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riassunto - breve storia della scrittura e del libro - Fabio Massimo Bertolo, Schemi e mappe concettuali di Storia della Letteratura

riassunto - breve storia della scrittura e del libro - Fabio Massimo Bertolo accademia di belle arti di catania

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 08/05/2024

mari-1998
mari-1998 🇮🇹

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Scarica riassunto - breve storia della scrittura e del libro - Fabio Massimo Bertolo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia della Letteratura solo su Docsity! IL PAPIRO La pianta cyperus papirus dalle cui fibre si ricava il supporto di scrittura, il nome ritorna anche in molte lingue europee per indicare la carta: papier in francese, paper in inglese, papel in spagnolo, papier in tedesco. I greci chiamavano la pianta byblos, nome che ricorda la città fenicia di Biblo, da cui i greci importarono l’uso del papiro intorno al VII sec a.C, tale nome ritorna anche nelle parole relative al libro come bibliografia, biblioteca e bibliofilia. La pianta veniva utilizzata anche per fabbricare cesti, ghirlande per gli dei, indumenti, cordami, per preparare unguenti, era anche commestibile e nutriente e dotata di proprietà terapeutiche per curare gli occhi. Il fusto costituisce il materiale base per la preparazione dei fogli, attraverso procedimenti che si sono tramandati dall’Egitto (III sec a.C.) all’antichità greco-romana, documentata dalla descrizione di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia), liberato dalle foglie e scortecciato lo stelo veniva tagliato in sottili strisce (philyrae) in media da 18 a 25 strisce per fusto, che venivan9o poi sovrapposte una accanto all’altra in due o più strati perpendicolari tra loro su un piano duro e bagnato sfruttato come colla. Poi veniva essiccato al sole e tagliato. I fogli ottenuti detti plagulae in latino e kollemata in greco, larghi tra 11 e 30 cm e alti tra 16 e 24 cm (I sec d.C.), diversi anche per qualità e colore. Venivano esposti in vendita ed espostati in rotoli commerciali solitamente di 20 fogli (tomos) erano confezionati con una pasta di farina e aceto sull’orlo verticale leggermente sovrapposto, la misura della giuntura o kollesis variava da 2 a 5 cm. Nei rotoli greci il foglio che segue appare inserito sotto quello che precede e il contrario avviene invece per i i rotoli degli scribi demotici. Secondo il papirologo inglese Eric G. Turner (1977) si tratta di una disposizione solo apparentemente diversa legata al diverso senso di scrittura, la scrittura demotica infatti avanza da destra verso sinistra. IL ROTOLO O VOLUMEN Incollando insieme più rotoli si producevano rotoli della lunghezza adeguata alla lunghezza del testo da cpntenere (tra i 2,5 e i 12 metri). Il volumen definito dall’azione di avvolgimento e srotolamento (volvere) costituisce il libro dell’antichità classica sia greca sia romana. ricordiamo due frammenti greci, uno ritrovato in una tomba ad Abousir vicino Menphis in Egitto e contenente alcuni versi della tragedia I Persiani di Timoteo di Mileto databile alla fine del IV sec a.C. ; l’altro di contenuto religioso trovato nel 1962 nella tomba di un guerriero a Derveni, a nord-ovest di Tessalonica. Nel mondo romano la sua adozione fu più tarda, favorita dall’espandersi della cultura greca e come bottino di guerra, di grandi biblioteche ellenistiche, prima di tutte quella di Perseo re dei Macedoni sconfitto a Pidna nel 168 a.C. da Lucio Emilio Paolo. All’interno del rotolo la scrittura corre parallela alle fibre orizzontali che avvolgevano il tracciato del calamo, cioè della cannuccia vegetale tagliata in punta per favorire il passaggio dell’inchiostro. Il testo era diviso in colonne (in greco selides) composte da un numero di linee (versus in latino, stikoi in greco). La copia avveniva solo su una faccia del papiro, è rarissima la presenza di rotoli opistografi cioè scritti su entrambe le facce, attraverso il computo delle linee trascritte (sticometria) si calcolava il compenso dovuto allo scriba che variava a seconda del tipo e della qualità della scrittura. Il rotolo veniva imbevuto di essenze profumate (olio di cedro, di mirra o di croco) per proteggerlo dall’umidità e dagli insetti e dargli lucentezza e colore (volumina odorosi). Avvolto intorno all’ umbilicus od omphalos (un bastoncino di legno, osso o avorio) per facilitare l’arrotolamento e permettere la presa attraverso l’estremità (cornua) sporgente oltre i margini (frontes), il volumen poteva mostrare, sulla faccia esterna del suo folgio iniziale, il nome dell’autore e il titolo dell’opera. Tale foglio denominato protocollo, la sua funzione però non era di contenere il titolo (spesso collocato in fondo o a lato della colonna finale sull’ultima plagula denominata escatollo o agraphon) ma di proteggere il primo foglio dall’usura. Il titolo e il nome dell’autore potevano essere scritti su un cartellinopendente (titulus, index, sillybos) di papiro, pergamena o pelle, e a volte poteva essere anche coloraro come nel rotolo che in un ritratto pompeiano Paquio Proculo stringe nel pugno (Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Nel ritratto di Virgilio sul codice del Vat. Lat. 3867, accanto al poeta seduto sta una grossa scatola cilindrica chiusa da un coperchio e munita di una cinghia per il trasporto. Si tratta della capsa o bibliotheca in cui i rotoli chiusi con dei lacci (lora) e protetti da una fodera di pelle o di stoffa (toga) vengono conservati in posizione verticale. LA BIBLIOTECA DI ERCOLANO Tra il 1752 e il 1754 furono portati alla luce oltre mille papiri dagli scavatori impegnati, per conto di Carlo VII di Borbone, nel recupero di un complesso abitativo costruito intorno alla prima metà del I sec a.C. a nord-ovest di Herculanum, e contengono testi filosofici dell’epicureismo e dello stesso Epicuro (341-270 a.C.) e di Filodemo di Gadara. Filodemo, nato verso il 110 a.C., dopo aver frequentato la scuola epicurea di Atene, è approdato intorno agli anni 80 in italia stabilendondosi nella villa ercolanese di proprietà dell’amico Lucio Calpurnio Pisone Cesonino (suocero di Cesare, console nel 58 e seguace dell’epicureismo). Qui Filodemo sistemò i volumina portati dalla Grecia, risalenti al III-II sec a.C., (studiati da Guglielmo Cavallo,1984) e orgnizzò una sorta di laboratorio funzionale alla sua attività di filosofo e di editore di testi. Ad Ercolano tra i papiri latini spicca il frammento contenente un carme sulla battaglia di Azio del 31 a.C. (Biblioteca Nazionale di Napoli) e furono recuperati in un ambiente diverso da quelli greci. Morto Filodemo nel 25 a.C., l’attività di laboratorio continua fino al I sec d.C. come dimostrato da alcuni rotoli superstiti. Nel 79 d.C. l’eruzione del Vesuvio sommerse di cenere Ercolano, attivando però un meccanismo di conservazione naturale. Questa villa è detta Villa dei Papiri ed è oggi aperta al pubblico. IL FRAMMENTO DI POSIDIPPO Contiene oltre 100 epigrammi del poeta Posidippo di Pella (312-240 a.C.), contemporaneo di Callimaco e della cultura greca detta alessandrina. Il frammento è lungo oltre un metro e mezzo, è stato ricostruito ricongiungendo 22 pezzi che costituivano il protocollo e i primi 9 kollemata del rotolo originario. Databile agli ultimi decenni del III sec a.C., reca in 16 colonne oltre 600 versi, tutti distici elegiaci, suddivisi in 10 sezioni tematiche contraddistinte da un titolo iniziale. In Egitto, nel III-I sec a.C., venivano utilizzati i rotoli come materiale di rivestimento per i cadaveri (cartonnage). I papiri venivano tagliati e inumiditi per restituire loro l’elasticità persa e maneggiarli senza pericolo di rotture, venivano poi pressati, incollati e coperti da un sottile strato di gesso e decorati; è così che i versi del poeta di Pella hanno guadagnato l’immortalità nascosti nel pettorale di un cadavere e dal 1992 sono tornati alla vita grazie all’acquisizione dello spezzone di rotolo da parte del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università degli Studi di Milano. I ROTOLI DI EXULTET Rotoli liturgici illustrati contenenti la preghiera per la benedizione del cero pasquale recitata dal diacono durante la cerimonia del Sabato Santo che inizia con la parola che li definisce exultet iam angelica turba celorum. Sono considerati rotoli speciali per varie ragioni: l’ambito geostorico che ne vide la fioritura limitato alla Longobardia minore; un ricco e specifico ciclo iconografico, laddove i rotoli liturgici mostrano una decorazione molto limitata o del tutto assente; la forte valenza simbolica che li trasforma da strumento di un momento della liturgia a veicolo di messaggi ideologico-politici.; per le modifiche strutturali presenti nella forma adottata. Su 28 rotoli superstiti, sono 25 i rotoli illustrati, di dimensioni tra i 2 e i 9 metri per la lunghezza e i 47 e 13 cm per la larghezza. Il testo è collocato in senso inverso rispetto alle immagini in modo tale che mentre il diacono legge le parole i fedeli possono vedere le immagini che scorrono mentre viene svolto il rotolo. Il sistema dell’inversione, nato a Bari dove lo troviamo per la prima volta adoperato nell’Exultet 1 della cattedrale, databile all’XI sec. Prima e dopo la veglia pas2quale il rotolo veniva esposto per alcuni giorni, una ragione in più per l’uso della pergamena molto spessa (che si era sviluppata nel X sec) per sopportare il peso dell’esposizione prolungata. IL CODICE: FORME ARCAICHE Dal II sec d.C. si sviluppa il codice una forma di libro a pagine da sfogliare. Dalle fonti sappiamo dell’esistenza di alcuni lib ri a soffietto, fatti in tela di lino e destinati ad un uso sacrale. La struttura di tali libri era vicina a quella dei libri lintei del popolo etrusco ricostruibili grazie alla testimonianza dei liber linteus di Zagabria, restituitoci dal bendaggio di una mummia egiziana, si trattava di libri da sfogliare da destra a sinistra non diversi da un codice. Un altro tipo di libro usato nel mondo romano era la tavoletta cerata, cerae, (come quelli abbiamo visto nelle mani della moglie di Paquio Proculo) con testi di carattere documentario e privato, venivano graffiate con un apposito strumento di metallo, osso o avorio denominato stilo. Il termine codex viene infatti usato per indicare un insieme di tavolette congiunte per mezzo di un filo che passava attraverso i fori. A chiarirci forma e funzione dei codici sono anche le testimonianze di Varrone in De vita populi Romani <<antiqui pluris tabulas coniunctas codices dicebant>> e di Seneca in De Brevitate vitae <<plurium tabularum contextus caudex apud antiquos vocatur>>. A Pompei nella casa n.26 della Regione V, insula I, ci troviamo nell’ambiente che ha restituito uno dei più cospicui corpora di tavolette dell’antichità. Provengono infatti oltre 150 tavolette, trovate nel 1875 ed oggi conservate nel Museo Archeologico di Napoli, che costituivano parte dell’archivio del banchiere (o argentarius) Lucio Cecilio Giocondo attivo fino al terremoto del 62 d.C. Queste tavolette sono documenti commerciali, per quanto riguarda la vendita all’asta di schiavi, bestie, mobili, prodotti agricoli, in cui il banchiere fungeva da intermediario tra il venditore e il compratore, datati intorno gli anni 52-60. Le tavolette pompeiane, recuperate nel 1959 nella contrada Murecine dove si estendevano i quartieri mercantili di Napoli, riferibili al periodo 26-61, anch’esse di contenuto documentario, destinate alla conservazione e archiviazione piuttosto che alla diffusione e circolazione. Le varie tavole sono unite a formare dittici, trittici, polittici (tabellae, codicilli, pugillaria), scavate al centro per accogliere la cera e si voltavano come le pagine di un libro. Diversa invece la struttura delle tavolette recuperate nel 1973 durante i lavori di scavo di un forte romano a Vindolanda (moderna Chesterholm) in Britannia, non lontano dal Vallo di Adriano. Si tratta di sottilissime lamine (da 0,25 a 3 mm) ricavate dal legno di alberi di ontano o di betulla, di forma rettangolare e di dimensioni ridotte (16-20 cm x 6-9 cm), con liste di approvvigionamenti alimentari per la guarnigione, conti e documenti militari; i fori sono ancora visibili lungo i bordi superiori e inferiori che inducono a pensare che fossero legati uno con l’altro accostando la parte terminale del primo foglio con la parte iniziale del secondo e poi ripiegati a soffietto o fisarmonica. Una seconda campagna di scavo intorno al 1980 ha recuperato nuovi reperti e altri sono stati trovati in diverse località non lontane dal Vallo, risalenti al I-II sec a.C. in cui l’egemonia del volumen cominciava a essere messa in discussione dal nuovo libro. Nelle cerchie aristocratiche dedite all’otium si leggeva Cicerone e Filodemo di Gadara trascritti in rotoli costosi e il rotolo diventerà nell’iconografia, il simbolo dell’uomo colto, dell’intellettuale, del filosofo, del sapiente; negli ambienti meno colti si preferivano gli epigrammi di Marziale o i romanzi di Lolliano, come ci rivela lo stesso Marziale in piccole tabelle di foratura e la rilegatura. I fori erano presenti sui margini o più raramente all’interno del testo. Solitamente rotondi ma anche triangolari o a forma di intacca o stella, a seconda dallo strumento che li produceva, coltello (scalprum, cultellus), punteruolo (punctorium), compasso (circinus). I fori potevano essere eseguiti secondo diversi procedimenti: fascicolo aperto o chiuso, su fogli singoli o piegati, su più fogli piegati, sui fogli aperti e impilati. Leslie Webber Jones (1944) individuò 8 sistemi, e 12 tipi di fori, quello più usato prevedeva la foratura simultanea dei fogli piegati dell’intero fascicolo. Diverse le modalità di esecuzione presente in manoscritti greci come per esempio Sinaitico (360 ca) e latini come il Virgilio Mediceo. Nella corte di Carlo Magno mentre operava Alcuino (730-804) la foratura prevedeva ambedue i margini del foglio piegato e produceva quattro serie verticali (o regimi) di fori. Il più diffuso metodo di rigatura, impiegato nel mondo bizantino mentre in occidente il suo uso si arresta nel XI sec, fu la cosiddetta rigatura ‘’a secco’’ che veniva eseguita con uno strumento appuntito che non lasciava alcuna traccia sulla superficie se non un leggero solco sul lato a contatto con lo strumento. Era economicamente molto più vantaggiosa perché permetteva di rigare simultaneamente le due facce di un foglio ma anche di trasmettere il tracciato a fogli non toccati dalla punta. In ambito latino la rigatura a secco veniva realizzata secondo due procedimenti che venivano chiamati Old style e New style. I due procedimenti si differenziano soprattutto per il numero di fogli che venivano rigati insieme e per l’orientamento dei solchi. Nel primo, in uso fino all’età carolingia, l’impressione appare eseguita simultaneamente su più fogli, di solito 4 e più raramente 2. Nel secondo, ogni foglio sembra aver subito il contatto diretto con la punta e le carte affiancate presentano uniformità di solchi o rilievi. Per es. I manoscritti di Poggio Bracciolini sono tutti rigati a secco. Veniva utilizzato uno strumento che permetteva di rigare a secco, senza foratura di riferimento, un’intera pagina in un’unica operazione. Si trattava di una sorta di tavola lignea (tabula ad rigandum) su cui erano incollate o incassate in apposite incisioni cordicelle corrispondenti al disegno della rigatura desiderata. Alla rigatura a secco si affiancava la rigatura ‘’a colore’’ eseguita con una sostanza tracciante, mina di piombo o inchiostro nero o colorato. Ci avviciniamo all’età gotica e l’aspetto del libro inizia a cambiare: diminuisce lo spazio tra le righe, aumenta il rapporto nero su bianco (cioè la quantità di testo), si imprigiona il testo dentro la gabbia della rigatura utilizzando il primo rigo come cornice, si preferisce un’impaginazione a doppia colonna che rendeva più facile la lettura dei testi. La rigatura a inchiostro veniva eseguita con una specie di ‘’pettine’’ che permetteva di tracciare contemporaneamente più righe orizzontali, in numero pari ai denti dello strumento o multiplo di essi. Per assicurare la giusta successione dei fascicoli nel libro e dei fogli all’interno dei fascicoli, veniva messo su ognuno di essi un segno distintivo (cifra, lettera o altro) collocato nell’angolo superiore esterno della prima carta per quanto riguarda i codici greci (per es. Sinaitico), mentre nei codici latini veniva collocato nell’angolo inferiore destro dell’ultima carta o al centro della stessa. Un’altra soluzione fu il ‘’richiamo’’ cioè l’indicazione delle prime parole di ogni fascicolo in fondo al verso della carta finale del fascicolo precedente. Ciò però non garantiva perdite e spostamenti di fogli all’interno del fascicolo. Nascono nuovi sistemi di organizzazione dei fogli come la ‘’numerazione a registro’’ associava al segno distintivo della posizione del fascicolo nel libro quello del foglio all’interno del fascicolo, sistema che il codice lascerà in eredità al libro stampa; la cartulazione che numera solo il recto; la paginazione diventa frequente solo nel XV secolo. 2 CAPITOLO: LA SCRITTURA LATINA La scrittura nel mondo è ormai una ed è universalmente comprensibile, ma non fu sempre così. Nel periodo tardoantico e durante il Medioevo, una particolare grafia veniva usata per un determinato tipo di testo e non per altri. Vi sono scritture documentarie e scritture librarie, scritture usate soltanto per i testi biblici, o liturgici, o patristici, e scritture legate soltanto alla produzione universitaria di un determinato luogo ad esempio littera Parisiensis o littera Bononiensis per i prodotti che uscirono dalle officine librarie delle università di Parigi e Bologna. La paleografia latina si occupa della scrittura latina, nata alla fine del 600 con lo scopo di decifrare, datare e localizzare i documenti medievali, notevolmente arricchitasi grazie ai contributi della scuola germanica e anglosassone, francese e italiana. La paleografia insegna a riconoscere i diversi segni alfabetici e a sciogliere i compendi (cioè le abbreviazioni), permette di individuare le diverse scritture e di collocarle nello spazio e nel tempo assegnandole ad una determinata regione o epoca, illustra il cammino percorso dal sistema grafico. Osserva il sorgere di nuovi filoni e il loro consolidarsi in canoni (scritture che obbediscono a determinate regole) e in tipi (scritture che caratterizzano per un periodo la produzione di una determinata area) e il loro superamento sotto la spinta di tendenze grafiche. Essa si occupa di tutte le testimonianze scritte indipendentemente dal loro supporto (pietra, intonaco, papiro,pergamena, carta) e dalle loro finalità (testi letterari, documenti, conti, appunti). Secondo Pasquali (1931) la paleografia è una ‘’scienza dello spirito’’ perché è capace di riconoscere in una particolare scrittura la manifestazione di un popolo. TERMINOLOGIA La paleografia ha una propria terminologia tecnica. Va innanzitutto distinta una scrittura maiuscola e una minuscola: nel primo caso l’alfabeto è compreso da due rette parallele che non vengono oltrepassate, nel secondo caso da due rette parallele interne (mediane) entro le quali sono iscritti i nuclei delle lettere e da due rette parallele esterne che comprendo le aste verticali ascendenti e discendenti. Si parla di alfabeto normale per indicare il modello a cui si rifanno gli scriventi di ogni epoca e che giunge loro attraverso l’insegnamento; usuale invece per indicare la scrittura utilizzata per i bisogni della vita quotidiana, nella quale avvengono i mutamente grafici provocati dalla tendenza a scrivere in modo veloce e agevole. Si distingue la scrittura elementare insegnata dall’educazione scolastica; professionale usata per l’esercizio di una professione (notaio, copista, mercante); cancelleresca elaborata sulla base della usuale nelle cancellerie. Riguardo al tasso di velocitò abbiamo una corsiva e una posata nella misura in cui la scrittura risponde all’esigenza della mano o dell’occhio, che tende a rendere in modo chiaro e leggibile il segno delle lettere. La forma o disegno costituisce l’aspetto esteriore della lettera; il tratteggio con cui si indicano il numero, la successione e la direzione dei tratti costitutivi di una singola lettera; il modulo o formato fa riferimento alle dimensioni delle singole lettere o del complesso della scrittura; ductus o tracciato indica il grado di velocità con cui la scrittura viene tracciata (‘’posato’’ se la scrittura è diritta e povera di legamenti, ‘’corsivo’’ se è inclinata e ricca di legamenti). Legatura o legamento indica il tracciato spontaneo e naturale che unisce tra loro due o più lettere senza che lo strumento scrittorio venga sollevato; il nesso consiste nella fusione di segni alfabetici, per cui lettere continue hanno almeno un tratto in comune. Scriptio continua indica quando il testo non è interrotto da spazi bianchi o segni di interpunzione; parola scritta indica l’unità significante comprensiva di lettere ed abbreviazioni. PERIODIZZAZIONE La paleografia latina copre un arco di tempo che va dall’inizio del VI sec a.C. ai primi decenni del XVI dell’era cristiana, quando la diffusione della stampa e la scolarizzazione contribuirono a uniformare il modello di scrittura. Il primo periodo corrisponde a una fase unitaria della scrittura e va dalle origini alla conclusione della tarda antichità (VI sec); esso può essere a sua volta suddiviso in un primo momento (periodo romano) che vede il dominio della sola maiuscola, ed un secondo momento che vede il passaggio alla minuscola e la coesistenza dei due sistemi. In questa seconda fase la scrittura greca convive insieme a quella latina. Nel VI sec si assiste allo smembramento di tale unità in concomitanza con la generalizzata decadenza delle strutture scolastiche, la diminuzione degli scambi culturali tra le province, la scomparsa del sistema di produzione librario legato all’antichità classica. Nel IX sec si avviò un processo di ritorno all’unità che si verificò in due tappe: la prima fino all’XI sec e vede il progressivo espandersi della nuova scrittura dal centro dell’Impero verso le aree periferiche e il suo lento imporsi sulle resistenze regionali; la seconda (XI-XII sec) si assiste alla completa unificazione europea della scrittura, la carolina. Segue il periodo della gotica (XII-XIV sec), la scrittura si adatta alle esigenze delle nuove realtà culturali e religiose rappresentate dalle università e dagli ordini mendicanti e predicatori, dall’altra si modella in funzione dei nuovi gruppi urbani scriventi, notai e mercanti. Nella metà del XIV sec, la crisi antigotica porta alla formazione di un manifesto per il ritorno all’antico, un ritorno che si imporrà solo oltre la metà del 400 in concomitanza dell’invenzione della stampa. LE ORIGINI DELLA SCRITTURA LATINA L’alfabeto romano porta con sè le tracce visibili delle civiltà che influenzarono quella latina: quella greca e quella etrusca. La successione dei segni alfabetici così come si stabilizza nel I sec a.C. è sostanzialmente quella dell’alfabeto greco (sebbene non nel medesimo ordine che ebbe ad Atene nel 403 a.C., al tempo dell’arconte Euclide) con alcune varianti che caratterizzano anche quello delle colonie occidentali. L'intermediazione etrusca, affermata esplicitamente da Tacito negli Annales e da Tito Livio, per la quale anticamente i fanciulli romani andavano ad apprendere le lettere etrusche, così come ci si recava in Grecia ad apprendere il greco, è necessaria a spiegare il sistema delle velari latine, più articolato rispetto a quello greco che portò alla creazione nel III sec a.C. della G e l’uso della lettera greca coppa (Q). Agli etruschi di deve anche il recupero di un segno per la fricativa labiodentale sorda, la nostra F. Gli esempi più antichi di scrittura latina sono testimoniati da: il cippo di pietra (lapis niger) rinvenuto nel Foro Romano lungo il cammino di una via sacra (la via Iani) che reca una scrittura bustrofedica e databile intorno al 600 a.C.; la lamina bronzea di Lavinio del VI sec a.C. recante con una scrittura sinistrosa una dedica ai Dioscuri Castore e Polluce; il vasetto di Duenos del V sec a.C. Tra IV e III sec a.C., nella successione alfabetica derivata dal modello greco, il posto della Z (che era sconosciuta al latino ed il suono era reso con la doppia S) era occupato dalla G, inventata nel III sec da Spurio Carvilio (il primo che aprì a Roma una scuola elementare) che aggiunse un segno diacritico alla C. ciò avvenne nel periodo in cui andava nascendo a Roma una letteratura in lingua latina per imitazione di quella greca. Nel 282, durante la guerra tarantina, l’influsso greco divenne sempre più forte e portò alla coniazione di nuove parole nelle quali dovevano essere trascritti dal greco dei segni sconosciuti all’alfabeto latino. L'uso di segnare le doppie, secondo la testimonianza di Festo riferita da Ennio, pare sia intervenuto per influsso greco a partire dal II secolo. PRIMO PERIODO: FASE UNITARIA PERIODO ROMANO Per la prima fase abbiamo solo testimonianze epigrafiche, dove l’alfabeto mantiene sostanzialmente le sue forme arcaiche. Alla metà del III secolo risalgono alcune modificazioni avvenute per l’influsso diretto della scrittura epigrafica greca. I fattori più importanti furono: regolarità di allineamento e di impaginazione, uniformità di modulo e di disegno, geometrizzazione delle forme con tendenza a privilegiare angoli retti e sezioni di cerchio, inesistenza di elementi corsivi. La scrittura ufficiale, di cui i primi esempi di qualche rilievo sono le epigrafi funerarie degli Scipioni e l’epigrafe commemorativa della battaglia di Pidna, tese a canonizzarsi secondo le norme dell’epigrafe greca e giunge a compimento solo nel I sec d.C. Si ha allora completa geometrizzazione delle forme sempre vicine a sezioni di cerchio o angoli retti, modulo e disegno uniformi, chiaroscuro costante, aste verticali oblique. Le parole che Plauto mette in bocca, nell’opera Pseudolus, all’etera Fenicio per rimproverare lo spasimante che le ha inviato un biglietto del tutto incomprensibile (<< An, opsecro, hercle habent gallinae manus? Nam has quidem gallina scripsit>>), sono la prova che l’uso della scrittura era abbastanza comune in fasce sociali diverse e che tale scrittura poteva essere tracciata in maniera corsiva (‘’scritta dalle zampe di una gallina’’). Le testimonianze più antiche mostrano un alfabeto che ricorda l’alfabeto greco arcaico, dove colpisce la forma della A, derivante da quest’ultimo, con traversa obliqua. Si tratta di scrittura eseguita a sgraffio con lo stilo su materiale duro o su tavolette di cera, in condizioni quasi impossibili per tracciare tratti retrogradi e difficoltà a tracciare tratti orizzontali, di grande facilità e agilità quelli discendenti (si riscontra nei graffiti di Pompei del I sec d.C.). La scrittura corsiva evolve e si differenzia nel tempo, tra una corsiva eseguita a sgraffio su materiale duro o tavolette cerate (‘’a polso levato’’) e una corsiva eseguita a inchiostro (‘’a polso posato’’). Le due tecniche di scrittura sono diverse per supporto tecnico e per strumento scrittoio, ma appartengono alla medesima realtà, che Cencetti definisce ‘’due varietà di atteggiamento di una medesima scrittura usuale’’ (1993). In graffiti pompeiani dell’età sillana vi è la presenza di due elementi nuovi, che saranno tipici della corsiva romana, la B cosidetta ‘’a pancia sinistra’’ e la D in forma ‘’preminuscola’’. La presenza di curve innaturali nella tecnica a sgraffio si giustifica ipotizzando che tale evoluzione sia avvenuta su papiro e dopo sia stata trasferita nella scrittura a sgraffio. La maiuscola corsiva era impiegata per gli usi quotidiani e più personali (conti, scritture d’affari, appunti, lettere), per la scrittura di testi letterari venne usata la capitale libraria. Essa consiste nella trasposizione su papiro del modello della capitale epigrafica, di cui conserva la separazione delle lettere, l’andamento verticale, l’uniformità di modulo e la totale assenza di elementi corsivi. L'uso di uno strumento morbido (il calamo), sensibile alla pressione della mano, determina la presenza di un chiaroscuro molto accentuato e la riduzione degli angoli in linee curve. Sono giunti fino a noi frammenti della capitale libraria dal I sec d.C. alla metà del VI, dopo questa data la capitale cessò di essere usata per la scrittura di interi codici, ma se ne mantenne l’uso per evidenziare parti di testi (incipit, explicit), nel IX sec venne ripresa nei centri scrittori dell’Impero carolingio. Fino al III sec fu l’unica grafia usata nella scrittura dei libri, dal IV in poi convisse con altre scritture che la influenzarono e ne fecero cambiare la forma delle lettere verso forme più rigide e spontanee, come quella che si vede in alcuni codici di Virgilio conservati alla biblioteca Vaticana (i cosiddetti Romano e Palatino, rispettivamente Vat. lat. 3867 e Vat. lat. 1631). Tra V e VI sec appartengono due manoscritti virgiliani, l’Augusteo e il Sangallese, scritti in una capitale chiamata elegante, che consiste nell’imitazione su codice di modelli lapidari di età imperiale. Questo tipo di capitale è visibile in una molteplicità di epigrafi soprattutto a Roma, fu imitata per evidenziare incipit, explicit, capitula e parti del testo. LE ORIGINI DELLA MINUSCOLA Durante l’età di Diocleziano (284-305) la scrittura compie un’evoluzione che porta alla formazione di un sistema minuscolo, la forma delle lettere si è modificata rispetto all’alfabeto normale. Secondo la Scuola Francese (Jean Mallon, Robert Marichal, Charles Perat) tale processo sarebbe inziato almeno un secolo prima, quando vi fu il passaggio dal rotolo al codice. Il codice per la sua natura, e dunque per la possibilità di essere poggiato su un sostegno rigido invece che sulle ginocchia (come avveniva per il rotolo) avrebbe indotto ad una naturale rotazione del foglio, la cui rigatura non si sarebbe trovata in linea con le spalle dello scriba ma perpendicolare alla proiezione del calamo sul foglio. La diversa collocazione del supporto rispetto allo strumento scrittoio provoca un diverso orientamento dei tratti più grossi e di quelli sottili contribuendo a rendere minuscole le forme in precedenza maiuscole. La tesi però non ha convinto la Scuola Italiana (Cencetti e Armando Petrucci). abbreviazioni sono Ihrslm per Iherusalem o srhl Isrl per Israhel. La visigotica fu usata fino alla fine del XI sec, quando cominciò a essere contaminata dalla carolina, finchè venne sostituita da questa e poi dalla gotica verso il XII sec. Verso la metà del X sec vi fu la differenziazione dei segni che indicano due diversi suoni che ha il gruppo ti (duro/sibilato) se è seguito o no da vocale (entrambi presenti nella parola iustitia. Nella Marca Hispanica, corrispondente all’attuale Catalogna, nel IX sec, la scrittura visigotica (di cui in realtà si può soltanto ipotizzare l’uso in quanto non ci sono testimonianza certe) risentì in maniera sempre più forte l’influsso della carolina che arrivò a soppiantarla del tutto entro la fine dello stesso secolo. ITALIA La vicenda italiana fu segnata in maniera decisiva dall’invasione dei longobardi, un popolo che al suo arrivo in Friuli nel 568 non usava la scrittura. In una lettera del 593 indirizzata alla regina Teodolinda Papa Gregorio Magno ritrae la situazione del tempo, in cui presenta un’Italia romana e cattolica caratterizzata dalla presenza di legentes che si contrapponeva ad un’altra Italia, longobarda e ariana, terra di non legentes. Ciò nonostante continuarono ad esserci luoghi di produzione manoscritta, non sempre legati alla presenza di uno scriptorium, attivi soltanto per la mera imitazione delle scritture di codici antichi. La corsiva nuova continuò a essere impiegata in molte parti d’Italia per la scrittura di documenti e spesso anche per testi di carattere letterario. L’uso di onciale e semionciale è riconoscibile la produzione dello scrittorio della cattedrale di Verona, caratteristica per compendi tipici come ma per misericordia. Nell'VIII sec uno dei centri più fecondi fu Lucca, dove accanto alla corsiva dei documenti prodotti per il locale episcopato e a scritture ‘’semicorsive’’ usate per i libri, si trovano grafie straniere come la visigotica, dovuta probabilmente alla passeggera presenza di scribi fuggiti dalla penisola iberica in seguito alle persecuzioni islamiche. Nel monastero di Bobbio, fondato da San Colombiano nel 612, furono prodotti in un primo momento solo codici in insulare ad opera di monaci irlandesi o forse vi furono portati da pellegrini che andavano a visitare la tomba del santo fondatore. Dopo una breve fase in cui fu adoperata una corsiva di tipo italiano, a partire dll’850 circa, quest’ultima fu sostituita dalla carolina dal momento in cui il monastero, sotto l’abate franco Wala, aderì alla riforma monastica di Benedetto d’Aniane. L'esistenza di uno scriptorium a Nonantola è legata alle vicende dell’Italia meridionale. La minuscola di Nonantola è un’elegante calligrafizzazione della corsiva nuova di cui conserva alcune caratteristiche (la aperta a forma di doppia c) e legamenti (ci, ri, ti, tu, ecc..), si riconosce una Q maiuscola di notevoli proporzioni e tracciata in forma simile a 2. A Roma e nei ducati di Napoli, Amalfi e Sorrento, sulla base della corsiva nuova si formarono scritture documentarie oggi definite curiali (ma anche curialesca a Napoli). A Roma venne usata dapprima soltanto per la documentazione ecclesiastica. La curiale si presenta come una scrittura di modulo più grande della coeva corsiva nuova, con una tendenza alla rotondità. Tale aspetto potrebbe rappresentare un tentativo di imitazione della scrittura di documenti imperiali di Bisanzio ed è visibile in particolare nell’esecuzione di alcune lettere: la a aperta che somiglia a ω, la Q simile ad un 2. Alla fine dell’VIII sec anche in Italia meridionale, sulla base della corsiva nuova, si formò una scrittura usata nell’intera Langobardia minor, che può considerarsi una scrittura nazionale e viene chiamata beneventana. Si caratterizza come scrittura che raggiungerà un proprio canone nel X sec, con una forma particolare di alcune lettere (a, e, r, t). Proprio come nella visigotica, la beneventana presenta due segni differenti a seconda che il suono ti sia duro o assibilato. La storia della beneventana può in parte identificarsi con le vicende dell’Abazia di Montecassino, il più importante centro di irradiazione culturale del Mezzogiorno italiano nei secoli da Paolo Diacono all’abate Desiderio. I primi passi della scrittura protobeneventana si possono scorgere nel periodo che precede la distruzione del monastero per opera dei Saraceni (883) e il raggiungimento del canone nel momento in cui i monaci cassinesi si trovavano in esilio a Benevento, al tempo in cui questa città era governata dalla potente dinastia longobarda di Capua e da poco Montecassino era stata ricostruita. La beneventana presenta due caratteristiche tipiche e una è il fenomeno cosiddetto ‘’cordellato’’ che consiste nella spezzatura come in due piccole losanghe sovrapposte i tratti verticali delle lettere i, m, n, u, h; l’altro riguarda i tratti orizzontali di e, f, g, r, t, eseguiti in modo da formare un unico tratto pieno e continuo che attraversa intere parole. La storia della beneventana può identificarsi per un certo periodo con quella di Montecassino, da cui la beneventana cassinese, fu ampiamente usata in scritti laici, in uso librario e documentario, dopo aver raggiunto il canone ed essersi diffusa in quasi tutta l’Italia meridionale, trovò a Bari una diversa tipizzazione, la beneventana barese che caratterizzò la produzione pugliese durante XI e XII sec. La beneventana documentaria, tracciata con penna di volatile o calamo a punta sottile, è caratterizzata dall’accentuato contrasto tra il corpo delle lettere molto piccolo e le aste molto sviluppate. TERZO PERIODO: IL RITORNO A UNA FASE UNITARIA LA CAROLINA Tra VIII e IX sec, vi fu il sorgere in diversi centri scrittori della Francia nord-orientale e della Renania di una minuscola libraria dal tracciato sottile e dalle forme eleganti con tendenza ad eliminare le varianti e a rifiutare i legamenti corsivi, cui le lettere e le parole sono separate le une dalle altre. Poiché compare nel periodo e negli ambienti di corte di Carlo Magno questa minuscola è stata chiamata carolina. Il ruolo di Carlo Magno e della sua corte (in particolare Alcuino di York) è stato fortemente ridimensionato nel tempo, così come è stata abbandonata l’ipotesi di un’origine romana della carolina, rivelatasi inconsistente per quanto riguarda le testimonianze (non si conoscono codici prodotti a Roma in carolina all’inizio del IX sec). Tra le tesi avanzate e poi abbandonate è quella della cosiddetta ‘’poligenetica’’ (la carolina nacque contemporaneamente in più luoghi); un’altra è quella dell’immagine di un pendolo che oscilla tra due estremi rappresentati da semionciale e corsiva, nel momento in cui si ferma rappresenta la nascita della carolina; un’altra vede nella nuova scrittura lo strumento per la gestione di un feudalismo, laico ed ecclesiastico Il tentativo di individuare le prime tracce di carolina in alcune sottoscrizioni a documenti dei primi sovrani carolingi non ha avuto fortuna, in quanto scritture ben ordinate sul rigo e dal tracciato elegante e rotondo si trovano anche prima del IX sec, basti pensare alla Bibbia prodotta a Corbie per l’abate Mordrammo tra il 772 e il 780. Nel monastero di san Martino di Tours (dove fu abate Alcuino) si ebbe negli ultimi anni dell’VIII sec la ripresa della semionciale. In questo scrittorio si procedette a una completa revisione filologica del testo biblico: si trattava di un’operazione che secondo le intenzioni di Carlo e Alcuino avrebbe riportato alla purezza del testo biblico, in accordo con alcune prescrizioni imperiali (l’ Admonitio generalis del 789, con cui si disponeva che i testi sacri fossero copiati soltanto da monaci adulti, emendati e interpunti correttamente, rinnovata dall’imperatore nell’805 e da Ludovico il Pio nell’816, e l’Epistola de litteris colendis del 784. San Martino fu la culla della nuova scrittura o il centro della sua diffusione a partire dai primi decenni del IX sec. I centri scrittori che in quei decenni adottarono la carolina sono quelli dove si sentiva l’esigenza di una migliore preparazione grammaticale e di conseguenza furono create apposite scuole. Proprio in queste situazioni (per esempio l’abbazia di San Pietro a Corbie) è stato possibile verificare l’importanza che veniva attribuita alla grammatica e alla corretta separazione delle parole. All'epoca di Carlo Magno la carolina era diffusa nei centri scrittoti imperiali. In questo periodo essa procede alla riduzione di poche varianti superstiti (da tre tipi di a ad una sola a di origine onciale, la N maiuscola scompare del tutto) all’eliminazione dei legamenti. Nel IX sec si diffuse in scrittori della Francia, della Germania meridionale, della Rezia, della regione del lago di Costanza e dell’Italia settentrionale. Continuò la propria espansione fino a giungere nel XI sec a conquistare territori di quasi tutta l’Europa di lingua latina. I motivi che portarono all’unificazione: l’avanzare della riforma gregoriana in tutta la Chiesa occidentale; l’espandersi del monachesimo riformato primo cluniacense e poi cistercense; l’intensificarsi dei pellegrinaggi sul cammino di Santiago de Compostela; la partecipazione delle truppe franche alla Reconquista spagnola. Anche della carolina è possibile seguire l’evoluzione che vede la scrittura raddrizzarsi (il fenomeno è visibile nella schiena della a) e arricchirsi di nuovi segni abbreviativi, per esempio la nota in forma di 7 per la congiunzione et o la r a forma di 2 con segno abbreviativo per la sillaba –rum, aumenta il numero di abbreviazioni sullo stesso rigo che arriva fino a 5-7 e poi a 10. Tra XI-XII sec compare un segno diacritico sulla doppia i per distinguerla dalla u e fa la prima apparizione un piccolo segno obliquo alla fine del rigo che indica che una parola continua nel rigo successivo. La minuscola diplomatica assume nei documenti un aspetto slanciato a causa delle aste particolarmente sviluppate in altezza in contrasto con il corpo delle lettere di modulo piccolo e si arricchisce di elementi ornamentali come fiocchi e ghirigori. LA GOTICA Mentre in una vasta area dell’Italia centrale (Roma, Lazio, Umbria, e parte delle Marche) si era diffusa la minuscola romanesca, soprattutto nell’Europa del Nord (Francia, Paesi Bassi, Belgio e Inghilterra meridionale) si ebbero cambiamenti di rilievo: è qui che si assiste al passaggio dalla carolina alla gotica che verrà chiamata dai contemporanei littera textualis. La forma delle lettere non cambia rispetto alla carolina, ma è diversa la tecnica di esecuzione a causa dell’adozione di una nuova penna di volatile tagliata obliquamente con il rebbio di sinistra più lungo di quello di destra, già usata nelle isole britanniche, che produce un chiaroscuro evidente e rende difficoltosa l’esecuzione delle curve che risultano spezzate e conferisce alla scrittura un aspetto pesante e compatto, assai diverso da quello fluido e piacevole del periodo precedente. Le prime manifestazioni della nuova scrittura si notano in alcuni dei tituli (molto simili a partecipazioni di morte) presenti nel rotolo mortuario dell’abate Vitale di Savigny. Verso la metà del XII sec la gotica si diffuse velocemente in tutta europa. La maniera moderna, così definiscono la gotica i dotti del Trecento e Quattrocento in contrapposizione con la carolina che chiamano antiqua. Il forte chiaroscuro imposto dal nuovo strumento scrittorio e il minor spazio lasciato tra una lettera e l’altra che risultavano strettamente attaccate tra loro, l’uso di trattini di attacco in alto a sinistra e in basso a destra, l’accentuata spezzatura delle curve e l’angolosità dei tratti, la riduzione delle aste superiori e dei tratti discendenti, la ricomparsa delle varianti per alcune lettere (come per es. La lettera s), tutto ciò conferiva un’aspetto di compattezza alla scrittura. Le regole di Meyer : Quando una lettera che termina con curva convessa a destra (come la o) è seguita da una lettera che inizia con curva convessa a sinistra (come la c) le due curve vengono sovrapposte; Se una lettera termina con curva convessa a destra (come la o) è seguita da r, questa viene tracciata nella forma simile a 2; Di preferenza viene usata la d nella forma con asta coricata a sinistra (simile all’antica d onciale) quando essa è seguita da lettera che inizia con curva convessa a sinistra (come e). Ne veniva fuori un tipo di scrittura che da una parte si presentava come successione di blocchi scuri e compatti, dall’altra risultava eseguita da piccoli e veloci tratti di penna, per la quale la gotica venne definita scrittura al tratto, poteva essere sfruttata per eliminare spazi superflui all’interno della ‘’parola scritta’’, norma aggiunta da Stefano Zamponi (1988) a quelle di Meyer col nome di regola dell’elisione, fa sì che quando l’ultimo tratto di una lettera termina sulla linea superiore di scrittura e la lettera che segue presenta un tratto di attacco sulla linea superiore di scrittura, il tratto di attacco viene eliso. Vennero creati nuovi segni e inventati nuovi espedienti per suddividere e organizzare meglio il testo sulla pagina: segni paragrafali di diverso tipo, lettere ingrandite, alternanza di inchiostro e colori (blu e rosso). All'inizio del XII sec si andava abbandonando lo studio monastico costituito dalla lectio di un singolo libro biblico alla volta cui seguiva la ruminatio , cioè una meditazione interiore del libro sacro dall’inizio alla fine. Il nuovo metodo scolastico fu fatto dai nuovi ordini mendicanti (francescani) e predicatori (domenicani). In Italia (Toscana, Emilia, Padania) si sviluppò un particolare tipo di gotica molto più armoniosa e di modulo più grande, con scarsissimo sviluppo delle aste e dei tratti discendenti e meno ricca di abbreviazioni, a cui viene dato il nome di rotunda. A questo tipo appartiene anche la textualis scritta a Bologna nell’ambito dello studium (littera Bononiensis) che è molto diversa da altre gotiche universitarie a cominciare da quella di Parigi (littera Parisiensis). Dalla rotunda italiana si sviluppò verso la metà del XIV sec un particolare tipo di gotica, di modulo molto grande e con lettere abbondantemente spaziate tra loro, che fu usata principalmente per la confezione di libri liturgici e fu detta gotica corale. LE ABBREVIAZIONI NEL TARDO MEDIOEVO La tecnica compendiaria dell’età scolastica si basa sul principio che ogni abbreviazione è costituita essenzialmente da due parti: la scrittura alfabetica di una parte del vocabolo abbreviato (elemento semantico del compendio) e l’artificio destinato a segnalare il carattere compendiario della scrittura (elemento simbolico del compendio). Si parla di abbreviazioni effettuate per troncamento e per contrazione in forma ‘’pura’’ quando l’elemento semantico è costituito dalle prime e dalle ultime lettere della parola (ad esempio coe = commune, epla = epistula), in forma ‘’impura’’ o ‘’mista’’ quando oltre a quelle vengono espresse altre lettere (ad esempio aia = anima, caplm = capitulum , oio = omnino, pbr = presbiter, pna = penitentia, ppls = populus, sba = substantia). Gruppi sillabici ricorrenti alla fine di particolari sostantivi, avverbi o forme verbali cominciarono ad essere abbreviati sempre con lo stesso compendio; per esempio –ato indica –atio nei sostantivi femminili che terminano con questa desinenza (natio, dominatio); -lr sostituisce –liter negli avverbi di modo come aliter (alr), generaliter (gnlr), naturaliter (nlr), populariter (pplr), utiliter (utilr). La desinenza verbale –runt viene espressa con il compendio –rt, sunt è scritto st. Si codificano i compendi derivati dalle antiche notae iuris basati sulla p (per, prae, pro) e sulla q (quam, que, qui, que, quod). Segni abbreviativi: il ricciolo 9 = us; il segno in forma di piccolo 2 soprascritto (=ur); la nota tachigrafica 7 indica et e viene usata in alternativa al punto e virgola ma serve ad abbreviare anche alcuni termini di uso frequente d7 = docet, l7 = licet, o7 = oportet, s7 = silicet, v7 = videlicet. LA CANCELLERESCA, LA MERCANTESCA E LA SEMIGOTICA Tra XI-XII sec in Italia si sviluppò quello che Emanuele Casamassima chiamò littera minuta cursiva, una particolare attitudine a tracciare lettere e legamenti piuttosto che una vera e propria grafia. All'inizio del XIII sec cominciarono ad evolvere nuove forme autonome: la cancelleresca, scrittura dei notai e della cultura borghese dotta ma non universitaria, che come lingua si serve ancora del latino; la mercantesca, propria del ceto mercantile e strumento di una letteratura tutta in volgare; la semigotica, utilizzata da persone del mondo universitario ed ecclesiastico per la scrittura di una letteratura per lo più alta, anche classici e testi di medicina e di diritto. La cancelleresca, il cui nome ricorda l’importanza che hanno avuto per la sua affermazione gli scribi delle cancellerie italiane, nasce verso l’inizio del Duecento e ben presto viene insegnata nelle scuole notarili. Ha la caratteristica di essere eseguita con penna temperata centralmente e dal tratto morbido, tale da produrre un chiaroscuro minimo e adatta a tracciare ‘’ponti’’, cioè tratti superiori di congiungimento tra una lettera e l’altra, con movimento sinistrogiro e destrogiro. La cancelleresca è caratterizzata da rotondità, legamenti naturali, prolungamenti, svolazzi alla terminazione delle aste (b, d, h, l) e di alcuni tratti discendenti (quelli finali di h, m, n) e da segni abbreviativi che spesso son0on intrecciati alle lettere. Fu impiegata sia per documenti sia per libri. Nella Toscana del Trecento raggiunse forme di squisita eleganza (celebri i codici della Commedia di Dante Alighieri vergati da Francesco ser Nardo da Barberino) in cui anche la lineetta soprascritta usata come segno abbreviativo assume forma rotondeggiante. A Roma la cancelleresca pontificia (Kurialminuskel per gli studiosi tedeschi) assunse forme più rigide, risentendo forse di un influsso gotico, con qualche tendenza a spezzare le curve pur nella mantenuta rotondità generale. Al di là delle Alpi la cancelleresca si sviluppò velocemente a partire dal XIII secolo e mantenne un più accentuato gusto gotico. Secondo un’ipotesi di István Hajnal (1959) la cancelleresca insegnata nei collegi studenteschi annessi alle università da impiegati di cancelleria o da scrittori di documenti privati, si diffuse in tutta Europa settentrionale e orientale proprio grazie agli intensi scambi culturali che si stabilirono a partire dal XIV sec tra le università francesi e quelle tedesce, e tra quelle boeme e polacche. La mercantesca ebbe uno sviluppo poco più tardo rispetto alla cancelleresca e va collegata ad una piccola rivoluzione avvenuta nella cultura mercantile italiana all’inizio del XIII sec: la definitiva adozione dei numeri arabi e la nascita delle nota come ‘’Bibbia delle 42 righe’’ dal numero di linee per pagina, si tratta ufficialmente del primo libro stampato di cui la tiratura fu di circa 180 copie. Sorsero dei contrasti tra Gutenberg e Fust, che lo accusò di frode, che determinarono il fallimento dell’impresa tipografica, la perdita dell’officina e di una buona parte delle Bibbie già stampate a vantaggio di Peter Schöffer, noto calligrafo ed ex garzone di bottega di Gutenberg, divenuto nuovo socio di Fust nella gestione della nuova tipografia, responsabile della pubblicazione del Salterio di Magonza, prima opera a stampa del 14 agosto 1457. Gutenberg continuò ad esercitare la su attività presso altre tipografie e a lui si attribuiscono varie grammatiche, fogli di indulgenza e forse un’altra voluminosa ‘’Bibbia di 36 righe’’. PUNZONI E CARATTERI Il disegno delle lettere era affidato a grafici professionisti. In ambito italiano sono tre le tipologie di caratteri utilizzati nella stampa delle orogini: il gotico (detto anche littera moderna), il tondo (detto anche littera antiqua) e il corsivo, disegnato dal bolognese Francesco Griffo per la tipografia veneziana di Andrea Torresani e Aldo Manuzio. Griffo fu artefice di due fortunate serie di caratteri: un tondo di raffinata proporzione impiegato per la prima volta nella stampa del De Aetna di Pietro Bembo (1495), successivamente per l’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, e l’innovativo carattere corsivo detto italico e usato per la prima volta da Aldo Manuzio nell’edizione di Virgilio (1501). Una volta definito il disegno di una lettera si procedeva con l’incisione del contropunzone in acciaio dove veniva trasferito il disegno della lettera; quindi si preparava un punzone e lo si riscaldava sul fuoco finché non fosse morbido a sufficienza per ricevere l’impronta del contropunzone. Realizzati i punzoni, il fonditore procedeva a formare le matrici. L'impronta così ottenuta sarebbe divenuta la cavità atta a ricevere il metallo fuso, una volta collocata nella ‘’forma’’ o fonditrice a mano. Quest'ultima era composta sostanzialmente da due parti simmetriche metalliche, generalmente di ottone, ricoperte di legno in funzione isolante; all’interno era racchiusa la matrice in modo da creare una sorta d’imbuto pronto a ricevere il ‘’getto’’. La forma è dunque uno strumento che ospita matrici di lettere di formati differenti, facilmente maneggevole e in costante utilizzo dai fonditori: essa rappresenta l’anello centrale nella produzione dei caratteri. Dopo la colata si apriva la forma e si estraeva il carattere, che veniva accuratamente lavorato per uniformare il disegno e asportare le parti di metallo in eccesso. Mediante pialle e raschiatoi calibrati si regolavano le file dei caratteri affinché avessero tutti la stessa altezza e larghezza; e quindi si disponevano secondo un ordine ben preciso in una cassa suddivisa in comparti, dove si trovavano tutte le lettere dell’alfabeto. Il sistema di produzione prende il nome di fondita a ripetizione e consentiva di produrre un’illimitata serie di caratteri metallici. La media di fusione era di circa 3.000-4.000 tipi al giorno. La lega di fusione utilizzata conteneva piombo, stagno, antimonio e bismuto, di cui l’esatta composizione chimica poteva rappresentare un problema. I caratteri troppo duri rischiavano di spezzarsi sotto l’effetto dei colpi della pressa, mentre quelli troppo teneri tendevano a smussarsi facilmente. Bisognava perciò combinare in modo esatto i componenti della lega per garantire la giusta resistenza ed elasticità. Ogni fonditore preserva gelosamente i segreti della composizione chimica dei caratteri, così come difendeva l’originalità grafica del disegno delle lettere anche attraverso la concessione di licenze d’uso in esclusiva. Uno o più set di caratteri costituivano il primo vero investimento di ogni officina tipografica e rappresentavano i costi più significativi. La varietà dei tipi e la loro qualità grafica sono indice di tipografie ad alto livello. IL TORCHIO E LA FORMA TIPOGRAFICA I caratteri prodotti venivano affidati alle cure del compositore, una figura professionale, per certi versi simile al copista medievale, a lui era affidato il compito di ‘’trascrivere in piombo’’ il testo da stampare. La composizione del testo poteva essere di due tipi: seriatim ovvero in modo continuo, procedendo cioè a trasferire su piombo pagina dopo pagina il testo modello; per forme tipografiche ovvero in modo non continuo, componendo solo quelle pagine che avrebbero trovato posto in una stessa forma tipografica, seguendo un ordine e una disposizione predefinita. Per ‘’forma’’ s’intende l’insieme delle pagine unite in un telaio metallico, successivamente posto su un carrello portaforma, quindi inchiostrato e passato sotto il torchio. La posizione che ogni pagina doveva assumere nella forma non poteva essere casuale. Ogni foglio stampa veniva piegato un numero variabile di volte a seconda del formato scelto e per essere poi inserito nel fascicolo. Per effetto della piegatura del foglio, la disposizione delle pagine nella forma doveva essere prevista in anticipo in modo da calcolare l’esatto ordine che ogni singola facciata avrebbe assunto a foglio piegato. Questa operazione si definisce impostazione o imposizione della forma. Il proto, ovvero il direttore dell’officina tipografica, allestiva la copia del modello utilizzata dal compositore. In questa fase vi erano diverse possibilità, a seconda che il testo venisse impresso per la prima volta, o se si ristampasse un’edizione già edita. Nel primo caso si doveva procedere alla suddivisione del manoscritto in tante sezioni (in inglese casting off, in italiano tipoconteggio), prevedendo la quantità di testo e di caratteri necessaria ad ogni singola pagina tipografica; ciò consentiva alla tipografia di ottimizzare i tempi di lavorazione perché si poteva suddividere il codice tra più compositori che operavano su più torchi. Nel caso di edizioni modellate su stampe precedenti, il meccanismo si amplificava in quanto si usava procedere ad una ricomposizione linea per linea, evitando così tutti quei problemi connessi al calcolo preventivo dello spazio. Leonardo Fioravanti nell’opera Dello specchio di scientia universale (Venezia, Valgrisi, 1564) descrive l’attività del compositore. Il compositore dovendo comporre velocemente non aveva modo di guardare la cassa da cui prendeva i caratteri riconoscendo a memoria la posizione dei vari scomparti. Le casse avevano i cassettini in posizione fissa per le diverse lettere, distinguendo una cassa lata per le maiuscole e una bassa per le minuscole, con alcune differenziazioni da nazione a nazione dipendenti dalla frequenza d’uso di alcune lettere rispetto ad altre. Gli errori più frequenti del compositore capitavano quando venivano riposti i caratteri negli scomparti sbagliati. I momenti chiave erano: lettura del testo in ordine invertito, la memorizzazione, la selezione dei caratteri e il loro trasferimento nel compositoio. Le righe così composte, una volta giustificate (cioè distribuire i caratteri in modo uniforme) e fissate con una cordicella venivano trasferite sul vantaggio, una sorta di vassoio in legno dove si disponevano in successione a formare una pagina intera; bloccate con cunei e spaghi, le singole pagine venivano quindi inserite nella forma. A questo punto si può passare al torchio. La struttura era di legno e si componeva di due piani paralleli, l’uno con movimento orizzontale e l’altro verticale. La base conteneva un carrello che si muoveva orizzontalmente recando la forma tipografica (piano portaforma); collocato su rotaie, il carrello era azionato da un molinello che consentiva lo spostamento sotto la pressa. Il piano portaforma si componeva di vari elementi: la forma tipografica con le pagine di caratteri; il timpano, ovvero un telaio ricoperto di pergamena al quale veniva fissato il foglio di carta e registrato in modo da ricoprire esattamente la superficie di stampa; la fraschetta, cioè un foglio di pergamena con una serie di finestre riquadrate sulla struttura della forma, così da ricoprire tutte le parti che non dovevano essere stampate. La freschetta veniva fermata al timpano prima che questo fosse chiuso sulla forma di stampa e garantiva l’esatto posizionamento della carta, che non doveva minimamente muoversi, ed evitava ogni contatto delle parti bianche con l’inchiostro. Le finestre della fraschetta corrispondevano allo specchio di stampa di ogni singola pagina. Il piano portaforma veniva posizionato sotto la platina, nome tecnico della pressa; questa era un piano orizzontale ligneo collegato ad una vite che spingeva verso il basso la pressa. Il tiratore tirando verso di sé la traversa azionava la platina e imprimeva il foglio sulla forma inchiostrata; doveva agire con forza costante e uniforme in modo da garantire un’impressione tipografica regolare su tutta la superficie del foglio. Venne ideato un nuovo tipo di pressa ‘’a due colpi’’ che permetteva di imprimere con due colpi tutta l’estensione della forma tipografica facendo avanzare il carrello portaforma. Ciò consentì di velocizzare le fasi di stampa. Gli addetti alle fasi di stampa sono definiti torcolieri. L'organizzazione di un torchio prevedeva un tiratore e un battitore, che si occupava soltanto dell’inchiostrazione delle forme mediante due tamponi di lana o pelo, rivestiti di pergamena e fissati su un manico di legno, chiamati mazzi. L'inchiostro era composto da un pigmento scuro, ricavato dalla fuliggine, sciolto ad alta temperatura in olio di lino. Il risultato era una miscela densa e fluida che giunta a temperatura poteva essere agevolmente cosparsa sulla forma e poi impressa sul foglio di carta. Anche la carta doveva avere diverse caratteristiche rispetto a quella usata per la scrittura a mano, necessitava di una certa morbidezza ed elasticità per ricevere la pressione della platina senza lacerarsi e senza lasciare trasparire l’inchiostro dal lato opposto. Al centro del foglio era visibile la filigrana, ovvero il marchio di fabbrica della cartiera di provenienza. Il costo della carta spesso veniva addebitato al cliente che commissionava l’edizione. Le risme di carta dovevano essere conservate con cura, era dunque necessario prevedere con la massima precisione gli ordinativi di carta necessari alla stampa di una determinata opera per non correre il rischio di trattenere quantitativi non previsti. Le dimensioni dei fogli andavano dai 282x408 mm nei fogli ‘’in folio grandi’’ ai 102x146 mm negli ‘’in-8°’’. IL FORMATO DEI LIBRI A STAMPA Gli incunaboli sono dei libri prodotti dall’anno di introduzione della stampa fino al 1500, il termine deriva dalla voce latina cuna, cioè ‘’culla’’, per indicare la fase iniziale nella produzione del libro tipografico, i primi libri stampati riflettevano nella forma esterna i libri manoscritti. A seconda dal tipo di testo il libro poteva assumere vari formati. Non sono le forme esterne a determinare il formato di un libro a stampa, ma l’individuazione del numero di piegature subite dal foglio di partenza. L'indicatore numerico che si adotta per identificare i formati rimanda alle pagine che componevano la forma tipografica ed è inversamente proporzionale alle dimensioni del volume: più è bassa la cifra e maggiori sono le dimensioni del libro, in quanto ha subito meno piegature dopo la stampa. I volumi di massimo formato sono quelli stampati a fogli interi (il folio atlantico) o con una sola piegatura, il classico in-folio (2°). A seguire gli altri formati in-quarto (4°), in-ottavo (8°), in-dodicesimo (12°), dove ad un numero progressivo di piegature corrisponde un numero crescente di pagine nella forma. Il formato di un volume si può riconoscere dalla posizione della filigrana che, avendo una collocazione fissa sul foglio iniziale, a seconda delle diverse piegature finirà per assumere posizioni precise nella pagina stampata. Però non sempre la filigrana è visibile, in tal caso può essere d’aiuto l’orientamento dei filoni e delle vergelle, anch’esso fisso e dunque rivelatore di ogni piegatura del foglio. La diversità di dimensioni esterne per libri dello stesso formato è dovuta principalmente alle dimensioni variabili del foglio originario che poteva essere grande, ordinario o piccolo come tramandano i documenti. Raramente si trovano esemplari in fogli sciolti (cioè mai rilegati) in grado di testimoniare con assoluta precisione le dimensioni della carta adottata per la tiratura. La prima edizione de Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione venne stampata in formato in-folio su due tipi di carta per differenziare la tiratura a seconda dei destinatari: una carta normale e una ‘’reale’’, di dimensioni superiori ma che è possibile riconoscere solo a partire dalle diverse posizioni della filigrana e da un confronto con l’esemplare conservato presso la Biblioteca del Seminario Vescovile di Padova ancora in barbe (cioè un volume dai fogli mai rifilati). I RITMI DI PRODUZIONE DI UN’OFFICINA TIPOGRAFICA Ogni tipografia poteva misurare la propria efficienza dalla capacità organizzativa e di gestione del tempo del proto. Molti dati si possono ricavare dall’esame dei libri stessi, ma difficilmente si potrà sapere con precisione come si svolgeva il lavoro tipografico. Lo studioso neozelandese Donald McKenzie (2003) in un suo importante articolo aveva osservato come in una tipografia di ancien régime le procedure non risultano mai omogenee e uniformi. Se l’analisi bibliologica, intesa come indagine accurata del libro come oggetto al fine di ricavare il massimo possibile di informazioni sulla sua produzione, unita ai documenti e alle testimonianze, consente di descrivere una generale tecnica tipografica, i metodi di stampa e le pratiche d’officina risultano effettivamente molto variabili in relazione all’area geografica, allo sviluppo tecnico e alle pressioni del mercato. In officine tipografiche in Italia e in Germania, la documentazione è stata conservata sino ai giorni nostri, s veda il caso emblematico della tipografia Plantin di Anversa, attiva a partire dalla seconda metà del XVI sec. Un'officina tipografica lavorava in media 10-12 ore al giorno, imprimendo all’incirca 1.250 fogli; la tiratura media nei primi decenni dall’introduzione della stampa era di circa 300-500 esemplari di edizione per arrivare alle 1.000 copie verso la fine del secolo. Per stampare un’opera di media grandezza, circa 150-200 carte con una tiratura di 600 copie, necessitavano circa 3-5 mesi di lavoro. Ritornando al caso di Cortegiano di Baldassare Castiglione (un volume di formato in-folio per complessive 122 carte, tirato in 2.00 copie) esso venne impresso tra la fine di novembre 1527 e aprile 1528, in 5 mesi circa. La tiratura media fu di 1.500 fogli al giorno, tenendo anche conto del tempo necessario per la preparazione del lavoro e le inevitabili interruzioni. Nel frattempo la tipografia degli eredi di Aldo Manuzio imprimeva contemporaneamente altre 2 opere per complessive 512 carte, a dimostrazione di come un’officina di notevoli dimensioni impiegasse più torchi in parallelo, con una tiratura media di 1.500 fogli al giorno per singola pressa. Il tempo è un essenziale indicatore dell’efficienza di una tipografia. La qualità del prodotto tipografico necessitava di altri ritmi di lavoro, solitamente imposti direttamente dal committente o dall’editore. La presenza frequente di autori in tipografia testimonia da un lato la preoccupazione da parte degli scrittori per l’affidabilità del processo di stampa. Dall'altro produce un drastico rallentamento delle fasi lavorative, imposto dai ritmi dettati dalla volontà dell’autore, spesso continuamente preso dalla revisione dell’opera anche durante le stesse fasi di stampa. Di ciò resta testimonianza nelle innumerevoli varianti indotte a tiratura già iniziata. La textual bibliography è la disciplina che si occupa di realizzare gli effetti prodotti dal procedimento tipografico sulla trasmissione del testo, una sorta di ‘’filologia dei testi a stampa’’. Le oltre 30.000 copie di incunaboli conservate nelle principali biblioteche del mondo sono il risultato di un’intensa produzione che dovette fondarsi sui sistemi moderni di organizzazione del lavoro, ma tali sistemi restano pur sempre ricostruibili in modo induttivo e parziale sulla base delle poche testimonianze storiche possedute. L’INTRODUZIONE DELLA STAMPA IN ITALIA DAL MANOSCRITTO ALL’INCUNABOLO Per quasi due secoli si produsse in Italia la maggioranza dei libri che circolavano in Europa. L'invenzione di Gutenberg moltiplicava il numero di copie di una singola opera però poneva un problema immediato: trovare acquirenti a un tale incremento di produzione che giustificasse gli investimenti necessari a stampare anche una sola pagina. Studi recenti sulla produzione del manoscritto hanno dimostrato come per tutto il secolo la produzione di codici andò incrementandosi, così da far fronte alla richiesta di ampie schiere di lettori. Vi era un equilibrio tra richiesta e produzione di manoscritti, ma l’introduzione della stampa fece accrescere l’offerta senza che a questa facesse fronte una reale domanda. Si svilupparono nuove classi di lettori, il libro stampa seppe diversificare il prodotto a seconda delle esigenze del suo pubblico. La produzione del libro manoscritto agiva su commissione diretta, con una produzione organizzata e orientata a corrispondere alle richieste di un pubblico ben definito (si pensi alla bottega di Vespasiano da Bisticci a Firenze, in grado di produrre 250 codici per la biblioteca di Lorenzo il Magnifico in poco più di un mese. La stampa modifica i meccanismi di produzione e di distribuzione del libro, trasformandolo da un manufatto artigianale a un prodotto commerciale. In Italia (tra il 1465- 1485) videro la pacifica convivenza manoscritti e incunaboli, che imitavano i manoscritti. La cosiddetta ars artificialiter scribendi (definita a partire dall’omologa ars naturaliter scribendi) ovvero la scrittura che pone l’accento proprio sull’aspetto artificiale della nuova arte. L'incremento dei centri tipografici in Italia è considerevole: dagli 80circa del XV sec, agli oltre 130 del XVI, 140 nel XVII per giungere a 170 nel XVIII sec. La più importante azienda in area veneta, e una delle principali in Europa, è quella dei Remondini di Bassano, la cui produzione tra il 1750 e il 1800 assomma a ben 1.070 edizioni con una media di quasi 22 titoli l’anno. La tipografia di Parma di Giambattista Bodoni, attiva tra il 1768 e il 1812, dove l’impegno culturale si coniugava all’applicazione rigorosa di criteri estetici e grafici. LA FINE DELLA STAMPA MANUALE È proprio con Bodoni che si chiude l’età della stampa manuale. È del 1798 l’introduzione della macchina continua in piano per la fabbricazione meccanica della carta, perfezionata nella macchina in tondo del 1803 dove un sistema di cilindri in serie garantiva una produzione dieci volte superiore alla media precedente. Alla carta di stracci veniva sostituita la pasta di cellulosa derivata da un procedimento chimico di defibrazione del legno. Vennero inoltre introdotte nuove tecniche di stampa: la litografia nel 1799, una tecnica di riproduzione che adotta una lastra di calcare, la cosiddetta pietra litografica, su cui viene riportato il disegno con una speciale matita inchiostrata, successivamente veniva immersa in una soluzione acida che scioglie le parti non disegnate e la lastra conserva a rilievo i segni tracciati e può dunque essere stampata su fogli di carta mediante una matrice; e nel XIX sec la stereotipia, un procedimento di riproduzione su marmo del calco in gesso di una pagina tipografica già composta. Nel 1812 Friedrich Koenig sperimentò il primo torchio meccanico azionato da energia termica che nella notte tra il 28 e 29 novembre 1814 venne impiegato nella stampa del quotidiano The Times. Il torchio meccanico fece la sua apparizione in Italia solo nel 1830 a Torino presso la tipografia di Giuseppe Pomba. I progressi avviati dalla rivoluzione industriale nella stampa furono rapidi e dilaganti: dalle 300 copie giornaliere di un torchio a mano si passò alle 1.100 della macchina di Koenig, e poi alle 4.000 della macchina a quattro cilindri di Applegath e Cowper (1828), per arrivare alle 8.000 copie della rotativa introdotta nel 1848. Venne introdotto da William Church (1822) un sistema meccanico di fusione dei caratteri in grado di produrre circa 15.000 lettere al giorno contro le 5.000 realizzate manualmente. Il libro diventa sempre di più merce popolare, destinato ad un’ampia diffusione e ad un pubblico oramai vastissimo verso il quale si orientano i grandi editori dell’800, da Vallardi a Ricordi, da Sonzogno a Treves, da Barbera a Le Monnier. L'Unità d’Italia e la riforma scolastica determinarono il successo commerciale di molte imprese editoriali. I nuovi sistemi di vendita, la nascita di collane editoriali, la diffusione di generi di intrattenimento di facile consumo segnano buona parte del 900, almeno sino all’avvento del nuovo medium principe della comunicazione, la televisione. I procedimenti tecnici subiscono un ulteriore e continuo affinamento, in vista di una progressiva meccanizzazione. I recenti sviluppi della cosiddetta editoria elettronica, dove computer e stampanti hanno ormai soppiantato tutti i tradizionali sistemi di produzione e stampa, aprono nuovi scenari per il libro del terzo millennio. L’EDITORIA ELETTRONICA E LA RIVOLUZIONE DIGITALE L’utilizzo di tecnologie digitali consente di ridurre i costi d’impaginazione e allestimento. Il futuro dell’editoria passa attraverso l’uso dei nuovi media, emblematico in tal senso il successo di Amazon.com, la prima grande libreria virtuale in rete Internet (il sito è nato negli Stati Uniti) che rappresenta, con i suoi milioni di clienti in 125 paesi del mondo e oltre 17 milioni di fatturato, la più grande libreria del pianeta. Il Ministero della Pubblica Istruzione tra il 1997-2000 ha stanziato 1.000 miliardi per acquistare software e hardware da installare nelle aule didattiche multimediali. Nell'oggetto libro è condensata una storia e una tradizione, mentre il modello proposto dalle nuove tecnologie che va sotto il nome di e-book (electronic book). Tra testualità elettronica e testualità stampata corre una differenza che non è solo tecnica ma si tratta di concepire nuove pratiche di lettura fondate su un medium. 4 CAPITOLO: L’EDIZIONE CRITICA LA CRITICA DEL TESTO Testo e scrittura Nella nostra civiltà, a partire dal VI sec a.C., la modalità prevalente nella trasmissione dei testi di rilevanza artistica e culturale è la scrittura-lettura. Consideriamo le esecuzioni materiali del testo, i documenti testuali, da un diverso punto di vista: quello del rapporto autore lettore. Originale conservato Un documento testuale che è stato realizzato dall’autore, o sotto il controllo dell’autore, si dice originale. Può trattarsi si un testo scritto a mano (autografo), un testo trascritto sotto il controllo dell’autore, ma da un’altra mano (idiografia), di una stampa curata dall’autore. In tutti e tre i casi possiamo ritenere che il documento testuale risponda alla volontà dell’autore. La coscienza di Zeno Se desideriamo leggere La coscienza di Zeno di Italo Svevo, possiamo basarci su uno qualsiasi degli esemplari che furono stampati nel 1923 dall’editore Licinio Cappelli, in Rocca San Casciano, con l’approvazione dell’autore. In alternativa possiamo utilizzare la diversa edizione che dichiari, sotto la responsabilità di un curatore, di riprodurre fedelmente quella originale. È il caso degli altri Romanzi, a cura di Pietro Sarzana, Mondadori, Milano 1985. Il curatore ha anche corretto gli errori di stampa che erano sfuggiti alla correzione dell’autore. Ma vi è un errore evidente, manca almeno una parola (p884) <<Andavo facendomi.>>. La lacuna non può essere colmata perché non si trova più il manoscritto autografo che Svevo aveva passato all’editore. La prima versione del testo era più ampia ma l’editore suggerì tagli che furono operati da Attilio Frescura. Originale non conservato Dell'antica lettura greca e latina non esistono originali, la nostra conoscenza si basa su copie trascritte in un’epoca più o meno lontana da quella dell’autore. Il più antico libro che conserva il poema di Esiodo Le opere e i giorni (probabilmente del VI sec a.C.) è stato prodotto nel X sec. Il documento testuale conservato è posteriore rispetto al documento perduto da cui hanno origine le copie. Ciò è la conseguenza della massiccia distruzione che le vicende storiche hanno inflitto al patrimonio artistico. Quale Eneide leggiamo? I più antichi manoscritti dell’Eneide di Virgilio che leggiamo risalgono al IV sec d.C. e sono posteriori di circa 400 anni dell’originale perduto. Se vogliamo leggere l’Eneide dobbiamo indirizzarci ad un’edizione moderna, il cui curatore ha ricostruito il testo originale. Nell'edizione curata da Ettore Paratore (Mondadori, Milano 1989) il testo latino è preceduto da un elenco di 9 manoscritti. Egli ritiene che questi manoscritti siano documenti utili a ricostruire il testo nella forma più vicina possibile a quella originale. I manoscritti a causa degli errori commessi da copisti differiscono tra loro. Al verso IV, 58 è incerto l’attributo della dea Cerere. Perché sia favorito il suo matrimonio con Enea, Didone sacrifica anche a Cerere: ma si tratta di ‘’Cerere legislatrice’’ (legiferae Cereri) o ‘’Cerere feconda’’ (frugiferae Cereri)? Paratore ritiene che sia il risultato di un errore di trascrizione: l’attributo frugifera è molto usato per Cerere, ma è la dea delle messi e perciò anche introduttrice delle ‘’leggi’’ fra gli uomini, dunque un copista distratto ha sostituito l’espressione più usuale con quella meno usuale. Dante, Petrarca, Boccaccio La Commedia di Dante è trasmessa soltanto da copie, le più antiche appartengono al quarto decennio del ‘300 (Dante morì nel 1321 dopo aver concluso la stesura del Paradiso), ma per la ricostruzione del testo è essenziale anche una copia del 1352. Del Canzoniere di Francesco Petrarca è conservato il manoscritto definitivo, in parte di mano dell’autore e in parte realizzato da uno scrivano (Giovanni Malpaghini) sotto l’attento controllo del poeta. Per alcuni componimenti sono stati conservati anche abbozzi autografi. Il Fragmentorum liber riflette la forma assunta dal Canzoniere negli anni 1359-63. Per il Decameron possediamo una bella copia di Boccaccio ma è incompleta perché tre fascicoli, su diciassette che formavano il codice, sono stati perduti. È necessario ricorrere ad un manoscritto non originale che sembra sia stato copiato dallo stesso autografo da cui Boccaccio copiò l’Hamilton. Molti fra i manoscritti del Decameron dipendono da un autografo perduto e più antico, portatore di un testo non poco diverso (il migliore testimone di questa versione è l’Italien 482 della Bibliothèque Nationale de France). L'edizione critica Ogni testo pone un problema di accertamento filologico e di presentazione al lettore. Un'edizione critica è il tentativo di risolvere questo problema. L'aggettivo critica sottolinea che l’edizione rispetta le norme basilari dell’operare scientifico: il curatore ha lavorato direttamente sui documenti utili; la presentazione del testo permette al lettore di verificare ogni passo del lavoro critico e ogni scelta compiuta. EDIZIONE DIPLOMATICA Leggere il documento Lo studio dei manoscritti prevede pertanto una trascrizione di ‘’primo grado’’, in cui ogni lettera o segno significativo corrispondente nelle nostre possibilità di stampa. Una trascrizione del genere si dice diplomatica. Edizioni diplomatiche di manoscritti letterari possono essere pubblicate per completare il dossier di un’edizione ricostruttiva. L'edizione diplomatica segnala con barrette le righe e le pagine del documento; scioglie fra parentesi tonde le abbreviazioni; rende conto dello stato di scrittura e di tutti gli eventuali accidenti (perdite dovute a lacerazioni, cancellature di varia natura, riscritture e aggiunte). Esempio di trascrizione diplomatica: la prima strofa del ‘’contrasto’’ anonimo Rosa fresca aulentissima. La grande iniziale è resa col grassetto; viene conservato il raggruppamento delle lettere; viene riprodotta la punteggiatura del manoscritto; le lettere corrispondenti a segni abbreviativi sono tra parentesi tonde. EDIZIONE INTERPRETATIVA Una lettura guidata L'edizione interpretativa spinge il lavoro critico fino all’individuazione e all’eventuale correzione degli errori. L'edizione interpretativa della prima strofa del ‘’contrasto’’ a confronto diretto con la diplomatica. Per prima cosa dividiamo le parole e andiamo a capo a ogni verso. Inseriamo la punteggiatura (comprese le virgolette che segnalano un dialogo) e gli altri segni. Poi togliamo la segnalazione di abbreviazione sciolta; distinguiamo tra u (vocale) e v (consonante); uniformiamo le due versioni di j e i del grafema i. Dovremmo esserci accorti che la metrica del verso 3 non è regolare. Le correzioni plausibili sono due: tràgemi d’este oppure trami di keste. È migliore la prima, secondo la citazione del verso nel De vulgari eloquentia dantesco. Si osservi poi che aulentisima corrisponde ad una pronuncia forte (-ss-). Per evitare errori di lettura, gli editori del contrasto (in ultimo, Contini, 1960) hanno introdotto la doppia s. Queste integrazioni correttive vengono segnalate con parentesi aguzze (aulentis<s>ima). EDIZIONE RICOSTRUTTIVA Quando i testimoni sono più di uno La conservazione di un originale è la condizione più favorevole alla lettura critica di un testo, la conservazione di un unico testimone non originale è la condizione meno favorevole alla restituzione di ciò che l’autore ha effettivamente scritto. Se è rimasto un solo testimone, le alterazioni dovute alla trafila delle trascrizioni (dall’originale perduto alla copia conservata) sono da noi percepite soltanto quando procurano una lesione alla logica o alla struttura del testo. Più complesso ma più favorevole è il caso in cui più copie rendano testimonianza per l’originale perduto: accade allora che il confronto fra i testimoni permetta di riconoscere le innovazioni proprie di un individuo e uindi di assumere come originale la lezione alternativa. Si sono affinati dei criteri per l’analisi comparativa delle testimonianze riferibili ad uno stesso originale perduto. Il metodo lachmanniano è così denominato in omaggio al filologo tedesco Karl Lachmann (1793-1851) e prevede diverse fasi: Raccolta del materiale Prendiamo come esempio la canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentil, composta tra 1265 e 1275, si possono assumere 7 diversi testimoni. Confronto fra i testimoni è la prima operazione da compiere Analisi delle varianti: Proviamo ora a registrare e classificare tutte le differenze (varianti) fra i due testi. Notiamo: varianti grafiche, ossia modi diversi di rappresentare lo stesso suono; varianti fonetiche; varianti lessicali a senso immutato; varianti che comportano mutamento del senso; varianti di struttura. Gli errori-guida Poiché non riusciamo a trovare ragioni valide per escludere una variante in quanto erronea, cambiamo punto di vista e torniamo a considerare gli errori manifesti e selezionare quelli che coinvolgono più di un testimone. Dato che ben di rado due persone, trascrivendo lo stesso testo indipendentemente una dall’altra compongono accidentalmente lo stesso errore siamo autorizzati a pensare che la coincidenza di due o più testimoni comporti una parentela tra di essi. I due testimoni recano lo stesso errore perché l’uno è stato l’esemplare dell’altro, oppur perché entrambi lo hanno rilevato da un esemplare comune. Rapporti fra i testimoni Consideriamo due manoscritti. Essi hanno ben 4 errori in comune. Non può trattarsi di una coincidenza. Dobbiamo piuttosto pensare che siano copie di un manoscritto perduto in cui già si trovavano questi errori. Le relazioni di parentela fra i testimoni, che abbiamo così ricavato dall’analisi degli errori comuni, possono essere rese con un grafico che ha l’aspetto di un albero genealogico (in lat. Stemma). Eliminazione delle lezioni isolate o minoritarie Lo stemma ci fornisce un criterio per individuare le alterazioni non manifeste. Testo ricostruito e apparato critico Il risultato di queste scelte, orientate dallo stemma e confrontate dalla valutazione intrinseca delle lezioni, è provvisorio. Possono comparire nuovi testimoni, che offrano nuove lezioni da valutare; possono essere proposti nuovi e migliori argomenti a favore delle lezioni qui respinte, o a sfavore delle lezioni qui promosse. L'apertura al miglioramento progressivo conferma essa stessa il carattere scientifico del procedimento. La veste linguistica Per l’editore di testi italiani rimane aperto a questo punto un problema secondario: che cosa fare delle varianti grafiche, fonetiche e fonomorfologiche, rivelate dalla collazione? Essi tendono a rimodellare la lezione secondo i propri usi linguistici. Sarebbe normale, per esempio, che dinnanzi a una forma bolognese, come rasone, due copisti toscani, indipendentemente l’uno dall’altro, la traducessero in rasgione/ragione. Il testo base Una soluzione pratica può essere quella di adottare le forme del testimone più antico e più vicino all’originale. Nel caso del bolognese Guinizzelli il manoscritto più antico è pisano, gli altri codici duecenteschi sono toscani. L'unico manoscritto bolognese è tardo e appartiene a una tradizione toscanizzata, se non addirittura di origine toscana. Per completare l’incertezza del quadro si aggiunge il fatto che noi non sappiamo che lingua usasse Guinizzelli per le sue poesie. Possiamo solo supporre che egli scrivesse in un bolognese latineggiante, fortemente influenzato dai modelli poetici siciliano e toscani. Critica delle forme
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