'effettiva prestazione. qualora ci siano contestazioni sull'ammissibilità del giuramento, la loro risoluzione spetta al collegio, sempre che sia una causa per cui è prevista la decisione collegiale ex art 50 bis. Visti i gravi effetti che derivano dalla mancata prestazione, l’ordinanza ammissiva del giuramento dev’essere sempre e direttamente notificata alla parte (e non al suo procuratore costituito), pur se contumace. Il giuramento va prestato personalmente innanzi all'istruttore, che deve previamente ammonire la parte all'importanza morale dell'atto e delle conseguenze penali delle false dichiarazioni. La prestazione consiste materialmente nel pronunciare: “consapevole della responsabilità che col giuramento assumo, giuro….”, seguite dalla fedele ripetizione Della formula ammessa dal giudice (art. 238 no ho messo un messaggio). Qualora la parte delata, senza giustificato motivo, non si presenti all'udienza per l'assunzione del mezzo istruttorio, o rifiuti di prestare il giuramento o ne modifichi arbitrariamente e sostanzialmente la formula, è soccombente rispetto alla domanda o al punto di fatto sul quale il giuramento è stato ammesso. ciò a meno che il giudice, giustificando la sua mancata comparizione, fissi una nuova udienza o disponga per l'assunzione del giuramento fuori dalla sede giudiziaria (art. 239 II co. e 232 II co.). In passato, la giuri si è discostata da tale principio per il caso in cui, trattandosi di giuramento de scientia (deferito ad es. al legale rappresentante di una persona giuridica o società) il giurante dichiari di non conoscere i fatti altrui dedotti nella formula, reputando che tale dichiarazione valga come giuramento negativo, favorevole alla parte che l'ha resa. la soluzione non appare convincente, giacché se per un verso non potrebbe ravvisarsi - nella specie- un vero e proprio rifiuto di giurare (da cui derivi la soccombenza del delato), per altro verso non è pensabile che la definizione della causa scaturisca da un fatto concretamente irrilevante, essendo evidente che la mancata conoscenza di un certo fatto da parte del giurante non esclude (ma neanche prova) la verità di tale fatto. in questi casi si tratta di stabilire, una volta che il giuramento decisorio abbia mancato il proprio obiettivo, le conseguenze sotto il profilo dell’ordine della prova. mediante un esame diretto del teste che verifichi, nel contraddittorio delle parti, l’attendibilità della sua dichiarazione. Il teste deve impegnarsi a dire la verità ed incorre in sanzioni penali in caso di testimonianza falsa o reticente (art 372 cp). Nella prassi è frequente che tale prova sia l’unica via per provare determinati fatti. Si tratta però di una prova non troppo affidabile, non solo perché si basa sulla memoria del terzo (che spesso deve riferire su fatti molto risalenti nel tempo), ma anche perché i testimoni indicati dalle parti spesso non sono equidistanti dalle stesse, e potrebbero avere interessi a non dire il vero. Rispetto a tale prova, l’apprezzamento del giudice dev’essere prudente (116 I co.), specie quando il teste riporta circostanze apprese da altri, o da una delle parti in causa (le cui dichiarazioni non hanno valore probatorio concreto). Il legislatore, muovendo da una comprensibile diffidenza nei confronti della prova in esame, l’ha gravata di una serie di limiti, ancorché non rigidi, che sono il frutto della codificazione di regole di esperienza. 83. LIMITI SOGGETTIVI A parte i casi in cui il teste ha la facoltà o l’obbligo di astenersi dal deporre (art 29 , rinviante alle norme del cpp in tema di segreto professionale, d’ufficio o di stato), agli artt. 246-248 il codice prevede 3 limiti soggettivi alla prova testimoniale: 1. L'incapacità di testimoniare per coloro che abbiano nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio 2. divieto di testimoniare per il coniuge, parenti e affini in linea retta ammessi a testimoniare nelle sole cause vertenti su questioni di Stato preparazione personale o relativi a rapporti di famiglia 3. divieto di testimoniare per i minori di 14 anni, sentiti solo quando la loro audizione è necessaria in particolari circostanze i limiti sub 2 e 3) sono venuti meno a seguito di due interventi della cc (1974 e 1975), la quale ha ritenuto irragionevole escludere a priori la testimonianza del coniuge e dei parenti e quella dei minori, sì da impedire pregiudizialmente al giudice di valutarne l'attendibilità, pur considerando la qualità dei soggetti da cui proviene. L’unica limitazione residua è l’ipotesi sub 1), che discende dalla necessaria terzietà del testimone. L'art 246 allude non già ad un qualunque interesse di fatto no ma i casi in cui il teste, pur non essendo parte nel processo potrebbe diventarlo, essendo titolare di un rapporto giuridico che gli consentirebbe di intervenire volontariamente o essere chiamato nel giudizio. 84. LIMITI OGGETTIVI Le limitazioni oggettive sono più importanti e numerose. Si riferiscono ai fatti su cui la testimonianza è esclusa, ovvero è ammessa solo dietro certe condizioni. Tali limitazioni riguardano la prova per testi dei contratti e attengono ai rapporti con la prova documentale, ovviamente preferita dal legislatore. 1. Il limite è più significativo e più rigido riguarda i casi in cui, mediante la testimonianza, dovrebbe provarsi l'esistenza di un contratto per la cui validità si richieda la forma scritta (es.: un contratto traslativo di diritti reali immobiliari per cui ex art 1350 cc si esige che la stipulazione avvenga per atto pubblico o scrittura privata). L’atto scritto è necessario ad substantiam per la validità stessa del rapporto e l'unica eccezione all'esclusione della prova testimoniale è prevista nel caso in cui questa mira a dimostrare che il contratto era stato effettivamente concluso per iscritto e che il contraente ha, senza sua colpa, perso il documento che gli forniva la prova (2724 n.3 cc). un limite analogo è superabile alle stesse rigide condizioni sia nei casi in cui l'atto scritto sia richiesto non ad substantiam ma ad probationem, cioè per provarne l'avvenuta stipulazione (v. art 1888 cc in tema di assicurazione; art 1967 cc per la transazione). dal punto di vista della inammissibilità della prova testimoniale, tali casi sono disciplinati identicamente a quelli precedenti, ma la differenza poggia su altri aspetti : in questi casi non essendo nullo il contratto concluso oralmente, la sua stipula potrebbe provarsi in altro modo (con confessione o giuramento). 2. Sempre per la preferenza accordata alla prova documentale, gli artt 2722 e 2723 cc Limitano la testimonianza che abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. Qualora si assuma che la stipula di tali patti è stata anteriore o contemporanea alla formazione del documento, la prova per testi è senz'altro esclusa. Ciò perché il legislatore reputa a priori inverosimile, in tali casi, che nella stesura del documento non si sia tenuto conto di tali patti (seppur per farne oggetto di un separato documento: es. nel caso della simulazione le contro dichiarazioni riguardanti l'effettiva volontà delle parti). qualora tali patti siano stati stipulati dopo la formazione del documento, il giudice può ammettere la prova per testi solo se, considerando la natura delle parti del contratto e di ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state compiute aggiunte o modificazioni verbali. 3. Un limite più flessibile è quello riguardante il valore del contratto. L'art 2721 cc prevede che la prova per testi non si ammetta quando il valore del suo oggetto superi le 5000 lire (2,58€). è un importo ormai irrisorio, in conseguenza della svalutazione monetaria. L'inconveniente è superato dal II co. dello stesso art, laddove si consente comunque al giudice di ammettere la testimonianza al di là di tale limite, tenendo conto della qualità delle parti, natura del contratto e ogni altra circostanza. a fianco a tali limitazioni (talune già di per sé non assolute), il legislatore ha dato vita a delle eccezioni, id est ipotesi in cui la prova testimoniale è sempre ammessa in deroga ai precedenti limiti. Le eccezioni ex art 2724 cc ricorrono quando: a. ci sia un principio di prova scritta, definito come un qualsiasi scritto proveniente dalla persona contro cui è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato. In altre parole, un documento da cui può trarsi una prova indiretta ed indiziaria circa il fatto che dovrebbe provarsi per testi. b. il contraente sia nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta. Es. impossibilità morale: esistenza di rapporti familiari o di amicizia tra le parti, che rendano inesigibile la formazione di un documento. c. la parte ha perso senza sua colpa il documento che le dava la prova: è l'unico caso in cui è possibile provare per testi l'esistenza di un contratto per cui l'atto scritto sia richiesto ad substantiam o ad probationem. 85. MODALITA’ DI ASSUNZIONE E DEDUZIONE DELLA PROVA la prova testimoniale, in linea di principio, ricade nella disponibilità delle parti e deve essere richiesta con l'indicazione specifica dei testi e dei fatti, formulati in articoli separati, su cui ciascuno di essi sarà interrogato. l'unico temperamento è dato, nei soli giudizi in cui il tribunale decide in composizione monocratica, dalla possibilità che il giudice - ex officio e formulandone egli stesso i capitoli - disponga la testimonianza di persone a cui le parti si sono riferite nell'esposizione dei fatti, e che appaiano in grado di conoscere la verità. La cc, investita dei dubbi di incostituzionalità legati al fatto che l'art 281-ter fosse inapplicabile nelle cause attribuite al collegio, ha dichiarato inammissibile (poiché irrilevante) la questione, muovendo dal fatto che il potere ivi previsto non si eserciti dopo che per le parti siano già maturate le preclusioni riguardanti le richieste istruttorie. tale limitazione è poco persuasiva poiché svuoterebbe il predetto art di ogni concreta rilevanza. La preventiva formulazione dei capitoli della prova serve non solo a preavvertire i testimoni dei fatti su cui dovranno riferire, ma a valutare l'ammissibilità e la rilevanza della prova stessa. Originariamente l'art 244 permetteva al giudice di assegnare discrezionalmente alle parti un termine perentorio per l'integrazione di tali indicazioni. Nella prassi, tale possibilità era usata per correggere l'iniziale impostazione della prova, ritenuta lacunosa dal giudice (es.: per la genericità dei fatti con essa articolati). La novella del 1900 l’ha inopportunamente soppressa, introducendo un elemento di rigidità nella fase di deduzione della prova, che in taluni casi può essere tutt’altro che semplice, e ciononostante incontra un limite tendenzialmente insuperabile nelle preclusioni dell’attuale art 183. Con l’ordinanza di ammissione, il giudice può eliminare dalla lista dei testi, oltre agli incapaci di testimoniare ex art 246, anche quelli semplicemente sovrabbondanti. La parte che aveva indicato i testi, può rinunciare alla loro audizione solo a condizione che alla rinuncia aderiscano le altre parti e vi acconsenta il giudice (art. 245, applicazione del principio di acquisizione della prova). Una volta che la prova sia stata ammessa, la parte interessata ha l'onere di provvedere alla citazione dei testi. deve chiedere all'ufficiale giudiziario che intimi ai testi (mediante un atto scritto che viene loro notificato nei modi consueti, cioè o direttamente in mani proprie del destinatario o tramite il servizio postale o in busta chiusa e sigillata), almeno 7 gg prima dell'udienza fissata, di comparire in quest'ultima, indicando il luogo, il giorno e l'ora, nonché il giudice che dovrà assumere la testimonianza e la causa a cui essa si riferisce. limitatamente ai testimoni ammessi su richiesta delle parti private, a tale adempimento può provvedere direttamente il difensore senza avvalersi dell'ufficiale giudiziario, inviando una copia dell'intimazione con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, oppure a mezzo pec o telefax. Qualora la parte onerata non provveda all'intimazione, decade dalla prova e la decadenza è dichiarabile d'ufficio (salvo il giusto motivo per l'omessa citazione). l'altra parte (quella che non aveva chiesto l'assunzione del teste non citato) può evitarla, dichiarando di essere interessata all'audizione del testimone, ulteriore applicazione del principio dell’acquisizione della prova. Il testimone ha l'obbligo di comparire anche quando risieda più o meno lontano dal luogo in cui si svolge il processo. Le deroghe riguardano esclusivamente i casi in cui egli sia nell'impossibilità di presentarsi ovvero ne sia esentato dalla legge o convenzioni internazionali: solo in tali casi si prevede che il giudice si rechi ad assumere la deposizione presso l'abitazione o l'ufficio del teste, ovvero deleghi il giudice del luogo. All'infuori di tali deroghe, se il teste regolarmente citato non si presenta, il giudice può ordinarne una nuova intimazione o l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva, e può anche contestualmente condannare il teste ad una pena pecuniaria tra i 100 ed i 1000€. sì, nonostante la sanzione, il teste omette nuovamente di comparire senza giustificato motivo, il seconda attiene alle ipotesi in cui non sono propriamente rapporti diversi, ma relazioni tra un singolo diritto ed il rapporto giuridico complesso dal quale si origina (ad es.: il diritto del venditore al pagamento del prezzo, sul piano logico dipende – come il diritto dell’acquirente alla consegna del bene – dall’esistenza e validità del contratto di compravendita; ed il diritto del locatore al pagamento della pigione dipende dall’esistenza e dalla validità del contratto di locazione). Ciò premesso, mentre la dottrina prevalente ritiene che il principio ex art 34 debba applicarsi in entrambe le situazioni ed il giudicato investa esclusivamente il singolo diritto dedotto in giudizio, senza estendersi al rapporto sottostante (salvo domanda di accertamento incidentale ad esso relativa), alcuni autori circoscrivono l’art 34 alla sola pregiudizialità tecnica e ne deducono che nei casi di pregiudizialità logica il giudicato copra anche le questioni concernenti l’esistenza, la validità ed i modo di essere del rapporto fondamentale, alla duplice condizione che: a. tali questioni, in quanto controverse, siano state effettivamente discusse nel giudizio in cui s’è formato il giudicato (e ciò dovrebbe implicare che rimangano impregiudicate in caso di contumacia di una delle parti) b. la loro risoluzione sia stata un elemento portante della decisione, ponendosi in rapporto di causa-effetto rispetto ad essa. La seconda condizione può rivelarsi limitativa quando si tratti di un giudicato di rigetto della domanda. Serve rammentare quanto detto circa il diverso ambito che può avere la cognizione del giudice, a seconda dell’accoglimento o rigetto della domanda. Poiché la sent di rigetto può fondarsi o sull’inesistenza di un qualunque fatto costitutivo o sull’esistenza di un qualunque fatto impeditivo, estintivo o modificativo – accogliendo la teoria testé esposta, i limiti oggettivi del giudicato risentiranno del motivo (cioè della specifica questione che ha determinato il rigetto della domanda. Es.: la sent con cui il giudice ha dichiarato prescritto il diritto del compratore alla garanzia per i vizi della cosa non potrà far stato, nel successivo giudizio ove la stessa compravendita sia dedotta a fondamento di una diversa azione sull’esistenza, validità o qualificazione del contratto, es. la garanzia per evizione). la tesi ora esposta, che appare meno distante dalla tradizionale rispetto alle posizioni della giurì dominante, hai il vantaggio di arginare il rischio di giudicati gravemente contraddittori relativi allo stesso rapporto giuridico, evitando che dopo una prima sentenze di accoglimento della domanda del compratore volta ad ottenere la consegna del bene, lo stesso compratore convenuto dal venditore in un successivo giudizio per il pagamento del prezzo si difenda invocando la nullità della compravendita. Tale tesi non è priva di inconvenienti, poiché presuppone che il giudicato si formi non solo sull'esistenza o inesistenza del diritto dedotto in giudizio, ma anche sui motivi che hanno spinto il giudice all'accoglimento o rigetto della domanda (ciò può portare a conseguenze incongrue, tenendo conto del concreto interesse che ciascuna parte potrebbe avere a contestare i presupposti logici della decisione). che i motivi della decisione possono assumere rilievo nel ricostruire i concreti limiti del giudicato, lo si è detto a proposito dei limiti cronologici e per quanto riguarda l'effetto conformativo del giudicato rispetto ai rapporti giuridici dipendenti. Invece, nell'attuale prospettiva i motivi conducono ad estendere il giudicato oltre i confini segnati dalle domande delle parti. Per comprendere meglio l’ultimo rilievo, ecco un es.: l'attore chiede il rilascio dell'immobile locato, sostenendo che il termine della locazione sia scaduto, e il conduttore si difende allegando l'intervenuta tacita riconduzione del contratto. Se il giudice accoglie la domanda sulla base della prospettazione dell'attore, per il convenuto non sarebbe conveniente impugnare in virtù del fatto che nel mentre è scaduto (o è prossimo a scadere) l'ulteriore termine che deriverebbe dalla rinnovazione del contratto. In base all’opinione in esame, si ritiene che il passaggio in giudicato di tale decisione faccia stato pure sull'esistenza, validità e modo di essere del rapporto fondamentale e quindi anche sul momento in cui questo è cessato. è inevitabile dedurne che il conduttore avrà interesse ad impugnare solo per scongiurare il rischio che la sent possa eventualmente arrecargli un pregiudizio irrimediabile in relazione ad altri diritti, derivanti dal medesimo rapporto, che il locatore dovesse vantare nei suoi confronti. Es.: nella seguente giudizio ove egli chieda il risarcimento danni per la ritardata restituzione dell'immobile. la tesi che poggia sulla distinzione tra pregiudizialità tecnica e logica è più vicina alle posizioni della giuri dominante, che talora riprende la stessa distinzione e intende in termini molto ampi l'operare del giudicato nei successivi giudizi aventi ad oggetto il medesimo rapporto giuridico. si afferma che qualora 2 giudizi tra le stesse parti abbiano ad oggetto un identico rapporto giuridico, il giudicato formatosi in uno, accertante una situazione giuridica o risolto una questione o di fatto di diritto comune, preclude il riesame del punto accertato nell’altro giudizio, pur se instaurato per finalità diverse del primo. Rispetto alla cautela della dottrina, la giuri sembra più disinvolta nell'estendere i limiti del giudicato, poiché spesso lascia intendere che la sua autorità, circa il rapporto giuridico oggetto del giudizio, investa implicitamente la soluzione di qualunque questione di fatto o di diritto che abbia costituito una premessa indispensabile della decisione (antecedente logico- giuridico necessario). in altre decisioni si dice invece che il giudicato implicito non può riguardare le questioni che sono state mere premesse logiche della decisione, non oggetto di apposita disamina del giudice. Va sottolineato che spesso la nozione di giudicato implicito non si utilizza per estendere l'oggetto dell'accertamento al rapporto sottostante, ma fu per proteggere la concreta utilità che a talune delle parti sia derivata da un anteriore giudicato, evitando che venga vanificato dalla deduzione di questioni nuove che avrebbero potuto e dovuto trovare ingresso nel precedente giudizio. In questi casi il principio invocato dalla giuri è un'accorta applicazione di quello per cui il giudicato “copre” il dedotto ed il deducibile. N.B. La nozione di giudicato implicito è impiegata dalla giuri anche in senso diverso, cioè per ricollegare ad una decisione di merito l'implicita affermazione della sussistenza dei presupposti processuali (es. della giurisdizione) oppure per dedurne che, qualora il giudice abbia violato l'ordine logico di decisione delle questioni (es. risolve una questione di merito prima di una di rito) , La relativa pronuncia contenga anche una decisione implicita sulla questione indebitamente accantonata. Da ciò si fa discendere l'onere della parte soccombente di proporre impugnazione anche nei confronti di tale pronuncia implicita, per evitare che su di essa si formi il giudicato. 149. IL C.D. “FRAZIONAMENTO” DELLA DOMANDA Ultimamente si discute molto circa la possibilità di frazionare in più processi una domanda (solitamente di condanna) relativa ad un diritto di credito che sembri unitario. Es.: il lavoratore chieda in un primo giudizio il pagamento di alcune soltanto delle mensilità della retribuzione già scadute, per poi agire separatamente per le altre; oppure il danneggiato promuove una pluralità di processi chiedendo in ciascuno il risarcimento di diverse voci del danno subito (quando si tratta di responsabilità derivante da un incidente stradale, in un primo momento del danno riportato all'autovettura e poi anche del danno alla sua persona). il problema affonda le proprie radici sul piano sostanziale: servirebbe stabilire quando si configuri un diritto di credito effettivamente unitario. Se lo si considera esclusivamente dal punto di vista dei limiti del giudicato, l'orientamento prevalente è nel senso che il frazionamento non sia precluso anche in virtù del principio per cui l'oggetto del processo (e conseguentemente del giudicato) si determina in base alla domanda. Dunque, nel proporre la domanda, l’attore potrebbe circoscrivere l'oggetto del giudizio ad una parte soltanto del credito, salva la possibilità di agire in futuro per la parte residua, a condizione che siano oggettivamente individuati e distinti – sul fronte delle rispettive causae petendi - il diritto dedotto in giudizio e quello cui si riferisce la riserva di azione successiva. tale condizione non sarebbe soddisfatta qualora l'attore, assumendo di vantare un credito risarcitorio derivante da un incidente stradale, proponesse la domanda per un determinato importo e si riservasse di chiedere in un successivo giudizio un'ulteriore somma. In molti casi i tale comportamento dell'attore potrebbe dipendere da esigenze pratiche o da legittime opzioni connesse all'individuazione dello strumento processuale più comodo. Es.: l'ipotesi in cui per una parte soltanto del credito ci sia una prova documentale che permette all'attore di utilizzare il procedimento per ingiunzione in luogo di quello ordinario a cognizione piena; il danneggiato dal sinistro stradale proponga separati giudizi per il ristoro dei danni materiali e di quelli da invalidità temporanea o permanente, sapendo che l'accertamento degli ultimi richiede un'istruttoria più lunga e complessa, o perché i danni alla persona non sono ancora compiutamente determinabili poiché non c'è stata ancora piena guarigione. è anche vero che spesso, specie in alcune materie, il fenomeno è divenuto patologico, derivando esclusivamente dall'intento del difensore dell'attore di moltiplicare i giudizi per lucrare i relativi onorari. ne è prova il fatto che, in materia previdenziale, il legislatore è intervenuto con una disposizione ad hoc (art 20 co. 7 e 8 del d.l. n. 112/2008, conv. Nella l.n. 133/2008) che prevede l'obbligatoria riunificazione delle più domande che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio. per reprimere comportamenti così riprovevoli e dannosi, in considerazione della crisi della giustizia civile, a partire da una decisione delle SU del 2007 (Ove erano stati promossi distinti procedimenti ingiuntivi a fronte di distinte fatture, quindi si dubitava dell'esistenza di un credito unitario), la giuri più recente li conduce al c.d. abuso del processo, ravvisandosi una violazione dei principi del giusto processo, di correttezza e buona fede, deducendovi l'inammissibilità di tutte le domande frazionate, a meno che non ci sia un interesse oggettivamente apprezzabile che giustifichi tale scelta processuale dell'attore. In tal senso, una sent delle SU del 2017 ha sottolineato che nulla impone all'attore di cumulare in un unico processo le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, ancorché derivanti da un unico rapporto di durata. La verifica dell’interesse oggettivamente valutabile si impone quando tali diritti di credito siano inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato, o fondati sul medesimo fatto costitutivo. Quest'ultima precisazione pare alludere alle domande di risarcimento danni derivanti da uno stesso fatto illecito. Un caso in cui la giuri ha ravvisato un interesse oggettivo al frazionamento e quella in cui l'attore chieda un decreto ingiuntivo per la parte di credito documentalmente provata ed utilizzi il processo ordinario per la parte residua. in assenza di una disposizione ad hoc, non pare che la violazione di tali principi possa pregiudicare l'esame nel merito della causa (posto che la conclusione del processo in merito è un evento eccezionale, proprio alla luce del canone costituzionale del giusto processo) o possa determinare, qualora si arrivi al giudicato su taluna delle domande indebitamente frazionate (il problema non si pone se le domande frazionate sono dichiarate tutte inammissibili: in tal caso nulla impone all’attore di riproporre un’unica domanda per l’intero credito), la definitiva compromissione del diritto d'azione rispetto alle altre, tanto che se così fosse il predetto art 20 sarebbe inutile. non è lecito ammettere che l'ammissibilità delle domande frazionate sia subordinata ad una valutazione giudiziale sulla meritevolezza dell'interesse perseguito dall'attore. tenuto conto delle esigenze pratiche che potrebbero rendere opportuna una siffatta opzione processuale, ciò si tradurrebbe in una limitazione del diritto d'azione dai contorni incerti, in gradi di investire situazioni estranee al problema di partenza (il frazionamento più o meno artificioso di un credito unitario). Ad es.: si potrebbe dubitare della inscindibilità di una domanda limitata alla condanna generica, oppure problema si presenta solo quando tale collegamento si atteggi in termini di dipendenza. Nel senso che l'esistenza o inesistenza del diritto del terzo annoveri tra i propri fatti costitutivi o impeditivi o estintivi o modificativi, l'assistenza o inesistenza del diritto su cui si è formato il giudicato tra le parti. Es.: la posizione dell'ente previdenziale rispetto al giudicato che abbia accertato l'esistenza o inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra certi sogg; oppure al caso in cui il notaio che è arrogato un certo contratto per atto pubblico si è chiamato a rispondere dei danni derivanti dalla nullità di tale contratto, dichiarata in un giudizio in cui egli è rimasto estraneo. in entrambi i casi sono situazioni che avrebbero consentito l'intervento del terzo nel giudizio, volontario o coatto. la distinzione tra le diverse situazioni non è sempre netta e pacifica. Ad es.: se per un verso si è soliti inquadrare i creditori nella categoria dei sogg interessati solo in via di fatto al giudicato che coinvolga il loro debitore, in virtù delle ripercussioni che tale giudicato può avere sul patrimonio di quest'ultimo, è anche vero che il creditore - allorché abbia pignorato un bene del debitore - è titolare di un diritto (quello di espropriare il bene stesso per soddisfare il proprio credito), che sul piano sostanziale presuppone l’appartenenza del bene al debitore e che potrebbe essere giuridicamente pregiudicato dalla sent che, pronunciandosi verso il debitore stesso ed un altro sogg, accerti che il bene pignorato è di proprietà di quest’ultimo. Un'altra categoria di terzi che merita autonoma menzione è quella degli aventi causa, cioè coloro che hanno acquistato a titolo derivativo da una delle parti lo stesso diritto oggetto del giudicato, ovvero un diverso diritto che da quello si origini. la loro posizione ricade nella seconda delle situazioni illustrate, essendoci una dipendenza giuridica dal diritto del loro dante causa. la particolarità è che essi, al pari degli eredi, sono espressamente ed indistintamente assoggettati ,ex art 2909 cc, all'autorità del giudicato inter partes (salva la possibilità di impugnare il giudicato stesso con l'opposizione del terzo ex art 404). Tenuto conto che gli acquisti avvenuti nel corso del processo sono disciplinati ex art 111, è preferibile ritenere che l'art 2909 si riferisca solo agli aventi causa il cui acquisto si sia compiuto successivamente al giudicato contro il dante causa (si parla di successori post rem iudicatam) e che, argomentando a contrario, Non si produca alcuna efficacia pregiudizievole verso coloro i quali hanno acquistato il diritto controverso, o un diverso diritto da questo dipendente, prima dell'inizio del processo nei confronti del loro dante causa. 152. SEGUE: LE DIVERSE TEORIE SUI LIMITI DELL’EFFICACIA RIFLESSA Quanto ai limiti e alle condizioni per cui l’efficacia riflessa della sent possa prodursi nei confronti di terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti da quello oggetto del giudicato, le opinioni sono piuttosto divergenti. Una prima tesi (liebman) sostiene che si debba distinguere tra l’efficacia della sent cui sarebbero soggetti anche i terzi, e l’autorità del giudicato che varrebbe per le sole parti. I terzi sarebbero virtualmente vincolati dalla sent inter alios ma, non subendo l’incontrovertibilità del giudicato, potrebbero sempre rimettere in discussione l’accertamento in essa contenuto, laddove incidesse negativamente su di un loro diritto. questa impostazione solleva più d’una obiezione, specie quando sottintende un’efficacia naturale della sent, svincolata dal passaggio in giudicato, ed è comunque superata dalla dottrina più recente. Le soluzioni che si contendono il campo sono 3: A. opinione propugnata già sotto il cc del 1865, che vede tra i suoi massimi sostenitori Pisani e Carpi, muove dal presupposto che la riflessione degli effetti della sent verso i terzi sia un fenomeno normale quando si tratti di terzi titolari di una situaz giuridica che dipende, sul fronte sostanziale, da quella oggetto della decisione inter partes. alla dipendenza sostanziale s’accompagna una dipendenza processuale, nel senso che l’accertamento del rapporto dipendente risente dell’accertamento del rapporto pregiudiziale. B. Seconda opinione, non meno diffusa (Montesano, monteleone) reputa che l’efficacia riflessa ultra partes abbia, all’opposto, natura eccezionale, potendosi ammettere solo in presenza di una disposizione di legge ad hoc. Al di fuori di tali casi, il collegamento sostanziale tra due rapporti giuridici facenti capo a soggetti diversi non basterebbe a spiegare perché l’accertamento giudiziale del rapporto dipendente dovrebbe conformarsi alla sent riguardante il rapporto pregiudiziale inter alios C. La terza opinione (Luiso), infine, è un compromesso tra le soluzioni antitetiche pocanzi prospettate (seppur appaia più vicina alla tesi B). l’efficacia riflessa può manifestarsi verso i terzi non solo in forza di una disposizione ad hoc, ma anche quando la sostanziale di dipendenza tra il diritto del terzo e quello oggetto del giudicato inter alios corrisponda ad una dipendenza c.d. permanente. La situazione soggettiva che fa capo al terzo dipende dall’esistenza del diritto controverso tra le parti non solo nella sua fase genetica, quando viene in vita (es.: chi acquista a titolo derivativo un diritto reale di godimento da chi sembra proprietario della res), ma anche successivamente, risentendo delle vicende estintive o modificative che possono interessare – sul piano sostanziale – il rapporto inter alios da cui essa si origina. La fattispecie positiva più vicina a tale schema è quella ex art 1595 cc, in caso di sublocazione; nonché nelle ipotesi di subcontratto. Si ritiene che il diritto del subcontraente implichi l’esistenza di quello del contraente principale (suo dante causa) non solo all’atto della stipula, ma anche nel prosieguo del rapporto. difatti, l’annullamento o la risoluzione del contratto base travolge anche il subcontratto. In tali casi, il fatto che la sent intervenuta tra le parti del rapporto principale abbia efficacia riflessa verso il subcontraente ad essa estraneo, si spiegherebbe in virtù della peculiare dipendenza che caratterizza il rapporto derivato sul piano strettamente sostanziale. Il diritto positivo non offre argomenti decisivi in favore di nessuna delle 3 tesi. Alcune norme del cc, per il vero, farebbero propendere per la tesi sub A), presupponendo una naturale estensione degli effetti del giudicato in sfavore del terzo, pur se attenuata dalla possibilità di avvalersi di difese o eccezioni non dedotte in giudizio dalle parti. V. ad es. l’art 1485 circa il caso in cui l’acquirente abbia subito l’evizione in un giudizio ove non ha partecipato il venditore-garante; l’art 2859 quanto alla posizione del terzo acquirente di un’immobile ipotecato, quando il creditore abbia agito contro il solo debitore, dopo la trascrizione del titolo di acquisto del terzo. Gli artt. 24 e 28 cpp, inoltre, prevedevano che il giudicato penale, nel proc civile o amm, godesse di un’ampia efficacia riflessa ultra partes, e tali norme vennero dichiarate illegittime negli anni '70, per contrasto col diritto di azione e di difesa. Proprio l’art 24 cost. , unito al principio del contraddittorio tutelato dal nuovo art 111 cost., porta ad escludere che, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (nel qual caso si deve capire se l’eccezione sia giustificabile alla luce dei principi rammentati), il terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente da quello oggetto del giudicato tra le parti subisca l’efficacia riflessa di una sent a lui sfavorevole. In forza del valore tendenzialmente assoluto del giudicato, può solo ammettersi che l’accertamento del rapporto pregiudiziale sia invocabile dal terzo, se a lui favorevole. Rispetto a questa soluzione, coincidente con quella della tesi sub B), neppure l’opinione intermedia sub C) sembra persuasiva, quantomeno per la spiegazione che offre circa le ipotesi di dipendenza c.d. permanente. Nella fattispecie ex art 1595 cc (più in generale, quelle rientranti nello schema del subcontratto) non sembra corretto affermare che l’accertamento della cessazione del contratto di locazione principale sia efficace verso la sublocazione (rapporto dipendente), travolgendolo. Sul piano sostanziale, il diritto di natura processuale scaturente dal contratto di sublocazione non può neanche dirsi dipendente dall'esistenza o validità del contratto di locazione (di cui il sub conduttore potrebbe anche ignorare l’esistenza). Laddove venga meno quest'ultimo, il sub conduttore a cui si è impedito di continuare a godere del bene, potrà agire per il risarcimento danni contro il sub locatore inadempiente nei suoi confronti. alla luce di tale rilievo, l’ult. co. art 1595 (v. testo) non è un fenomeno di efficacia riflessa del giudicato (estensione ultra partes dell'accertamento del rapporto oggetto della decisione) ma riguarda l'efficacia esecutiva della sent, precisando che il sub conduttore, titolare di un diritto personale derivante da un rapporto obbligatorio cui il locatore principale è estraneo, non ha alcun titolo per contrastare l'esecuzione forzata che questi dovesse eventualmente promuovere verso il primo conduttore ai fini del rilascio dell'immobile. anche al di fuori dei casi di sublocazione, il terzo che si trovi nella detenzione del bene di cui è stato ordinato il rilascio si può opporre all'esecuzione della sent solo se vanti un diritto autonomo rispetto a quello su cui è stata pronunciata la sentenza inter partes. l'opinione in esame ritiene di spiegare con lo schema della dipendenza permanente anche i rapporti tra la responsabilità della società in nome collettivo e quella dei soci, giungendo ad affermare che la sent di condanna pronunciata verso la società produca effetti contro i singoli soci: non solo sul piano dell'accertamento ed in via riflessa, impedendogli di rimettere in discussione l'esistenza del debito sociale, ma persino consentendo la diretta aggressione dei rispettivi patrimoni, seppur dopo infruttuosa escussione del patrimonio sociale. tali conclusioni non sono condivisibili poiché si risolverebbero in un'indebita estensione soggettiva degli effetti della sent, che non ha niente in comune con l’art 1595. Infatti, il socio può subire pregiudizi o vantaggi, in via di fatto, dalla sent resa nei confronti della società, per i riflessi che può determinare sul patrimonio sociale; ma se il creditore sociale pretende di rivalersi direttamente nei suoi confronti (situazione diversa da quella ex art 1595, ove manca una relazione sostanziale diretta tra locatore e sub conduttore), ha la posizione di un qualunque debitore solidale, che pur quando risponde come garante di un debito altrui e sia titolare di un obbligo dipendente dall’esistenza dell’obbligazione principale, non può essere vincolato dal giudicato sfavorevole intervenuto verso un altro coobbligato. la giuri, pur affermando spesso a livello di obiter dictum la tesi tradizionale, difficilmente ammette che il giudicato vincoli terzi titolari di situazioni dipendenti (una delle rare eccezioni è una sent della Cassaz del 2012, per cui la condanna al risarcimento danni pronunciata verso il responsabile di un sinistro statale, farebbe stato per l'assicuratore della responsabilità civile, estraneo al giudizio, in virtù della sussistenza dell'obbligo risarcitorio del danneggiante), optando piuttosto per una situazione di compromesso per cui la sent, lungi dal vincolare i terzi per l’accertamento in essa contenuto, sarebbe utilizzabile solo per il suo valore di La dottrina aveva rimarcato l’irrazionalità di tale limitazione, considerando che la parte vittoriosa può avere interesse ad una correzione immediata della sent (specie se di condanna immediatamente esecutiva) senza dover attendere la conclusione del giudizio di secondo grado. l'inconveniente è stato risolto dalla CC, dichiarando illegittimo il 287 per contrasto con l’art 24, nella parte de qua si riferisce alle sole sent contro cui non sia stato proposto l’appello. 156. IL PROCEDIMENTO DI CORREZIONE Il procedimento di correzione, cui la giuri attribuisce natura meramente amministrativa, è piuttosto semplice. In quanto rimedio diretto ad estrinsecare e rendere manifesto il contenuto effettivo della decisione, è impensabile che il suo esperimento sia sottoposto a qualunque limite temporale. La conferma giunge da una pronuncia della cc, che ha ritenuto illegittimo il 391 bis nella parte in cui aveva previsto un termine perentorio per la correzione delle pronunce della cassazione. Circa le modalità, si deve distinguere: se la correzione è chiesta concordemente e congiuntamente, basta che il giudice vi provvede con decreto; se il ricorso è proposto da una sola delle parti, il giudice fissa un’udienza di comparizione con decreto notificato al difensore con procura delle parti (o direttamente a queste se costituite di persona oppure, trattandosi di una sent, sia decorso un anno dalla sua pubblicazione), e poi provvede con ordinanza notidicata alle parti a cura del cancelliere, ed annotata sull’originale del provvedimento corretto. L’ult. co. art. 288 stabilisce che le sentenze siano impugnabili, relativamente alle parti corrette, entro il termine (a seconda dei casi, 30 o 60 gg) decorrente dalla notificazione dell’ordinanza di correzione. Il che, se per un verso implicitamente esclude che quest’ultima sia autonomamente impugnabile, per altro si traduce in una sostanziale rimessione in termini, allorchè la sent corretta sia passata in giudicato, nel frattempo. Il superamento dei termini ordinari dovrebbe essere consentito solo quando l’impugnazione tardiva servisse a far valere l’illegittimità della correzione, ma non è possibile escludere che quest’ultima, facendo emergere una soccombenza non immediatamente percepibile dal testo originario del provvedimento corretto, consenta l’impugnazione anche per vizi riguardanti il contenuto della decisione. La correzione delle sent di cassazione è disciplinata in modo apparentemente autonomo, rinviando agli artt. 365-ss., cioè le norme che governano l’ordinario giudizio di cassazione. Una particolare ipotesi di correzione-integrazione è prevista rispetto ai provvedimenti istruttorii che non contengano la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro cui le parti debbano compiere determinati atti. L’art 289 permette a ciascuna delle parti di chiederene l’integrazione – e al giudice di disporla ex officio – entro il termine perentorio di 6 mesi, decorrente dall’udienza in cui il provv è stato reso, o dalla sua notificazione, laddove prescritta. L’integrazione spetta al presidente del collegio, se il provv è collegiale, o al giudice istruttore negli altri casi; è disposta con decreto, da comunicarsi a tutte le parti a cura del cancelliere. L’inutile discorso del suddetto termine perentorio estingue il processo ex art 307 III co. CAPITOLO XVI LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE SEZIONE I NOZIONI GENERALI 157. VIZI DELLA SENTENZA E MEZZI DI IMPUGNAZIONE: RILIEVI INTRODUTTIVI Secondo la distinzione tradizionale, i vizi da cui può essere affetto un provvedimento giurisdizionale sono di 2 categorie, a seconda che discendano da violazione di norme disciplinanti l’attività delle parti e del giudice (errores in procedendo), ovvero riguardino il contenuto stesso della decisione, in relazione alle conclusioni cui è pervenuta vuoi quanto alla ricostruzione dei fatti, vuoi quanto all’individuazione e all’interpretazione delle norme giuridiche ad essi applicate (errores in iudicando). I vizi del primo tipo possono produrre l’invalidità del provvedimento: propria, se causata dal difetto di elementi formali o extraformali della stessa decisione (es.: la sent priva di motivazione o emessa da un giudice costituito irregolarmente); derivata, quale conseguenza dell’invalidità di un atto pregresso, ex art 159 I co. (es. la sent che si fondi su una prova invalidamente assunta, o pronunciata nonostante la nullità non sanata dell’atto introduttivo), ovvero dal fatto che il giudice ha deciso il merito della causa in assenza di presupposti processuali (es. sebbene fosse privo di giurisdizione o competenza). La seconda categoria di vizi può determinare l’ingiustizia della decisione, difforme rispetto alle conclusioni che si sarebbero tratte da una corretta valutazione delle prove e/o dall’esatta applicazione delle norme sostanziali pertinenti alla fattispecie. A livello terminologico, la distinzione torna utile, pur se è meno netta ad univoca di quanto sembri. È infatti possibile parlare di una terza categoria intermedia di vizi in iudicando de iure procedendi: consistono nell’errore sull’(in)sussistenza di un presupposto processuale, o in ordine alla possibilità di pervenire alla trattazione della causa (es. il giudice si è erroneamente ritenuto incompetente o privo di giurisdizione). in astratto, nulla impedisce di immaginare un sistema ove la decisione del giudice, specie quando pronunciata al termine di un giudizio a cognizione piena e con le più ampie garanzie per le parti, sia sottratta a qualunque rimedio. Se a ciò aggiungiamo che la possibilità dell’impugnazione, quale strumento per rimediare agli errori del giudice, stride con la certezza e stabilità dei rapporti giuridici (alla base del giudicato), deve convenirsi che l’individuazione del punto di equilibrio tra tali esigenze confliggenti è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Ciò non esclude che alcuni principi costituzionali condizionino le scelte legislative. Un primo ordine di limiti deriva dal comb. Disp. Artt. 3 II co. e 24 I e II co. cost., traducendosi nel dovere di coerenza interna del sistema positivo: il principio di eguaglianza, letto in parallelo col diritto d’azione e di difesa, impedisce di discriminare irragionevolmente, sul fronte dell’impugnazione, situazioni e/o vizi sostanzialmente analoghi. Un secondo limite discende dal principio del contraddittorio (24 II co e 111 II co cost.): impone che la parte danneggiata, in qualunque stato e grado del processo, da un vizio (in procedendo) suscettibile d’incidere sull’effettività del contraddittorio o di peggiorare la posizione processuale della parte stessa, abbia sempre un rimedio concretamente idoneo a far valere la nullità ed ottenere la revisione della sentenza che ne è affetta. L’assenza di un simile rimedio potrebbe persino legittimare un ricorso alla corte EDU, nei casi più gravi, per violazione del diritto ad un equo processo, ex art 6 CEDU. Infatti la cc ha dovuto affrontare, seppur con riguardo al processo penale, l’ipotesi del giudicato nazionale formatosi a seguito di un processo ritenuto non equo dalla corte EDU, ampliando le ipotesi di revisione previste dal cpp. Prescindendo da tali limiti, non è un caso che tutti gli ordinamenti moderni prevedono un sistema più o meno articolato d’impugnazioni, specie riguardo a provvedimenti che decidono il merito della causa, generalmente consentono quantomeno un doppio grado pieno di giurisdizione: riconoscono alle parti la possibilità, dopo una prima sent, di denunciarne qualunque vizio ad un secondo giudice munito di poteri analoghi al primo, per ottenere una nuova decisione che sostituisca, in tutto o in parte, la prima. Nulla può assicurare che questa sarà migliore o peggiore di quella impugnata, giacchè non è affatto detto che il giudice ad quem (quello dell’impugnazione) sia più bravo del giudice a quo (quello del provvedimento impugnato). Tale argomento è spesso utilizzato come motivo di critica del sistema del doppio grado di giurisdizione. In concreto, la maggiore attendibilità della sentenza del giudice ad quem deriva dal fatto che decide per secondo, in una posizione più vantaggiosa poiché gli consente di occuparsi, solitamente, di un minor numero di questioni (solo quelle riproposte dalle parti), e di valutare criticamente l’operato del primo giudice, anche alla luce delle censure evidenziate dall’impugnante. Indipendentemente dall’ampiezza dei poteri del giudice ad quem, ogni razionale sistema d’impugnazione è orientato verso una progressiva selezione e riduzione delle questioni deducibili, destinata a rendere sempre più remota, pur senza poterla mai escludere in assoluto, l’eventuale caducazione della decisione. 158. TIPICITA’ E CLASSIFICAZIONE DEI MEZZI D’IMPUGNAZIONE È pacifico, sebbene implicito nel codice, che i rimedi ammessi verso provvedimenti giurisdizionali abbiano natura tipica e nominata, ammessi nei soli casi previsti dalla legge. il legislatore ha creato un sistema articolato e organico di impugnazioni (talora dette anche gravami) esclusivamente per le sentenze, cioè provvedimenti con una certa stabilità e normalmente idonei ad acquisire l’autorità del giudicato. Quanto ad ordinanze e decreti, sebbene non manchino ipotesi in cui sono ammessi rimedi simili a quelli per le sentenze (es. un reclamo, rispetto ai decreti resi in camera di consiglio e alle ordinanze cautelari, o persino l’appello per l’ordinanza che definisce il procedimento sommario) o aventi una funzione analoga (es. le opposizioni previste contro il decreto ingiuntivo o quello pronunciato ai sensi dell’art 28 l.n. 300/1970),il principio è quello della non impugnabilità indipendentemente dal contenuto e dal fatto che sia o no revocabile e modificabile. Limitandoci ai soli mezzi d’impugnazione delle sent aventi carattere generale, essi sono: appello, ricorso per cassazione, opposizione di terzo e regolamento di competenza. all’elenco deve aggiungersi (in quanto dà vita ad un processo nuovo e autonomo) la c.d. actio nullitatis, cioè l’azione di accertamento negativo eccezionalmente ammessa verso la sentenza priva della sottoscrizione del giudice. Classificazione delle impugnazioni. A) ORDINARIE E STRAORDINARIE È una distinzione correlata alla nozione di giudicato formale, ex art 324. Sono ordinarie le impugnazioni che impediscono che la sentenza passi in giudicato, cioè l’appello, il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza, e limitatamente ad alcuni dei motivi per cui è ammessa, la revocazione (in tali casi detta “ordinaria”).
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