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riassunto canto 6 paradiso, dante, Appunti di Italiano

riassunto canto 6 paradiso, dante

Tipologia: Appunti

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Caricato il 16/12/2019

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Scarica riassunto canto 6 paradiso, dante e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Argomento del Canto Ancora nel II Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero romano. Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini. Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena. Presentazione di Romeo di Villanova. È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Giustiniano narra la sua vita (1-27) Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa Agapito lo aveva ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa e si dedicò tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo. Ragioni della digressione sul'Impero (28-36) Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo momento in cui Pallante morì eroicamente per assicurare la vittoria di Enea. Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54) Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e Curiazi si batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini a Roma; in seguito i Romani portarono l'aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L'aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle di Fiesole, sotto il quale nacque Dante. Storia dell'aquila: l'età imperiale (55-96) Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba, re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto portò l'aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno. Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111) Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia; Carlo II d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più dopo la celebrazione di coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato originale; in seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che Dante gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano (tale affermazione susciterà i dubbi del poeta che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente). Il disegno provvidenziale si esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà Giustiniano a porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno, protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo erede dell'autorità imperiale (Dante afferma una volta di più che l'Impero germanico è erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte nel poema e nella Monarchia). Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento: l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema (cfr. soprattutto Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la stessa polemica portata avanti da Dante contro il re di Francia Filippo il Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale). La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena (che godono di un minore grado di beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto già dichiarato da Piccarda Donati) dà modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei Fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come è toccato ai Provenzali passati sotto la tirannia degli Angioini (e il riferimento è quindi a Carlo II d'Angiò citato poco prima). L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) è causato dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia; secondo alcuni Giustiniano loda la figura di Romeo per fare ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale con cui ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco- gotica, ipotesi suggestiva anche se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a Romeo che, ridotto in miseria, è obbligato a chiedere l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si identificava in quanto anche lui, durante l'esilio, dovrà mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi personaggi è la stessa che subirà l'orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata da Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso, proprio nel momento in cui gli affiderà l'alta missione morale e poetica che è al centro di questa Cantica e di tutto il poema. Note e passi controversi  I vv. 1-3 alludono al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Bisanzio compiuto da Costantino, che portò l'aquila simbolo dell'Impero da occidente a oriente: il percorso è contrario rispetto a quello da Troia al Lazio seguito da Enea (l'antico che Lavina tolse, cioè prese che in moglie Lavinia), nel che alcuni studiosi hanno visto una critica a Costantino. Da quel momento all'incoronazione di Giustiniano passarono meno di duecento anni (v. 4), ma Dante segue probabilmente la cronologia di Brunetto Latini che nel Trésor indica le date del 333 e del 539, quindi con un intervallo di 206 anni.  I monti citati al v. 6 sono quelli della Troade.  Al v. 10 l'imperatore si presenta con un elegante chiasmo (Cesare fui... son Iustiniano) e con i diversi tempi verbali relativi al ruolo di imperatore in vita e all'identità personale (cfr. Purg., V, 88: Io fui di Montefeltro, io son Bonconte).  Il primo amor (v. 11) che ispirò a Giustiniano l'opera legislativa è lo Spirito Santo.  Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell'occasione avrebbe convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor).  Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase è falsa e una è vera (è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l'altra per forza falsa, in quanto tertium non datur). La parola «fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19.  Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale.  Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le sorti della guerra tra Roma e Alba Longa.  I vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche dell'Italia centrale.  Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, così chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di Uguccione da Pisa.  Al v. 49 i Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., I, 68).  Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realtà era in Oriente) dopo la guerra con Catilina.  I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale, l'Isara è l'Isère, l'Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Saône, detta Arar in latino).  I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia.
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