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Riassunto capitolo 5 libro Raveri, Massimo, Il pensiero giapponese classico, Sintesi del corso di Storia Della Filosofia

Riassunto del quinto capitolo del libro "Il pensiero giapponese classico" di Raveri Massimo, "le scelte di vita"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 16/01/2021

Kii98
Kii98 🇮🇹

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Scarica Riassunto capitolo 5 libro Raveri, Massimo, Il pensiero giapponese classico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! La Via dell'Uomo Nobile d'Animo All'inizio del VII secolo penetra in Giappone una nuova tradizione, il Confucianesimo, Jugaku. La sua influenza è osservabile nell'evoluzione del concetto di sovranità, nelle nuove leggi che segnarono il processo di centralizzazione dello stato e nel modo in cui venne trascritta e rielaborata la memoria del passato. Ma al di là di queste manifestazioni più evidenti il Confucianesimo divenne anche, e soprattutto, una disciplina interiore, uno stile di comportamento, un modo di vivere le relazioni interpersonali. Il pensiero confuciano classico infatti pone l'uomo come unico oggetto della propria speculazione, il Dao, la Via degli uomini, diventa lo scopo della ricerca. Notiamo infatti che il mondo divino non è negato, ma fa da sfondo, l'attenzione è tutta rivolta solamente all'uomo in quanto l'ordine della realtà non può che essere immanente ad essa. La Via è una ricerca sull'uomo, sulle sue virtù, sul senso più profondo e sacrale del suo agire nella società e viene utilizzato come mezzo per “trasmettere” le verità degli antichi saggi e riscoprire i valori dimenticati, del Dao realizzato. L'ideale del kunshi, l'uomo nobile di animo, racchiude virtù senza tempo, assolute, tra le quali la più importante è il Jin, la benevolenza, l'attenzione affettuosa, la compartecipazione, ma è anche la fermezza, la lealtà e la tolleranza. Il suo opposto è lo shōjin, l'uomo mediocre. È infatti nella relazione con l'altro che l'uomo misura e realizza sé stesso. Un elemento fondamentale del Jin è anche la pietà filiale, ossia il senso di solidarietà fra generazioni, rapporto che si riflette anche in altri tipi di relazione, tra le quali la più importante è il legame tra il superiore, che domina con benevolenza, e l'inferiore, che gli obbedisce lealmente. Realizzare la Via nella Società Il Confucianesimo interpreta la sapienza in modo attivo e la traduce nella giustizia, la dottrina infatti è via morale e via politica, ma anche, e soprattutto, via di salvezza. Basandosi su due fondamentali postulati, ossia che la natura umana è buona e che la bontà si fonda sui valori altruistici, questa visione ottimista, quasi utopistica, afferma che la natura umana abbia un'istintiva tendenza al bene, che preesiste come peculiare e naturale capacità di ogni individuo. Alla base della dottrina infatti vi è l'idea che sia necessario “correggere” la volubile realtà per conformarla al nome, ossia al modello ideale. Vi era però una profonda contraddizione alla base di questa visione in quanto la Via era fondata sulle virtù “sociali” e necessitava un grande coinvolgimento emotivo verso gli altri, ma d'altro canto giudicava i sentimenti e le emozioni come forze egoiste, giudicandole un potenziale pericolo. Questa ambiguità verso i sentimenti viene risolta partendo dal presupposto che la mente dell'uomo di valore è calma, se essa è dominata dal desiderio allora può essere turbata da elementi esterni, è quindi necessario che vengano “addomesticate” le sue passioni. Per questa ragione i sentimenti vennero definiti buoni solo se moderati e limitati ai bisogni fisici essenziali, era quindi necessaria la pratica del rito per educare alla disciplina interiore. Le manifestazioni rituali dovevano infatti essere sincere e vissute con partecipazione e consapevolezza, il Rei divenne quindi la definizione di comportamento autodisciplinato. La Scelta della Rinuncia Anche il Buddhismo si propone come una Via verso la liberazione, il dō. La Quarta Nobile Verità infatti individuava otto percorsi che portavano al risveglio della mente, essi erano: • Shōgo, la retta parola • Shōgō, la retta azione • Shōmyō, il retto modo di vita • Shōshōjin, la pratica della meditazione • Shōnen, la retta consapevolezza • Shōjō, la retta concentrazione • Shōken, la retta visione • Shōshiyui, il retto pensiero La vita monastica diventa quindi la “via di mezzo”, la mediazione tra due opposte dinamiche del sacro: da un lato vi era il radicale rifiuto del mondo, l'ascesi, dall'altra l'andare nel mondo, ossia il farsi carico delle quotidiane angosce degli uomini. La vita monastica poneva l'enfasi nella solitudine, che trovava un suo equilibrio stemperandosi all'interno di una comunità. I rinuncianti erano distinti attraverso vari ”segni”, ad esempio una veste particolare, riconoscibile. Essi andavano per il mondo predicando la dottrina. La comunità monastica, sōgya, era, dopo il Buddha e la Legge, l'ultimo dei “Tre Gioielli” che caratterizzano il Buddhismo. L'originalità, come anche la trasgressività, del monachesimo giapponese mostra una ricerca spirituale molto coraggiosa. Il percorso monastico iniziava spesso anche in giovane età, spesso era infatti la famiglia a deciderlo, la vita era regolata da norme severe che dettavano il comportamento del monaco all'interno e all'esterno del monastero, queste erano fondate sul principio di non- violenza, fugai, e sul rifiuto di qualsiasi forma di attaccamento e dominio sul mondo. Vi erano inoltre la regola della castità, e quella povertà, fu a “causa” di quest'ultima che, in Giappone, i templi ottennero donazioni e privilegi, come l'esenzione dalle tasse. Il male, sosteneva la dottrina, nasce da una dinamica tutta interiore, il “peccato” è solo uno stato transitorio, la cui origine ha sede nella mente. Māra, il “malvagio”, ossia la personificazione del male nel Buddhismo, non è altro che il volto più nascosto dell'uomo, il suo lato più oscuro, le sue tentazioni, le sue brame e le sue passioni. Le virtù fondamentali, volte non tanto a rendere i discepoli “buoni”, ma piuttosto a guidarli sulla via del risveglio interiore, sono quattro: il sentimento di amichevolezza, ji, quello di compassione, hi, l'equanimità, ki, e il distacco, sha. Il bene non è più forte del male, e in questa eterna lotta la soluzione che salva l'uomo è il risveglio e la comprensione piena della propria natura originaria, una realtà di vuoto, al di là del bene e del male. Solo così, con lucidità, l'uomo raggiungerà l'illuminazione. Il Potere Politico e le Comunità Monastiche La relazione fra potere politico e comunità monastica in Giappone è molto complessa in quanto entrambi avevano bisogno l'uno dell'altro, ed entrambi diffidavano l'uno dell'altro. I gruppi religiosi infatti ben presto dimostrarono di avere le potenzialità per mettere in discussione l'autorità dell'imperatore e la legittimità del suo potere, divenne ben chiaro alla corte imperiale che queste comunità, ritenute fin troppo indipendenti, andavano tenute sotto controllo. Fu elaborata una dottrina per mediare queste due realtà, stabilendo dei principi di interdipendenza tra la Legge del Sovrano e la Legge del Buddha: il sovrano aveva la responsabilità di proteggere la comunità e, a loro volta, le comunità avevano il dovere di insegnare al popolo il comportamento virtuoso. Ben presto però, con l'aumento di potere della corte, essa si arrogò il diritto di nominare gli abati e i monaci dei ranghi superiori. Venne perciò costituita una scuola, detta “Ritsu”, allo scopo di approfondire le regole e i precetti della disciplina, questa venne fortemente sostenuta dal governo. Il Monachesimo Femminile È importante ricordare che furono delle donne le prime persone a ricevere l'ordinazione monasteriale buddhista, durante il periodo Nara infatti il numero di donne che decidevano di seguire la Via del Buddha crebbe significativamente e vari templi vennero innalzati per loro. Fu solo con il prevalere dell'ideologia patriarcale che l'autorità delle monache cominciò gradualmente e inesorabilmente a declinare. In seguito, infatti, alle donne non fu data l'opportunità di essere ordinate e vennero confinate ai margini del mondo religioso istituzionale, il numero di monache ufficiali decrebbe così in modo continuo. Gli stessi conventi furono posti sotto un più rigido controllo dei monaci. Nel IX secolo la rigorosa limitazione imposta all'ordinazione delle donne non
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